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« NON SAPETE CHE IL VOSTRO CORPO E’ TEMPIO DELLO SPIRITO SANTO? » (1 COR 6,19)

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« NON SAPETE CHE IL VOSTRO CORPO E’ TEMPIO DELLO SPIRITO SANTO? » (1 COR 6,19)

Don Mario Cascone

Siamo tempio dello Spirito Santo, dimora sacra dove Dio abita. Nel nostro essere, costituito dalla totalità unificata del corpo e dello spirito, realizziamo la nostra vocazione alla santità, mediante l’azione incessante dello Spirito di Dio, che spinge tutte le nostre energie al bene, nel clima della verità, che Egli comunica costantemente al nostro cuore.
Anche la vita sessuale rientra in questa vocazione alla santità: nel “tempio” del nostro corpo noi esprimiamo le meraviglie d’amore suscitate da Dio, ci relazioniamo con i nostri fratelli in uno spirito di donazione reciproca, lodiamo il Signore nella gioia dell’incontro d’amore e nella stupenda possibilità di trasmettere la vita ad altri esseri umani.
In questi termini di esaltante bellezza dobbiamo intendere il dono di Dio, che è la sessualità, avvertendo la chiamata a viverla come linguaggio dell’amore e quale strada che conduce alla santità.
Ci avvaliamo di un testo biblico tratto dall’epistolario paolino per vedere ora alcune indicazioni concrete del nostro agire morale in questo delicato campo della nostra vita.

La “vivace” comunità di Corinto
Fondiamo tutta questa riflessione su una bella espressione di S. Paolo, “Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?”, che si trova in un brano importante della Prima Lettera ai Corinti e non può essere estrapolata da esso. Il brano che vogliamo esaminare è 1 Cor 6, 12-20. Esso va letto nel contesto più ampio dei cc. 5-6-7 della Prima Lettera ai Corinti, nei quali si parla prima di un incestuoso, ossia di un cristiano che convive con la sua matrigna (5, 1-13), poi di una serie di casi riguardanti il celibato e la continenza sessuale (cap.7).
I casi affrontati da Paolo in questi capitoli si situano in un preciso clima culturale in cui vive la comunità cristiana di Corinto. Si tratta di un ambiente fortemente segnato da uno spiritualismo gnostico, che esalta a tal punto l’eccellenza della conoscenza spirituale da far ritenere del tutto ininfluente sull’uomo la realtà mondana e materiale.
Questo clima culturale è ancora più marcato dal fatto che la comunità ha sperimentato con entusiasmo la bellezza dei carismi, giungendo ad un’esaltazione trionfalistica e fanatica dei doni dello Spirito: un vero e proprio carismatismo, che, portato alle estreme conseguenze, faceva approdare a due conclusioni opposte nei confronti della sessualità: da un lato il libertarismo più sfrenato, espresso dallo slogan “Tutto mi è lecito” ( 6,12); dall’altro lato la posizione ascetica radicale, che riteneva necessaria l’astinenza sessuale totale: “E’ bene per l’uomo che non tocchi donna” (7,1).
San Paolo giudica sbagliate entrambe queste posizioni, che si fondano su un’unica radice ideologica: l’entusiasmo spiritualistico di chi ritiene di essere ormai un cristiano perfetto e maturo, al punto tale da poter vivere indifferentemente una pratica sessuale selvaggia o, all’estremo opposto, una totale continenza sessuale. In questo secondo caso, che viene affrontato nel cap.7, Paolo mette in evidenza la bellezza del celibato e della consacrazione verginale al Signore, ma fa comprendere che questa è una vocazione rivolta da Dio ad alcuni, ai quali viene donato uno speciale carisma. San Paolo dice: “Certo, io vorrei che tutti gli uomini fossero come me, ma ognuno ha il proprio carisma da Dio” (7,3); e poi con sano realismo aggiunge: “Ai non sposati e alle vedove io dico: è bene per loro se restano come me, però se non riescono a contenersi si sposino: è meglio sposarsi che bruciare di passione” (7,8-9).

“Tutto mi è lecito!”
Esaminiamo ora il brano di 1 Cor 6,12-20, che riguarda la licenziosità sessuale (in greco: pornèia). Fin dall’inizio si evince che il costume sessuale licenzioso dei Corinti pretende di avere una giustificazione ideologica, che in parte è quella di cui abbiamo parlato precedentemente. Paolo cita subito uno slogan, che sicuramente circolava fra i cristiani di Corinto: “Tutto mi è lecito”. Questo slogan si può definire come il manifesto dei boriosi spiritualisti di Corinto, i quali ritenevano che la loro fede consolidata e la loro alta spiritualità non poteva essere contaminata dal contatto con le cose materiali, ivi compreso il rapporto sessuale con prostitute o l’uso licenzioso della sessualità.
L’Apostolo si oppone con vigore a quest’idea, affermando che non tutto ciò che si ritiene lecito risulta essere poi utile e costruttivo per la persona. Tante volte, anzi, può condurre l’individuo a vere e proprie forme di “schiavitù”: “Tutto mi è lecito: sì, ma non tutto è vantaggioso. Tutto mi è lecito: sì, ma non voglio lasciarmi schiavizzare da nulla” (6,12). La libertà come la intendevano i Corinti era in realtà un libertarismo di tipo individualistico, che non metteva in luce l’essenziale dimensione relazionale della persona e, di conseguenza, sganciava la libertà dalla verità e dalla responsabilità morale. Era una libertà ridotta a pura licenza, a soggettivistico arbitrio individuale: non una libertà intesa come compito morale, ma come potere illimitato dell’individuo.
È questa un’idea molto presente anche nella nostra cultura attuale, la quale è fortemente segnata da un individualismo libertaristico, che si colora facilmente di sentimentalismo, facendo ritenere come vero, autentico e buono tutto ciò che sgorga dalle scelte spontaneistiche dell’individuo. La libertà, staccata dalla verità morale, si riduce a scelta provvisoria del singolo uomo, che la pone senza interrogarsi più di tanto sul significato della sua decisione. Si tratta quindi di una serie di scelte fatte nel qui ed ora del vivere quotidiano, le quali vengono ritenute tutte valide e buone, a patto che scaturiscano dalla spontanea decisione dell’individuo. Una tale impostazione è il rovesciamento dell’insegnamento evangelico, in cui si afferma invece che senza verità non c’è libertà, perché solo la verità ci può fare liberi (Gv 8,32). Un pensatore contemporaneo, Uberto Scarpelli, afferma testualmente: “Nell’etica non c’é verità. I valori di vero e falso convengono alle proposizioni del discorso descrittivo-esplicativo, ma non a quelle del discorso prescrittivo-valutativo. Nell’etica non ci sono principi autoevidenti, ma principi che sono il frutto di processi culturali, sociali e personali. L’etica é dunque sempre e radicalmente individuale”.
San Paolo rifiuta quest’idea di libertà di un individuo che agisce solo per se stesso, chiuso nel suo splendido isolamento, noncurante della verità morale. Una tale concezione può degenerare facilmente in schiavitù verso questa o quella realtà, di cui ci si vanta di poter disporre pienamente. Noi siamo certamente in grado di dominare le cose del mondo, ma altrettanto certamente possiamo esserne dominati, specialmente quando non prendiamo atto del fatto che la nostra libertà non è qualcosa di assoluto, ma è un dono che ci è stato fatto per realizzare il bene e vivere nell’amore.
Paolo non concepisce la persona né in senso spiritualistico, né in senso dualistico; egli ritiene che l’uomo sia una persona incarnata, una corporeità stabilmente unita allo spirito. In quanto tale, l’uomo deve sempre disporre di se stesso nell’ambito di una libertà segnata dai limiti dell’istinto, della carnalità, del “ferimento” operato in lui dal peccato originale. Per questo motivo Paolo avverte che non tutte le decisioni individuali sono utili per la costruzione della persona, soprattutto se si discostano dalla verità del suo essere e si fondano principalmente su un “sentire” spontaneistico.

“Il cibo è per il ventre e il ventre per il cibo”
Dopo aver esaminato lo slogan ideologico, che sorreggeva tutta la concezione di morale sessuale della comunità, l’Apostolo prende in considerazione un altro slogan, che sicuramente circolava tra i cristiani di Corinto: “Il cibo è per il ventre e il ventre per il cibo” (6,13). Il significato di questa proposizione è molto evidente: l’atto sessuale è un fatto puramente fisiologico, come il mangiare o il bere; il rapporto sessuale non è qualcosa di diverso dal consumare un pasto…
Anche questa è una concezione oggi largamente diffusa: l’idea che il sesso sia una “cosa” da consumare, una realtà puramente materiale che non coinvolge la totalità della persona, circola abbondantemente nella nostra attuale cultura. Molti messaggi vengono indirizzati alle persone per considerare l’attività sessuale un fatto meramente fisiologico, che si colloca nel clima generalmente consumistico dell’ “usa e getta”…
Paolo si oppone energicamente a quest’idea, negando con decisione l’equiparazione tra consumazione di alimenti e atto sessuale. Dove si fonda la differenza tra il prendere cibo e il vivere un rapporto sessuale? Nel fatto che nel secondo caso è impegnato il corpo , inteso non come semplice apparato biochimico, ma come dimensione totale della persona, considerata nella sua capacità di proiettarsi all’esterno da sé e di relazionarsi con gli altri. “Corpo” nel linguaggio biblico non esprime solo una parte della persona, ma l’intero uomo, visto come essere dialogico, capace di manifestarsi all’esterno e di entrare in relazione con le altre persone e col mondo; “corpo” non esprime la persona come “io interiore e cosciente”, ma indica soprattutto il soggetto visto nella sua visibilità esterna, capace di manifestare al di fuori di sé ciò che coltiva nell’intimità del suo cuore e della sua mente.
San Paolo spiega che nel rapporto sessuale l’uomo si trova impegnato con tutta la sua persona. L’atto sessuale, perciò, non è come consumare un pasto, ma è un incontro interpersonale di donazione reciproca. Per questo motivo esso non è indifferente alla costruzione della persona, la quale è da intendersi sempre come uno “spirito incarnato” e come un “corpo animato dallo spirito”. Di conseguenza la sessualità non può essere ridotta a “cosa”, a bene di consumo…

“Il corpo è per il Signore e il Signore e per il corpo”
A questo punto l’Apostolo esprime un bellissimo concetto di appartenenza tra noi e il Signore: “Il corpo non è per l’immoralità, ma per il Signore e il Signore è per il corpo” (6,13). Noi come persone incarnate (= corpo), apparteniamo a Cristo: siamo totalmente suoi! (cfr. anche 1 Cor. 3,22-23). E Cristo è per noi, dal momento che si è donato totalmente a noi per la nostra salvezza! Egli non ha salvato solo la nostra anima, ma tutto il nostro essere, tant’è vero che il nostro corpo è destinato alla resurrezione! La nostra corporeità non è destinata a scomparire, ma è segnata per l’eternità. Di conseguenza “il corpo non è fatto per l’immoralità”, cioè per la “porneia”, ma per la santità! Vivere la sessualità in modo licenzioso non è un fatto indifferente, ma compromette l’intera nostra persona, che appartiene a Cristo e partecipa della sua risurrezione.
Proseguendo in questa interessantissima descrizione del rapporto tra Cristo e il nostro corpo, San Paolo riprende un tema a lui caro, affermando che noi siamo membra del corpo di Cristo : “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Strapperò dunque le membra di Cristo per farne membra di una prostituta?” (6,15). Per avvalorare ancora di più quest’affermazione l’Apostolo cita Gen.2,24: “I due diventeranno una sola carne”, cioè un solo essere. La sessualità non è qualcosa di esterno alla persona, ma una dimensione fondamentale, mediante la quale la persona mette in gioco se stessa ed entra in relazione profonda con un’altra persona. Non si può vivere la sessualità solo come una passione istintiva, un cedimento egoistico alla “carnalità” della propria esistenza.
In questa luce comprendiamo anche la frase seguente, che risulta piuttosto sorprendente: “Invece chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito” (6,17). Noi ci aspetteremmo che Paolo, in coerenza con quanto aveva detto prima, avesse ora concluso “chi si unisce al Signore forma con lui un solo corpo”. Egli invece utilizza l’espressione “un solo spirito”, facendo capire così che l’unione col Signore non viene vissuta nella carnalità, ma “nello spirito”, cioè nella donazione d’amore tipica di chi si lascia guidare dallo Spirito di Dio e non vive le sue relazioni con gli altri a livello puramente materiale e carnale.
Di questo San Paolo parla in Efesini 5, descrivendo il rapporto tra Cristo e la Chiesa quale fondamento della sacramentalità del matrimonio. C’è fra noi e il Signore un rapporto di reciproca appartenenza: noi siamo per il Signore e il Signore è per noi; noi siamo le sue membra e non possiamo staccarci da Lui, dissacrando il tempio del nostro corpo con una maniera immorale di vivere la sessualità. Questa relazione di reciproca appartenenza tra l’uomo e Cristo trova una splendida manifestazione sacramentale nel rapporto sponsale tra il marito e la moglie, chiamati ad essere “una sola carne” nella relazione d’amore che li lega l’uno all’altra “nel Signore”.

