DIO E L’INFINITO NELLA BIBBIA – CARD. GIANFRANCO RAVASI
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DIO E L’INFINITO NELLA BIBBIA
Praticamente assente come categoria filosofica e fisica, l’infinito si intreccia alla dimensione dello spazio e al suo costituirsi come orizzonte di incontro di Dio con l’uomo
CARD. GIANFRANCO RAVASI
Nella fama popolare lo scrittore americano ottocentesco Edgar Allan Poe è rimasto autore di inquietanti gialli di indole metafisica. Egli, però, ci ha lasciato anche vari scritti teorici. In uno di essi, Eureka del 1848, osservava: “La parola ‘infinito’ – come le parole ‘Dio’, ‘spirito’ e alcune altre, i cui equivalenti esistono in tutte le lingue – non è espressione di un’idea, ma espressione dello sforzo verso quell’idea”. Questa considerazione ben s’adatta alla Bibbia, quando essa viene sfogliata alla ricerca di temi teorici, di categorie filosofiche e teologiche simili a quelle che il mondo greco-romano ha sviluppato in modo sistematico sulla via della speculazione. E’ proprio il caso del concetto di infinito: senza esitazioni il Concilio Vaticano I (1870) applicava questo aggettivo a Dio, così come secoli prima il Concilio Lateranense IV (1215) lo definiva “immensus”. Ma per una civiltà come quella semitica, che elaborava il suo pensiero attraverso i simboli e l’esperienza concreta, il concetto di infinito – per usare le parole di Poe –, più che un’idea chiara e distinta, era “espressione di uno sforzo” per conquistare e raffigurare quell’idea.
Accadeva così anche per il concetto di nulla, che veniva rappresentato attraverso il mare, visto in opposizione alla terra abitata (cf Gb 38,8-11), oppure ricorrendo alle tenebre, all’abisso e al deserto (cf Gen 1,2). Per noi queste realtà non sono il nulla, ma in una mentalità simbolica incarnavano l’assenza di terra, di luce, di materia, di vegetazione, considerate come l’essere per eccellenza. Per questo stesso motivo non è possibile cercare la parola “infinito” nella Bibbia; bisognerà procedere per una via simbolica, seguendo lo sforzo degli autori sacri di immaginare quell’idea. Tre sono i percorsi che proponiamo. Il primo è il semplice e immediato: l’infinito è la negazione di un limite, di una frontiera, in ebraico ‘en-sof, “senza confine”, oppure en-qeqez, “senza bordo, fine”. Illuminante è il contrappunto tra finito e infinito in questo versetto salmico: “Di ogni cosa perfetta ho visto il limite: il tuo decreto è esteso, senza limiti” (Sal 119,96). Infinito può essere, però, anche il peccato dell’uomo, le cui iniquità sono innumerevoli (cf Gb 22,5), ma per analogia si può anche parlare di “una folla innumerevole” (Qo 4,16), così come lo sono i libri pubblicati (cf Qo 12,12), l’universo “grande e senza fine, eccelso e senza misura” (Bar 3,25) e le genealogie umane “interminabili” (1Tm 1,4).
E’ però soprattuto Dio ad essere descritto così. L’autore della lettera agli Ebrei, citando il Sal 102,28 ricorda in 1,12 che “gli anni di Dio non finiranno”, mentre del sacerdote Melchisedek, simbolo di Cristo, si afferma che è “senza principio di giorni e fine di vita” (Eb 7,3), evocando in tal mondo l’idea parallela di eternità. Così dell’agàpe, l’amore cristiano, san Paolo dice che “non ha fine” (1Cor 13,8) e usa un avverbio greco che indica il “dappertutto” (oudépote), cercando di rendere visiva questa presenza illimitata e insuperabile. Ma a questo punto è necessario imboccare la seconda via che la Bibbia adotta per evocare il tema dell’infinito. E’ quella più congeniale alle culture antiche (ma non solo), ossia il ricorso ai simboli che, pur essendo di per sé limitati e a livello materiale e fisico, possono rimandare allusivamente a un’immensità innumerevole e a una trascendenza illimitata. E’, ad esempio, il caso dei granelli di polvere del terreno o della sabbia del litorale marino (cf Gen 13,16), oppure quello dello stelle in cielo (cf Gen 15,5). Un’altra simbolica ricorre ai numeri “innumerabili” come il “mille”: la bontà divina si stende per mille generazioni, mentre la sua giustizia solo fino a tre o quattro generazioni (cf Es 20,5-7; 34,7). I cori angelici sono “mille migliaia e miriadi di miriadi” (Dn 7,10).
Un altro paradigma simbolico per esprimere l’infinito è, invece, di taglio alfabetico ed è caro all’Apocalisse: “Io sono l’Alfa e l’Omega” (Ap 1,8; 21,6; 22,13) e talora s’accosta alla formulazione dell’eternità attraverso l’arco integrale del tempo applicato a Dio, “Colui che è, che era e che viene”. La prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco esprimono una figura stilistica detta “polarismo”: attraverso i due estremi si vuole indicare tutto ciò che in essi è contenuto; quindi la totalità dell’essere.
