Archive pour juillet, 2015

Jesus and disciples

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Publié dans:immagini sacre |on 10 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

PORTE APERTE TRA IL TEMPIO E LA PIAZZA – DI GIANFRANCO RAVASI

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PORTE APERTE TRA IL TEMPIO E LA PIAZZA

Pubblichiamo il testo della « lectio magistralis » che il cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura tiene il 17 gennaio a Roma presso la facoltà di Architettura dell’università La Sapienza.

DI GIANFRANCO RAVASI

« Il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio ». Questo antico aforisma rabbinico illustra in modo nitido e simbolico la funzione nel tempio secondo un’intuizione che è primordiale e universale. Due sono le idee che sottendono all’immagine. La prima è quella di « centro » cosmico che il luogo sacro deve rappresentare, un tema sul quale il grande studioso delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) ha offerto un vasto dossier documentario. L’orizzonte esteriore, con la sua frammentazione e con le sue tensioni, converge e si placa in un’area che per la sua purezza deve incarnare il senso, il cuore, l’ordine dell’essere intero.
Nel tempio, dunque, si « con-centra » la molteplicità del reale che trova in esso pace e armonia: si pensi solo alla planimetria di certe città a radiali connesse al « sole » ideale rappresentato dalla cattedrale posta nel cardine centrale urbano (Milano, per esempio, « centrata » sul Duomo ne è un esempio evidente, come New York è la testimonianza di una diversa visione, più dispersa e babelica). Dal tempio, poi, si « de-centra » un respiro di vita, di santità, di illuminazione che trasfigura il quotidiano e la trama ordinaria dello spazio. Ed è a questo punto che entra in scena il secondo tema sotteso al detto giudaico sopra evocato.
Il tempio è l’immagine che la pupilla riflette e rivela. Esso è, quindi, segno di luce e di bellezza. Detto in altri termini, potremmo affermare che lo spazio sacro è epifania dell’armonia cosmica ed è teofania dello splendore divino. In questo senso un’architettura sacra che non sappia parlare correttamente – anzi, « splendidamente » – il linguaggio della luce e non sia portatrice di bellezza e di armonia decade automaticamente dalla sua funzione, diventa « profana » e « profanata ». È dall’incrocio dei due elementi, la centralità e la bellezza, che sboccia quello che Le Corbusier definiva in modo folgorante « lo spazio indicibile », lo spazio autenticamente santo e spirituale, sacro e mistico.
Certo, questi due assi portanti trascinano con sé tanti corollari: pensiamo alla « sordità », all’inospitalità, alla dispersione, all’opacità di tante chiese tirate su senza badare alla voce e al silenzio, alla liturgia e all’assemblea, alla visione e all’ascolto, all’ineffabilità e alla comunione. Chiese nelle quali ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare.
A questo punto vorremmo proporre una riflessione di indole più specifica che abbia come codice di riferimento proprio quelle Sacre Scritture bibliche che sono state indubbiamente « il grande codice » della stessa civiltà artistica occidentale. È indiscutibile il rilievo che in esse ha una « teologia » dello spazio, anche se – come si vedrà – essa è inverata in una teologia superiore, quella del tempo e della storia (l’Incarnazione riassume in sé queste due dimensioni ricollocandole nella loro gerarchia).
« Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion » (Salmo, 102, 15). Questa professione d’amore dell’antico salmista potrebbe essere il motto stesso della tradizione cristiana che allo spazio sacro ha riservato sempre un rilievo straordinario, a partire dalla « pietra » del Santo Sepolcro, segno della risurrezione di Cristo, attorno alla quale è sorto uno dei templi emblematici dell’intera cristianità. Tra l’altro, è curioso che simbolicamente le tre religioni monoteistiche si ancorino a Gerusalemme attorno a tre pietre sacre, il Muro Occidentale (detto popolarmente « del Pianto »), segno del tempio salomonico per gli ebrei, la roccia dell’ascensione al cielo di Maometto nella moschea di Omar per l’islam e, appunto, la pietra ribaltata del Santo Sepolcro per il cristianesimo.
