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LA VITA CRISTIANA COME VITA BUONA, BELLA E BEATA – DI ENZO BIANCHI
«C’è un uomo che desidera la vita
e brama giorni per gustare il bene?» (Sal 34,13).
Esprimendo questa domanda, il Salmo ipotizza un progetto di vita buona, bella e felice, perché secondo l’autore c’è un ethos, c’è un comportamento che può rendere il vivere umano vita autentica, vita segnata dal bene…
INTRODUZIONE
In un Salmo si legge questa domanda:
«C’è un uomo che desidera la vita
e brama giorni per gustare il bene?» (Sal 34,13).
Esprimendo questa domanda, il Salmo ipotizza un progetto di vita buona, bella e felice, perché secondo l’autore c’è un ethos, c’è un comportamento che può rendere il vivere umano vita autentica, vita segnata dal bene. Ma questa domanda è in verità un’istanza presente in ogni uomo, perché ogni uomo desidera la vita, è alla ricerca di un modo di vivere la propria esistenza quotidiana che «salvi la vita». L’uomo vuole vivere, vivere il più possibile, e ciascuno porta in sé una visione ideale di ciò che vorrebbe essere: riuscire, per un uomo, è tentare di vivere la felicità, di «gustare il bene» in sé e attorno a sé.
La filosofia antica e recente ha sempre riconosciuto che la felicità è la motivazione ultima dell’agire umano, e le scienze umane lo confermano. Agostino d’Ippona ha potuto scrivere: «Noi tutti bramiamo vivere felici, e tra gli uomini non c’è nessuno che neghi l’assenso a questa affermazione, anche prima che venga spiegata in tutta la sua portata». Freud, dal canto suo, nell’opera Il malessere della civiltà si chiede: «Quali sono i progetti e gli obiettivi vitali rivelati dal comportamento degli uomini?»; e risponde: «Si è certi di non sbagliare: essi aspirano alla felicità; gli uomini vogliono essere e rimanere felici!».
È allora altamente significativo ricordare che la paternità della domanda del salmista va forse ritrovata in un’iscrizione egiziana del XIV secolo a.C. presente a El-Amarna nella tomba del faraone Ai, il successore di Tut-ank-amon. L’iscrizione dice: «C’è un uomo amante della vita e desideroso di una vita felice?».
Sì, la domanda appartiene a ogni uomo, è specifica dell’umanità! Ed è una domanda che si colloca nella ricerca di senso, una ricerca che la modernità non solo non ha evacuato, ma al contrario ha fornito di un’acutezza nuova: per vivere l’uomo non può fare a meno del senso, cioè di un significato e di un orientamento, di riferimenti e di una finalità; ma non può neppure fare a meno dell’estetica, essa pure dimensione essenziale nella ricerca di senso!
Non c’è cammino degno di questo nome senza queste tre domande: perché andare? dove andare? come andare? E oggi, se non vogliamo accelerare i nostri passi verso la barbarie, soprattutto all’interno della polis, della comunità umana, appare sempre più urgente la riscoperta di una «sapienza» che accompagni l’espansione quantitativa e produttiva nel nostro occidente, e che soprattutto accompagni le nostre società in questo periodo di disincanto.
Di fronte a questa problematica, a queste domande, il cristianesimo che si vuole nato da una «buona notizia» (questo significa letteralmente «vangelo», dal greco euanghélion) che cosa ha da dire? Ha ancora una bella notizia?
UN’ARTE DEL VIVERE CHE È SALVEZZA
Secondo l’Antico Testamento, davanti a ogni uomo e davanti all’umanità stanno la vita e il bene, la morte e il male (cfr Dt 30,15 ss.): l’uomo è posto dinanzi a una scelta decisiva tra bene e male, tra felicità e rovina, tra bellezza e devastazione. La vita è sempre associata al bene, cioè a tutto quello che rende un’esistenza umana bella e felice, e proprio per questo la condizione in cui la vita è vera, autentica e in pienezza, degna di essere vissuta dall’uomo, è lo shalom, la pace piena.