“Tempio dello Spirito Santo”
Il testo si chiude con lo sviluppo di questo tema pneumatologico: i cristiani sono “tempio dello Spirito Santo!” (6,19). Nel loro essere corporeo essi sono abitazione santa e consacrata a Dio. Di conseguenza vivono in una costante relazione d’amore col Signore, la quale non può prescindere dalla loro corporeità, ma anzi trova proprio in essa la struttura su cui fondare , anche con gesti concreti e visibili, il proprio rapporto con Dio. Il corpo ci è dato per esprimere all’esterno la nostra appartenenza al Signore e la glorificazione del suo nome. La relazione sessuale è una modalità sublime di questa manifestazione, che per volere di Dio acquista anche forza sacramentale, ossia esprime il legame di Cristo con la sua Chiesa e ne diffonde efficacemente la grazia santificante su tutto il Corpo mistico del Signore!
Poggiando su questa base concettuale, il brano si chiude con una meravigliosa esortazione liturgica: “Glorificate dunque Dio con il vostro corpo” (6,20). Questo corpo, che “è stato riscattato dalla schiavitù a caro prezzo”, deve esprimere la lode al Signore, Salvatore e Redentore dell’uomo. La liturgia non viene intesa così come qualcosa di vuoto e formale, ma come una celebrazione che si incarna in tutta la nostra esistenza. Il culto cristiano non ci distoglie dal mondo e dai rapporti con gli altri, ma anzi si esprime in un’esistenza donata agli altri e animata costantemente dall’amore del Signore.

Sessualità: linguaggio d’amore o fonte di schiavitù?
E’ in questa luce che noi dobbiamo considerare la nostra identità sessuale, in qualunque stato di vita e in qualunque età ci troviamo a viverla. La sessualità non è un bene dell’individuo, ma della persona intesa nella sua unitotalità, ossia nella ricchezza globale del suo essere, nel quale il corpo non può mai essere scisso dallo spirito. Una persona che si autoriconosce come dono di Dio e che, proprio per questo, non può chiudersi in una orgogliosa autosufficienza. Dire persona significa dire relazione con Dio e con i fratelli, una relazione che viviamo non a prescindere dalla nostra corporeità, ma proprio grazie ad essa. Il corpo infatti dice la nostra identità sessuale e rende visibili all’esterno i moti del nostro cuore, le interiorità più nascoste del nostro io. Il corpo agisce così in modo quasi “sacramentale”, perché rende visibile ciò che per sua natura è misterioso ed invisibile: l’amore!
La corporeità e l’identità sessuale ci vengono dati da Dio come linguaggio d’amore: per questo non si può né banalizzare, né cosificare il sesso; non lo si può vivere a…buon mercato, in modo consumistico; né lo si può interpretare come semplice ricerca del piacere, in un rapporto passeggero, non impegnativo, di natura privatistica, pensando che tutto questo non abbia ripercussioni sulla maturazione della nostra persona e sul nostro impegno a camminare nella fede.
Le “ ferite” lasciate dentro di noi da una sessualità vissuta nel peccato sono in genere profonde, sia perché la sessualità è una dimensione fondamentale del nostro io personale, sia perché il maligno opera spesso a questo livello “carnale” della nostra esistenza, scompaginando il nostro equilibrio interiore e rendendo disarmonico il nostro essere, creato ad immagine e somiglianza di Dio.
Siamo oggi tentati da più parti a vivere la sessualità in modo edonistico e consumistico. Ciò che abbiamo visto verificarsi nella comunità di Corinto risulta nel nostro tempo mille volte amplificato da una cultura, che induce a comportamenti sessuali licenziosi, in cui lo stesso concetto di “porneia” viene esaltato quale conquista di un uomo talmente emancipato da potersi porre al di sopra di ogni regola. Le conseguenze di una simile concezione sono sotto gli occhi di tutti: il presunto uomo “maggiorenne” del nostro tempo risulta molte volte minacciato da schiavitù che si annidano nel suo stesso cuore, conducendolo ad abitudini e a scelte che sono libere solo in apparenza, mentre in realtà lo rendono “omologato”, costruito sui modelli standardizzati che vengono manovrati da ingenti interessi economici e sono fatti diabolicamente apposta per spegnere la felicità nel suo cuore.

Sessualità redenta
Davvero non possiamo essere presuntuosi in questa materia, pensando che questo tesoro meraviglioso noi lo custodiamo “in vasi di creta” (2 Cor 4,7): fragili, delicati, bisognosi di molta cura e premura.
Siamo però persuasi che Gesù ha redento anche la nostra corporeità e la nostra sessualità, e ci dona la grazia di viverla nel quadro dell’amore, riversato nei nostri cuori dallo Spirito Santo (Rom 5,5). Lo Spirito di Gesù risorto ci rende capaci di vivere anche la sessualità secondo il progetto di Dio, quale ci viene indicato nella Sacra Scrittura e nel Magistero della Chiesa.
Guardiamo perciò a Gesù e agli insegnamenti della Chiesa per conoscere la verità anche in questo campo così prezioso e delicato. Gesù infatti conosce meglio di chiunque l’altro il cuore dell’uomo e può istruirci in maniera autentica. Quando i farisei si rivolgono a lui per chiedergli cosa ne pensa del divorzio (Mt 19,1-9), Gesù fa comprendere che la concessione di Mosè in questo campo è stata solo un “adattamento” della legge di Dio, dovuto alla “durezza di cuore” (“sklerokardìa”) dei suoi connazionali, ma “al principio” non fu così: il progetto originario di Dio era ed è quello dell’unione indissolubile dell’uomo e della donna. A questo riguardo Gesù cita testualmente i testi del libro della Genesi, che si riferiscono a questo progetto del Creatore.
Solo Gesù conosce l’uomo fin dallo “inizio”, ossia fin dal “principio senza principio”, che affonda le sue radici nell’eternità di Dio. A Lui, Divino Maestro, noi guardiamo per conoscere la verità sull’uomo, poiché Egli è l’uomo perfetto, il primogenito dell’umanità rinnovata, Colui che svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione (G.S. 22). Dinanzi a Lui, Via Verità e Vita dell’uomo, crollano tutti i pretesti per non vivere secondo il progetto di Dio e tutti i tentativi di “adattare” la sua legge alla debolezza dell’uomo. Egli ha redento tutto il nostro essere, donandoci la grazia di vivere in pienezza il suo disegno d’amore, senza bisogno di fare “sconti” alla verità, ivi compresa la verità che riguarda la vita sessuale.

Gesù, Sposo verginale dell’umanità
Pur non essendosi preoccupato specificamente di istruirci in modo dettagliato circa i comportamenti da assumere in campo sessuale, Gesù ci offre i principi fondamentali del nostro agire nell’amore, sulla base della ricchezza globale del nostro essere. Egli ci testimonia in modo particolare la bellezza dell’atteggiamento verginale nei confronti di ogni persona, il valore di una relazione che non si pone come rapporto di possesso, ma di donazione gratuita e disinteressata.
I suoi dialoghi con le donne, in particolare, manifestano questa dimensione verginale del suo cuore e ce lo fanno conoscere come lo Sposo purissimo dell’umanità rinnovata nella potenza del suo amore. I dialoghi con la Samaritana, la peccatrice in casa di Simone il fariseo, la Maddalena, l’adultera anche quando toccano tasti delicati ed intimi della vita di queste donne, mettono in evidenza una capacità grande di amore puro, che nasce da un cuore in grado di donarsi a tutti senza nulla pretendere e di valorizzare la ricchezza di essere che c’è in ogni persona. La delicatezza del tratto e la maniera singolare con cui Gesù si pone nei confronti di queste donne, non gli impediscono di insegnare la verità nel campo del comportamento sessuale e di stigmatizzare i comportamenti peccaminosi di queste donne. In maniera davvero sublime, Gesù è capace di distinguere il peccato dal peccatore, bollando in modo fermo i comportamenti peccaminosi, ma esercitando grande misericordia nei confronti delle persone che sono cadute nel peccato. In questo modo egli riesce a recuperare la dignità di queste donne e ad imprimere nella loro vita un radicale cambiamento di rotta.
Dal Signore Gesù, Sposo verginale dell’umanità, impariamo a coltivare il valore della purezza, che rende autentici i nostri rapporti con gli altri, sottraendoli alla bramosia di possesso e all’egoismo sempre incombente. Impariamo il valore della castità, intesa positivamente come l’energia spirituale capace di liberare l’amore dalla mera ricerca del piacere e di condurre al pieno dominio di sé per amare l’altro in modo autentico. Quando non si esercita la virtù della castità è facile che l’altro venga ridotto ad “oggetto”, a strumento da utilizzare per il proprio egoistico godimento; è facile anche che noi stessi ci dimostriamo incapaci di agire da soggetti ragionevoli e precipitiamo nel disordine dei sensi e dell’istinto.

Tutti chiamati alla castità
Da Gesù, vero Amico dell’uomo, gli sposi imparano ad amarsi con cuore puro, vivendo la castità coniugale come capacità costante di vedere nel corpo del proprio coniuge la bellezza e la preziosità della persona, sottraendosi così alla tentazione di dominarla o di farne uso… Gli sposi cristiani sperimentano in questo modo che l’armonia sessuale è un cammino, che non è tanto il frutto di tecniche, quanto piuttosto dell’amore totale, fedele, fecondo, definitivo: un amore che si esprime in queste stesse dimensioni non solo nel rapporto sessuale, ma in tutti gli altri ambiti della vita.
In questa luce i giovani e i fidanzati imparano la castità pre-matrimoniale, intesa come proposito di riservare al sacramento del matrimonio la pienezza di donazione, quale avviene nel rapporto sessuale completo, e di vivere gli altri gesti di affettuosità nel quadro della verità dell’amore: gesti, dunque, che esprimano con sincerità l’amore per l’altro, più che il desiderio di utilizzarlo per il proprio piacere; gesti che conoscano la legge della gradualità e si pongano nel cammino di crescita della coppia: un cammino che non fa crescere l’amore, se si ferma solo ai gesti fisici e non si sforza di far crescere anche l’affetto, la sintonia spirituale, il dialogo, la capacità di costruire insieme qualcosa di bello non solo per sé, ma anche per gli altri. In una società che spinge al sesso in chiave consumistica e fa sentire quasi anormali i giovani che vivono la castità, diventa un’autentica provocazione profetica la scelta di arrivare vergini al matrimonio e di interpretare il fidanzamento come tempo di grazia per crescere nell’amore reciproco e attrezzarsi a vivere in modo autentico il prezioso dono della sessualità.
Imitando Cristo, Sposo verginale dell’umanità, anche gli uomini e le donne chiamati alla verginità consacrata apprendono il significato e lo stile della loro presenza nel mondo: una presenza che si pone non come disprezzo del matrimonio e della sessualità, bensì come loro sublimazione nel quadro di un amore che si riversa su tutti, proprio perché non appartiene a nessuno in particolare; un amore esercitato con cuore indiviso, capace di spendersi con instancabile generosità per il bene dei fratelli e di amare semplicemente tutti, ivi compresi quelli che nessuno ama o di cui non è facile innamorarsi; un amore che, sull’esempio di quello testimoniato da Gesù, si traduce in anticipazione profetica dell’amore che noi tutti potremo sperimentare nel Regno di Dio, dove non ci saranno più moglie e marito, ma “saremo tutti come angeli nel cielo” (Mt 22,30; Mc 12,25).