E’ evidente che in questi percorsi simbolici l’elemento di base è una realtà finita che viene tesa a raffigurare l’Oltre e l’Altro infinito ed eterno. Questo discorso, infatti, vale anche per il concetto di “eternità”. Si pensi che in ebraico ‘olam, che spesso è reso con “eternità”, di per sé significa l’arco intero del tempo (e anche dello spazio) ed è così che in greco aiôn – che designa il “secolo” presente, cioè l’intero arco storico – diventa emblema di eternità, soprattuto nella formula “nei secoli” (Lc 1,33), ereditata dalla liturgia cristiana nell’espressione “nei secoli dei secoli”.
Analogo per l’idea di infinito è il ricorso al “cielo”, anzi al superlativo “cieli dei cieli”. Molto nitida al riguardo è una frase delle preghiera di consacrazione del tempio di Salomone, ove il confronto dialettico tra finito (tempio) e infinito è così espresso: “Ma veramente Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere, quanto meno lo potrà questo tempio che ho costruito!” (1Re 8,27).
Ed è da questa intuizione che procediamo verso l’ultima via biblica per definire l’infinito, in questo caso secondo una dimensione sempre più teologica, che è di grande pertinenza per lo sviluppo del tema generale di questo libro. Ci sono molti testi che puntano direttamente a illustrare l’onnipresenza, l’onnipotenza e l’onniscienza di Dio, ed è per questa strada che si esalta la sua infinità, che non conosce limiti spaziali o temporali, dato che egli “riempie il cielo e la terra” (Ger 23,24). Egli supera ogni frontiera cosmica, invalicabile all’uomo: “Chi è salito al cielo e ne è disceso?”, si chiede Agur, sapiente orientale citato dal libro dei Proverbi, in una serie di domande retoriche: “Chi ha raccolto il vento nelle sue palme? Chi ha racchiuso le acque nel mantello? Chi ha fissato tutti i confini della terra?” (Pr 30,4; si legga anche Gb 38-39). “La perfezione dell’Onnipotente”, afferma Zofar, il terzo degli amici di Giobbe, “è più alta dei cieli: che cosa puoi fare? E’ più profonda degli inferi: che ne puoi sapere? E’ più estesa della terra nella sua dimensione ed è più vasta del mare” (Gb 11,7-9).
In questa stessa linea si muove l’apostolo Paolo, quando agli Efesini augura di essere capaci di “afferrare, insieme a tutti i santi, la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, cioè a conoscere l’amore del Cristo che trascende ogni conoscenza” (Ef 3,18). Evidente è il paradosso di comprimere nella conoscenza umana ciò che di sua natura è in-comprensibile e trascendente, ossia l’amore divino che travalica le coordinate spaziali dell’essere. Noi, dichiara ancora l’Apostolo nella sua celebre allocuzione all’Aeropago ateniese, “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” in Dio che supera ogni nostro confine e tracciato, inglobandolo e rivelandosi sempre oltre. In questa linea è decisivo il Sal 139 (138), un gioiello poetico, dedicato all’esaltazione dell’onnipresenza del Creatore e quindi alla sua infinità onnicomprensiva, per cui ogni fuga da lui è impossibile, come già riconosceva un testo aramaico di El-Amarna (Egitto): “Se noi saliamo in cielo, se noi scendiamo agli inferi, la nostra testa è sempre nelle tue mani, o Dio”.
Nella prima strofa del Salmo (vv. 1-6) si esalta l’onniscenza divina totale e assoluta. Dio mi conosce “quando mi siedo e quando mi alzo, quando cammino e quando sosto”: sono anche in questo caso “polarismi” che indicano le azioni estreme della vita umana, ma vogliono riassumerne tutte le altre in esse comprese, essendo a lui aperti i segreti profondi dei nostri pensieri e delle nostre parole prima ancora che sboccino. L’infinito divino è celebrato, invece, soprattutto nella seconda strofa (vv. 7-12), quando si descrive il “folle volo” dell’uomo per sottrarsi a Dio. Tutto lo spazio è percorso, dalla verticale cielo-inferi fino all’orizzontale est-ovest (aurora-mar Mediterraneo). Canta il Salmista: “Dove potrei andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire lontano dalla tua presenza? Se scalassi i cieli, là tu sei, se discendessi negli inferi, eccoti. Se prendessi le ali dell’aurora e riuscissi ad abitare all’estremità del mare, anche là mi guiderebbe la tua mano e mi prenderebbe la tua destra” (vv. 7-10).
Ma anche tutto il tempo con la sequenza circadiana (che riguarda, cioè, la sequenza delle ventiquattro ore, e quindi il ciclo notte-giorno) è superato da Dio, che anche in tal modo svela la sua eternità. Nella terza strofa (vv.13-18) anche qualcosa di infinitamente piccolo come l’embrione umano nel grembo della madre è conosciuto in tutto il suo potenziale, destinato a fiorire nella vita fatta di opere e pensieri. Dio è quindi colto come infinito proprio per questa sua capacità di onnipresenza trascendente ed è forse questo il concetto più caro all’autore sacro: la sua ricerca dell’infinito approda non all’infinito filosofico o fisico, ma all’Infinito teologico.
In questa luce potremmo riconoscere – sulla scia delle parole di uno scrittore politico francese lontano da temi religiosi diretti, Georges Sorel (1847-1922), nelle sue Riflessioni sulla violenza del 1908 – che “quello che di migliore v’è nella coscienza umana è il tormento dell’infinito”.
[Testo tratto da Gianfranco Ravasi, "Dove sei, Signore?" (Edizioni San Paolo)]
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