Dio ha voluto e creato l’uomo perché viva una vita terrena nella bontà e nella felicità, e il compito assegnato all’adam, al «terrestre», è tendere alla comunicazione, alla relazione, alla comunione, per conoscere il bene e la felicità. Per questo appare sovente nelle Scritture il grido: Beato! Beati! per indicare la condizione di chi vive secondo la volontà del Signore, di chi fugge il male e opera il bene, di chi opera la pace e la giustizia (si pensi anche solo al Salmo 1)…
Il Nuovo Testamento vede inverata e realizzata questa beatitudine nella vita cristiana, cioè nell’esistenza umana vissuta come Gesù Cristo stesso l’ha vissuta. Una vita umana fragile e povera, compresa tra la nascita e la morte, ma conformata a quella di Gesù fino a riprodurne le caratteristiche e ad assumerne la destinazione. Questo perché secondo la fede cristiana Gesù Cristo è l’Uomo per eccellenza, mandato da Dio per mostrare agli uomini come è da vivere l’esistenza umana. Il Figlio di Dio è venuto tra di noi «per insegnarci a vivere in questo mondo», ci ricorda l’apostolo Paolo (cfr Tt 2,11-12).
Ma fin dall’«in principio» della creazione, e questa è una lettura specificamente cristiana, Dio ha pensato e voluto l’uomo secondo l’immagine – e quindi sul modello – del Figlio suo Gesù Cristo (cfr Col 1,16-17), sicché il vero Adamo, il «primogenito di ogni creatura» (Col 1,15), per mezzo del quale e in vista del quale tutte le cose sono state create, è il Figlio di Dio, al quale deve riferirsi l’Adamo tratto dalla terra. In forza di questa somiglianza profonda, l’Adamo tratto dalla terra, l’uomo, è dunque fin dalla creazione dotato coerentemente di quanto è necessario per vivere come Gesù Cristo ha vissuto. In altri termini, ha la possibilità di «riuscire la sua vita»; in altri termini ancora, ha la possibilità di vedere salvata la sua vita.
Il Nuovo Testamento svela che la salvezza inizia e si innesta come arte del vivere qui sulla terra, perché la vita di Gesù nei giorni della sua esistenza terrena è stata una vita «salvata» dalla forma stessa del suo vivere. C’è stata in Gesù una «pratica di umanità» conforme alla volontà di Dio, e questa pratica racconta la salvezza, il progetto di Dio di salvare tutta l’umanità e la storia.
La realizzazione della salvezza va dunque pensata anche come pratica di umanità, come umanizzazione autentica, e questo è possibile condividendo la vita di Gesù di Nazaret. Non c’è contraddizione tra il vivere la vita di Gesù e l’umanizzarsi, tra il condurre un’esistenza cristiana e il riuscire la propria vita, perché questa è l’esistenza dei figli e delle figlie di Dio.
LA VITA DI GESÙ: VITA BUONA, BELLA, BEATA
«PERCHÉ DIO SI È FATTO UOMO?»
Cur Deus homo? La domanda sul perché Dio si è fatto uomo, domanda che è risuonata ininterrottamente lungo i secoli della fede cristiana, ha ricevuto sostanzialmente un’unica risposta, seppure in due forme distinte e non contraddittorie, in oriente e in occidente. Nella tradizione cristiana orientale si è imposta l’espressione di Atanasio: «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio», conosca cioè il cammino della théosis, della divinizzazione; mentre in occidente si è di più insistito sull’azione di salvezza operata da Dio in Gesù: «Dio si è fatto uomo per salvare l’uomo». Ma se si approfondiscono le due risposte, io sono convinto — e spero che nessuno si scandalizzi — che la risposta può anche essere formulata così: «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi veramente uomo!».
