Archive pour août, 2015

COMMUNION OF THE APOSTLES

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DIO E L’INFINITO NELLA BIBBIA – CARD. GIANFRANCO RAVASI

http://www.aleteia.org/it/religione/documenti/dio-e-infinito-nella-bibbia-1973001

DIO E L’INFINITO NELLA BIBBIA

Praticamente assente come categoria filosofica e fisica, l’infinito si intreccia alla dimensione dello spazio e al suo costituirsi come orizzonte di incontro di Dio con l’uomo

CARD. GIANFRANCO RAVASI

Nella fama popolare lo scrittore americano ottocentesco Edgar Allan Poe è rimasto autore di inquietanti gialli di indole metafisica. Egli, però, ci ha lasciato anche vari scritti teorici. In uno di essi, Eureka del 1848, osservava: “La parola ‘infinito’ – come le parole ‘Dio’, ‘spirito’ e alcune altre, i cui equivalenti esistono in tutte le lingue – non è espressione di un’idea, ma espressione dello sforzo verso quell’idea”. Questa considerazione ben s’adatta alla Bibbia, quando essa viene sfogliata alla ricerca di temi teorici, di categorie filosofiche e teologiche simili a quelle che il mondo greco-romano ha sviluppato in modo sistematico sulla via della speculazione. E’ proprio il caso del concetto di infinito: senza esitazioni il Concilio Vaticano I (1870) applicava questo aggettivo a Dio, così come secoli prima il Concilio Lateranense IV (1215) lo definiva “immensus”. Ma per una civiltà come quella semitica, che elaborava il suo pensiero attraverso i simboli e l’esperienza concreta, il concetto di infinito – per usare le parole di Poe –, più che un’idea chiara e distinta, era “espressione di uno sforzo” per conquistare e raffigurare quell’idea.
Accadeva così anche per il concetto di nulla, che veniva rappresentato attraverso il mare, visto in opposizione alla terra abitata (cf Gb 38,8-11), oppure ricorrendo alle tenebre, all’abisso e al deserto (cf Gen 1,2). Per noi queste realtà non sono il nulla, ma in una mentalità simbolica incarnavano l’assenza di terra, di luce, di materia, di vegetazione, considerate come l’essere per eccellenza. Per questo stesso motivo non è possibile cercare la parola “infinito” nella Bibbia; bisognerà procedere per una via simbolica, seguendo lo sforzo degli autori sacri di immaginare quell’idea. Tre sono i percorsi che proponiamo. Il primo è il semplice e immediato: l’infinito è la negazione di un limite, di una frontiera, in ebraico ‘en-sof, “senza confine”, oppure en-qeqez, “senza bordo, fine”. Illuminante è il contrappunto tra finito e infinito in questo versetto salmico: “Di ogni cosa perfetta ho visto il limite: il tuo decreto è esteso, senza limiti” (Sal 119,96). Infinito può essere, però, anche il peccato dell’uomo, le cui iniquità sono innumerevoli (cf Gb 22,5), ma per analogia si può anche parlare di “una folla innumerevole” (Qo 4,16), così come lo sono i libri pubblicati (cf Qo 12,12), l’universo “grande e senza fine, eccelso e senza misura” (Bar 3,25) e le genealogie umane “interminabili” (1Tm 1,4).
E’ però soprattuto Dio ad essere descritto così. L’autore della lettera agli Ebrei, citando il Sal 102,28 ricorda in 1,12 che “gli anni di Dio non finiranno”, mentre del sacerdote Melchisedek, simbolo di Cristo, si afferma che è “senza principio di giorni e fine di vita” (Eb 7,3), evocando in tal mondo l’idea parallela di eternità. Così dell’agàpe, l’amore cristiano, san Paolo dice che “non ha fine” (1Cor 13,8) e usa un avverbio greco che indica il “dappertutto” (oudépote), cercando di rendere visiva questa presenza illimitata e insuperabile. Ma a questo punto è necessario imboccare la seconda via che la Bibbia adotta per evocare il tema dell’infinito. E’ quella più congeniale alle culture antiche (ma non solo), ossia il ricorso ai simboli che, pur essendo di per sé limitati e a livello materiale e fisico, possono rimandare allusivamente a un’immensità innumerevole e a una trascendenza illimitata. E’, ad esempio, il caso dei granelli di polvere del terreno o della sabbia del litorale marino (cf Gen 13,16), oppure quello dello stelle in cielo (cf Gen 15,5). Un’altra simbolica ricorre ai numeri “innumerabili” come il “mille”: la bontà divina si stende per mille generazioni, mentre la sua giustizia solo fino a tre o quattro generazioni (cf Es 20,5-7; 34,7). I cori angelici sono “mille migliaia e miriadi di miriadi” (Dn 7,10).
Un altro paradigma simbolico per esprimere l’infinito è, invece, di taglio alfabetico ed è caro all’Apocalisse: “Io sono l’Alfa e l’Omega” (Ap 1,8; 21,6; 22,13) e talora s’accosta alla formulazione dell’eternità attraverso l’arco integrale del tempo applicato a Dio, “Colui che è, che era e che viene”. La prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco esprimono una figura stilistica detta “polarismo”: attraverso i due estremi si vuole indicare tutto ciò che in essi è contenuto; quindi la totalità dell’essere.
