Archive pour août, 2015

Santa Chiara (citazione da Efesini 2, 20-22)

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A PROPOSITO DI FRANCESCO E CHIARA … (di P. Raniero Cantalamessa)

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A PROPOSITO DI FRANCESCO E CHIARA …

30. agosto 2014 ·

Insieme guardavano nella stessa direzione: verso Cristo.

di P. Raniero Cantalamessa

È divenuto un luogo comune parlare dell’amicizia tra Chiara e Francesco in termini di amore umano. Nel suo noto saggio su Innamoramento e amore Francesco Alberoni scrive che “il rapporto fra santa Chiara e san Francesco ha tutti i caratteri di un innamoramento trasferito (o sublimato) nella divinità”.
Come ogni uomo, anche se santo, Francesco può aver sperimentato il richiamo della donna e del sesso.
Le fonti riferiscono che per vincere una tentazione del genere una volta il santo si rotolò d’inverno nella neve. Ma non si trattava di Chiara!
Quando tra un uomo e una donna sono uniti in Dio, questo vincolo, se è autentico, esclude ogni attrazione di tipo erotico, senza neppure che ci sia lotta. È come messo al riparo. È un altro tipo di rapporto. Tra Chiara e Francesco c’era certamente un fortissimo legame anche umano, ma di tipo paterno e filiale, non sponsale.
Francesco chiamava Chiara la sua “pianticella” e Chiara chiamava Francesco “il nostro Padre”. L’intesa profonda tra Francesco e Chiara che caratterizza l’epopea francescana non viene “dalla carne e dal sangue”.
Non è, per fare un esempio altrettanto celebre, come quella tra Eloisa ed Abelardo, tra Dante e Beatrice. Se così fosse stato, avrebbe lasciato forse una traccia nella letteratura, ma non nella storia della santità.
Con una nota espressione di Goethe, potremmo chiamare quella di Francesco e Chiara una “affinità elettiva”, a patto di intendere “elettiva” non solo nel senso di persone che si sono scelte a vicenda, ma nel senso di persone che hanno fatto la stessa scelta. Antoine de Saint-Exupéry ha scritto che “amarsi non vuol dire guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione”.
Chiara e Francesco non hanno davvero passato la vita a guardarsi l’un l’altro, a stare bene insieme. Si sono scambiati tra loro pochissime parole, quasi solo quelle riferite nelle fonti.
C’era una stupenda riservatezza tra loro, tanto che il santo veniva a volte rimproverato amabilmente dai suoi frati di essere troppo duro con Chiara. Solo alla fine della vita, vediamo questo rigore nei rapporti attenuarsi e Francesco cercare sempre più spesso conforto e conferma presso la sua “Pianticella”. È a San Damiano che si rifugia prossimo alla morte, divorato da malattie, ed è vicino a lei che intona il cantico di Frate Sole e di sorella Luna, con quell’elogio di “Sora Acqua”, “utile et humile et pretiosa et casta”, che sembra scritto pensando a Chiara.
Invece di guardarsi l’un l’altro, Chiara e Francesco hanno guardato nella stessa direzione. E si sa qual è stata per loro questa “direzione”.
Chiara e Francesco erano come i due occhi che guardano sempre nella stessa direzione. Due occhi non sono solo due occhi, cioè un occhio ripetuto due volte; nessuno dei due è solo un occhio di riserva o di ricambio. Due occhi che fissano l’oggetto da angolature diverse danno profondità, rilievo all’oggetto, permettono di “avvolgerlo” con lo sguardo. Così è stato per Chiara e Francesco.
Essi hanno guardato lo stesso Dio, lo stesso Signore Gesù, lo stesso Crocifisso, la stessa Eucaristia, ma da “angolature”, con doni e sensibilità propri: quelli maschili e quelli femminili.
Insieme hanno colto di più di quanto avrebbero potuto fare due Francesco o due Chiara. In passato si tendeva a presentare la personalità di Chiara troppo subordinata a quella di Francesco, appunto come “sorella Luna” che vive di riflesso della luce di “fratello Sole”.
L’ultimo esempio in questo senso è il libro uscito di recente su “l’amicizia tra Francesco e Chiara” (John M. Sweeney, Light in the Dark Age: the Friendship of Francis and Clare of Assisi, Paraclete Press 2007).
In una fiction televisiva di alcuni anni fa (“Francesco e Chiara”, di Fabrizio Costa) è da lodare la scelta di presentare Francesco e Chiara come due vite parallele, che si intrecciano e si svolgono in sincronia, con uguale spazio dato all’uno e all’altra. È la prima volta che avviene, in questa forma.
Ciò risponde alla sensibilità attuale tesa a mettere in luce l’importanza della presenza femminile nella storia, ma nel caso nostro corrisponde alla realtà e non è una forzatura.
La scena iniziale della fiction è quella che mi ha colpito di più, quasi fosse una chiave di lettura di tutta la storia.
Francesco cammina su un prato, Chiara lo segue mettendo i suoi piedi, quasi per gioco, sulle orme lasciate da Francesco e alla domanda di lui: “Stai seguendo le mie orme?”, risponde luminosa: “No, altre molto più profonde”.