Publié dans:Lettera ai Corinti - prima |on 5 août, 2015 |Pas de commentaires »

INTERVENTO DI PADRE CANTALAMESSA AL VI INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE

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INTERVENTO DI PADRE CANTALAMESSA AL VI INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE

Divido la mia relazione in tre parti. Nella prima parte illustrerò il progetto iniziale di Dio su matrimonio e famiglia e come esso si attuò nella storia d’Israele; nella seconda parte parlerò della ricapitolazione operata da Cristo e di come essa fu interpretata e vissuta nella comunità cristiana del Nuovo Testamento; nella terza parte cercherò di vedere cosa la rivelazione biblica può apportare alla soluzione dei problemi attuali del matrimonio e della famiglia.
I Parte
Matrimonio e famiglia: progetto divino e realizzazioni umane nell’Antico Testamento
1. Il progetto divino
Si sa che il libro della Genesi ha due racconti distinti della creazione della prima coppia umana, risalenti a due tradizioni diverse: quella jahwista (X secolo a.C.) e quella più recente (VI sec. a.C.) detta “sacerdotale”.
Nella tradizione sacerdotale (Gen 1, 26-28) l’uomo e la donna sono creati simultaneamente, non uno dall’altro; si pone in rapporto l’essere maschio e femmina con l’essere a immagine di Dio: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”. Il fine primario dell’unione tra l’uomo e la donna è visto nell’essere fecondi e riempire la terra.
Nella tradizione jahwista (Gen 2, 18-25), la donna è tratta dall’uomo; la creazione dei due sessi è vista come rimedio alla solitudine (“Non è bene che l’uomo sia solo; gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”); più che il fattore procreativo, si accentua il fattore unitivo (“l’uomo si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”); ognuno è libero di fronte alla propria sessualità e a quella dell’altro: “Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna”.
In nessuna delle due redazioni si accenna a una subordinazione della donna all’uomo, prima del peccato: i due sono su un piano di assoluta parità, anche se l’iniziativa, almeno nel racconto jahwista, è dell’uomo.
La spiegazione più convincente del perché di questa “invenzione” divina della distinzione dei sessi l’ho trovata in un poeta, Paul Claudel, non in un esegeta:
“L’uomo è un essere orgoglioso non c’era altro modo di fargli comprendere il prossimo che quello di farglielo entrare nella carne; non c’era altro mezzo per fargli capire la dipendenza, la necessità e il bisogno se non mediante la legge su di lui di questo essere differente [la donna], dovuta al semplice fatto che esso esiste”1.
Aprirsi all’altro sesso è il primo passo per aprirsi all’altro che è il prossimo, fino all’Altro con la lettera maiuscola che è Dio. Il matrimonio nasce nel segno dell’umiltà; è riconoscimento di dipendenza e quindi della propria condizione di creatura. Innamorarsi di una donna o di un uomo è fare il più radicale atto di umiltà. È un farsi mendicante e dire all’altro: “Io non basto a me stesso, ho bisogno del tuo essere”. Se, come pensava Schleiermacher, l’essenza della religione consiste nel “sentimento di dipendenza” (Abhaengigheitsgefuehl) di fronte a Dio, allora la sessualità umana è la prima scuola di religione.
Fin qui il progetto di Dio. Non si spiega però il seguito della Bibbia se, insieme con il racconto della creazione, non si tiene conto anche di quello della caduta, soprattutto di quello che viene detto alla donna: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (Gen 3,16). Il predominio dell’uomo sulla donna fa parte del peccato dell’uomo, non del progetto di Dio; con quelle parole Dio lo preannuncia, non lo approva.
2. Le realizzazioni storiche
La Bibbia è un libro divino-umano non solo perché ha per autori Dio e l’uomo, ma anche perché descrive, frammiste insieme, la fedeltà di Dio e l’infedeltà dell’uomo; non solo per il soggetto che scrive, ma anche per l’oggetto della Scrittura. Questo appare particolarmente evidente quando si confronta il progetto di Dio sul matrimonio e la famiglia con la sua attuazione pratica nella storia del popolo eletto.
È utile registrare le deficienze e le aberrazioni umane per non stupirci troppo di quello che avviene intorno a noi e anche perché dimostra che matrimonio e famiglia sono istituzioni che, almeno nella pratica, evolvono nel tempo, come ogni altro aspetto della vita sociale e religiosa. Per rimanere nel libro della Genesi, già il figlio di Caino Lamech viola la legge della monogamia prendendo due mogli. Noè con la sua famiglia appare un’eccezione in mezzo alla generale corruzione del suo tempo. Gli stessi patriarchi Abramo e Giacobbe hanno figli da più donne. Mosè sancisce la pratica del divorzio; David e Salomone mantengono un vero harem di donne.
Le deviazioni però sembrano, come sempre, più presenti ai vertici della società, tra i capi, che non a livello di popolo, dove l’ideale iniziale del matrimonio monogamico doveva essere la norma e non l’eccezione. La letteratura sapienziale –Salmi, Proverbi, Siracide – più che i libri storici (che si occupano appunto dei capi) ci permettono di farci un’idea dei rapporti e dei valori familiari tenuti in considerazione e vissuti in Israele: la fedeltà coniugale, l’educazione della prole, il rispetto dei genitori. Quest’ultimo costituisce uno dei dieci comandamenti: “Onora il padre e la madre”.
Più che nelle singole trasgressioni pratiche, il distacco dall’ideale iniziale è visibile nella concezione di fondo che si ha del matrimonio in Israele. L’oscuramento principale riguarda due punti cardini. Il primo è che il matrimonio, da fine, diventa mezzo. L’Antico Testamento, nel suo insieme, considera il matrimonio come “una struttura d’autorità di tipo patriarcale, destinata principalmente alla perpetuazione del clan. In questo senso vanno comprese le istituzioni del levirato (Dt 25, 5-10), del concubinaggio (Gen 16) e della poligamia provvisoria”2. L’ideale di una comunione di vita tra l’uomo e la donna, fondata su un rapporto personale e reciproco, non è dimenticata, ma passa in secondo ordine rispetto al bene della prole.
Il secondo grave oscuramento riguarda la condizione della donna: da compagna dell’uomo, dotata di pari dignità, essa appare sempre più subordinata all’uomo e in funzione dell’uomo. Lo si vede perfino nel tanto celebrato elogio della donna del libro dei Proverbi: “Una donna perfetta chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore…” (Prov 31, 10 ss). Questo è un elogio della donna fatto interamente in funzione dell’uomo. La sua conclusione è: Beato l’uomo che possiede una tale donna! Essa gli tesse bei vestiti, fa onore alla sua casa, gli permette di camminare a testa alta tra gli amici. Non credo che le donne sarebbero oggi entusiaste di questo elogio.
Un ruolo importante nel riportare alla luce il progetto iniziale di Dio sul matrimonio lo svolsero i profeti, in particolare Osea, Isaia, Geremia. Assumendo l’unione dell’uomo e della donna come simbolo dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, di riflesso, essi rimettevano in primo piano i valori dell’amore mutuo, della fedeltà e dell’indissolubilità che caratterizzano l’atteggiamento di Dio verso Israele. Tutte le fasi e le vicissitudini dell’amore sponsale sono evocate e utilizzate a questo scopo: l’incanto dell’amore allo stato nascente nel fidanzamento (cf Ger 2, 2); la pienezza della gioia del giorno delle nozze (cf Is 62, 5); il dramma della rottura (cf Os 2, 4 ss) e infine la rinascita, piena di speranza, dell’antico vincolo (cf Os 2, 16; Is 54, 8).
Malachia mostra la ricaduta benefica che il messaggio profetico poteva avere sul matrimonio umano e in particolare sulla condizione della donna. Scrive:
“Il Signore è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, che ora perfidamente tradisci, mentr’essa è la tua consorte, la donna legata a te da un patto. Non fece egli un essere solo dotato di carne e soffio vitale? Che cosa cerca quest’unico essere, se non prole da parte di Dio? Custodite dunque il vostro soffio vitale e nessuno tradisca la donna della sua giovinezza” (Ml 2,14-15).
Alla luce di questa tradizione profetica va letto il Cantico dei cantici. Esso rappresenta un ritorno di fiamma alla visione del matrimonio come attrazione reciproca, come eros, come incanto dell’uomo di fronte alla donna (in questo caso, anche della donna di fronte all’uomo), presente nel racconto più antico della creazione.
Ha torto, tuttavia, una certa esegesi moderna che interpreta il Cantico esclusivamente in chiave di amore umano tra un uomo e una donna. L’autore del Cantico si colloca dentro la storia religiosa del suo popolo dove l’amore umano era stato assunto dai profeti come metafora dell’alleanza tra Dio e il popolo. Osea aveva già fatto della propria vicenda matrimoniale una metafora dei rapporti tra Dio e Israele. Come pensare che l’autore del Cantico prescinda da tutto ciò? La lettura mistica del Cantico, cara alla tradizione d’Israele e della Chiesa, non è dunque una sovrastruttura posteriore, ma in qualche modo implicita nel testo. Lungi dal togliere qualcosa all’esaltazione dell’amore umano, essa le conferisce uno splendore e una bellezza nuova.
II Parte
Matrimonio e famiglia nel Nuovo Testamento
1. La ricapitolazione del matrimonio da parte di Cristo
Sant’Ireneo spiega la “ricapitolazione (anakephalaiosis) di tutte le cose” operata da Cristo (Ef 1,10) come un “riprendere le cose dal principio per condurle al loro compimento”. Il concetto implica insieme continuità e novità e in questo senso si realizza in modo esemplare nell’opera di Cristo riguardo al matrimonio.
a. La continuità
Il capitolo 19 del vangelo di Matteo è sufficiente, da solo, per illustrare i due aspetti della ricapitolazione. Vediamo anzitutto come Gesú riprende le cose dal principio.
“Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo? Ed egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina (Gen 1, 27) e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? (Gen 2, 24). Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Mt 19,3-6).
Gli avversari si muovono nell’ambito ristretto della casistica di scuola (se è lecito ripudiare la moglie per qualsiasi motivo, o se occorre un motivo specifico e serio), Gesú risponde riprendendo il problema alla radice, dall’inizio. Nella sua citazione, Gesú si riferisce a entrambi i racconti dell’istituzione del matrimonio, prende elementi dall’uno e dall’altro, ma di essi mette in luce, come si vede, soprattutto l’aspetto di comunione delle persone.
Quello che segue nel testo, sul problema del divorzio, va anch’esso in questa direzione; riafferma infatti la fedeltà e indissolubilità del vincolo matrimoniale al di sopra del bene stesso della prole, con il quale si erano giustificati in passato poligamia, levirato e divorzio:
“Gli obiettarono: Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e mandarla via? Rispose loro Gesù: Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio” (Mt 19, 7-9).
Il testo parallelo di Marco mostra come, anche in caso di divorzio, uomo e donna si collocano, secondo Gesú, su un piano di assoluta parità: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc 10, 11-12).
Non mi soffermo sulla clausola “eccetto il caso di concubinato” (porneia) che, come si sa, le Chiese ortodosse e protestanti interpretano in maniera diversa dalla Chiesa cattolica. Piuttosto si deve sottolineare “l’implicita fondazione sacramentale del matrimonio” presente nella risposta di Gesú 3. Le parole “ciò che Dio ha congiunto” dicono che il matrimonio non è una realtà puramente secolare, frutto soltanto di volontà umana; vi è in esso una dimensione sacra che risale alla volontà divina.
L’elevazione del matrimonio a “sacramento” non riposa dunque soltanto sul debole argomento della presenza di Gesú alle nozze di Cana e sul testo di Efesini 5; comincia, in qualche modo, con il Gesú terreno e fa parte anch’essa del suo riportare le cose all’inizio. Giovanni Paolo II ha ragione quando definisce il matrimonio “il sacramento più antico”4.
b. La novità
Fin qui la continuità. In che consiste allora la novità? Paradossalmente, essa consiste nella relativizzazione del matrimonio. Ascoltiamo il seguito del testo di Matteo:
“Gli dissero i discepoli: Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi. Egli rispose loro: Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca” (Mt 19, 10-12).