Sì, Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazaret per mostrarci l’uomo autentico, l’uomo veramente sua immagine e sua somiglianza, e così insegnarci a vivere in pienezza, fino a conoscere, oso dire, non solo giorni pieni di gioia, ma conoscere addirittura la gloria. D’altronde è proprio questa la comprensione dell’incarnazione che ci viene presentata soprattutto dal quarto vangelo: «Si è fatto carne, ha abitato tra di noi, ha mostrato la sua gloria…» (cfr Gv 1,14).
Nel III secolo, quando ormai il cristianesimo è fortemente consapevole della propria specificità, Ippolito di Roma così si esprime: «Noi sappiamo che il Verbo si è fatto uomo della stessa nostra pasta (uomo come noi siamo uomini!): perché, se non fosse così, invano ci avrebbe domandato di imitarlo. Se l’uomo Gesù fosse stato di un’altra sostanza, come avrebbe potuto chiederci, a noi deboli per natura, di comportarci come lui si è comportato?».
La fede cristiana proclama dunque che Dio si è fatto umano, che Dio si è reso leggibile nella vita di un uomo, e che solo in un’esistenza pienamente umana Dio si è espresso in pienezza: l’uomo Gesù è per i cristiani «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), è colui che ha raccontato Dio (exeghésato: Gv 1,18), è Figlio di Dio, ma nello stesso tempo figlio dell’uomo, l’Uomo: Ecce homo! (Gv 19,5).
Gesù si è presentato, secondo la testimonianza dei vangeli, come un uomo fino all’estremo, cioè un uomo fino alla fine, fino alla morte violenta e ingiusta, ma una morte «meritata» proprio dalla forma della sua esistenza umana, in cui le sue parole erano carne e sangue, il suo comportamento la negazione dell’autosufficienza e della pretesa di vivere per se stesso senza l’altro, le sue scelte un rifiuto della violenza e una vicinanza ai deboli, ai poveri, agli ultimi, alle vittime della storia, la sua difesa e la sua resistenza un restare fino alla fine un uomo di comunione, un uomo capace di amare.
Purtroppo i cristiani l’hanno dimenticato da tempo: Gesù non si è manifestato come un Dio venuto con potenza e gloria tra gli uomini, né così è stato creduto; è accaduto invece che alcuni uomini e alcune donne, coinvolti nella sua vita, diventati suoi discepoli, hanno saputo vedere nella sua esistenza, nella sua umanità, dei tratti divini, e per questo lo hanno chiamato Kyrios, Signore.
Guai a quei cristiani che «deificano» Gesù e lo chiamano Dio senza aver prima conosciuto la sua umanità, la forma della sua esistenza spesa e donata agli altri! È questa forma di vita che è vangelo, buona notizia, e se non la si conosce, quando si proclama che Gesù è Dio, non si fa certo una confessione di fede cristiana: si fa un’operazione religiosa in cui si snatura Gesù Cristo…
È altamente significativo ed eloquente che quegli stessi discepoli, dopo la sua morte ignominiosa in croce, lo abbiano riconosciuto vivente non nei tratti del suo corpo, ma nei tratti della sua esistenza per gli altri, della sua relazionalità: nella forma con cui chiamava per nome (cfr Gv 20,16), con cui parlava e offriva del pane da mangiare (cfr Lc 24,30.32), nei segni (le sole e autentiche reliquie cristiane!) della sua vita che ha subìto violenza fino alla crocifissione (cfr Gv 20,20.27). Proprio perché lo hanno visto vivere e morire in quel modo, essi hanno potuto credere alla forza dell’amore più forte della morte, hanno potuto aderire a un uomo che con la sua vita ha veramente raccontato Dio. L’esistenza di Gesù di Nazaret, un’esistenza nella libertà e vissuta per amore, è parsa a quegli uomini e a quelle donne la stessa vita di Dio. Sì, quella vita è l’epifania di Dio per gli uomini, ed è al tempo stesso l’epifania dell’uomo per tutta l’umanità!