SANTA CHIARA SCRITTI – TESTAMENTO (11 agosto memoria)

http://www.santimartiri.org/italiano/basilica/frati/chiara_scritti1.html

SANTA CHIARA SCRITTI – TESTAMENTO

1Nel nome del Signore. Amen.
2Tra gli altri benefici, che abbiamo ricevuto ed ogni giorno riceviamo dal nostro Donatore, il Padre delle misericordie, per i quali siamo molto tenute a rendere a Lui glorioso vive azioni di grazie, 3grande è quello della nostra vocazione. E quanto più essa è grande e perfetta, tanto maggiormente siamo a lui obbligate. 4Perciò l’Apostolo ammonisce: «Conosci bene la tua vocazione».
5Il Figlio di Dio si è fatto nostra via; e questa con la parola e con l’esempio ci indicò e insegnò il beato padre nostro Francesco, vero amante e imitatore di lui.
6Dobbiamo, perciò, sorelle carissime, meditare gli immensi benefici di cui Dio ci ha colmate, 7specialmente quelli che Egli si è degnato di operare tra noi per mezzo del suo diletto servo, il beato padre nostro Francesco, 8e non solo dopo la nostra conversione, ma fin da quando eravamo ancora tra le vanità del secolo.
9Mentre infatti, lo stesso Santo, che non aveva ancora né frati né compagni, quasi subito dopo la sua conversione, 10era intento a riparare la chiesa di San Damiano, dove, ricevendo quella visita del Signore nella quale fu inebriato di celeste consolazione, 11sentì la spinta decisiva ad abbandonare del tutto il mondo, in un trasporto di grande letizia e illuminato dallo Spirito Santo, profetò a nostro riguardo ciò che in seguito il Signore ha realizzato.
12Salito sopra il muro di detta chiesa, così infatti allora gridava, a voce spiegata e in lingua francese, rivolto ad alcuni poverelli che stavano lì appresso: 13«Venite ed aiutatemi in quest’opera del monastero di San Damiano, 14perché tra poco verranno ad abitarlo delle donne, e per la fama e santità della loro vita si renderà gloria al Padre nostro celeste in tutta la sua santa Chiesa».
15Possiamo, dunque, ammirare in questo fatto la grande bontà di Dio verso di noi: 16Egli si è degnato, nella sovrabbondante sua misericordia e carità, di ispirare tali parole al suo Santo a proposito della nostra vocazione ed elezione. 17Non solo di noi, però, il beatissimo nostro padre predisse queste cose, ma anche di tutte le altre che avrebbero seguito questa santa vocazione, alla quale il Signore ci ha chiamate.
18Con quanta sollecita disponibilità e con quanta applicazione di spirito e di corpo dobbiamo perciò eseguire i comandamenti di Dio e del padre nostro Francesco, perché, con l’aiuto divino, possiamo riconsegnare a lui, moltiplicati, i talenti ricevuti!
19Infatti, proprio il Signore ha collocato noi come modello, ad esempio e specchio non solo per gli altri uomini, ma anche per le nostre sorelle, quelle che il Signore stesso ha chiamato a seguire la nostra vocazione, 20affinché esse pure risplendano come specchio ed esempio per tutti coloro che vivono nel mondo.
21Avendoci, dunque, Egli scelte per un compito tanto elevato, quale è questo, che in noi si possano specchiare tutte coloro che chiama ad essere esempio e specchio degli altri, 22siamo estremamente tenute a benedire e a lodare il Signore, ed a crescere ogni giorno più nel bene. 23Perciò, se vivremo secondo la predetta forma di vita, lasceremo alle altre un nobile esempio e, attraverso una fatica di brevissima durata, ci guadagneremo il pallio della beatitudine eterna.
24Dopo che l’altissimo Padre celeste si fu degnato, per sua misericordia e grazia, di illuminare il mio cuore perché incominciassi a fare penitenza, dietro l’esempio e l’ammaestramento del beatissimo padre nostro Francesco, 25poco tempo dopo la sua conversione, io, assieme alle poche sorelle che il Signore mi aveva donate poco tempo dopo la mia conversione, liberamente gli promisi obbedienza, 26conforme alla ispirazione che il Signore ci aveva comunicata attraverso la lodevole vita e l’insegnamento di lui.
27Il beato Francesco poi, costatando che, nonostante la debolezza e fragilità del nostro corpo, non avevamo indietreggiato davanti a nessuna penuria, povertà, fatica e tribolazione, né ignominia o disprezzo del mondo, 28che, anzi, sull’esempio dei santi e dei suoi frati, tutto ciò stimavamo sommo diletto – cosa questa che lui stesso ed i suoi frati avevano potuto verificare più volte –, molto se ne rallegrò nel Signore.
29Perciò, mosso da un sentimento di paterno affetto verso di noi, obbligò se stesso e la sua Religione ad avere sempre diligente cura e speciale sollecitudine di noi, allo stesso modo che per i suoi frati.
30E così, per volontà del Signore e del beatissimo padre nostro Francesco, venimmo ad abitare accanto alla chiesa di San Damiano. 31Qui, in breve tempo il Signore, per sua misericordia e grazia, ci moltiplicò assai, perché si adempisse quanto egli stesso aveva preannunciato per bocca del suo Santo. 32Prima, infatti, avevamo dimorato, ma solo per poco tempo, in altro luogo.
33In seguito egli scrisse per noi una forma di vita, e principalmente che perseverassimo nella santa povertà. 34Né si accontentò, durante la sua vita terrena, di stimolarci con molte esortazioni e col suo esempio all’amore e alla osservanza della santissima povertà, ma anche ci lasciò molti ammaestramenti scritti, affinché, dopo la sua morte, non ci allontanassimo in nessun modo da essa; 35poiché anche il Figlio di Dio, mentre viveva sulla terra, mai volle allontanarsi da questa santa povertà. 36Ed il beatissimo padre nostro Francesco, seguendo le sue orme, scelse per sé e per i suoi frati questa santa povertà del Figlio di Dio, né mai, finché visse, se ne allontanò in nessuna maniera, né con la parola né con la vita.
37Ed io, Chiara, che sono, benché indegna, la serva di Cristo e delle Sorelle Povere del monastero di San Damiano e pianticella del padre santo, poiché meditavo, assieme alle mie sorelle, la nostra altissima professione e la volontà di un tale padre, 38ed anche la fragilità delle altre che sarebbero venute dopo di noi, temendone già per noi stesse dopo la morte del santo padre nostro Francesco – che ci era colonna e nostra unica consolazione dopo Dio e sostegno –, 39perciò più e più volte liberamente ci siamo obbligate alla signora nostra, la santissima povertà, perché, dopo la mia morte, le sorelle che sono con noi e quelle che verranno in seguito abbiano la forza di non allontanarsi mai da essa in nessuna maniera.