Gesú istituisce con queste parole un secondo stato di vita, giustificandolo con la venuta in terra del regno dei cieli. Questa non annulla l’altra possibilità, il matrimonio, ma la relativizza. Avviene come per l’idea di stato nell’ambito politico: esso non è abolito, ma radicalmente relativizzato dalla rivelazione della contemporanea presenza, nella storia, di un Regno di Dio.
La continenza volontaria non ha bisogno dunque che sia rinnegato o deprezzato il matrimonio, per essere riconosciuta nella sua validità. (Alcuni autori antichi, nei loro trattati sulla verginità, sono caduti in questo errore). Essa, anzi, non prende senso che dalla contemporanea affermazione della bontà del matrimonio. L’istituzione del celibato e della verginità per il regno nobilita il matrimonio nel senso che fa di esso una scelta, una vocazione, e non più un semplice dovere morale, al quale non era lecito sottrarsi in Israele, senza esporsi all’accusa di trasgredire il comando di Dio.
È importante notare una cosa spesso dimenticata. Celibato e verginità significano rinuncia al matrimonio, non alla sessualità che rimane con tutta la sua ricchezza di significato, anche se vissuta in forme diverse. Il celibe e la vergine sperimentano anch’essi l’attrazione, e quindi la dipendenza, verso l’altro sesso ed è proprio questo che da senso e preziosità alla loro scelta di castità.
c. Gesú, nemico della famiglia?
Tra le tante tesi avanzate in anni recenti nell’ambito della cosiddetta “terza ricerca storica su Gesú”, vi è anche quella di un Gesù che avrebbe ripudiato la famiglia naturale e tutti i vincoli parentali, in nome dell’appartenenza a una comunità diversa, in cui Dio è il padre e i discepoli sono tutti fratelli e sorelle, proponendo ai suoi discepoli una vita errante, come facevano a quel tempo, fuori di Israele, i filosofi cinici5.
Effettivamente ci sono nei vangeli parole di Cristo che a prima vista destano sconcerto. Gesú dice: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 26). Parole dure, certamente, ma già l’evangelista Matteo si premura di spiegare il senso della parola odiare in questo caso: “Chi ama il padre e la madre…il figlio o la figlia più di me non è degno di me” (Mt 10, 37). Gesú non chiede dunque di odiare i genitori o i figli, ma di non amarli fino al punto da rinunciare per essi a seguirlo.
Altro episodio che suscita sconcerto. Un giorno Gesú disse a uno: “Seguimi. E costui rispose: Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre”. Gesù replicò: Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio” (Lc 9, 59 s.). Per certi critici, tra cui il rabbino americano Jacob Neusner con cui dialoga Benedetto XVI nel suo libro su Gesú di Nazaret6, questa è una richiesta scandalosa, una disobbedienza a Dio che ordina di prendersi cura dei genitori, una violazione lampante dei doveri filiali.
Una cosa si deve concedere al rabbino Neusner: parole di Cristo, come queste, non si spiegano finché lo si considera un semplice uomo, per quanto eccezionale. Solo Dio può chiedere che lo si ami più del padre e che per seguirlo si rinunci anche ad assistere alla sua sepoltura. Per i credenti questa è una prova ulteriore che Gesú è Dio; per Neusner è la ragione per cui non lo si può seguire.
Lo sconcerto di fronte a queste richieste di Gesú nasce anche dal non tener conto della differenza tra ciò che egli chiedeva a tutti indistintamente e ciò che chiedeva soltanto ad alcuni chiamati a condividere la sua vita interamente dedicata al regno, come avviene anche oggi nella Chiesa. Lo stesso si deve dire della rinuncia al matrimonio: egli non la impone né propone a tutti indistintamente, ma solo a quelli che accettano di mettersi come lui a totale servizio del regno (cf. Mt 19, 10-12).
Tutti i dubbi sull’atteggiamento di Gesú verso la famiglia e il matrimonio cadono se teniamo conto di altri passi del vangelo. Gesú è più rigoroso di tutti circa l’indissolubilità del matrimonio, ribadisce con forza il comandamento di onorare il padre e la madre, fino a condannare la pratica di sottrarsi, con pretesti religiosi, al dovere di assisterli (cf. Mc 7, 11-13). Quanti miracoli Gesú compie proprio per venire incontro al dolore di padri (Giairo, il padre dell’epilettico), di madri (la Cananea, la vedova di Nain!), o di congiunti (le sorelle di Lazzaro), quindi per onorare i vincoli di parentela. In più d’una occasione egli condivide il dolore di parenti fino a piangere con loro.
In un momento come l’attuale in cui tutto sembra congiurare per indebolire i vincoli e i valori della famiglia, ci mancherebbe solo che mettessimo contro di essa anche Gesú e il vangelo! Gesú è venuto riportare il matrimonio alla sua bellezza originaria, per rafforzarlo, non per indebolirlo.
2. Matrimonio e famiglia nella Chiesa apostolica
Come abbiamo fatto per il progetto originario di Dio, anche a proposito della ricapitolazione operata da Cristo cerchiamo ora di vedere come essa è stata recepita e vissuta nella vita e nella catechesi della Chiesa, rimanendo per il momento nell’ambito della Chiesa apostolica. Paolo è in ciò la nostra fonte principale d’informazione avendo dovuto occuparsi del problema in alcune delle sue lettere, soprattutto nella Prima Lettera ai Corinzi.
L’Apostolo distingue quello che viene direttamente dal Signore, dalle applicazioni particolari che ne fai lui, richieste dal contesto nuovo in cui è predicato il vangelo. Al primo caso appartiene la riaffermazione dell’indissolubilità del matrimonio: “Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito – e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito – e il marito non ripudi la moglie” (1 Cor 7,10-11); al secondo caso appartengono le indicazioni che egli da circa i matrimoni tra credenti e non credenti e le disposizioni sui celibi e le vergini: “Agli altri dico io, non il Signore…” (1 Cor 7,10; 1 Cor 7, 25).
Da Gesú, la Chiesa apostolica ha raccolto anche l’elemento di novità che consiste, abbiamo visto, nella istituzione di un secondo stato di vita: il celibato e la verginità per il regno. Ad essi Paolo – lui stesso non sposato – dedica la parte finale del capitolo 7 della sua lettera. Basandosi sul versetto: ” Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno ha il proprio dono (charisma) da Dio, chi in un modo, chi in un altro” (1 Cor 7,7), alcuni pensano che l’Apostolo consideri matrimonio e verginità due carismi. Ma non è esatto; i vergini hanno ricevuto il carisma della verginità, gli sposati hanno altri carismi (sottinteso, non quello della verginità). È significativo che la teologia della Chiesa abbia sempre considerato la verginità un carisma e non un sacramento, e il matrimonio un sacramento e non un carisma.
Nel processo che porterà (molto più tardi) al riconoscimento della sacramentalità del matrimonio ha avuto un peso notevole il testo della lettera agli Efesini: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero (in latino, sacramentum!) è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!” (Ef 5, 31-32). Non si tratta di un’affermazione isolata e occasionale, dovuta all’ambigua traduzione del termine “mistero” (mysterion) con il latino sacramentum. Il matrimonio come simbolo del rapporto tra Cristo e la Chiesa si fonda su tutta una serie di detti e di parabole, in cui Gesú aveva applicato a sé il titolo di sposo, attribuito a Dio dai profeti.
A mano a mano che la comunità apostolica si accresce e si consolida si vede fiorire tutta una pastorale e una spiritualità familiare. I testi più significativi al riguardo sono quelli delle lettere ai Colossesi e agli Efesini. In essi vengono messi in luce i due rapporti fondamentali che costituiscono la famiglia: il rapporto marito-moglie e il rapporto genitori-figli. A proposito del primo l’Apostolo scrive:
“Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo. Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore… Come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei”
Paolo raccomanda al marito di “amare” la propria moglie (e questo ci pare normale), ma poi raccomanda alla moglie di essere “sottomessa” al marito e questo, in una società fortemente (e giustamente) consapevole della parità dei sessi, sembra inaccettabile. Su questo punto san Paolo è, in parte almeno, condizionato dai costumi del suo tempo. La difficoltà, tuttavia, si ridimensiona, se si tiene conto della frase iniziale del testo: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”, che stabilisce una reciprocità nella sottomissione come nell’amore.
A proposito del rapporto tra genitori e figli Paolo ribadisce i consigli tradizionali della letteratura sapienziale:
“Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto. Onora tuo padre e tua madre (Prov 6, 20): è questo il primo comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra (Es 20, 12). E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell’educazione e nella disciplina del Signore” (Ef 6, 1-4).
Le Lettere Pastorali, e specialmente la Lettera a Tito, offrirà regole dettagliate per ogni categoria di persone: le mogli, i mariti, vescovi e presbiteri, gli anziani, i giovani, le vedove, i padroni, gli schiavi (cf Tit 2, 1-9). Anche gli schiavi infatti facevano parte della famiglia, nella concezione allargata che si aveva di essa.
Anche nella Chiesa delle origini, l’ideale del matrimonio riproposto da Gesú non si realizzerà senza ombre e resistenze. A parte il caso di incesto di Corinto (1 Cor 8, 1 ss), lo testimonia il bisogno che sentono gli apostoli di insistere su questo aspetto della vita cristiana. Nell’insieme però i cristiani presentarono al mondo un modello familiare nuovo che si rivelò uno dei fattori principali di evangelizzazione.
L’autore della Lettera a Diogneto, nel II secolo, dice che i cristiani “si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati; hanno in comune la mensa, ma non il letto” (V, 6-7). Nelle sue Apologie, Giustino fa un ragionamento che noi cristiani di oggi dovremmo poter fare nostro nel dialogo con le autorità politiche. Dice in sostanza questo: Voi, imperatori romani, moltiplicate le leggi sulla famiglia, ma esse si rivelano inefficaci per arrestarne la dissoluzione; venite a vedere le nostre famiglie e vi convincerete che i cristiani sono i vostri migliori alleati nella riforma della società e non i vostri nemici. Alla fine, dopo tre secoli di persecuzione, l’impero, si sa, accolse, nella propria legislazione, il modello cristiano di famiglia.
III Parte
Cosa l’insegnamento biblico dice a noi oggi
La rilettura della Bibbia in un convegno come questo, che non è di esegeti ma di operatori pastorali nell’ambito della famiglia, non si può limitare a una semplice riproposizione del dato rivelato, ma deve poter gettare luce sui problemi di oggi. “La Scrittura, diceva san Gregorio Magno, cresce con chi la legge” (cum legentibus crescit); rivela implicazioni nuove a mano a mano che le vengono poste domande nuove. E oggi di domande, o provocazioni, nuove ce ne sono tante.
1. L’ideale biblico contestato
Ci troviamo di fronte a una contestazione apparentemente globale del progetto biblico su sessualità, matrimonio e famiglia. Lo studio di Mons. Tony Anatrella, distribuito ai relatori in vista di questo convegno, ce ne da un riassunto ragionato e utilissimo7. Come comportarsi di fronte al fenomeno?
Il primo errore da evitare a mio parere è quello di passare tutto il tempo a controbattere le teorie contrarie, finendo per dare loro più importanza di quello che meritano. Già lo Pseudo Dionigi Areopagita notava come la proposizione della propria verità è sempre più efficace della confutazione degli errori altrui. Un altro errore sarebbe quello di puntare tutto su leggi dello stato per difendere i valori cristiani. I primi cristiani, abbiamo visto, con i loro costumi cambiarono le leggi dello stato; non possiamo aspettarci oggi di cambiare i costumi con le leggi dello stato.
Il concilio ha inaugurato un metodo nuovo che è di dialogo, non di scontro con il mondo; un metodo che non esclude neppure l’autocritica. In un suo testo, ha detto che la Chiesa è in grado di trarre profitto anche dalle critiche di chi la combatte. Dobbiamo, credo, applicare questo metodo anche nella discussione dei problemi del matrimonio e della famiglia, come fece già a suo tempo la Gaudium et spes.