Dice il quarto vangelo nel prologo: «In lui era la vita e quella vita era luce per gli uomini» (Gv 1,4), cioè Gesù è stato un vero vivente e come tale può insegnare a vivere. Questo è avvenuto per chi gli è vissuto accanto, ma avviene ancora oggi per quanti conoscendo Gesù attraverso il vangelo si sentono attratti e ispirati a conformarsi a lui attraverso la sequela.
LA VITA DI GESÙ BUONA
La prima qualità che connota la vita di Gesù è certamente la bontà. Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, con felice espressione, definiva Gesù l’uomo per gli altri: la sua esistenza è stata una pro-esistenza, una vita segnata dal dono di sé, dal servizio ai fratelli, una vita sempre tesa alla comunione. Ma già nel più antico dei vangeli, quello di Marco, è affermata la bontà della vita di Gesù: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi, fa parlare i muti» (Mc 7,37); e Pietro nella sua predicazione, sintetizzando la vita di Gesù di Nazaret, dice: «Egli passò operando il bene, guarendo, liberando» (cfr At 10,38). Proprio per questa sua bontà Gesù fu chiamato: «Maestro buono» (Mc 10,17).
Tutta la tradizione cristiana ha sempre compreso questa bontà, e lo mostra in particolare il fatto che l’esemplarità proposta e insegnata sia incentrata soprattutto sulla caritas, sull’agape, sull’amore di Gesù per i fratelli, specialmente i piccoli e gli ultimi. Smettere di conoscere se stessi nel senso di smettere ogni autosufficienza, lavare i piedi al fratello ponendosi nella condizione del servizio, riconoscere l’alterità di chi è prossimo fino ad amarlo con intelligenza, spingere i sentimenti di accoglienza e di amore verso l’estraneo e addirittura verso il nemico, e comunque sempre vivere l’amore e la carità sotto il segno della gratuità: questa è la vita cristiana nel senso di vita principiata da Cristo, vita secondo la volontà di Dio. Una vita che non contraddice la migliore realizzazione di se stessi, perché darsi interamente «per l’altro» non contraddice l’essere per sé!
Un cristiano, proprio perché discepolo di Cristo, sull’esempio di Gesù è chiamato a fare della propria vita una pro-esistenza, cioè un’esistenza tesa a far vivere gli altri che gli stanno intorno. Questo è l’itinerario: amare l’altro che ci è prossimo, che ci è accanto; amare quelli che incontriamo, e tra di loro soprattutto gli ultimi, i feriti dalla vita; esercitarci ad amare tutti gli uomini, anche i nemici. Solo questa pratica di una vita umana buona ci permette di conoscere qualcosa del mistero di Dio (e me lo si permetta: questo vale per cristiani e non cristiani, credenti e non credenti!). Senza questa pratica umanissima, quotidiana, di amore dell’altro, Dio è solo un’illusione immaginaria. D’altronde Gesù, prima di morire, ha voluto consegnare ai suoi un mandatum, e ha dato loro il comandamento nuovo, nuovo perché non ce ne sono altri per Gesù: «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 13,34; 15,12). L’amore e la giustizia verso il prossimo come li ha vissuti Gesù sono amore per Dio e sostituiscono tutti i precetti della legge!
Certo, questa bontà della vita di Gesù, e dunque del suo discepolo, non è esente dalla sofferenza, dall’inimicizia, dal tradimento, dalla violenza e dalla morte. E non è esente neppure dall’ignominia e dal rifiuto, non solo da parte degli empi e dei potenti, ma anche della «gente», magari della maggioranza… Ma, come ci narra il quarto vangelo, questa «passione» non è una minaccia alla vita buona, anzi è un’occasione per rivelarsi tale: è occasione di gloria! Gloria dell’amore, gloria dello spendere la vita per gli altri. Purtroppo, accanto a questa comprensione della bontà della vita cristiana, si sono addensati e anche sovrapposti cliché devozionali e morali e soprattutto, nell’immaginario comune, la croce: la croce compresa e diventata esemplare in modo sviante, la croce come una finzione che in profondità misconosce proprio il Crocifisso e il significato della sua morte.