40E come io sono stata sempre diligente e sollecita nell’osservare io medesima, e nel fare osservare la santa povertà, che abbiamo promessa al Signore e al santo padre nostro Francesco, 41così le sorelle che succederanno a me in questo ufficio, siano obbligate ad osservarla e a farla osservare dalle altre fino alla fine.
42Ma ancora, per maggior sicurezza, mi preoccupai di ricorrere al signor papa Innocenzo, durante il pontificato del quale ebbe inizio il nostro Ordine, ed ai successori di lui, perché confermassero e corroborassero con i loro papali privilegi, la nostra professione della santissima povertà, che promettemmo al nostro beato padre, 43affinché mai, in nessun tempo ci allontanassimo da essa.
44Per la quale cosa, piegando le ginocchia e inchinandomi profondamente, anima e corpo, affido in custodia alla santa madre Chiesa romana, al sommo Pontefice, e specialmente al signor cardinale che sarà deputato per la Religione dei frati minori e nostra, tutte le mie sorelle, le presenti e quelle che verranno, 45perché, per amore di quel Signore, che povero alla sua nascita fu posto in una greppia, povero visse sulla terra e nudo rimase sulla croce, 46abbia cura di far osservare a questo suo piccolo gregge – questo che l’altissimo Padre, per mezzo della parola e dell’esempio del beato padre nostro Francesco, generò nella sua santa Chiesa, proprio per imitare la povertà e l’umiltà del suo diletto Figlio e della sua gloriosa Madre vergine –, 47la santa povertà, che a Dio e al beato padre nostro Francesco abbiamo promessa, e si degni ancora di infervorare e conservare le sorelle in detta povertà.
48Inoltre, come il Signore donò a noi il beatissimo padre nostro Francesco come fondatore, piantatore e sostegno nostro nel servizio di Cristo e in quelle cose che promettemmo a Dio ed al medesimo nostro padre, 49ed egli, finché visse, ebbe sempre premurosa cura di coltivare e far crescere noi, sua pianticella, con la parola e con le opere sue; 50così io affido le mie sorelle, presenti e future al successore del beato padre nostro Francesco e ai frati tutti del suo Ordine, 51perché ci siano d’aiuto a progredire sempre di più nel bene nel servizio di Dio e soprattutto nell’osservare meglio la santissima povertà.
52Se poi dovesse succedere in qualche tempo, che le dette sorelle lasciassero questo monastero di San Damiano e si trasferissero altrove, siano nondimeno tenute, ovunque abitassero dopo la mia morte, ad osservare la stessa forma della povertà, che abbiamo promessa a Dio e al beatissimo padre nostro Francesco. 53Tuttavia, tanto colei che sarà in ufficio [di abbadessa], quanto le altre sorelle, abbiano sempre sollecitudine e precauzione di non acquistare né accettare terreno attorno al sopraddetto monastero, se non in quella quantità che esigesse l’estrema necessità di un orto per coltivarvi degli erbaggi. 54Se poi in qualche tempo dovesse occorrere, per un conveniente isolamento del monastero, di avere un po’ di terreno fuori del recinto dell’orto, non permettano d’acquistarne più di quanto richiede l’estrema necessità; 55detto terreno poi non sia lavorato né seminato, ma rimanga sempre inarato e incolto.
56Ammonisco ed esorto nel Signore Gesù Cristo tutte le mie sorelle, presenti e future, che si studino sempre di imitare la via della santa semplicità, dell’umiltà e della povertà, ed anche l’onestà di quella santa vita, 57che ci fu insegnata dal beato padre nostro Francesco fin dal principio della nostra conversione a Cristo. 58Per mezzo di queste virtù, e non per i nostri meriti, ma per la sola misericordia e grazia del Donatore, lo stesso Padre delle misericordie, effondano sempre il profumo della loro buona fama su quelle che sono lontane, come su quelle che sono vicine.
59E amandovi a vicenda nell’amore di Cristo, quell’amore che avete nel cuore, dimostratelo al di fuori con le opere, 60affinché le sorelle, provocate da questo esempio, crescano sempre nell’amore di Dio e nella mutua carità.
61Ancora prego colei che sarà al governo delle sorelle, che si studi di presiedere alle altre più con le virtù e la santità della vita, che per la dignità, 62affinché, animate dal suo esempio, le sorelle le prestino obbedienza, non tanto per l’ufficio che occupa, ma per amore. 63Sia essa, inoltre, provvida e discreta verso le sue sorelle, come una buona madre verso le sue figlie; 64e specialmente si studi di provvedere a ciascuna nelle sue necessità con quelle elemosine che il Signore manderà. 65Sia ancora tanto affabile e alla portata di tutte, che le sorelle possano manifestarle con fiducia le loro necessità e 66ricorrere a lei ad ogni ora con confidenza, come crederanno meglio, per sé o a favore delle sorelle.
67Le sorelle poi, che sono suddite, ricordino che è per amore del Signore che hanno rinunciato alla propria volontà. 68Quindi voglio che obbediscano alla loro madre, come di loro spontanea volontà promisero a Dio; 69affinché la loro madre, osservando la carità, l’umiltà e l’unione che regna tra loro, trovi più leggero il peso che sostiene per ufficio 70e, per merito della loro santa vita, ciò che è molesto e amaro si tramuti per lei in dolcezza.
71Ma poiché stretta è la via e il sentiero, ed angusta la porta per la quale ci si incammina e si entra nella vita, pochi son quelli che la percorrono e vi entrano; 72e se pure vi sono di quelli che per un poco di tempo vi camminano, pochissimi perseverano in essa. 73Beati però quelli cui è concesso di camminare per questa via e di perseverarvi fino alla fine!
74E perciò noi, che siamo entrate nella via del Signore, guardiamoci di non abbandonarla mai, per nostra colpa o negligenza o ignoranza. 75Recheremmo ingiuria a così grande Signore, alla sua Madre vergine, al beato padre nostro Francesco, a tutta la Chiesa trionfante ed anche alla Chiesa di quaggiù. 76Sta scritto, infatti: Maledetti quelli che si allontanano dai tuoi comandamenti.
77Per questa ragione, io piego le mie ginocchia davanti al Padre del Signore nostro Gesù Cristo, affinché, per i meriti della gloriosa santa Vergine Maria sua Madre, del beatissimo padre nostro Francesco e di tutti i santi, 78lo stesso Signore, che ci ha donato di bene incominciare, ci doni ancora di crescere nel bene e di perseverarvi fino alla fine. Amen.
79Questo scritto, perché sia meglio osservato, io lascio a voi, sorelle mie amatissime e carissime, presenti e future, in segno della benedizione del Signore, del beatissimo padre nostro Francesco e della benedizione della vostra madre e serva.