Certo è che, senza la spiritualità e la liturgia cristiana, la storia dell’architettura sarebbe stata ben più misera: pensiamo solo al nitore delle basiliche paleocristiane, alla raffinatezza di quelle bizantine, alla monumentalità del romanico, alla mistica del gotico, alla solarità delle chiese rinascimentali, alla sontuosità di quelle barocche, all’armonia degli edifici sacri settecenteschi, alla neoclassicità dell’Ottocento, per giungere alla sobria purezza di alcune realizzazioni contemporanee (un esempio per tutte: l’affascinante chiesa del citato Le Corbusier a Ronchamp).
C’è, dunque, nel cristianesimo una celebrazione costante dello spazio come sede aperta al divino, partendo proprio da quel tempio supremo che è il cosmo.
Un grande storico della teologia Marie-Dominique Chenu (1895-1990), al termine della sua vita si rammaricava di aver riservato troppo poco spazio alle arti sia letterarie sia figurative sia architettoniche nella sua storia del pensiero religioso, perché « esse non sono soltanto illustrazioni estetiche ma veri soggetti teologici ». Dall’anonimato in cui si relegavano i grandi costruttori di cattedrali basterebbe solo fare emergere, a titolo esemplificativo, un genio architettonico e artistico come l’abate Sugero di Saint-Denis (xiii secolo).
Detto questo c’è però nella concezione cristiana una componente molto pesante che – come si diceva – sposta il baricentro teologico dallo spazio al tempo. Ed è su questo aspetto che ora vorremmo fissare la nostra attenzione. Nell’ultima pagina neotestamentaria, quando Giovanni il Veggente si affaccia sulla planimetria della nuova Gerusalemme della perfezione e della pienezza, si trova di fronte a un dato a prima vista sconcertante: « Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio » (Apocalisse, 21, 22). Tra Dio e uomo non è più necessaria nessuna mediazione spaziale; l’incontro è ormai tra persone, si incrocia la vita divina con quella umana in modo diretto. Da questa scoperta potremmo risalire a ritroso attraverso una sequenza di scene altrettanto inattese.
Immaginiamo di rincorrere questo filo rosso afferrandolo al capo estremo opposto. Davide decide di erigere un tempio nella capitale appena costituita, Gerusalemme, così da avere anche Dio come cittadino nel suo regno. Ma ecco la sorprendente risposta oracolare negativa emessa dal profeta Nathan: il re non costruirà nessuna « casa » a Dio ma sarà il Signore a dare una « casa » a Davide: « Te il Signore farà grande, poiché una casa farà a te il Signore » (ii Samuele, 7, 11). In ebraico si gioca sulla ambivalenza del termine bayit, « casa » e « casato ». Dio, quindi, allo spazio sacro di una casa-tempio preferisce la presenza in una casa-casato, ossia nella storia di un popolo, nella dinastia davidica che si colorerà di tonalità messianiche.
Certo, lo spazio non è dissacrato. Il figlio di Davide, Salomone, innalzerà un tempio che la Bibbia descrive con ammirata enfasi. Eppure quando egli sta pronunziando la sua preghiera di consacrazione, dovrà necessariamente interrogarsi così: « Ma è proprio vero che Dio può abitare sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito! » (1 Libro dei Re, 8, 27). Il tempio, allora, è solo l’ambito di un incontro personale e vitale (non per nulla si parla nella Bibbia di « tenda dell’incontro ») che vede Dio chinarsi « dal luogo della sua dimora, dal cielo » della sua trascendenza verso il popolo che accorre nel santuario di Sion con la realtà della sua storia sofferta della quale si elencano i vari drammi.
I profeti giungeranno al punto di minare le fondamenta religiose del tempio e del suo culto qualora esso si riduca a essere solo uno spazio magico-sacrale, dissociato dalla vita della piazza civica, ossia dall’impegno etico-esistenziale, e affidato solo a una presenza meramente e ipocritamente rituale.
Basti solo, tra i tanti passi profetici di analogo tenore, leggere questo paragrafo del profeta Amos (viii secolo prima dell’era cristiana): « Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni. Anche se voi mi offrite olocausti io non accetto i vostri doni. Le vittime grasse di pacificazione neppure le guardo. Lontano da me il frastuono dei vostri canti, il suono delle vostre arpe non riesco a sopportarlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne! » (5, 21-24).