Applicare questo metodo di dialogo significa cercare di vedere se al fondo anche delle contestazioni più radicali non c’è una istanza positiva da accogliere. È l’antico metodo paolino dell’esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (cf. 1 Ts 5,21). Questo è avvenuto con il marxismo che ha spinto la Chiesa a sviluppare una propria dottrina sociale e potrebbe avvenire anche per la “gender” rivoluzione che, come fa notare Mons. Anatrella nel suo studio, presenta non poche analogie con il marxismo ed è probabilmente destinata alla stessa fine.
La critica al modello tradizionale di matrimonio e di famiglia che ha portato alle odierne, inaccettabili, proposte del decostruzionismo, è iniziata con l’illuminismo e il romanticismo. Con intenti diversi, questi due movimenti si sono espressi contro il matrimonio tradizionale in quanto visto esclusivamente nei suoi “fini” oggettivi: la prole, la società, la Chiesa e troppo poco in se stesso, nel suo valore soggettivo e interpersonale. Tutto si richiedeva ai futuri sposi eccetto che si amassero e si scegliessero liberamente tra di loro. A tale modello venne opposto il matrimonio come patto (Illuminismo) e come comunione d’amore (Romanticismo) tra gli sposi.
Ma questa critica va nel senso originario della Bibbia, non contro di essa! Il concilio Vaticano II ha recepito questa istanza quando ha riconosciuto come bene ugualmente primario del matrimonio il mutuo amore e aiuto tra i coniugi. Giovanni Paolo II, in una sua catechesi del Mercoledì, diceva:
“Il corpo umano, con il suo sesso, e la sua mascolinità e femminilità,…è non soltanto sorgente di fecondità e di procreazione, come in tutto l’ordine naturale, ma racchiude fin dal principio l’attributo sponsale, cioè di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono e, mediante questo dono, attua il senso stesso del suo essere ed esistere” 8.
Nella sua enciclica “Deus caritas est”, il papa Benedetto XVI è andato anche oltre, scrivendo cose profonde e nuove a proposito dell’eros nel matrimonio e negli stessi rapporti tra Dio e l’uomo. “Questo stretto nesso tra eros e matrimonio nella Bibbia quasi non trova paralleli nella letteratura al di fuori di essa”9.
La reazione insolitamente positiva a questa enciclica del papa dimostra quanto una presentazione irenica della verità cristiana sia più produttiva della confutazione dell’errore contrario, anche se questa pure dovrà trovare posto, a suo tempo e a suo luogo. Noi siamo lontani dall’accettare le conseguenze che alcuni traggono oggi da queste premesse: per esempio che basti qualsiasi tipo di eros a costituire un matrimonio, compreso quello tra persone dello stesso sesso, ma questo rifiuto acquista un’altra forza e credibilità se unito al riconoscimento della bontà di fondo dell’istanza e anche a una sana autocritica.
Non possiamo infatti tacere il contributo che i cristiani avevano dato al formarsi di quella visione puramente oggettivista del matrimonio. L’autorità di Agostino, rinforzata su questo punto da Tommaso d’Aquino, aveva finito per gettare una luce negativa sull’unione carnale dei coniugi, considerata il tramite di trasmissione del peccato originale e non priva, essa stessa, di peccato “almeno veniale”. Secondo il dottore di Ippona, i coniugi dovevano venire all’atto coniugale con dispiacere e solo perché non c’era altro modo di dare cittadini allo stato e membri alla Chiesa.
Un’altra istanza che possiamo fare nostra è quella della pari dignità della donna nel matrimonio. Essa, abbiamo visto, è nel cuore stesso del progetto originario di Dio e del pensiero di Cristo, ma è stata quasi sempre disattesa. La parola di Dio a Eva: “Verso l’uomo sarà la tua brama ed egli ti dominerà”, ha avuto un tragico avveramento nella storia.
Nei rappresentanti della cosiddetta “Gender revolution” questa istanza ha portato a proposte folli, come quella di abolire la distinzione dei sessi e sostituirla con la più elastica e soggettiva distinzione dei “generi” (maschile, femminile, variabile), o quella di liberare la donna dalla “schiavitù della maternità” provvedendo in altri modi, inventati dall’uomo, alla produzione dei figli. (Non si capisce chi avrebbe più interesse o desiderio, a questo punto, di avere figli!).
Proprio la scelta del dialogo e dell’autocritica ci da il diritto di denunciare questi progetti come “disumani”, contrari cioè non solo alla volontà di Dio, ma anche al bene dell’umanità. Tradotti in pratica su larga scala, essi porterebbero a guasti imprevedibili. L’unica nostra speranza è che il buon senso della gente, unito al “desiderio” dell’altro sesso, al bisogno di maternità e di paternità che Dio ha inscritto nella natura umana resistano a questi tentativi di sostituirsi a Dio, dettati più da tardivi sensi di colpa dell’uomo, che da genuino rispetto e amore per la donna. (A proporre queste teorie sono quasi esclusivamente degli uomini!).
2. Un ideale da riscoprire
Non meno importante del compito di difendere l’ideale biblico del matrimonio e della famiglia è il compito di riscoprirlo e viverlo in pienezza da parte dei cristiani, in modo da riproporlo al mondo con i fatti, più che con le parole.
Noi leggiamo oggi il racconto della creazione dell’uomo e della donna alla luce della rivelazione della Trinità. In questa luce, la frase: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” rivela finalmente il suo significato rimasto fino enigmatico e incerto prima di Cristo. Che rapporto ci può essere tra l’essere “a immagine di Dio” e l’essere “maschio e femmina”? Il Dio biblico non ha connotati sessuali, non è né maschio né femmina.
La somiglianza consiste in questo. Dio è amore e l’amore esige comunione, scambio interpersonale; richiede che ci siano un “io” e un “tu”. Non c’è amore che non sia amore di qualcuno; dove non c’è che un solo soggetto, non ci può essere amore, ma solo egoismo o narcisismo. Là dove Dio è concepito come Legge o come Potenza assoluta non c’è bisogno di una pluralità di persone (il potere si può esercitare anche da soli!). Il Dio rivelato da Gesú Cristo, essendo amore, è unico e solo, ma non è solitario; è uno e trino. In lui coesistono unità e distinzione: unità di natura, di volere, di intenti, e distinzione di caratteristiche e di persone.
Due persone che si amano – e quello dell’uomo e la donna nel matrimonio ne è il caso più forte – riproducono qualcosa di ciò che avviene nella Trinità. Lì due persone –il Padre e il Figlio – amandosi, producono (“spirano”) lo Spirito che è l’amore che li fonde. Qualcuno ha definito lo Spirito Santo il “Noi” divino, cioè non la “terza persona della Trinità”, ma la prima persona plurale 10.
Proprio in questo la coppia umana è immagine di Dio. Marito e moglie sono infatti una carne sola, un cuore solo, un’anima sola, pur nella diversità di sesso e di personalità. Nella coppia si riconciliano tra loro unità e diversità. Gli sposi stanno di fronte, l’uno all’altro, come un “io” e un “tu” e stanno di fronte a tutto il resto del mondo, cominciando dai propri figli, come un “noi”, quasi si trattasse di una sola persona, non più però singolare ma plurale. “Noi”, cioè “tua madre ed io”, “tuo padre ed io”.
In questa luce si scopre il senso profondo del messaggio dei profeti circa il matrimonio umano, che cioè esso è simbolo e riflesso di un altro amore, quello di Dio per il suo popolo. Questo non significava sovraccaricare di un significato mistico una realtà puramente mondana. Non era fare solo del simbolismo; era piuttosto rivelare il vero volto e lo scopo ultimo della creazione dell’uomo maschio e femmina: quello di uscire dal proprio isolamento ed “egoismo”, di aprirsi all’altro e, attraverso la temporanea estasi dell’unione carnale, elevarsi al desiderio dell’amore e della gioia senza fine.
Qual è la causa della incompiutezza e dell’inappagamento che lascia l’unione sessuale, dentro e fuori del matrimonio? Perché questo slancio ricade sempre su se stesso e perché questa promessa di infinito e di eterno rimane sempre delusa? Gli antichi hanno coniato un detto che fotografa questa realtà: “Post coitum animal triste”: come ogni altro animale, l’uomo dopo l’unione carnale è triste.
Il poeta pagano Lucrezio ha lasciato, della frustrazione che accompagna ogni accoppiamento, una descrizione spietata che in un congresso per sposi e per famiglie non dovrebbe suonare scandaloso riascoltare:
“S’avvinghiano avidamente al corpo e mischiano le salive
bocca a bocca, e ansano, premendo coi denti le labbra;
ma invano; perché non possono strapparne nulla,
né penetrare e perdersi nell’altro corpo con tutto il corpo” 11.
A questa frustrazione si cerca un rimedio che però non fa che accrescerla. Anziché cambiare la qualità dell’atto, se ne aumenta la quantità, passando da un partner all’altro. Si arriva così allo scempio del dono di Dio della sessualità, in atto nella cultura e nella società di oggi.
Vogliamo una buona volta, come cristiani, cercare una spiegazione a questa devastante disfunzione? La spiegazione è che l’unione sessuale non è vissuta nel modo e con l’intenzione intesa da Dio. Questo scopo era che, attraverso questa estasi e fusione d’amore, l’uomo e la donna si elevassero al desiderio e avessero una certa pregustazione dell’amore infinito; si ricordassero da dove venivano e dove erano diretti.
Il peccato, a cominciare da quello dell’Adamo ed Eva biblici, ha attraversato questo progetto; ha “profanato” quel gesto, cioè lo ha spogliato della sua valenza religiosa. Ne ha fatto un gesto fine a se stesso, concluso in se stesso, e perciò “insoddisfacente”. Il simbolo è stato staccato dalla realtà simboleggiata, privato del suo dinamismo intrinseco e quindi mutilato. Mai come in questo caso si sperimenta la verità del detto di Agostino: “Tu ci hai fatti per te, o Dio, e il nostro cuore è insoddisfatto finché non riposa in te”.
Anche le coppie credenti –talvolta esse più delle altre – non riescono a ritrovare quella ricchezza di significato iniziale dell’unione sessuale a causa dell’idea di concupiscenza e di peccato originale per secoli associata a quell’atto. Solo nella testimonianza di alcune coppie che hanno fatto l’esperienza rinnovatrice dello Spirito Santo e vivono la vita cristiana carismaticamente si ritrova qualcosa di quel significato originale dell’atto coniugale. Esse hanno confidato con stupore a coppie di amici o al sacerdote di unirsi lodando Dio ad alta voce, o addirittura cantando in lingue. Era una reale esperienza di presenza di Dio.
Si comprende perché solo nello Spirito Santo è possibile ritrovare questa pienezza della vocazione matrimoniale. L’atto costitutivo del matrimonio è il donarsi reciproco, il fare dono del proprio corpo (cioè, nel linguaggio biblico, di tutto se stessi) al coniuge. Essendo il sacramento del dono, il matrimonio è, per sua natura, un sacramento aperto all’azione dello Spirito Santo che è per eccellenza il Dono, o meglio il Donarsi reciproco del Padre e del Figlio. È la presenza santificante dello Spirito che fa, del matrimonio, un sacramento non solo celebrato, ma vissuto.
Fare spazio a Cristo nella vita di coppia è il segreto per accedere a questi splendori del matrimonio cristiano. È da lui infatti che viene lo Spirito Santo che fa nuove tutte le cose. Un libro del vescovo Fulton Sheen, popolare negli anni Cinquanta, inculcava tutto ciò nel titolo stesso che recava: “Tre per sposarsi”12.
Non bisogna aver paura di proporre ad alcune coppie di futuri sposi cristiani, particolarmente preparate, un traguardo altissimo: quello di pregare un po’ insieme la sera delle nozze, come Tobia e Sara, e poi dare a Dio Padre la gioia di vedere di nuovo realizzato, grazie a Cristo, il suo progetto iniziale, quando Adamo ed Eva stavano nudi uno di fronte all’altra e tutti e due davanti a Dio, e non ne provavano vergogna.
Termino con alcune parole tratte, ancora una volta, da La scarpetta di raso di Claudel. Si tratta di un dialogo tra la protagonista femminile del dramma, combattuta tra la paura e il desiderio di arrendersi all’amore, e il suo angelo custode:
-È dunque permesso questo amore delle creature l’una per l’altra? Davvero, Dio non è geloso?
- Come potrebbe essere geloso di ciò che ha fatto lui stesso?
-Ma l’uomo nelle braccia della donna dimentica Dio…
-È forse dimenticarlo essere con lui ed essere associati al mistero della sua creazione?13
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NOTE (INTERESSANTI) SUL SITO