In verità la croce è l’esito di una vita vissuta sotto il segno dell’amore, è l’esito del racconto che Gesù ha fatto di Dio, perché ciò che ha portato Gesù alla condanna e alla morte è stata la sua interpretazione di Dio e della religione, e di conseguenza la sua interpretazione del potere politico nella storia. Lì è nato il conflitto, su questi temi la sua condanna. Va detto con forza: non è la croce che ha dato gloria al Crocifisso, ma è Gesù che ha saputo dar senso perfino a un simbolo infamante e orrendo come la croce!
LA VITA DI GESÙ BELLA E BEATA
Certamente gli scritti evangelici, non avendo voluto consegnarci una biografia di Gesù, né trasmetterci un suo ritratto psicologico, restano sobri nel narrare come Gesù ha vissuto, e tuttavia, come annota il teologo Giuseppe Colombo, ciò non giustifica «la scarsità o addirittura l’assenza di una letteratura sull’esistenza bella e felice di Gesù». La stessa ricerca esegetica cristologica, che pure ha utilizzato ampiamente la categoria del messianismo e del profetismo per leggere la vita di Gesù, non ha saputo dare spazio sufficiente alla sua dimensione umana, alla sua arte di vivere. Così, anche per il prevalere dell’ideologia della croce, è stata prodotta l’immagine di una vita cristiana che per essere autentica dev’essere contrassegnata dalla militanza, dall’impegno e dal sacrificio, ritenuti incompatibili con una visione di bellezza e di felicità.
In verità i vangeli, pur nella loro sobrietà, ci testimoniano una serie di tratti della vita di Gesù che mostrano la sua umanità semplice, fragile, umanissima, ma anche sapiente, ricca, capace di amicizia con la vita e con le cose della vita, capace soprattutto di bellezza. Nella sua lotta contro ciò che è contro l’uomo, contro ciò che è inumano, nella lotta dell’amore, c’è stato spazio per una vita anche bella, non solo buona.
Sì, la vita di Gesù è stata anche un’esistenza umanamente bella! È stata la vita di un uomo povero, ma sempre una vita dignitosa, mai toccata dalle bruttezze se non da quelle che gli altri gli buttavano addosso, una vita seriamente e responsabilmente vissuta, ma con sapienza e con la capacità di cogliere e di fruire di ciò che è evento di bellezza. Gesù non ha vissuto da isolato, ma ha conosciuto la gioia del vivere insieme (una decina di uomini e alcune donne che sono stati pienamente coinvolti nella sua vita), ha conosciuto la gioia dell’amicizia e dell’esperienza affettiva con Marta, Maria e Lazzaro, con il discepolo diletto, con Pietro, Giacomo e Giovanni, persone con le quali sostava vivendo l’avventura di chi conosce cosa significa «amare ed essere amato». Come dimenticare che addirittura alla vigilia della sua condanna, quando ormai il cerchio si chiudeva intorno a lui, ha sentito il bisogno di fermarsi tra i suoi amici per gustare quell’amore umano che tanta gioia gli procurava?
E come non cogliere l’eco della bellezza della sua vita, della sua capacità di gratuità e di contemplazione, del tempo passato a pensare e a considerare, in quelle sue creazioni sapienziali e letterarie che sono le parabole o i suoi aforismi? Non è racconto di bellezza come Gesù parla del fico che annuncia l’estate con le sue gemme tenere, come ci parla della chioccia che raduna i suoi pulcini, dei gigli dei campi tessuti più splendidamente dei vestiti di Salomone, delle donne che impastano la farina e il lievito, degli uccelli del cielo nutriti dal Padre?