E’ evidente che in questi percorsi simbolici l’elemento di base è una realtà finita che viene tesa a raffigurare l’Oltre e l’Altro infinito ed eterno. Questo discorso, infatti, vale anche per il concetto di “eternità”. Si pensi che in ebraico ‘olam, che spesso è reso con “eternità”, di per sé significa l’arco intero del tempo (e anche dello spazio) ed è così che in greco aiôn – che designa il “secolo” presente, cioè l’intero arco storico – diventa emblema di eternità, soprattuto nella formula “nei secoli” (Lc 1,33), ereditata dalla liturgia cristiana nell’espressione “nei secoli dei secoli”.
Analogo per l’idea di infinito è il ricorso al “cielo”, anzi al superlativo “cieli dei cieli”. Molto nitida al riguardo è una frase delle preghiera di consacrazione del tempio di Salomone, ove il confronto dialettico tra finito (tempio) e infinito è così espresso: “Ma veramente Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere, quanto meno lo potrà questo tempio che ho costruito!” (1Re 8,27).
Ed è da questa intuizione che procediamo verso l’ultima via biblica per definire l’infinito, in questo caso secondo una dimensione sempre più teologica, che è di grande pertinenza per lo sviluppo del tema generale di questo libro. Ci sono molti testi che puntano direttamente a illustrare l’onnipresenza, l’onnipotenza e l’onniscienza di Dio, ed è per questa strada che si esalta la sua infinità, che non conosce limiti spaziali o temporali, dato che egli “riempie il cielo e la terra” (Ger 23,24). Egli supera ogni frontiera cosmica, invalicabile all’uomo: “Chi è salito al cielo e ne è disceso?”, si chiede Agur, sapiente orientale citato dal libro dei Proverbi, in una serie di domande retoriche: “Chi ha raccolto il vento nelle sue palme? Chi ha racchiuso le acque nel mantello? Chi ha fissato tutti i confini della terra?” (Pr 30,4; si legga anche Gb 38-39). “La perfezione dell’Onnipotente”, afferma Zofar, il terzo degli amici di Giobbe, “è più alta dei cieli: che cosa puoi fare? E’ più profonda degli inferi: che ne puoi sapere? E’ più estesa della terra nella sua dimensione ed è più vasta del mare” (Gb 11,7-9).
In questa stessa linea si muove l’apostolo Paolo, quando agli Efesini augura di essere capaci di “afferrare, insieme a tutti i santi, la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, cioè a conoscere l’amore del Cristo che trascende ogni conoscenza” (Ef 3,18). Evidente è il paradosso di comprimere nella conoscenza umana ciò che di sua natura è in-comprensibile e trascendente, ossia l’amore divino che travalica le coordinate spaziali dell’essere. Noi, dichiara ancora l’Apostolo nella sua celebre allocuzione all’Aeropago ateniese, “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” in Dio che supera ogni nostro confine e tracciato, inglobandolo e rivelandosi sempre oltre. In questa linea è decisivo il Sal 139 (138), un gioiello poetico, dedicato all’esaltazione dell’onnipresenza del Creatore e quindi alla sua infinità onnicomprensiva, per cui ogni fuga da lui è impossibile, come già riconosceva un testo aramaico di El-Amarna (Egitto): “Se noi saliamo in cielo, se noi scendiamo agli inferi, la nostra testa è sempre nelle tue mani, o Dio”.
Nella prima strofa del Salmo (vv. 1-6) si esalta l’onniscenza divina totale e assoluta. Dio mi conosce “quando mi siedo e quando mi alzo, quando cammino e quando sosto”: sono anche in questo caso “polarismi” che indicano le azioni estreme della vita umana, ma vogliono riassumerne tutte le altre in esse comprese, essendo a lui aperti i segreti profondi dei nostri pensieri e delle nostre parole prima ancora che sboccino. L’infinito divino è celebrato, invece, soprattutto nella seconda strofa (vv. 7-12), quando si descrive il “folle volo” dell’uomo per sottrarsi a Dio. Tutto lo spazio è percorso, dalla verticale cielo-inferi fino all’orizzontale est-ovest (aurora-mar Mediterraneo). Canta il Salmista: “Dove potrei andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire lontano dalla tua presenza? Se scalassi i cieli, là tu sei, se discendessi negli inferi, eccoti. Se prendessi le ali dell’aurora e riuscissi ad abitare all’estremità del mare, anche là mi guiderebbe la tua mano e mi prenderebbe la tua destra” (vv. 7-10).
Ma anche tutto il tempo con la sequenza circadiana (che riguarda, cioè, la sequenza delle ventiquattro ore, e quindi il ciclo notte-giorno) è superato da Dio, che anche in tal modo svela la sua eternità. Nella terza strofa (vv.13-18) anche qualcosa di infinitamente piccolo come l’embrione umano nel grembo della madre è conosciuto in tutto il suo potenziale, destinato a fiorire nella vita fatta di opere e pensieri. Dio è quindi colto come infinito proprio per questa sua capacità di onnipresenza trascendente ed è forse questo il concetto più caro all’autore sacro: la sua ricerca dell’infinito approda non all’infinito filosofico o fisico, ma all’Infinito teologico.
In questa luce potremmo riconoscere – sulla scia delle parole di uno scrittore politico francese lontano da temi religiosi diretti, Georges Sorel (1847-1922), nelle sue Riflessioni sulla violenza del 1908 – che “quello che di migliore v’è nella coscienza umana è il tormento dell’infinito”.