St Paul Healing the Cripple at Lystra

St Paul Healing the Cripple at Lystra dans immagini sacre 2healing

http://www.wga.hu/html_m/d/dujardin/2healing.html

Publié dans:immagini sacre |on 4 août, 2015 |Pas de commentaires »

LA TEOLOGIA DELLA RISURREZIONE IN SAN PAOLO

http://www.ccdc.it/dettaglioDocumento.asp?IdDocumento=259

LA TEOLOGIA DELLA RISURREZIONE IN SAN PAOLO

Autore: Marie-Emilie Boismard,

Intervento del 30/04/1992
Marie-Emile Boismard [1]

Nel considerare il tema della resurrezione, come è trattato nelle lettere di san Paolo, in questa sede ci si limiterà a due testi: il capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi e i capitoli 3 e 5 della Seconda Lettera ai Corinzi; vedremo che nel passaggio da uno scritto all’altro Paolo cambia radicalmente il suo modo di esprimersi a proposito di quella che, piuttosto che resurrezione, forse è meglio chiamare la nostra vittoria sulla morte. Per comprendere meglio questi testi paolini, è innanzitutto necessario considerare il problema da un punto di vista antropologico: vedere, in altri termini, come si presentavano le teorie sulla natura dell’essere umano nel mondo semitico e quindi in quello greco ed ellenistico.
L’idea di resurrezione nasce in un contesto di pensiero semitico e in tempi relativamente recenti. Ne abbiamo tracce nel capitolo dodici del Libro di Daniele e nel capitolo settimo del Secondo Libro dei Maccabei, libri composti verso la fine del secondo secolo avanti Cristo, in un tempo di persecuzione. I semiti, come anche i greci ai tempi di Omero, non facevano distinzione tra anima e corpo e, pertanto, consideravano l’uomo nella sua unità psico–somatica; per conseguenza tutta la vita psichica dell’uomo, i suoi sentimenti, il suo volere, il suo sentire, erano un’emanazione del suo essere fisico. In termini più concreti si pensava che sentimenti, volontà e pensiero derivassero o dal cuore o dai reni, secondo la concezione biblica. Pertanto alla morte, quando il corpo umano si dissolve nella terra, questo perde la sua corporeità, il suo cuore, i suoi reni, resta solo uno scheletro e si perde quindi anche la sua attività psichica. Questa idea si esprimeva in termini concreti, dicendo che l’uomo scendeva allo Sheol dove non esisteva vita, gli uomini erano là come ombre inconsistenti, senza sentimenti, senza volontà; erano spogliati di ogni personalità. L’immagine della resurrezione è una ri–creazione dell’elemento fisico dell’uomo, in particolare del suo cuore e dei reni, e questo processo è ben descritto nel capitolo trentasettesimo del Libro di Ezechiele, nel quale si trova la celebre visione delle ossa aride. La resurrezione è immaginata come rifarsi sopra queste ossa aride del corpo, della carne e della pelle, ma soprattutto del cuore e dei reni e, all’ultimo momento, lo spirito di vita viene insufflato negli esseri in modo che possano tornare ad essere viventi. Anche in questa prospettiva non bisogna immaginarsi una ri–vivificazione del cadavere che è stato sepolto nella terra, ma come del resto anche nel Libro di Daniele, una nuova creazione di tutti gli elementi che noi diciamo comporre l’essere fisico.
Il pensiero greco, in particolare quello di Platone, si pone in maniera molto differente: per il filosofo l’uomo è composto di un’anima e di un corpo e questi elementi sono a tal punto distinti che Platone immagina che le anime preesistessero prima di venire in un corpo. Per conseguenza, la nascita terrena dell’uomo è concepita come un decadimento dell’anima, la quale si trova ad essere nel corpo quasi come in una prigione; pertanto il fine dell’uomo è liberarsi dai vincoli della corporeità. Nel pensiero platonico l’uomo in realtà non muore, ma la sua anima continua a vivere anche dopo essersi staccata dal corpo; in questa prospettiva non è assolutamente il caso di parlare di resurrezione, perché ritrovare un corpo sarebbe per l’anima ritrovarsi bloccata in qualcosa che impedisce l’espressione delle sue facoltà.
Per quanto estremamente schematico, quanto detto può essere sufficiente per comprendere il pensiero di Paolo. Prendiamo ora in esame la Prima Lettera ai Corinzi al capitolo 15. In questo capitolo, e particolarmente a partire dal versetto 35, Paolo risponde all’obiezione di quanti pensano che non sia possibile la resurrezione e sviluppa la concezione semitica dell’uomo, come del resto ha fatto nella prima Lettera ai Tessalonicesi al capitolo 4. Cominciamo con il leggere il testo tenendo presente che c’è una difficoltà di interpretazione, in quanto Paolo utilizza il termine greco soma: «Qualcuno dirà come resuscitano i morti, quale soma essi avranno?». La difficoltà sta nella traduzione della parola greca soma, normalmente tradotta con il termine «corpo», ma si può dare un equivoco, perché quando sentiamo parlare di corpo in questo contesto pensiamo immediatamente con mentalità greca alla resurrezione del corpo inteso come opposto all’anima. In realtà in greco la parola soma ha un senso più vasto, un valore più ampio; in particolare poteva designare un qualunque essere, sia vivente che morto. È stato scritto molto a questo proposito: per esempio il termine soma può definire gli schiavi. Per rimanere nell’ambito biblico, leggiamo nel Secondo Libro dei Maccabei che Antioco manda un messaggio lungo la costa perché gli siano inviati dei somata, dei corpi giudei, ed evidentemente non si tratta di cadaveri. Nello stesso libro leggiamo che Gionata fece sgozzare 25 mila corpi ed evidentemente non si trattava di sgozzare corpi inanimati, ma uomini viventi. In tutti i testi che leggeremo ora non va bene tradurre il termine soma unicamente con corpo; pertanto, tra i diversi termini, preferisco utilizzare quello di «essere», senza insistere sul senso dell’esistenza, come quando si parla di esseri umani.
Per spiegare cosa intende per resurrezione, Paolo comincia con due esempi che poi spiegherà. Il primo brano si estende nei versetti 36–38 e inizia così: «Stolto! Ciò che tu semini non prende vita se prima non muore; e quello che semini non è un soma che poi verrà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere. È Dio che dà a ciascun chicco un suo proprio soma secondo la sua volontà e a ciascun seme il proprio soma». Nel testo risulta evidente che non può trattarsi di un corpo come opposto all’anima perché si sta parlando di piante, di esseri vegetali. L’idea fondamentale, che poi Paolo svilupperà, è che esiste una differenza essenziale fra il chicco che viene seminato e la pianta che ne sorgerà; sono due realtà differenti. Nel versetto 36 dice chiaramente che quello che si semina non è quel corpo che poi diventerà pianta, bensì qualcosa che deve morire, marcire e poi sarà Dio a far nascere la pianta. Paolo sottolinea che sarà Dio a dare un corpo a ciò che ormai è completamente scomparso nella terra in maniera differente secondo i vari generi di piante. In questo primo esempio viene costituita una netta differenza tra ciò che si semina e ciò che sorgerà.
Nel secondo esempio, dal versetto 40, Paolo insiste sulla differenza fra gli esseri: «Vi sono degli esseri celesti e degli esseri terrestri, altro è lo splendore dei celesti, altro lo splendore dei terrestri; altro è lo splendore del sole, altro è quello della luna e altro quello delle stelle poiché una stella differisce nello splendore da un’altra». Paolo sottolinea che tra gli esseri che ci circondano vi sono delle differenze sostanziali, in particolare quella che distingue gli esseri terrestri da quelli celesti. Dati questi due esempi, Paolo svilupperà ora quello che lui pensa circa la resurrezione dei morti. Inizia il versetto 42: «Così è la resurrezione dei morti». A conferma di quanto detto fino ad ora si noti che Paolo non parla della resurrezione dei corpi, ma di quella dei morti; in questo primo stadio usa soprattutto l’immagine della seminagione e solo in sottofondo, ma la svilupperà in seguito, l’immagine della differenza fra gli esseri. Il testo continua: «Si semina il corpo nella corruzione e risorge incorruttibile» e qui abbiamo un verbo ambiguo, che potrebbe significare tanto «si leva», «si alza» ed è l’immagine della pianta che sorge dal terreno o potrebbe significare specificatamente «risorge». «Si semina nell’ignominia e sorge nella gloria, si semina nella debolezza e sorge nella pienezza di forza, si semina un essere animale e sorge un essere pneumatico o spirituale».
Paolo spiega ora in che modo comprenda l’opposizione fra l’essere psichico e quello spirituale e si appoggia al testo di Genesi 2,7 in cui si narra della creazione dell’uomo da parte di Dio: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere dal suolo e soffiò nelle sue narici un soffio vitale e l’uomo divenne così un essere vivente.» Anche qui c’è una difficoltà di traduzione perché Paolo gioca sul testo greco e utilizza la parola psyche zosa, letteralmente un’anima vivente. Il testo greco riporta la parola psyche e ci fa capire che Paolo oppone all’uomo spirituale, l’uomo psichico. Guardiamo ora come il testo di Genesi venga utilizzato da Paolo, che continua dicendo: «Poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo divenne uno spirito vivificante». Si noti nelle integrazioni fatte da Paolo come venga riecheggiato il testo di Genesi, che è citato alla lettera: «Il primo uomo divenne una psyche vivente»; ma nel seguito del versetto – dove si parla di Adamo che divenne spirito datore di vita – evidentemente si fa allusione a quella parte di versetto di Genesi in cui si dice che Dio soffiò un alito di vita nell’uomo. Utilizzando questo vocabolario, Paolo continua nel versetto 46: «Non vi fu prima lo spirituale, ma l’animale e poi lo spirituale». A questo punto Paolo instaura un doppio paragone fra ciò che è fatto di terra e ciò che è del cielo e poi descrive la nostra condizione prima e dopo la parusia del Cristo. Per continuare l’immagine di Genesi, Paolo riprende il tema dell’uomo fatto dal fango e dalla polvere; parlando invece dell’ultimo uomo, dell’ultimo Adamo, egli parla di un individuo che viene dal cielo. I termini della comparazione continuano e Paolo dice: «Qual è l’uomo fatto di terriccio così sono fatti quelli terrosi, ma qual è l’uomo celeste, così anche i celesti e come abbiamo portato l’immagine di quello fatto di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste». La prospettiva è evidentemente escatologica: Paolo parla del ritorno di Cristo, della sua parusia e dopo questa ci sarà un cambiamento di natura negli uomini. Fino al ritorno di Cristo gli uomini saranno fatti solo di terra, mentre dopo saranno fatti ad immagine dell’uomo celeste, di cielo. Si riprende l’immagine del seme che scompare completamente nella terra per dire che l’uomo di terra scompare nella terra e dopo il ritorno di Cristo ci sarà un uomo completamente celeste. A questo punto Paolo si interessa del problema non solo di quanti sono già morti, ma di tutti gli uomini, poiché dobbiamo ricordarci che Paolo è convinto che vi sarà il ritorno di Cristo in un momento prossimo, probabilmente la notte di Pasqua, secondo la tradizione. Continua: «Ecco, vi annunzio un mistero, non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultimo squillo di tromba, i morti sorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati». Così dicendo Paolo parla dei cristiani ed è convinto che saranno trasformati tutti coloro che saranno in vita al momento del ritorno di Cristo. Non si interessa qui della sorte dei pagani, sta parlando con un «noi» a dei cristiani. Gli scrittori dei secoli seguenti, quando ovviamente non si aspettava più un ritorno imminente di Gesù Cristo ed era già passato molto tempo dalla stesura della Prima Lettera ai Corinzi, trovandosi di fronte a questo versetto si sentivano in imbarazzo e pertanto hanno spostato la negazione e abbiamo in alcuni codici la frase: «Tutti, certo, moriremo, ma non tutti saremo trasformati». Lo spostamento della negazione era dovuta la fatto che la morte era considerata un evento comune a tutti gli uomini, ma l’essere trasformati a immagine dell’uomo celeste è comune solo ai credenti. Paolo conclude in maniera trionfale dal versetto 53 in poi: «È necessario infatti che questo qualche cosa di corruttibile si rivesta di incorruttibilità e questo qualcosa di mortale si rivesta di immortalità. Quando poi questo qualche cosa che è corruttibile si sarà vestito di incorruttibilità e questo qualcosa che è mortale di immortalità, si compierà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria, dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Per riassumere, Paolo si tiene ancora all’interno della mentalità semitica e pertanto afferma che, quando il corpo sarà morto, sarà posto nella terra e si dissolverà come il seme che viene seminato e che, in un tempo relativamente prossimo, Dio darà ai credenti un nuovo essere, non più come il precedente fatto di terra, bensì celeste, come è del resto il corpo di Cristo il quale è già celeste.