Ma entriamo nel cristianesimo in modo diretto. Cristo, come ogni buon ebreo, ama il tempio gerosolimitano. Non esita a impugnare una sferza e a menare fendenti contro i mercanti che lo profanano con i loro commerci, ne frequenta le liturgie durante le varie solennità, come faranno anche i suoi discepoli che si riserveranno persino un loro spazio nell’area del cosiddetto « Portico di Salomone ». Eppure lo stesso Cristo in quel meriggio assolato al pozzo di Giacobbe, davanti al monte Garizim, luogo sacro della comunità dei samaritani, non teme di dire alla donna che sta attingendo acqua: « Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre… È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità » (Giovanni, 4, 21-24).
Ci sarà un’ulteriore svolta che insedierà la presenza divina nella stessa « carne » dell’umanità attraverso la persona di Cristo, come dichiara il celebre prologo del Vangelo di Giovanni: « Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi » (1, 14), con evidente rimando alla « tenda » del tempio di Sion. Tra l’altro, il verbo greco eskénosen, « pose la tenda » ricalca le radicali s-k-n del vocabolo ebraico con cui si definiva la « Presenza » divina nel tempio di Sion, Shekinah. Gesù sarà anche più esplicito: « Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere ».
E l’evangelista Giovanni annota: « Egli parlava del tempio del suo corpo » (2, 19-21). Paolo andrà oltre e, scrivendo ai cristiani di Corinto, affermerà: « Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi… Glorificate dunque Dio nel vostro corpo! » (i, 6, 19-20).
« Un tempio di pietre vive », quindi, come scriverà san Pietro, « impiegate per la costruzione di un edificio spirituale » (i, 2, 5) un santuario non estrinseco, materiale e spaziale, bensì esistenziale, un tempio nel tempo. Il tempio architettonico sarà, quindi, sempre necessario, ma dovrà avere in sé una funzione di simbolo: non sarà più un elemento sacrale intangibile e magico, ma solo il segno necessario di una presenza divina nella storia e nella vita dell’umanità. Il tempio, quindi, non esclude o esorcizza la piazza della vita civile ma ne feconda, trasfigura, purifica l’esistenza, attribuendole un senso ulteriore e trascendente. Per questo, una volta raggiunta la pienezza della comunione tra divino e umano, il tempio nella Gerusalemme celeste, la città della speranza, si dissolverà e « Dio sarà tutto in tutti » (1 Corinzi, 15, 28).
Terminiamo la nostra riflessione con tre testimonianze. La prima riassume i gradi del discorso finora fatto. È una cantilena ebraica cabbalistica medievale che ricorda i vari passaggi per trovare il luogo dove s’incontra veramente Dio. Ecco il ritornello in ebraico, ritornello assonante che si ripete a ogni strofa: hu’ hammaqôm shel- maqôm / we’en hammaqôm meqomô. Con un gioco di parole e un’intuizione folgorante si dice: « Egli, Dio, è il Luogo di ogni luogo, / eppure questo Luogo non ha luogo ».
La seconda testimonianza è legata alla figura di san Francesco ed è desunta dal capitolo 37 della Vita seconda di Tommaso da Celano, francescano abruzzese. Un frate dice a Francesco: « Non abbiamo più soldi per i poveri ». Francesco risponde: « Spoglia l’altare della Vergine e vendine gli arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno ».
E subito dopo aggiunge: « Credimi, alla Vergine sarà più caro che sia osservato il vangelo di suo Figlio e nudo il proprio altare, piuttosto che vedere l’altare ornato e disprezzato il Figlio nel figlio dell’uomo ». Ci dobbiamo, dunque, soltanto spogliare del tempio e della sua bellezza? No, perché Francesco è convinto che Dio ci offrirà di nuovo il tempio, con tutti gli ornamenti: « Il Signore manderà chi possa restituire alla Madre quanto ci ha dato in prestito per la Chiesa ».
La terza e ultima considerazione ci è offerta dalla spiritualità ortodossa. Un noto teologo laico russo del Novecento vissuto a Parigi, Pavel Evdokimov, dichiarava che tra la piazza e il tempio non ci deve essere la porta sbarrata, ma una soglia aperta per cui le volute dell’incenso, i canti, le preghiere dei fedeli e il baluginare delle lampade si riflettano anche nella piazza dove risuonano il riso e la lacrima, e persino la bestemmia e il grido di disperazione dell’infelice. Infatti, il vento dello Spirito di Dio deve correre tra l’aula sacra e la piazza ove si svolge l’attività umana. Si ritrova, così, l’anima autentica e profonda dell’Incarnazione che intreccia in sé spazio e infinito, storia ed eterno, contingente e assoluto.