[Testo tratto da Gianfranco Ravasi, "Dove sei, Signore?" (Edizioni San Paolo)]

OMELIA (23-08-2015) – IL TEMPO DI DECIDERSI E DI AGIRE

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/35318.html

OMELIA (23-08-2015) – IL TEMPO DI DECIDERSI E DI AGIRE

padre Gian Franco Scarpitta

Tanti anni or sono, assistendo alla Professione Solenne dei voti di un Confratello, mi colpirono le parole a lui indirizzate nell’omelia da parte del Padre Provinciale: « E’ venuto il momento di passare dalle intenzioni agli impegni… Dalle idee fascinose e seducenti, alla realtà dei fatti concreti di testimonianza religiosa. » Nessuno che si limiti a sognare ad occhi aperti o a idealizzare giungerà mai da nessuna parte, se non si lancia nell’azione.
Qualsiasi progetto, meta o ambizione è destinato a restare un sogno quando dalle congetture non si passa alle attività concrete per realizzarle. E’ l’azione che realizza, non la fantasia. E la decisione e determinazione che inducono ad agore sono la prova concreta che davvero noi crediamo in quello che abbiamo progettato. « Meglio agire e fallire, piuttosto che non agire e vanamente agitarsi » (Og Mandino). Questo avviene evidentemente in tutti i campi del vissuto, ma che ci si debba decidere in campo di fede è ancora più necessario e determinante: se Dio ci si è rivelato in Cristo, se Lui ha manifestato la sua misericordia e il suo amore per noi, ebbene da parte nostra occorre che ad un certo punto ci decidiamo per lu, senza più tergiversare. Dio si è rivelato infatti perché noi prendiamo una decisione, che facciamo una scelta e non semplicemente perché ce ne affasciniamo o contempliamo meravigliati e contenti.
Come si rilevava nelle scorse Domeniche, Gesù aveva espressamente dimostrato di essere il pane vivo disceso dal Cielo, il Verbo Incarnato mangiando del quale si ottiene la vita, il Figlio di Dio che è venuto nel mondo e che nello Spirito Santo ci da’ l’accesso al Padre. Cristo è la Verità rivelata che ci fa liberi (Gv 8,16). Ma tutto questo come potrà incidere nella nostra vita se non ci decidiamo per lui? Che riscontro possiamo mai ottenere dal pane vivo disceso dal Cielo se non ci apriamo alla verità da Questi resa manifesta, se non usciamo da noi stessi per orientarci verso di lui? La decisione che ci compete di fronte al pane vivo disceso dal cielo è la fede, cioè l’accettazione incondizionata, l’apertura e l’affidamento, ma essa comporta che si « agisca », cioè risolutamente ci si decida una volta per tutte. Essa richiede che, una volta consapevoli e maturi quanto ai suoi contenuti, ci lanciamo senza più indugiare e che la nostra determinazione si traduca in concretezza n nelle parole « Io credo ». Gesù, dopo aver mostrato il fascino e la bellezza della rivelazione del Padre nel suo Verbo, chiede ora ai suoi discepoli di passare dalla meraviglia alla decisione e agli impegni, perché l’espressione « Credo » costituisce quanto di più impegnativo noi possiamo immaginare. Credere vuol dire infatti aderire, non opporre resistenza, accettare con eroismo quanti altri potrebbero ritenere insensato e illogico, vivere e tradurre in concretezza ciò che ci è stato proposto come insieme di verità, e soprattutto realizzare un incontro vitale con la Verità.
Vuol dire anche accettare un discorso che, umanamente parlando, è duro, ostile e incomprensibile ma che proprio per questo comporta decisione libera e consapevole. Come la Parola di Dio in se stessa comprende l’azione per cui essa opera tutto ciò che annuncia, così’ la fede dell’uomo racchiude in se stessa una reazione di corrispondenza e di decisa risposta.
Giosuè esclama rivolto ai giudici, ai capi e agli anziani: « Sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore». (Gs 24, 15) Dio aveva già mostrato abbastanza la sua potenza per poter ottenere credito presso il suo popolo, ma adesso è il popolo che deve decidersi se credere o non credere. Se aderire a false religiosità effimere di comodismo, se crearsi idoli o divinità fittizie alle quali è fin troppo facile prestare fede e attenzione, oppure aderire al vero Dio onnipotente che pur chiedendo degli impegni offre delle garanzie. Come pure i discepoli di Gesù sono invitati a prendere posizione in seguito alle parole proferite dal maestro, a loro volta accompagnate da azioni dirompenti quali la moltiplicazione dei pani agli oltre cinquemila uomini. Ora, credere è per l’appunto un impegno che per molti sarebbe preferibile non assumersi appunto perché troppo eroico ed elevato, al di sopra delle nostre piccole possibilità. La fede è infatti un dono divino che, una volta accolto, va costantemente coltivato e alimentato non senza i mezzi della grazia e gli ausili appropriati di Dio quali la preghiera e la meditazione e comporta un serio esercizio. Inoltre la fede comporta uniformità e coerenza che devono escludere parzialità e frammentarietà: o si crede o non si crede. O si crede in tutto ciò che ci viene proposto o non si crede in nulla e accettare del nostro credo religioso i soli articoli per noi piacevoli e accattivanti è semplicemente banale e melense oltre che incoerente. Il credente non è un lavoratore part time, ma un impiegato a tempo pieno privo di ferie e di pensionamenti. Per certuni questo discorso è veramente ostico e impenetrabile, non soltanto ai nostri giorni ma anche all’epoca della predicazione di Gesù. Adesso infatti, una volta terminato il suo excursus sul pane vivo disceso dal cielo, messi alle strette i discepoli vengono smascherati nella loro incredulità di fondo. Di conseguenza parecchi di essi si allontanano e preferiscono non impelagarsi perché non mostrano determinazione. Avrebbero preferito infatti ascoltare da lui solo il dolce delle promesse e delle garanzie e non l’amaro degli impegni e dei sacrifici che queste garanzie comportano. La loro propensione sarebbe stata quella di accogliere non la verità in assoluto per come vuole mostrarci e per come deve essere accolta, ma solo quell’aspetto accomodante e piacevole della verità per il quale si trovano giustificazioni per ritenere come falso tutto il resto.
Gesù non si scompone e imperterrito considera anche la possibilità che anche i suoi pochissimi fedeli ascoltatori possano lasciarlo: « Volete andarvene anche voi »?
Fortunatamente in questi uomini attenti e avvinti dal suo messaggio si trova una convinzione incomparabile che non regge il confronto con quella degli altri discepoli: essi ammettono che nessun altro sarebbe in grado di proferire parole di scaturigine divina perché nessun altro è Verbo Incarnato alla pari di Lui. Pietro (che nelle altre pagine evangeliche che lo riguardano si mostra sempre lacunoso) professa la fede nella vita eterna che Gesù ci garantisce nello Spirito Santo mettendoci in comunione con il Padre anche se questa verità comporta la serietà d’impegno della fede e di conseguenza ammette che sarebbe doloro disperdersi nel vuoto che lascerebbe la mancate fede nel Figlio di Dio. I Dodici erano passati dagli ideali agli impegni. E noi?