 

Passiamo ora alla Seconda Lettera ai Corinzi, in cui noteremo che la prospettiva di Paolo, pur rimanendo in parte simile a quella che abbiamo esaminato nella Prima Lettera, subisce una notevole trasformazione. Leggiamo innanzitutto nel terzo capitolo i versetti 17 e 18; il testo è abbastanza difficile, ma senza scendere in dettagli che peraltro non hanno grande importanza, darò la traduzione ammessa da molti commentatori. Il contesto ci propone l’episodio narrato nel capitolo 34 dell’Esodo laddove si dice che quando Mosé saliva sul monte a parlare con Dio, il suo volto diventava talmente splendente che alla sua discesa dal monte doveva velarlo con un panno perché lo splendore della gloria di Dio riflesso sul volto del patriarca non risultasse dannoso e accecante per quanti lo vedevano. Togliamo la seconda parte del versetto 17 che, a detta di molti, è una glossa: «Dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà». Prestiamo ora attenzione invece alla prima parte del versetto 17 e al versetto 18: «Ora il Signore è lo Spirito e noi tutti a viso scoperto, riflettendo come degli specchi la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella stessa immagine di gloria in gloria come dal Signore che è lo Spirito.» In questo testo troviamo alcuni dei termini utilizzati nella Prima Corinzi ma, come vedremo, ci sono cambiamenti altamente significativi. Innanzitutto l’affermazione che il Signore Cristo è lo Spirito va letta alla luce del versetto 6 che la precede di poco, in cui si parla dello Spirito che vivifica. Sotto l’azione dello Spirito che dà vita, noi tutti siamo trasformati di gloria in gloria, come a dire che noi riflettiamo come degli specchi la gloria del Signore. Si ritrova lo stesso tema della Prima Corinzi in cui si affermava che: «Quando il Signore verrà noi saremo trasformati ad immagine della gloria» che si può intendere sia come gloria che come splendore del Cristo. La differenza essenziale è che nella Prima Corinzi questa trasformazione ad opera del Signore che è Spirito vivificante si compirà in un futuro, mentre nella Seconda Corinzi questa trasformazione è nel presente ad opera soprattutto del battesimo, per mezzo di cui, come Paolo afferma altrove, noi ci rivestiamo del Signore che è Spirito; pertanto già ora siamo rivestiti di questa gloria in attesa di una trasformazione definitiva. Si introduce qui un tema come conseguenza necessaria: se noi adesso siamo trasformati in gloria per opera dello Spirito che dà vita, noi non possiamo morire, perché già il battesimo ci ha dato lo Spirito vivificante. Quindi una parte di noi, al di là della morte, deve rimanere viva e si sente che Paolo sta abbandonando l’immagine semitica dell’unità dell’essere umano per adottare i termini greci che portano nella direzione dell’immortalità di un qualche cosa dell’uomo che non può morire. Questo si rende estremamente chiaro nel capitolo 5. Vediamo innanzitutto i versetti da 6 a 8; notiamo che in questo testo Paolo adotta volontariamente la terminologia filosofica greca, non semplicemente il linguaggio greco, ma specificamente i termini filosofici. I versetti così recitano: «Dunque siamo pieni di fiducia ben sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo come in esilio lontani dal Signore, infatti camminiamo nella fede e non ancora nella visione, siamo pieni di fiducia e riteniamo meglio andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore».
Abbiamo qui un linguaggio che si trova in Platone e nei suoi discepoli, in particolare in Filone d’Alessandria. Il fondamento della nostra sicurezza davanti alla morte, seguendo il Fedone, è la convinzione che l’anima è immateriale e quindi incorruttibile. Dice Platone nel Fedone: «Colui che ha tutto ciò dalla filosofia, avrà piena fiducia di fronte alla morte». Il tema è ripreso da Filone nel De agricoltura: «In verità ogni anima di saggio ha ricevuto il cielo come patria e la terra come esilio. Essa stima sua la dimora della saggezza e straniera quella del corpo nella quale ella crede di vivere come una straniera». Nel testo di Paolo è ora necessario prendere la parola corpo non nel senso di essere, ma nel senso filosofico di corpo opposto all’anima. È evidente è che qui non si trova più traccia della mentalità semitica secondo la quale l’essere, quando muore, scompare totalmente nello Sheol e non ha una sua vita personale. La resurrezione è ora il passaggio mediante la morte ad una vita presso Dio, evidentemente con tutta la personalità e con tutta la propria ricchezza umana. Pertanto nella Seconda Corinzi, Paolo ha abbandonato la prospettiva semitica e ha accolto una mentalità di tipo platonico.

A questo punto si innesta un problema: il corpo cosa diventa? Paolo opera una specie di sintesi fra le nuove idee di tipo platonico e il pensiero semitico, nel senso che quest’anima che ha abbandonato il corpo mortale non rimane un’anima nuda ma ben presto avrà modo di rivestire un altro corpo. Paolo dice questo all’inizio del quinto capitolo, versetto 1: «Sappiamo infatti che quando questa nostra dimora fatta di terra, la tenda del nostro corpo, si sarà disfatta, riceveremo un’abitazione da Dio eterna, nei cieli, non costruita da mani d’uomo». Troviamo anche qui l’opposizione tra quello che è fatto di terra, come abbiamo nella Prima Lettera ai Corinzi, e ciò che è celeste. Per quanto Paolo non parli esplicitamente di un corpo celeste, tuttavia dobbiamo ammettere un’opposizione fra il corpo terreno o terroso, che è la nostra abitazione sulla terra, e la nuova dimora celeste che noi riceveremo. È evidente che non è certo quel corpo, fatto di terra e destinato a sparire, che viene ri–vivificato nella resurrezione, ma è una nuova realtà celeste quella che noi riceveremo dopo la morte. Per affermare l’idea che subito dopo la morte l’uomo ottiene una nuova dimora, Paolo non crea assolutamente i suoi concetti, ma li prende da alcuni scritti del giudaismo tardivo. In realtà nella prospettiva della Seconda Corinzi non si può più utilizzare il termine resurrezione; Paolo lo utilizza ancora in senso spiritualizzante, come abbiamo letto nel capitolo 3, dove si dice che siamo rivestiti di Cristo che è Spirito datore di vita. In questo senso si può parlare di resurrezione, ma in una prospettiva maggiormente spiritualizzata e lo si vede chiaramente, anche se in maniera non ancora precisissima, nella Lettera ai Colossesi, dove Paolo dice: «Noi siamo risorti in Cristo». L’espressione semitica di «resurrezione» in questo contesto non tiene più nel senso materiale che le dava la tradizione, perché evidentemente il corpo si dissolve e non è certo quello che riprende vita. Questo si evidenzia anche col fatto che Paolo nella Seconda Corinzi, mentre continua a parlare di resurrezione a proposito di Cristo, non ne parla più a proposito dei credenti. Vorrei che venga fatta estrema attenzione alle parole: non si tratta di negare la vittoria sulla morte, ma di ribadire che, da un certo punto della sua produzione in poi, Paolo non pensa più alla resurrezione nel senso stretto del cadavere che riprende vita, ossia nel concetto materiale semitico.
Leggiamo un altro brano ancora dalla Seconda Lettera ai Corinzi in cui Paolo esprime benissimo e con grande vivacità anche il suo spessore umano, i versetti 2 – 4 del capitolo quinto: «Perciò noi sospiriamo per questo fatto, che desideriamo rivestirci di quel nostro corpo fatto di cielo, se pur saremo trovati già vestiti del nostro corpo e non già spogliati alla venuta di Cristo. In realtà in questa tenda noi sospiriamo sotto un peso non volendo essere spogliati, ma sopra–vestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita». Non dimentichiamo che anche quando scrive la Seconda Corinzi, Paolo attende come prossima la venuta di Cristo, ma come tutti gli uomini egli, per quanto speri di essere trasformato ad immagine di Cristo, teme di essere morto a quel momento perché la morte è comunque uno strappo, un qualcosa che dilania l’uomo e pertanto egli ne ha paura. Nel versetto 3 Paolo si augura di essere trovato al momento dell’avvenimento escatologico, al ritorno di Cristo, ancora vestito e non nudo perché nei termini filosofici che ha finora impiegato, significa precisamente ancora vivente e non spogliato del corpo. Questo per poter evitare il passaggio doloroso della sua morte personale e per potersi vestire del Cristo al di sopra di quel vestito che è già il suo corpo. In altri termini spera, molto umanamente, di non dover passare attraverso quello strappo che è la morte, ma di accogliere il Cristo ancora durante la sua vita. Pertanto quando qualcuno rimprovera i cristiani perché, pur avendo fede nella vittoria di Cristo sulla morte, si trovano ad averne paura, siamo autorizzati a dire che anche Paolo, che pure aveva una decente certezza di incontrare il Cristo al di là della morte, la temeva e sperava di non doverla sperimentare.

[1] Marie Emile Boismard, domenicano, professore di esegesi del Nuovo Testamento all’Ecole Biblique di Gerusalemme (1948–1950), poi all’Università di Friburgo (1950–1953) e di nuovo all’Ecole Biblique di Gerusalemme. Il testo della conversazione non è rivisto dall’Autore.

Publié dans:Paolo: studi, TEOLOGIA |on 4 août, 2015 |Pas de commentaires »

COSA SIGNIFICA CHE DOBBIAMO VANTARCI DELLE NOSTRE DEBOLEZZE?

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COSA SIGNIFICA CHE DOBBIAMO VANTARCI DELLE NOSTRE DEBOLEZZE?