Per creare queste immagini, perché avvengano eventi di bellezza occorre una vita bella, una vita capace di cogliere sinfonicamente la propria esistenza assieme a quella degli altri e delle altre creature. E poi quella sua arte nell’incontrare a tavola… Quanti banchetti e quanti incontri di comunione a tavola, fino a farsi chiamare «mangione e beone, amico di peccatori manifesti e di prostitute» (cfr. Mt 11,19; Lc 7,34). E che atteggiamento verso i peccatori: non moralistico, ma sempre teso a risvegliare in loro la novità di vita, la consapevolezza della capacità di amore che c’è nell’uomo, l’estetica dei gesti dell’amore.
Anche la sua libertà, che tanto scandalizza gli uomini maestri in religione, è una forma di amore verso il prossimo e al tempo stesso una forma di bellezza, perché sempre sinfonica alla communitas, alla dignità di ogni uomo e di ogni donna. Mi sia concessa questa annotazione: sovente mi sembra che la vita di Gesù sia stata molto più bella di quella di tanti che sono impegnati nella sua imitazione, di tanti seguaci che restano militanti e non diventano discepoli…
E infine non va dimenticato: questa vita di Gesù buona e bella è anche vita felice, beata. Certo, non in senso mondano e banale, ma felice nel senso vero, profondo, perché la felicità è la risposta alla ricerca di senso, come dicevo all’inizio. Gesù ha vissuto una vita felice perché la sua vita possedeva un senso, anzi il senso del senso. Solo chi conosce una ragione per cui vale la pena di dare la vita, di perdere la vita, conosce anche una ragione per cui vale la pena di vivere. E Gesù questa ragione la possedeva: più volte infatti ha affermato di vivere al servizio degli altri, quotidianamente e con semplicità, gratuitamente e liberamente, e ha saputo leggere la violenza che si scaricava su di lui, fino alla morte violenta, come una necessità per chi vive per la verità, la giustizia e la comunione tra gli uomini.
Gesù ha conosciuto la beatitudine del povero, dell’affamato di giustizia, del mite e umile di cuore, del facitore di pace, perché ha trovato senso in queste condizioni umane. Sì, Gesù sapeva rispondere alla domanda: cosa posso sperare? E rispondeva con la certezza che l’amore è più forte della morte, dell’odio, dell’inferno!
Non Pilato è stato un uomo felice, non Erode, pur con tutto il loro potere e la loro voracità. Gesù invece, pur andando verso una morte ignominiosa, e proprio perché vi andava nella libertà (senza essere schiacciato dal destino o da una volontà divina superiore) e per amore dell’altro, conosceva la vera felicità di chi ha un’esistenza che è un’arte di vivere segnata da bontà, bellezza, beatitudine.
CONCLUSIONE
Questa dovrebbe essere la vita cristiana, a immagine di quella vissuta da Gesù: vita liberata dagli idoli alienanti, ma liberata anche dalle comprensioni svianti della religione, vita che porta il segno della speranza e della bellezza. Hanno sempre ripetuto i grandi maestri della spiritualità cristiana: «O il cristianesimo è filocalia, amore della bellezza, via pulchritudinis, via della bellezza, o non è»! E se noi sapremo coniugare nella nostra vita bontà, bellezza e beatitudine, allora potremo trasmettere la fede alle nuove generazioni.
Tutto l’itinerario percorso trova la sua sintesi in una domanda semplicissima ma essenziale, che ogni cristiano dovrebbe avere il coraggio di porsi ogni giorno: sono capace di amare e di accettare di essere amato? La risposta affermativa a questo duplice interrogativo è infatti l’unica reale condizione per vivere il comandamento nuovo lasciatoci da Gesù: è la condizione in cui la nostra vita è buona, perché segnata dall’amore; è bella, in quanto piena di senso; è beata, perché ci fa pregustare qualcosa della vita eterna, ci fa sperare in una continuità oltre la morte di quello che abbiamo in parte già conosciuto qui sulla terra, alla sequela di Cristo.
(L’autore) Enzo Bianchi, scritti vari – autore: Enzo Bianchi