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 21 août, 2015 |Pas de commentaires »

St. Bernard of Clairvaux

St. Bernard of Clairvaux dans immagini sacre 0820s_bernar%20Roelas

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Publié dans:immagini sacre |on 19 août, 2015 |Pas de commentaires »

SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE – 20 AGOSTO

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SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE – 20 AGOSTO

Santo, dottore della Chiesa, mistico e filosofo, detto Doctor mellifluus (Fontaines, Digione, 1090 o 1091 – Clairvaux 1153). È considerato il secondo fondatore dell’ordine dei Cistercensi (dal latino medievale. cisterciensis, da Cistercium, nome antico di Cîteaux, abbazia della Francia, nel comune di Saint-Nicolas-lès-Cîteaux dipartimento della Côte-d’Or dove nel 1098 da una ventina monaci benedettini con l’abate Roberto era stato fondato per la prima volta il Sacer Ordo Cistercensis), Cistercensi che da lui furono detti Bernardini.
Apparteneva a famiglia nobile e pia della Borgogna e venne educato dai canonici regolari. Nel 1112 entrò nell’abbazia di Cîteaux, il che rappresentò l’avvio per una splendida fioritura che vide in pochissimi anni la fondazione di quattro nuovi monasteri. Nel 1115 Santo Stefano Harding inviò Bernardo a fondare quel monastero che assunse il nome di Clairvaux (clara vallis, Chiaravalle), di cui Bernardo fu abate fino alla morte. Egli però percorse in continuazione tutta l’Europa esercitando un grande influsso religioso e anche politico su vescovi e principi.
Sostenne, per esempio, nel Concilio di Étampes (1130) papa Innocenzo II contro lo scismatico Anacleto II; accompagnò quindi il papa in Italia nel 1133 (e vi svolse opera di pacificazione tra Pisani e Genovesi) e nel 1135: data importante, oltre che per l’opera politica svolta a Milano, anche per la fondazione dell’abbazia milanese di Chiaravalle, che inaugurò tutta una serie di nuove fondazioni.
Bernardo si prefisse una propria riforma ecclesiastica contro Arnaldo da Brescia; costruì un proprio mistico cristocentrismo contro la teologia dialettica di Abelardo; combatté l’eresia dei Petrobrusiani. Su incarico del papa Eugenio III predicò nel 1146-47 in Francia la crociata per la liberazione dei luoghi santi. La sua predicazione fu tanto efficace che 200.000 uomini guidati da Corrado III e Luigi VII il Giovane presero le armi. La crociata però finì in modo disastroso.
Nel 1149 Bernardo iniziò il De consideratione libri V ad Eugenium III con un vasto piano di restaurazione della disciplina ecclesiastica. I numerosi scritti di Bernardo comprendono lettere, sermoni, trattati ascetico-mistici, monastici, liturgici, dogmatici, apologetici, agiografici: nel complesso una vera e propria somma di spiritualità. In campo politico Bernardo formulò la dottrina delle “due spade”, cioè del potere religioso e temporale, che assieme dovevano debellare le eresie e i pericoli per l’unità politica e condurre i sudditi cristiani al porto sicuro della concordia sociale e dell’unità nella fede.
Da un punto di vista filosofico, Bernardo insiste sulla cooperazione volontà-grazia nel processo di santificazione dell’uomo, che avviene con la mediazione del Cristo attraverso i gradi dell’umiltà e dell’amore. Il Doctor mellifluus ha esaltato anche Maria, che egli considera “mediatrice universale delle grazie”. Appassionato cultore del canto gregoriano, ne promosse una riforma per liberarlo da arbitrarie interpolazioni e ricondurlo alla sua originaria purezza. Fu canonizzato nel 1174. Festa il 20 agosto. I passi alpini valdostani del Piccolo San Bernardo (2188 m, Alpi Graie) e del Gran San Bernardo (2469 m, Alpi Pennine) sono dedicati a un altro santo, San Bernardo di Mentone (923-1008).
Bernardo di Chiaravalle o Bernard de Clairvaux (Fontaine-lès-Dijon, 1090 – Ville-sous-la-Ferté, 20 agosto 1153) è stato un teologo e abate francese, fondatore della celebre abbazia di Clairvaux. Viene venerato come santo dalla Chiesa cattolica. Canonizzato nel 1174 da papa Alessandro III, fu dichiarato Dottore della Chiesa, Doctor Mellifluus, da papa Pio VIII nel 1830.