(©L’Osservatore Romano 17-18 gennaio 2011)

XV DOMENICA DEL T.O. : IN LUI CI HA SCELTI PRIMA DELLA CREAZIONE DEL MONDO (EFESINI 1,3-9)

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IN LUI CI HA SCELTI PRIMA DELLA CREAZIONE DEL MONDO (EFESINI 1,3-9)

DOM LUIGI GIOIA

XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) (12/07/2015)

VANGELO: MC 6,7-13

Non molto tempo fa, la comunità scientifica internazionale e la stampa celebrarono una delle più grandi imprese della storia dell’uomo, vale a dire la scoperta del Bosone di Higgs o del Campo di Higgs nell’ormai famoso acceleratore di particelle del CERN di Ginevra. Tutti ne sentirono parlare. Se ho capito bene in cosa questa scoperta consista – le spiegazioni abbondano su internet – all’inizio nell’universo vi erano solo delle particelle, senza grandezza né massa, che fuggivano le une dalle altre. Non esistevano le stelle, non esistevano i pianeti, non esisteva altro se non queste particelle infinitesimali che correvano a velocità incredibili e non riuscivano ad incontrarsi le une con le altre. Esse avrebbero continuato a sfuggire le une alle altre per sempre se qualcosa che le avesse rallentate abbastanza da permettere loro di coagularsi e così formare degli oggetti dotati di massa: le stelle, i pianeti, l’ossigeno, l’acqua, gli esseri viventi, gli uomini. Questo fattore, questa particella, questo campo che ha rallentato tutte le altre particelle e ha permesso loro di costituire l’universo come lo conosciamo è appunto questo Bosone o Campo di Higgs, teorizzato circa 50 anni fa, ma verificato sperimentalmente solo adesso. Considerato il ruolo fondamentale che questo bosone svolse per la nascita dell’universo così come lo conosciamo oggi, diversi commentatori e anche ricercatori lo battezzarono: « la particella di Dio ». Tale appellativo fu certamente una maniera per enfatizzare l’importanza di questa scoperta e farne percepire l’importanza a chi di fisica non sa nulla. Ed effettivamente è vero che, quando il Bosone di Higgs entrò in azione, apparvero le stelle, il sole, la luna, la terra. In principio fu il bosone di Higgs e apparvero le stelle! In principio fu il bosone di Higgs e apparvero il sole e la luna! E’ indubbiamente qualcosa di simile a quello che la Genesi descrive quando parla della creazione: In principio Dio creò il cielo e la terra.
Questo paragone molto generico bastò perché si parlasse di « particella di Dio ». La grande scienziata italiana Margherita Hack, lasciandosi forse un po’ troppo trasportare da questa retorica, arrivò addirittura ad affermare: « Questa non è la particella di Dio, questa particella è Dio »! Che buona notizia! Se ciò è vero vuol dire che siamo finalmente riusciti a intrappolare Dio nel laboratorio del CERN di Ginevra, grazie al Large Hadron Collider (questo è il nome dell’acceleratore di particelle cosmiche). Ci sono voluti 30 anni per costruire questo acceleratore, è costato dieci miliardi di dollari, consuma la stessa quantità di elettricità di una grande città, dà lavoro a migliaia di persone, ma un tale gigantesco investimento valeva la pena se grazie ad esso abbiamo finalmente trovato Dio. Dio è una particella. Dio è un campo. Dio è una forza frenante che permette alle particelle dell’universo di acquistare massa e di diventare l’universo come lo conosciamo oggi. Ecco un pensiero consolante! Ecco un pensiero che cambia la vita! Ecco una scoperta che da senso alle nostre esistenze! Cosa pensarne? Con i nostri telescopi sempre più potenti, così