Publié dans:SANTI, Santi - scritti |on 11 août, 2015 |Pas de commentaires »

« The Martyrdom of Saint Lawrence, » by Masters of the Acts of Mercy (Austrian, Salzburg, c. 1465)


http://lisawallerrogers.com/category/people/religion/st-lawrence/

Publié dans:immagini sacre |on 10 août, 2015 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – « DOVE SI FONDA IL MARTIRIO » (2010)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100811.html

BENEDETTO XVI – « DOVE SI FONDA IL MARTIRIO »

UDIENZA GENERALE

Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo

Mercoledì, 11 agosto 2010

IL MARTIRIO

Cari fratelli e sorelle,

oggi, nella Liturgia ricordiamo santa Chiara d’Assisi, fondatrice delle Clarisse, luminosa figura della quale parlerò in una delle prossime Catechesi. Ma in questa settimana – come avevo già accennato nell’Angelus di domenica scorsa – facciamo memoria anche di alcuni Santi martiri, sia dei primi secoli della Chiesa, come san Lorenzo, Diacono, san Ponziano, Papa, e san Ippolito, Sacerdote; sia di un tempo a noi più vicino, come santa Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein, patrona d’Europa, e san Massimiliano Maria Kolbe. Vorrei allora soffermarmi brevemente sul martirio, forma di amore totale a Dio.
Dove si fonda il martirio? La risposta è semplice: sulla morte di Gesù, sul suo sacrificio supremo d’amore, consumato sulla Croce affinché noi potessimo avere la vita (cfr Gv 10,10). Cristo è il servo sofferente di cui parla il profeta Isaia (cfr Is 52,13-15), che ha donato se stesso in riscatto per molti (cfr Mt 20,28). Egli esorta i suoi discepoli, ciascuno di noi, a prendere ogni giorno la propria croce e seguirlo sulla via dell’amore totale a Dio Padre e all’umanità: “chi non prende la propria croce e non mi segue – ci dice, – non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,38-39). E’ la logica del chicco di grano che muore per germogliare e portare vita (cfr Gv 12,24). Gesù stesso “è il chicco di grano venuto da Dio, il chicco di grano divino, che si lascia cadere sulla terra, che si lascia spezzare, rompere nella morte e, proprio attraverso questo, si apre e può così portare frutto nella vastità del mondo” (Benedetto XVI, Visita alla Chiesa luterana di Roma [14 marzo 2010]). Il martire segue il Signore fino in fondo, accettando liberamente di morire per la salvezza del mondo, in una prova suprema di fede e di amore (cfr Lumen Gentium, 42).
Ancora una volta, da dove nasce la forza per affrontare il martirio? Dalla profonda e intima unione con Cristo, perché il martirio e la vocazione al martirio non sono il risultato di uno sforzo umano, ma sono la risposta ad un’iniziativa e ad una chiamata di Dio, sono un dono della Sua grazia, che rende capaci di offrire la propria vita per amore a Cristo e alla Chiesa, e così al mondo. Se leggiamo le vite dei martiri rimaniamo stupiti per la serenità e il coraggio nell’affrontare la sofferenza e la morte: la potenza di Dio si manifesta pienamente nella debolezza, nella povertà di chi si affida a Lui e ripone solo in Lui la propria speranza (cfr 2 Cor 12,9). Ma è importante sottolineare che la grazia di Dio non sopprime o soffoca la libertà di chi affronta il martirio, ma al contrario la arricchisce e la esalta: il martire è una persona sommamente libera, libera nei confronti del potere, del mondo; una persona libera, che in un unico atto definitivo dona a Dio tutta la sua vita, e in un supremo atto di fede, di speranza e di carità, si abbandona nelle mani del suo Creatore e Redentore; sacrifica la propria vita per essere associato in modo totale al Sacrificio di Cristo sulla Croce. In una parola, il martirio è un grande atto di amore in risposta all’immenso amore di Dio.
Cari fratelli e sorelle, come dicevo mercoledì scorso, probabilmente noi non siamo chiamati al martirio, ma nessuno di noi è escluso dalla chiamata divina alla santità, a vivere in misura alta l’esistenza cristiana e questo implica prendere la croce di ogni giorno su di sé. Tutti, soprattutto nel nostro tempo in cui sembrano prevalere egoismo e individualismo, dobbiamo assumerci come primo e fondamentale impegno quello di crescere ogni giorno in un amore più grande a Dio e ai fratelli per trasformare la nostra vita e trasformare così anche il nostro mondo. Per intercessione dei Santi e dei Martiri chiediamo al Signore di infiammare il nostro cuore per essere capaci di amare come Lui ha amato ciascuno di noi.