Biografia
Terzo di sette fratelli, nacque da Tescelino il Sauro, vassallo di Oddone I di Borgogna, e da Aletta, figlia di Bernardo di Montbard, anch’egli vassallo del duca di Borgogna. Studiò solo grammatica e retorica (non tutte le sette arti liberali, dunque) nella scuola dei canonici di Nôtre Dame di Saint-Vorles, presso Châtillon-sur-Seine, dove la famiglia aveva dei possedimenti.
Ritornato nel castello paterno di Fontaines, nel 1111, insieme ai cinque fratelli e ad altri parenti e amici, si ritirò nella casa di Châtillon per condurvi una vita di ritiro e di preghiera finché, l’anno seguente, con una trentina di compagni si fece monaco nel convento cistercense di Cîteaux, fondato quindici anni prima da Roberto di Molesmes e allora retto da Stefano Harding.
Nel 1115, insieme a dodici compagni, tra i quali erano quattro fratelli, uno zio e un cugino, si trasferì nella proprietà di un parente, nella regione della Champagne, che aveva donato ai monaci un vasto terreno sulle rive del fiume Aube, nella diocesi di Langres perché vi fosse costruito un nuovo convento cistercense: essi chiamarono quella valle Clairvaux, chiara valle.
Ottenuta l’approvazione del vescovo Guglielmo di Champeaux e ricevute numerose donazioni, l’abbazia divenne in breve tempo un centro di richiamo oltre che di irradiazione: già dal 1118 monaci di Clairvaux partirono per fondare altrove nuovi conventi, come a Trois-Fontaines, a Fontenay, a Foigny, a Autun, a Laon; si calcola che nell’arco dei primi 40 anni furono sessantotto i conventi fondati da monaci provenienti da Chiaravalle.

La polemica con Cluny
Nella Lettera 1, spedita verso il 1124 al cugino Roberto, Bernardo mostra di considerare la vita monastica dei benedettini di Cluny, allora all’apogeo del loro sviluppo, come un luogo che negava i valori della povertà, dell’austerità e della santità; egli rifiuta la teoria della regola benedettina della stabilitas – ossia del legame permanente e definitivo che dovrebbe stabilirsi fra monaco e monastero – sostenendo la legittimità del passaggio da un convento cluniacense a uno cistercense, essendovi in quest’ultimo professata una regola più rigorosa e più aderente alla Regola di San Benedetto, pertanto una vita monastica perfetta. La polemica fu da lui ripresa nell’ Apologia all’abate Guglielmo, sollecitata da Guglielmo, abate del monastero di Saint-Thierry, che ebbe una risposta dall’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, nella quale l’abate rivendicava la legittimità della discrezione nell’interpretazione della regola benedettina.
Nel 1130, alla morte di Onorio II, furono eletti due papi: uno, dalla fazione della famiglia romana dei Frangipane, col nome di Innocenzo II e un altro, appoggiato dalla famiglia dei Pierleoni, con il nome di Anacleto II; Bernardo appoggiò attivamente il primo che, nella storia della Chiesa, per quanto eletto da un minor numero di cardinali, sarà riconosciuto come autentico papa, grazie soprattutto all’appoggio dei maggiori regni europei.
Numerosi furono i suoi interventi in questioni che riguardavano i comportamenti di ecclesiastici: accusò di scorrettezza Simone, vescovo di Noyon e di simonia Enrico, vescovo di Verdun; nel 1138 favorì l’elezione a vescovo di Langres del proprio cugino Goffredo della Roche-Vanneau, malgrado l’opposizione di Pietro il Venerabile e, nel 1141, ad arcivescovo di Bourges di Pietro della Châtre, mentre l’anno dopo ottenne la sostituzione di Guglielmo di Fitz-Herbert, vescovo di York, con l’amico cistercense Enrico Murdac, abate di Fountaine.