come con i nostri spettacolari acceleratori di particelle, cerchiamo di capire cosa sia successo all’inizio della storia dell’universo, cioè circa 14 miliardi di anni fa’. Effettivamente costruirli e utilizzarli è un’impresa straordinaria, della quale dobbiamo essere giustamente fieri. Ma non dobbiamo dimenticare, contemporaneamente, che abbiamo qualcosa di più potente di tutti questi telescopi e di tutti questi acceleratori di particelle, qualcosa che ci permette di arrivare direttamente a quello che è successo, per così dire, prima di tutto questo, più di 14 miliardi di anni fa’. Abbiamo la parola di Dio, abbiamo questo meraviglioso passaggio della lettera agli Efesini che viene proposta come seconda lettura nella liturgia della XV domenica del tempo ordinario: esso ci dice che prima della creazione del mondo, prima di questi 14 miliardi di anni, esisteva già un disegno, una volontà di amore. Prima di questi 14 miliardi di anni, prima della creazione del mondo, ciascuno di noi, ognuno di noi, per nome, è stato desiderato, è stato voluto, è stato scelto, è stato amato da Dio. Questo l’acceleratore di particelle del CERN non ce lo dice. Questo i nostri telescopi non ce lo dicono. Ce lo dice solo la parola di Dio. Si racconta che un giorno una persona che aveva da sempre vissuto una vita lontana da Dio e dalla Chiesa, andò a trovare padre Pio e che questi, appena lo vide, pur non sapendo chi fosse, lo chiamò per nome e gli disse: « Ti stavo aspettando ». Ci fa sempre impressione sapere che qualcuno ha pensato a noi, ha preceduto i nostri desideri, ci ha aspettato, ha desiderato il nostro arrivo. Di fronte alle frontiere spettacolari che ci rivela la scienza, di fronte a questi 14 miliardi di anni che sono passati prima che l’uomo apparisse sulla terra, fino a che ciascuno di noi venisse all’esistenza, fa impressione pensare che c’è un Dio che ci ha attesi, ci ha desiderati, che ci ha voluti. Ci ha attesi – ha atteso me – per 14 miliardi di anni! Certo, la Scrittura ci dice, metaforicamente, che per Dio mille anni sono come un giorno. Ma anche in questo caso, vuol dire che nel suo tempo, Dio ci ha atteso per trentottomila anni. Si fa per dire, naturalmente, perché sappiamo che in Dio il tempo non è una realtà come la percepiamo noi. Fa bene pensare a tutto questo. Fa bene pensare che di fronte alle dimensioni sterminate del cosmo, sia da un punto di vista spaziale che temporale, di fronte allo sterminato numero di stelle, di galassie, di fronte alla meravigliosa armonia tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, fa bene pensare a questo disegno d’amore che percorre, che attraversa tutto questo universo. Riflettere a questo ci aiuta ad avere una reazione più intelligente di quella attribuita a Margherita Hack o di quella di coloro che parlano, in modo non del tutto innocente, della « particella di Dio ». Dovremmo ritornare alla Scrittura. Dovremmo ritornare al Salmo 8 che ci dice: Se guardo al tuo cielo, opera delle tue dita, se guardo la luna e le stelle che tu hai fissate, se penso a questi 14 miliardi di anni, se vedo tutte queste galassie, se contemplo le meraviglie dell’infinitamente piccolo, ebbene, non posso non esclamare: Signore, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi. Che cosa è l’uomo? L’uomo è colui per il quale il Signore ha creato tutto questo universo, colui per il quale non ha esitato a dispiegare un tale, incommensurabile, prodigioso investimento di energie e di potenza. L’uomo è colui che il Signore ha