Un lettore ci chiede cosa voglia dire San Paolo con l’espressione «vantarsi delle sue debolezze». Risponde don Stefano Tarocchi, Preside della Facoltà teologica dell’Italia centrale

Percorsi: SPIRITUALITÀ E TEOLOGIA
02/05/2013

Nella seconda lettera ai Corinzi San Paolo dice di vantarsi delle sue debolezze, in quanto necessarie per avere la grazia di Dio. Questo vale anche per i peccati? Non dobbiamo dolerci più di tanto di certi peccati, se questi aprono alla grazia di Dio? Certo la grazia si ha se siamo peccatori, infatti Gesù è venuto per i malati e non per i sani!
Gino Galastri

Il tema della debolezza è ampiamente presente nelle lettere dello stesso apostolo (e non solo!), e merita quindi un approfondimento, non fosse altro che per capire il significato esatto delle sue parole, così da non aprire a interpretazioni non necessarie.
Già nella stessa corrispondenza con la chiesa di Corinto, troviamo che l’apostolo accosta stoltezza e debolezza di Dio, per dire che esse sono rispettivamente più sagge e più forti degli uomini (1 Corinzi 1,25). Ma, aggiunge Paolo, «quello che è stolto per il mondo, Dio l’ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio l’ha scelto per confondere i forti (1 Corinzi 1,27). Più avanti l’apostolo precisa ai Corinzi che egli stesso si è presentato a loro «nella debolezza e con molto timore e trepidazione» (1 Corinzi 2,3).
Anche solo da questo primo sguardo, appare evidente che la debolezza ha a che fare con la condizione umana, con le sue contraddizioni, come quella che provano quanti, deboli nella coscienza, sono turbati dall’aver mangiato carni originariamente destinate al culto degli idoli (1 Corinzi 8,7). Nella complessa questione cui qui è possibile solo accennare, Paolo mette in guardia quanti si sono liberati da questo condizionamento: infatti «non esiste al mondo alcun idolo» (1 Corinzi 8,4), scrive, e se anche «alcuni hanno molti dèi e molti signori», «per noi c’è un solo Dio, il Padre … e un solo Signore, Gesù Cristo» (1 Corinzi 8,6). E tuttavia, egli conclude, se c’è il pericolo che la coscienza di un debole vada in rovina, «un fratello per il quale Cristo è morto», «non mangerò mai più [questo tipo di]carne, per non dare scandalo al mio fratello» (1 Corinzi 8,11.13). La debolezza si presenta anche per descrivere la lontananza da Dio dell’umanità non redenta: «quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi» (Romani 5,6). Per questo «anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in maniera conveniente, ma lo stesso Spirito intercede con gemiti inesprimibili (Romani 8,26).
Sono quelli che Paolo, a Roma ma anche a Corinto, con una felice espressione chiama «deboli nella fede» (Romani 14,1). Sul campo opposto si trova Abramo, l’uomo che non «fu debole nella fede», e per questo «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Romani 4,18-19).
La debolezza della condizione umana, oltre che la coscienza e lo spirito, colpisce il corpo dell’uomo con la malattia, come quella che assale i Corinzi di fronte alla loro incapacità di riconoscere il Corpo del Signore nelle loro assemblee eucaristiche: «è per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi (lett. « deboli »)» (1 Corinzi 11,30), ma anche il suo inviato Epafrodito (Filippesi 2,26), o lo stesso Timoteo che Paolo invita a bere un po’ di vino a causa delle sue frequenti debolezze (1 Timoteo 5,23).
Del resto Paolo, con un colpo d’ala straordinario, sostiene la totale comunione del suo ministero di apostolo verso coloro che gli sono stati affidati, aggiunge: «mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Corinzi 9,22). È lo stesso apostolo che alcuni a Corinto accusavano di essere debole quando presente fisicamente e, al tempo stesso, quasi prepotente mentre scrive da lontano (2 Corinzi 10,1). Qualcuno diceva infatti: «le lettere sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa» (2 Corinzi 10,10). È in questo modo che Paolo difende la sua persona di fronte alle accuse ricevute nel suo svolgere il ministero a Corinto: «dal momento che molti si vantano, mi vanterò anch’io» (2 Corinzi 11,18). Quindi conclude: «chi è debole che anch’io non lo sia… se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza» (2 Corinzi 11,29-30).
E qui siamo arrivati al principale testo a cui il lettore si riferisce. Dopo aver parlato della «spina ricevuta nella sua carne», che Paolo ha chiesto gli venisse allontanata, scrive che il Signore «mi rispose: « Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza ». Mi vanterò quindi volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo; quando sono debole è allora che sono forte» (2 Corinzi 12,9-10).
Nel paradosso per cui la forza divina, la sua potenza di salvezza, si «manifesta pienamente nella debolezza», c’è la chiave per una corretta interpretazione del linguaggio dell’apostolo. Del resto, a proposito di Gesù, egli scrive che «fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio» (2 Corinzi 13,4). Proprio in quanto crocifisso, Cristo «è potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Corinzi 1,24). Quindi, senza nulla togliere al detto evangelico dell’attenzione di Gesù verso i malati e i peccatori (così Matteo 9,12 e Luca 5,31, ma anche 1 Timoteo 1,15: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori»), l’accento va posto con maggiore convinzione sul tema della croce, che rovescia totalmente tutti i nostri termini abituali di riferimento: «quello che è debole per il mondo, Dio l’ha scelto per confondere i forti (1 Corinzi 1,27).

The sermon on mount

The sermon on mount dans immagini sacre 2138

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Publié dans:immagini sacre |on 3 août, 2015 |Pas de commentaires »

DON BOSCO E L’AMOREVOLEZZA – PAOLO – EROS ED AGAPE

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Attualita2/06-07/006-D_Bosco_amorevolezza.html

DON BOSCO E L’AMOREVOLEZZA – PAOLO – EROS ED AGAPE

L’idea di amorevolezza ha vari significati, talvolta, così sottili che tutto ciò che si può pronunciare al riguardo viene facilmente etichettato come qualcosa di opinabile e soggettivo. All’interno del mondo salesiano quando si utilizza questa parola, essa è solitamente relazionata ad altri due: religione e ragione. Tanto che l’amorevolezza nel Sistema Preventivo è diventata ormai elemento imprescindibile per chiunque voglia comprendere, imitare o anche semplicemente rileggere cosa Don Bosco intendesse per educazione.
Ma perché cercare in Don Bosco la radice della sua amorevolezza? Di certo, siamo tutti consapevoli che non esiste evidenza più chiara della sua capacità di farsi tutto a tutti e, per dirla con le parole del Rettor Maggiore, di dare di più a chi ha ricevuto di meno. Il Papa, Benedetto XVI, nel suo Messaggio per la Quaresima di quest’anno, sottolinea con la sua eleganza didattica (rifacendosi esplicitamente all’Enciclica Deus caritas est) l’importanza di ritornare all’origine del termine “amore”.
Se si rilegge il Sistema Preventivo e si cerca in esso qualche riferimento alla Bibbia, si rischia di restare un po’ delusi, poiché esiste un solo riferimento biblico: “La pratica di questo sistema è tutta appoggiata sopra le parole di San Paolo che dice: Charitas benigna est, patiens est; omnia suffert, omnia sperat, omnia sustinet. La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo. Perciò soltanto il cristiano può con successo applicare il sistema Preventivo. Ragione e Religione sono gli strumenti di cui deve costantemente far uso l’educatore, insegnarli, egli stesso praticarli se vuol essere ubbidito ed ottenere il suo fine”. Don Bosco è chiaro: solo il cristiano può applicare questo sistema. Ma perché solo lui? A questa domanda dobbiamo trovare una risposta.
La carità amabile è il tratto più caratteristico dell’insegnamento e della vita di Don Bosco. La carità è da intendersi come dedizione agli altri senza limiti e avversioni, come agape. Il modello e il paradigma di questa carità lo troviamo, come dice Don Bosco stesso, in San Paolo, con il celebre Inno all’amore, di cui prima abbiamo citato una parte.

I riferimenti all’antichità classica
Il famoso brano di San Paolo inserito nella lettera ai Corinti ha un richiamo ad uno scritto di uno dei più grandi pensatori dell’antichità, Platone, che in un suo testo, Protagora, descrive l’intellettuale dalle vuote parole, il sofista, come colui che è privo di consistenza, come un nulla che risuona.1 Ma Paolo non utilizza solo questo riferimento ai grandi del mondo greco. Nella sua lettera si appella anche alla tradizione greca dei topoi. Le negazioni per mezzo delle quali viene definita l’agape, che cioè non cerca il suo interesse, non si adira e non si rallegra dell’ingiustizia, appaiono quasi un richiamo a ciò che nel Simposio è detto di Eros, chiamato scaltro investigatore, spericolato e instancabile nell’escogitare le sue trame.2 Così ai Corinti, che debbono comprendere l’agape cristiana, viene spiegato il contrario dell’eros greco; d’altra parte nell’eros è anticipato ciò che si compie nell’agape.

Le differenze fra eros e agape
Non possiamo però non cogliere delle differenze fondamentali tra i due. L’eros è un amore sostanzialmente egocentrico, è desiderio. L’uomo predomina in esso sia come punto di partenza, sia come punto di arrivo. La via dell’eros è contraddistinta dal fatto che è l’uomo ad ascendere al divino, la sua anima vive la nostalgia per il mondo superiore, dove platonicamente è la sua patria. Nell’eros l’anima intraprende il suo viaggio in una contemplazione e in un’estasi da far perdere i sensi. In questa ascesa dell’eros si esprime un atteggiamento dell’anima affine a quello dell’assalto titanico al cielo, mantenendo il suo carattere egocentrico perfino nella sua forma più sublime. L’agape ha invece un carattere totalmente diverso. Non ha nulla a che vedere con l’aspirazione e il desiderio, come dice Paolo: «non cerca mai il proprio interesse», non sale come l’eros verso l’alto per assicurarsi un vantaggio, ma è invece sacrificio e dono di sé. Nell’eros non è l’umano che si eleva al divino, ma il divino che nel suo amore misericordioso si abbassa all’umano.
All’interno del Simposio Platone fa poi pronunciare ad Agatone un elogio di Eros, dicendo che esso è come un dio mansueto, benevolo, colui che erige la comunità degli uomini;3 San Paolo utilizzerà questi elementi, ma non per parlare dell’eros, bensì dell’agape.
Paolo si allontana poi totalmente da Platone quando il filosofo greco parla della funzione del “demone” (una specie di spirito che lega l’assoluto e il relativo) e che si trova nel concetto di amore riportato dal testo del Simposio. Qui l’agape viene presentato come un fine a cui l’uomo può tendere con le sue sole forze.
Paolo però vede le cose in modo diverso. L’agape non è qualcosa che l’uomo può ottenere con la sua volontà o la sua intelligenza: l’agape è anzitutto un dono della perfezione che ci viene da Dio e che possiamo ottenere già in questo mondo, ma possiamo anche non averla affatto.
In questo modo San Paolo elimina tutti quei tentativi che la cultura del suo tempo aveva fatto per sanare la frattura fra l’assoluto a cui l’uomo aspira e il relativo in cui si trova immerso. Soltanto l’agape è il vero legame fra il divino e l’umano e questo legame viene donato all’uomo gratuitamente da Dio. Nell’agape troviamo così il segno distintivo della solidarietà, e ancor di più in essa troviamo il senso di unità del concetto di amore.

La spiegazione di Agostino
Tornando alla distinzione tra agape e eros, tra la prospettiva cristiana dell’amore e la prospettiva platonica, si può dire che Agostino fu tra i primi a cercare di unificare i due principi. L’argomento di Agostino è la dottrina della caritas. Il pensatore cristiano vede però la caritas come elemento intermedio fra l’agape e l’eros. La caritas è la sintesi dei due; sintesi possibile perché l’eros è già in sé slancio verso Dio: è la superbia che gli impedisce di giungere al suo fine; allora è lì che interviene l’agape con la sua umiltà. Ogni amore è appetitus, desiderio della felicità.
E come tale può essere considerato un elemento proprio della vita umana in generale:«nemo est qui non amet».4 Ora se l’amore è desiderio e il desiderio è specificato dall’oggetto desiderato, potremo definire la caritas come l’amore che desidera le cose elevate, mentre la cupiditas l’amore che tende alle cose inferiori. Scegliere una o l’altra forma di amore, significherà decidere di tutta la nostra vita, dato che l’amante si trasforma in qualche modo nella cosa amata. E qui che la caritas diventa elemento distintivo di ogni educatore cristiano. Don Bosco quando pensava all’educatore non poteva che pensarlo in questi termini.
Infine chiederci se la caritas è identica alla felicità è una domanda lecita, anzi doverosa per una chiarificazione ulteriore della nozione di carità. Sant’Agostino affrontò questo problema utilizzando l’espressione «dilige et quod vis fac».5 Bisogna cogliere il significato pieno del verbo “dilige”, che trova nel generico “ama” la traduzione italiana. Il comandamento non è solamente “ama e fa ciò che vuoi”, ma “dilige” cioè: abbi l’amore vero, autentico, redento. La “dilectio” non si lascia ridurre alla ricerca della felicità, essa è ammirazione, riconoscenza, santo rispetto, gioia, allegria, e poi anche voler bene e voler fare del bene a tutti secondo le proprie opportunità. La virtù della carità non dimentica la felicità, ma la felicità non è l’unico criterio.
Solitamente una dimostrazione termina con una enumerazione di esperienze e luoghi, ma si può ben intuire che trovare citazioni dove Don Bosco visse la carità è come scriverne l’ennesima biografia.

Vittorio Castagna

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