I Templari
Nel 1119 alcuni cavalieri, sotto la guida di Ugo di Payns, feudatario della Champagne e parente di Bernardo, fondarono un nuovo ordine monastico-militare, l’Ordine dei Cavalieri del Tempio, con sede in Gerusalemme, nella spianata ove sorgeva il Tempio ebraico; lo scopo dell’Ordine, posto sotto l’autorità del patriarca di Gerusalemme, era di vigilare sulle strade percorse dai pellegrini cristiani. L’Ordine ottenne nel concilio di Troyes del 1128 l’approvazione di papa Onorio II e sembra che la sua regola sia stata ispirata da Bernardo, il quale scrisse, verso il 1135, l’Elogio della nuova cavalleria (De laude novae militiae ad Milites Templi).
L’interesse di Bernardo per le vicende politiche del suo tempo si manifestò anche in occasione dei conflitti che opposero il conte della Champagne, Tibaldo II, da lui sostenuto, al re Luigi VII di Francia e in occasione della repressione, nel 1140, del neonato Comune di Reims, operata dal suo pupillo cistercense, il vescovo Sansone di Mauvoisin.

Il conflitto con Abelardo
Grande fu la risonanza del conflitto che oppose Bernardo al filosofo Pietro Abelardo. Nel 1140 Guglielmo di Saint-Thierry, cistercense del convento di Signy, scriveva al vescovo di Chartres, Goffredo di Lèves e a Bernardo, denunciando che due opere di Abelardo, il Liber sententiarum e la Theologia scholarium, contenevano, a suo giudizio, affermazioni teologicamente erronee, elencandole in un proprio scritto, la Discussione contro Pietro Abelardo.
Bernardo, senza preoccuparsi di leggere i testi (ma è vero?), scrisse a papa Innocenzo II la Lettera 190, sostenendo che Abelardo concepiva la fede una semplice opinione; davanti agli studenti parigini pronunciò il sermone de La conversione, attaccando Abelardo e invitandoli ad abbandonare le sue lezioni.
Abelardo reagì chiedendo all’arcivescovo di Sens di organizzare un pubblico confronto con Bernardo, da tenersi il 3 giugno 1140, ma questi, temendo l’abilità dialettica del suo controversista, il giorno prima presentò 19 affermazioni chiaramente eretiche, attribuendole ad Abelardo, chiamando i vescovi presenti a condannarle e invitando il giorno dopo lo stesso Abelardo a pronunciarsi in proposito. Al rifiuto di Abelardo, che abbandonò il concilio, seguì la condanna dei vescovi, ribadita il 16 luglio successivo dal papa.

La lotta contro gli eretici
Nel 1144 il monaco Evervino di Steinfeld lo informò di un’eresia, di tipo pauperistico, diffusa in quel di Colonia, alla quale rispose con i Sermoni 63, 64, 65 e 66; l’anno successivo accolse l’invito del cardinale di Ostia, Alberico, a combattere un’eresia diffusa nella regione di Tolosa dal monaco Enrico di Losanna, seguace di Pietro di Bruys, critico nei confronti delle gerarchie ecclesiali e propositore di una vita improntata alla povertà e alla penitenza; in questa occasione Bernardo ritenne necessario recarsi, insieme con il suo segretario Goffredo d’Auxerre, a Tolosa. Ottenuta, dopo molti contrasti, una professione di fede, tornò a Chiaravalle e indirizzò una lettera agli abitanti di Tolosa – la Lettera 242 – nella quale esprimeva la sua convinzione che quelle dottrine fossero state definitivamente confutate.
Richiesto ancora di pronunciarsi sulle tesi trinitarie del vescovo di Poitiers e maestro di teologia a Parigi, Gilberto Porretano, nel 1148, nuovamente Bernardo tentò di far approvare da vescovi da lui riuniti a parte, una preventiva condanna che il sinodo da tenere il giorno successivo a Reims avrebbe dovuto semplicemente ratificare; questa volta, tuttavia, i vescovi non appoggiarono la sua iniziativa, tanto che Bernardo dovette cercare appoggio da papa Eugenio III. La difesa di Gilberto – che affermò di non aver mai sostenuto le tesi a lui contestate, frutto, a suo dire, di interpretazioni erronee dei suoi studenti – fece cadere ogni accusa.

La seconda crociata
Il 15 febbraio 1145, a Roma, nel convento di san Cesario, sul Palatino, il conclave eleggeva nuovo papa Eugenio III, abate del convento romano dei Santi Vincenzo e Anastasio; il nuovo papa, Bernardo Paganelli, conosceva bene Bernardo, per averlo incontrato nel concilio di Pisa del 1135 e per essersi ordinato cistercense proprio a Chiaravalle nel 1138. Bernardo, felicitandosi per l’elezione, gli ricordava curiosamente che si diceva «che non siete voi a essere papa, ma io e ovunque, chi ha qualche problema si rivolge a me» e che era stato proprio lui, Bernardo, ad «averlo generato per mezzo del Vangelo».
Eugenio III incaricò Bernardo di predicare a favore della nuova crociata che si stava preparando, e che avrebbe dovuto essere composta soprattutto da francesi, ma Bernardo riuscì a coinvolgere anche i tedeschi. La crociata fu un completo fallimento che Bernardo giustificò, nel suo trattato La considerazione, con i peccati dei crociati, che Dio aveva messo alla prova. Questo trattato, finito di comporre nel 1152 si occupava anche dei compiti del papato, e Bernardo lo mandò a papa Eugenio che si dibatteva tra le difficoltà procurategli dall’opposizione dei repubblicani romani, guidati da Arnaldo da Brescia.
Le sue condizioni di salute cominciano a peggiore alla fine del 1152: ha ancora la forza di intraprendere un viaggio fino a Metz, in Lorena, per mettere fine ai disordini che travagliavano quella città. Tornato a Chiaravalle, apprende la notizia della morte di papa Eugenio, avvenuta l’8 luglio 1153 e muore il mese dopo. Rivestito con un abito appartenuto al vescovo Malachia, del quale aveva appena finito di scrivere una biografia, viene sepolto davanti all’altare della sua abbazia.