 

10 AGOSTO – SAN LORENZO MARTIRE

http://digilander.libero.it/sanlorenzoamaseno/vita%20di%20san%20lorenzo.htm

10 AGOSTO – SAN LORENZO MARTIRE

Le notizie sulla vita di san Lorenzo, che pure in passato ha goduto di una devozione popolare notevole, sono scarse. Si sa che era originario della Spagna e più precisamente di Osca, (l’odierna Huesca) in Aragona, alle falde dei Pirenei. Ancora giovane, fu inviato a Saragozza per completare gli studi umanistici e teologici; fu qui che conobbe il futuro papa Sisto II. Questi insegnava in quello che era, all’epoca, uno dei più noti centri di studi della città e, tra quei maestri, il futuro papa era uno dei più conosciuti ed apprezzati. Tra maestro e allievo iniziò un’amicizia e una stima reciproca. Entrambi, seguendo un flusso migratorio allora molto vivace, lasciarono la Spagna per trasferirsi a Roma. Quando il 30 agosto 257 Sisto fu eletto vescovo di Roma, affidò a Lorenzo il compito di arcidiacono, cioè di responsabile delle attività caritative nella diocesi di Roma, di cui beneficiavano circa 1500 persone fra poveri e vedove. Proprio per questa sua attività tra i poveri di Roma, Lorenzo godeva della stima e dell’amicizia di tante persone che quotidianamente ricevevano da lui aiuto e conforto. Purtroppo fonti storiche coeve non ne abbiamo, che possano testimoniare l’opera di Lorenzo. Ma è noto che la vita dei Santi Martiri inizia proprio con la loro morte. Durante la persecuzione di Diocleziano (303), non solo furono messi a morte numerosi cristiani, ma furono distrutti i libri sacri che venivano trovati e gli archivi della Chiesa, per questo mancano gli atti autentici del martirio. Le vicende più note del martirio di Lorenzo sono descritte, con ricchezza di particolari, nella Passio Polychromì, di cui abbiamo tre redazioni (V-VII secolo); che in questo racconto siano contenuti elementi leggendari è un dato di fatto, anche se talune notizie qui presentate sono note anche da testimonianze precedenti, come quella di Ambrogio nel De Officiis Ministrorum. In questo testo si narra dell’incontro tra il Papa Sisto II e il suo arcidiacono Lorenzo mentre Sisto, sorpreso a celebrare nelle catacombe di San Callisto, viene arrestato e condotto al martirio insieme a quattro diaconi della Chiesa di Roma. Era il 6 agosto dell’anno 258, quattro giorni dopo la stessa sorte sarebbe toccata anche a Lorenzo. Prima di morire però, Lorenzo si assicura che tutti i beni della Chiesa non cadessero nelle mani dell’Imperatore Valeriano e distribuì tutte le ricchezze ai poveri. Valeriano, avido di guadagno per le casse dello Stato, in cambio della vita, chiese a Lorenzo tutti i beni della Chiesa. Lorenzo prontamente gli presentò tutti i poveri che lui ogni giorno visitava, offrendoli all’Imperatore quali veri tesori. Forse fu proprio a questo punto, irato per l’insolita azione di Lorenzo, che Valeriano decise di dare al giovane una lezione che nessuno avrebbe dimenticato. Mostrando tutto il suo coraggio e l’ardore della sua fede in Cristo Signore, Lorenzo venne condotto al Martirio, un fuoco era stato preparato per lui, sul quale era stato posto un letto di ferro: una graticola sulla quale il giovane venne arso, ma davanti alla quale non indietreggio testimoniando a tutti di cosa è capace un uomo quando l’amore e la fede guidano i suoi passi. Statua San Lorenzo – Giubileo Laurenziano – Amaseno

ANGOLO DELLA LETTURA – TESTAMENTO SPIRITUALE DI PAOLO VI

http://www.pastorelle.org/conteudo.php?id=41

ANGOLO DELLA LETTURA – TESTAMENTO SPIRITUALE DI PAOLO VI

Il testo che segue, nostro primo suggerimento, è una mirabile visione della vita, del mondo, di se stessi in rapporto al concludersi del tempo terreno e alla prospettiva del tempo futuro. Una eternità già iniziata e che prepara il cuore a varcare la soglia dell’ultima Pasqua che unisce per sempre all’Agnello.