La restaurazione della natura umana
Riguardo il suo pensiero teologico e filosofico, Bernardo esprime sul piano morale un orientamento ispirato, apparentemente, al pessimismo: « [...] generati dal peccato, noi peccatori generiamo peccatori; nati corrotti, generiamo dei corrotti; nati schiavi, generiamo degli schiavi. » San Bernardo, dunque, combatte alcune tesi del suo tempo, come la teoria secondo la quale i discendenti di Adamo (cioè noi) non abbiano in sé un «peccato originale» sin dalla nascita, ma solo un «malum poenae», un «male di pena». Bernardo dice anche: « L’uomo è impotente di fronte al peccato. »
Ciò, evidentemente non è una giustificazione al peccato stesso, ma una spiegazione della miseria umana che nei nostri peccati si rivela, ma che è originata dal peccato originale che in ciascuno è impresso come un marchio. Dunque, la questione fondamentale è restaurare la natura umana, per riportare l’uomo al suo stato di «figlio di Dio», e dunque «essere eterno» nella beatitudine del Padre. Poiché ognuno porta in sé il peccato originale, però, nessuno può restaurare la propria natura da solo, ma può farlo solamente attraverso la «mediazione» di Cristo, che è «Soter» (cioè «Salvatore»), proprio in quanto per noi è morto, espiando al nostro posto quel peccato originale che nessun altro poteva espiare, essendone sottoposto. Nella sua opera De gradibus humilitatis et superbiae, tuttavia, dice che, per avere la «mediazione» di Cristo, l’uomo deve superare l’«io di carne», deve limitare e poi annullare la superbia e l’amore di sé, attraverso l’umiltà. Contro di sé, dunque, deve porre l’amore di Dio, poiché solo col Suo amore si ottiene anche la Sua vera intelligenza, e solo con esso « [...] l’anima passa dal mondo delle ombre e delle apparenze all’intensa luce meridiana della Grazia e della verità. »

I quattro gradi dell’amore
Nel De diligendo Deo, San Bernardo continua la spiegazione di come si possa raggiungere l’amore di Dio attraverso la via dell’umiltà. La sua dottrina cristiana dell’amore è originale, indipendente dunque da ogni influenza platonica e neoplatonica. Secondo Bernardo esistono quattro gradi sostanziali dell’amore, che presenta come un itinerario, che dal sé esce, cerca Dio, e infine torna al sé, ma solo per Dio. I gradi sono:
1) L’amore di se stessi per sé: « [...] bisogna che il nostro amore cominci dalla carne. Se poi è diretto secondo un giusto ordine, [...] sotto l’ispirazione della Grazia, sarà infine perfezionato dallo spirito. Infatti non viene prima lo spirituale, ma ciò che è animale precede ciò che è spirituale. [...] Perciò prima l’uomo ama sé stesso per sé [...]. Vedendo poi che da solo non può sussistere, comincia a cercare Dio per mezzo della fede, come un essere necessario e Lo ama. »
2) L’amore di Dio per sé: « Nel secondo grado, quindi, ama Dio, ma per sé, non per Lui. Cominciando però a frequentare Dio e ad onorarlo in rapporto alle proprie necessità, viene a conoscerlo a poco a poco con la lettura, con la riflessione, con la preghiera, con l’obbedienza; così gli si avvicina quasi insensibilmente attraverso una certa familiarità e gusta pura quanto sia soave. »
3) L’amore di Dio per Dio: « Dopo aver assaporato questa soavità l’anima passa al terzo grado, amando Dio non per sé, ma per Lui. In questo grado ci si ferma a lungo, anzi, non so se in questa vita sia possibile raggiungere il quarto grado. »
4) L’amore di sé per Dio: « Quello cioè in cui l’uomo ama sé stesso solo per Dio. [...] Allora, sarà mirabilmente quasi dimentico di sé, quasi abbandonerà sé stesso per tendere tutto a Dio, tanto da essere uno spirito solo con Lui. Io credo che provasse questo il profeta, quando diceva: « -Entrerò nella potenza del Signore e mi ricorderò solo della Tua giustizia- ». [...] » (San Bernardo di Chiaravalle, De diligendo Deo, cap. XV)
Nel De diligendo Deo, dunque, San Bernardo presenta l’amore come una forza finalizzata alla più alta e totale fusione in Dio col Suo Spirito, che, oltre a essere sorgente d’ogni amore, ne è anche «foce», in quanto il peccato non sta nell’«odiare», ma nel disperdere l’amore di Dio verso il sé (la carne), non offrendolo così a Dio stesso, Amore d’amore.