L’autore è G. B. Montini (1897-1978), pastore della Chiesa universale con il nome di Paolo VI, dal 21 giugno 1963 alla sua morte avvenuta il 6 agosto 1978, festa della Trasfigurazione del Signore.

Si tratta di una bella testimonianza, un racconto davvero esemplare, commovente, disarmante…

“Tempus resolutonis meae instat”.
È giunto il tempo di sciogliere le vele.
(2 Tm 4,6)
“Certus quod velox est depositio tabernaculi mei”.
Sono certo che presto dovrò lasciare questa mia tenda.
(2 Pt 1,14)
“Finis venit, venit finis”. La fine! Giunge la fine.
(Ez. 7,6)

Questa ovvia considerazione sulla precarietà della vita temporale e sull’avvicinarsi inevitabile e sempre più prossimo della sua fine si impone. Non è saggia la cecità davanti a tale immancabile sorte, davanti alla disastrosa rovina che porta con sé, davanti alla misteriosa metamorfosi che sta per compiersi nell’essere mio, davanti a ciò che si prepara.
Vedo che la considerazione prevalente si fa estremamente personale: Io, chi sono? che cosa resta di me? dove vado? e perciò estremamente morale: Che cosa devo fare? Quali sono le mie responsabilità? E vedo anche che rispetto alla vita presente è vano avere speranze; rispetto ad essa si hanno dei doveri e delle aspettative funzionali e momentanee; le speranze sono per l’al di là.
E vedo che questa suprema considerazione non può svolgersi in un monologo soggettivo, nel solito dramma umano che al crescere della luce fa crescere l’oscurità del destino umano; deve svolgersi a dialogo con la Realtà divina, donde vengo e dove certamente vado; secondo la lucerna che Cristo ci pone in mano per il grande passaggio. Credo, o Signore.
L’ora viene. Da qualche tempo ne ho il presentimento. Più ancora che la stanchezza fisica, pronta a cedere ad ogni momento, il dramma delle mie responsabilità sembra suggerire come soluzione provvidenziale il mio esodo da questo mondo, affinché la Provvidenza possa manifestarsi e trarre la Chiesa a migliori fortune.
La Provvidenza ha, sì, tanti modi d’intervenire nel gioco formidabile delle circostanze che stringono la mia pochezza; ma quello della mia chiamata all’altra vita pare ovvio, perché altri subentri più valido e non vincolato dalle presenti difficoltà. “Servus inutilis sum”. Sono un servo inutile.
“Ambulate dum lucem habetis”. Camminate finchè avete la luce. (Jo. 12, 35)
Ecco: mi piacerebbe, terminando, d’essere nella luce.
Di solito la fine della vita temporale, se non è oscurata da infermità, ha una sua fosca chiarezza: quella delle memorie, così belle, così attraenti, così nostalgiche, e così chiare ormai per denunciare il loro passato irrecuperabile e per irridere al loro disperato richiamo. Vi è la luce che svela la delusione d’una vita fondata su beni effimeri e su speranze fallaci. Vi è quella di oscuri e ormai inefficaci rimorsi.
Vi è quella della saggezza che finalmente intravede la vanità della cose e il valore della virtù che doveva caratterizzare il corso della vita: “Vanitas vanitatum“. Vanità della vanità.
Quanto a me vorrei avere finalmente una nozione riassuntiva e sapiente sul mondo e sulla vita: penso che tale nozione dovrebbe esprimersi in riconoscenza: tutto era dono, tutto era grazia; e com’era bello il panorama attraverso il quale si è passati; troppo bello, tanto che ci si è lasciati attrarre ed incantare, mentre doveva apparire segno e invito.
Ma, in ogni modo, sembra che il congedo debba esprimersi in un grande e semplice atto di riconoscenza, anzi di gratitudine: questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente, un avvenimento degno d’essere cantato in gaudio e in gloria: la vita, la vita dell’uomo!
Né meno degno d’esaltazione e di felice stupore è il quadro che circonda la vita dell’uomo: questo mondo immenso, misterioso, magnifico, questo universo dalle mille forze, dalle mille leggi, dalle mille bellezze, dalle mille profondità. È un panorama incantevole. Pare prodigalità senza misura. Assale, a questo sguardo quasi retrospettivo, il rammarico di non aver osservato quanto meritavano le meraviglie della natura, le ricchezze sorprendenti del macrocosmo e del microcosmo.
Perché non ho studiato abbastanza, esplorato, ammirato la stanza nella quale la vita si svolge? Quale imperdonabile distrazione, quale riprovevole superficialità!

Tuttavia, almeno in extremis, si deve riconoscere che quel mondo, “qui per Ipsum factus est“, che è stato fatto per mezzo di Lui, è stupendo. Ti saluto e ti celebro all’ultimo istante, sì, con immensa ammirazione; e, come si diceva, con gratitudine: tutto è dono; dietro la vita, dietro la natura, l’universo, sta la Sapienza; e poi, lo dirò in questo commiato luminoso, (Tu ce lo hai rivelato, o Cristo Signore) sta l’Amore!
La scena del mondo è un disegno, oggi tuttora incomprensibile per la sua maggior parte, d’un Dio Creatore, che si chiama il Padre nostro che sta nei cieli!
Grazie, o Dio, grazie e gloria a Te, o Padre!
In questo ultimo sguardo mi accorgo che questa scena affascinante e misteriosa è un riverbero, è un riflesso della prima ed unica Luce; è una rivelazione naturale d’una straordinaria ricchezza e bellezza, la quale doveva essere una iniziazione, un preludio, un anticipo, un invito alla visione dell’invisibile Sole, “quem nemo vidit unquam“, che nessuno ha mai visto (cfr. Jo. 1,18): “unigenitus Filius, qui est in sinu Patris, Ipse enarravit”, il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato. Così sia, così sia.
Ma ora, in questo tramonto rivelatore, un altro pensiero, oltre a quello dell’ultima luce vespertina, presagio dell’eterna aurora, occupa il mio spirito: ed è l’ansia di profittare dell’undicesima ora, la fretta di fare qualche cosa d’importante prima che sia troppo tardi. Come riparare le azioni mal fatte, come ricuperare il tempo perduto, come afferrare in quest’ultima possibilità di scelta “l’unum necessarium?”, la sola cosa necessaria?
Alla gratitudine succede il pentimento. Al grido di gloria verso Dio Creatore e Padre succede il grido che invoca misericordia e perdono. Che almeno questo io sappia fare: invocare la Tua bontà, e confessare con la mia colpa la Tua infinita capacità di salvare. “Kyrie eleison; Christe eleison; Kyrie eleison”. Signore pietà; Cristo pietà; Signore pietà.
Qui affiora alla mente la povera storia della mia vita, intessuta, per un verso, dall’ordito di singolari e innumerevoli benefici, derivanti da un’ineffabile bontà (è questa che, spero, potrò un giorno vedere ed “in eterno cantare”); e, per l’altro, attraversata da una trama di misere azioni, che si preferirebbe non ricordare, tanto sono manchevoli, imperfette, sbagliate, insipienti, ridicole. “Tu scis insipientiam meam”. Dio, Tu conosci la mia stoltezza (Ps. 68,6). Povera vita stentata, gretta meschina, tanto tanto bisognosa di pazienza, di riparazione, d’infinita misericordia. Sempre mi pare suprema la sintesi di S. Agostino: miseria et misericordia. Miseria mia, misericordia di Dio.
Ch’io possa almeno ora onorare Chi Tu sei, il Dio d’infinita bontà, invocando, accettando, celebrando la Tua dolcissima misericordia.
E poi un atto, finalmente, di buona volontà: non più guardare indietro, ma fare volentieri, semplicemente, umilmente, fortemente, il dovere risultante dalle circostanze in cui mi trovo, come Tua volontà.
Fare presto, fare tutto, fare bene. Fare lietamente: ciò che ora Tu vuoi da me, anche se supera immensamente le mie forze e se mi chiede la vita. Finalmente, a quest’ultima ora.
Curvo il capo ed alzo lo spirito. Umilio me stesso ed esalto Te, Dio, “la cui natura è bontà” (S. Leone). Lascia che in questa ultima veglia io renda omaggio, a Te, Dio vivo e vero, che domani sarai il mo giudice, e che dia a Te la lode che più ambisci, il nome che preferisci: sei Padre.
Poi io penso, qui davanti alla morte, maestra della filosofia della vita, che l’avvenimento fra tutti più grande fu per me, come lo è per quanti hanno pari fortuna, l’incontro con Cristo, la Vita. Tutto qui sarebbe da rimeditare con la chiarezza rivelatrice che la lampada della morte dà a tale incontro.
“Nihil enim nobis nasci profuit, nisi redimi profuisset”
A nulla infatti ci sarebbe valso il nascere se non ci avesse servito ad essere redenti.
Questa è la scoperta del preconio pasquale, e questo è il criterio di valutazione d’ogni cosa riguardante l’umana esistenza ed il suo vero ed unico destino, che non si determina se non in ordine a Cristo: “O mira circa nos tuae pietatis dignitario”. O meravigliosa pietà del tuo amore per noi! Meraviglia delle meraviglie, il mistero della nostra vita in Cristo.
Qui la fede, qui la speranza, qui l’amore cantano la nascita e celebrano le esequie dell’uomo.