 

Publié dans:SANTI, Santi - scritti, SCRITTI |on 19 août, 2015 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – LA FAMIGLIA – 22. FESTA

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150812_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 12 agosto 2015

LA FAMIGLIA – 22. FESTA

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi apriamo un piccolo percorso di riflessione su tre dimensioni che scandiscono, per così dire, il ritmo della vita famigliare: la festa, il lavoro, la preghiera.
Incominciamo dalla festa. Oggi parleremo della festa. E diciamo subito che la festa è un’invenzione di Dio. Ricordiamo la conclusione del racconto della creazione, nel Libro della Genesi che abbiamo ascoltato: «Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando» (2,2-3). Dio stesso ci insegna l’importanza di dedicare un tempo a contemplare e a godere di ciò che nel lavoro è stato ben fatto. Parlo di lavoro, naturalmente, non solo nel senso del mestiere e della professione, ma nel senso più ampio: ogni azione con cui noi uomini e donne possiamo collaborare all’opera creatrice di Dio.
Dunque la festa non è la pigrizia di starsene in poltrona, o l’ebbrezza di una sciocca evasione, no la festa è anzitutto uno sguardo amorevole e grato sul lavoro ben fatto; festeggiamo un lavoro. Anche voi, novelli sposi, state festeggiando il lavoro di un bel tempo di fidanzamento: e questo è bello! E’ il tempo per guardare i figli, o i nipoti, che stanno crescendo, e pensare: che bello! E’ il tempo per guardare la nostra casa, gli amici che ospitiamo, la comunità che ci circonda, e pensare: che cosa buona! Dio ha fatto così quando ha creato il mondo. E continuamente fa così, perché Dio crea sempre, anche in questo momento!
Può capitare che una festa arrivi in circostanze difficili o dolorose, e si celebra magari “con il groppo in gola”. Eppure, anche in questi casi, chiediamo a Dio la forza di non svuotarla completamente. Voi mamme e papà sapete bene questo: quante volte, per amore dei figli, siete capaci di mandare giù i dispiaceri per lasciare che loro vivano bene la festa, gustino il senso buono della vita! C’è tanto amore in questo!
Anche nell’ambiente di lavoro, a volte – senza venire meno ai doveri! – noi sappiamo “infiltrare” qualche sprazzo di festa: un compleanno, un matrimonio, una nuova nascita, come anche un congedo o un nuovo arrivo…, è importante. È importante fare festa. Sono momenti di famigliarità nell’ingranaggio della macchina produttiva: ci fa bene!
Ma il vero tempo della festa sospende il lavoro professionale, ed è sacro, perché ricorda all’uomo e alla donna che sono fatti ad immagine di Dio, il quale non è schiavo del lavoro, ma Signore, e dunque anche noi non dobbiamo mai essere schiavi del lavoro, ma “signori”. C’è un comandamento per questo, un comandamento che riguarda tutti, nessuno escluso! E invece sappiamo che ci sono milioni di uomini e donne e addirittura bambini schiavi del lavoro! In questo tempo ci sono schiavi, sono sfruttati, schiavi del lavoro e questo è contro Dio e contro la dignità della persona umana! L’ossessione del profitto economico e l’efficientismo della tecnica mettono a rischio i ritmi umani della vita, perché la vita ha i suoi ritmi umani. Il tempo del riposo, soprattutto quello domenicale, è destinato a noi perché possiamo godere di ciò che non si produce e non si consuma, non si compra e non si vende. E invece vediamo che l’ideologia del profitto e del consumo vuole mangiarsi anche la festa: anch’essa a volte viene ridotta a un “affare”, a un modo per fare soldi e per spenderli. Ma è per questo che lavoriamo? L’ingordigia del consumare, che comporta lo spreco, è un brutto virus che, tra l’altro, ci fa ritrovare alla fine più stanchi di prima. Nuoce al lavoro vero, consuma la vita. I ritmi sregolati della festa fanno vittime, spesso giovani.
Infine, il tempo della festa è sacro perché Dio lo abita in un modo speciale. L’Eucaristia domenicale porta alla festa tutta la grazia di Gesù Cristo: la sua presenza, il suo amore, il suo sacrificio, il suo farci comunità, il suo stare con noi… E così ogni realtà riceve il suo senso pieno: il lavoro, la famiglia, le gioie e le fatiche di ogni giorno, anche la sofferenza e la morte; tutto viene trasfigurato dalla grazia di Cristo.
La famiglia è dotata di una competenza straordinaria per capire, indirizzare e sostenere l’autentico valore del tempo della festa. Ma che belle sono le feste in famiglia, sono bellissime! E in particolare della domenica. Non è certo un caso se le feste in cui c’è posto per tutta la famiglia sono quelle che riescono meglio!
La stessa vita famigliare, guardata con gli occhi della fede, ci appare migliore delle fatiche che ci costa. Ci appare come un capolavoro di semplicità, bello proprio perché non artificiale, non finto, ma capace di incorporare in sé tutti gli aspetti della vita vera. Ci appare come una cosa “molto buona”, come Dio disse al termine della creazione dell’uomo e della donna (cfr Gen 1,31). Dunque, la festa è un prezioso regalo di Dio; un prezioso regalo che Dio ha fatto alla famiglia umana: non roviniamolo!

 

Aurore, The judgment of Solomon

Aurore, The judgment of Solomon dans immagini sacre 20%20AURORE%20LE%20JUGEMENT%20DE%20SALOMON%201
http://www.artbible.net/1T/1ki0316_Solomon_judgement/pages/20%20AURORE%20LE%20JUGEMENT%20DE%20SALOMON%201.htm

Publié dans:immagini sacre |on 18 août, 2015 |Pas de commentaires »
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