Io credo, io spero, io amo, nel nome Tuo, o Signore.
E poi ancora mi domando: perché hai chiamato me, perché mi hai scelto?
Così inetto, così renitente, così povero di mente e di cuore? Lo so: “quae stulta sunt mundi elegit Deus… ut non glorietur omnis caro in conspecto eius”. Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. (1 Cor. 1,27-28).
La mia elezione indica due cose: la mia pochezza; la Tua libertà, misericordiosa e potente. La quale non si è fermata nemmeno davanti alla mia capacità di tradirTi: “Deus meus, Deus meus, audebo dicere, … in quodam aestatis tripudio de Te praesumendo dicam: nisi quia Deus es. Nos Te provocamus ad iram. Tu autem conducis nos ad misericordiam!”. Mio Dio, mio Dio, oserò dire … in un estatico tripudio di Te dirò con presunzione: se non fossi Dio, saresti ingiusto, poiché abbiamo peccato gravemente … e Tu Ti plachi. Noi Ti provochiamo all’ira, e Tu invece ci conduci alla misericordia! (PL. 40, 1150).
Ed eccomi al Tuo servizio, eccomi al tuo amore.
Eccomi in uno stato di sublimazione, che non mi consente più di ricadere nella mia psicologia istintiva di pover’uomo, se non per ricordarmi la realtà del mio essere, e per reagire nella più sconfinata fiducia con la risposta, che da me è dovuta: “amen, fiat; Tu scis quia amo Te”, così sia, così sia. Tu lo sai che ti voglio bene. Uno stato di tensione subentra, e fissa in atto permanente di assoluta fedeltà la mia volontà di servizio per amore: “In finem dilexit“, amò fino alla fine. “Ne permittas me separari a Te”. Non permettere che io mi separi da Te.
Il tramonto della vita presente, che sognerebbe d’essere riposato e sereno, deve essere invece uno sforzo crescente di vigilia, di dedizione, di attesa. È difficile; ma è così che la morte sigilla la meta del pellegrinaggio terreno e fa ponte per il grande incontro con Cristo nella vita eterna. Raccolgo le ultime forze, e non recedo dal dono totale, compiuto, pensando al Tuo: “consummatum est“, tutto è compiuto.
Ricordo il preannuncio fatto dal Signore a Pietro sulla morte dell’apostolo: “amen, amen dico tibi… cum… senueris, extendes manus tuas, et alius te cinget, et ducet quo tu non vis. Hoc autem (Jesus) dixit significans qua morte (Petrus) clarificaturus esset Deum. Et, cum hoc dixisset, dicit ei: sequere me”. In verità, in verità ti dico … quando sarai vecchio, tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vuoi. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”. (Jo. 21, 18-19).
Ti seguo; ed avverto che non posso uscire nascostamente dalla scena di questo mondo; mille fili mi legano alla famiglia umana, mille alla comunità, che è la Chiesa. Questi fili si romperanno da sé; ma io non posso dimenticare ch’essi richiedono da me qualche supremo dovere. “Discessus pius“, morte pia.
Avrò davanti allo spirito la memoria del come Gesù si congedò dalla scena temporale di questo mondo. Da ricordare come Egli ebbe continua previsione e frequente annuncio della sua passione, come misurò il tempo in attesa della “sua ora”, come la coscienza dei destini escatologici riempì il suo animo ed il suo insegnamento, e come dell’imminente sua morte parlò ai discepoli nei discorsi dell’ultima cena; e finalmente come volle che la sua morte fosse perennemente commemorata mediante l’istituzione del sacrificio eucaristico: “mortem Domini annuntiabitis donec veniat”. Annunzierete la morte del Signore finché Egli venga.
Un aspetto su tutti gli altri principale: “tradidit semetipsum“, ha dato se stesso per me; la sua morte fu sacrificio; morì per gli altri, morì per noi.
La solitudine della morte fu ripiena della presenza nostra, fu pervasa d’amore: “dilexit Ecclesiam“, amò la Chiesa (ricordare “le mystère de Jésus”, di Pascal). La sua morte fu rivelazione del suo amore per i suoi: “In finem dilexit ”, amò fino alla fine.
E dell’amore umile e sconfinato diede al termine della vita temporale esempio impressionante (cfr. la lavanda dei piedi), e del suo amore fece termine di paragone e precetto finale. La sua morte fu testamento d’amore. Occorre ricordarlo.
Prego pertanto il Signore che mi dia grazia di fare della mia prossima morte dono d’amore alla Chiesa. Potrei dire che sempre l’ho amata; fu il suo amore che mi trasse fuori dal mio gretto e selvatico egoismo e mi avviò al suo servizio; e che per essa, non per altro, mi pare d’aver vissuto. Ma vorrei che la Chiesa lo sapesse; e che io avessi la forza di dirglielo, come una confidenza del cuore, che solo all’estremo momento della vita si ha il coraggio di fare.
Vorrei finalmente comprenderla tutta nella sua storia, nel suo disegno divino, nel suo destino finale, nella sua complessa, totale e unitaria composizione, nella sua umana e imperfetta consistenza, nelle sue sciagure e nelle sue sofferenze, nelle debolezze e nelle miserie di tanti suoi figli, nei suoi aspetti meno simpatici, e nel suo sforzo perenne di fedeltà, di amore, di perfezione e di carità. Corpo mistico di Cristo.
Vorrei abbracciarla, salutarla, amarla, in ogni essere che la compone, in ogni Vescovo e sacerdote che la assiste e la guida, in ogni anima che la vive e la illustra; benedirla. Anche perché non la lascio, non esco da lei, ma più e meglio con essa mi unisco e mi confondo: la morte è un progresso nella comunione dei Santi.
Qui è da ricordare la preghiera finale di Gesù (Jo. 17). Il Padre e i miei; questi sono tutti uno; nel confronto col male ch’è sulla terra e nella possibilità della loro salvezza; nella coscienza suprema ch’era mia missione chiamarli, rivelare loro la verità, farli figli di Dio e fratelli tra loro: amarli con l’Amore, ch’è in Dio, e che da Dio, mediante Cristo, è venuto nell’umanità e dal ministero della Chiesa, a me affidato, è ad essa comunicato.
O uomini, comprendetemi; tutti vi amo nell’effusione dello Spirito Santo, ch’io, ministro, dovevo a voi partecipare. Così vi guardo, così vi saluto, così vi benedico. Tutti. E voi, a me più vicini, più cordialmente. La pace sia con voi.
E alla Chiesa, a cui tutto devo e che fu mia, che dirò?
Le benedizioni di Dio siano sopra di te; abbi coscienza della tua natura e della tua missione; abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell’umanità; e cammina povera, cioè libera, forte ed amorosa verso Cristo. Amen. Il Signore viene. Amen.

Publié dans:PAPA PAOLO VI |on 8 août, 2015 |Pas de commentaires »
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