voluto da sempre, non solo per essere una sua creatura, come lo sono gli animali, come lo sono i pianeti, come lo sono le stelle – non solo per essere il suo interlocutore, ma per essere suo figlio, in Gesù Cristo. Questo ci rivela la lettera agli Efesini: In Gesù il Padre ci ha scelti, prima della creazione del mondo (prima di questi 14 miliardi di anni), per essere santi e immacolati di fronte a lui nell’amore, destinandoci a essere figli, a essere suoi figli secondo il disegno d’amore della sua volontà. I nostri scienziati e tutta l’umanità possono essere giustamente orgogliosi della prodigiosa intelligenza dell’uomo. E’ un’intelligenza straordinaria quella che ci permette di superare i nostri limiti per andare all’infinitamente grande e all’infinitamente piccolo. Pur così insignificante rispetto a tutto il cosmo, l’uomo può capirlo, può interpretarlo, e con il tempo certamente arriverà a percorrerlo in lungo e in largo, ma Paolo ci ricorda che una tale intelligenza non è feconda se non diventa sapienza. L’intelligenza infatti trova solo il « come »: come funziona l’universo, come si è sviluppato, come è composto. Ma solo la sapienza, la sapienza del cuore, trova il « perché »: perché questo universo? Solo la sapienza trova da dove venga questo universo. E soprattutto solo la sapienza capisce dove vada e che destino abbia. Ecco la differenza tra intelligenza e sapienza. Questa sapienza è un dono di Dio che riceviamo in Cristo Gesù. I nostri scienziati hanno molta intelligenza, ma a volte manca loro questa sapienza del cuore. E’ quanto ci dice ancora Paolo nella lettera agli Efesini: Dio ha riversato tutti questi doni su di noi con abbondanza e li ha riversati con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, facendoci conoscere il perché di questo universo. Questa è la sapienza della fede, la sapienza dell’amore, la sapienza della preghiera. I nostri scienziati esplorano il come dell’universo con i telescopi e con gli acceleratori di particelle. Il cristiano esplora il perché dell’universo attraverso la parola di Dio e la preghiera. E se – per concludere – l’esplorazione del come dell’universo ci riempie giustamente di orgoglio e di entusiasmo sarà solo quando capiremo il perché di questo stesso universo, alla luce della fede, sarà solo quando leggeremo in esso un segno dell’amore del Padre per ciascuno di noi alla luce della parola di Dio, sarà allora che troveremo non solo entusiasmo e orgoglio, ma riceveremo anche la consolazione, troveremo la pace, scopriremo la gioia, ci sarà svelato il senso delle nostre vite e potremo allora unirci alla lode del salmista che dice: O Dio, o Signore nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra.

Saint Benedict, The above image is from The Church of San Agostino in san Gimignano

Saint Benedict, The above image is from The Church of San Agostino in san Gimignano dans immagini sacre StBenedict_SantAgostino

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Publié dans:immagini sacre |on 9 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

L’ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO – SAN BENEDETTO E L’EUROPA

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L’ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO – SAN BENEDETTO E L’EUROPA

Dalla storia passata alla storia futura, per una nuova Europa

Estratto dal libro « SAN BENEDETTO dal passato al futuro dell’Europa » di Reginald Gregoire O.S.B.

- Edito dall’Abbazia San Benedetto – Seregno

Un progetto, un ideale, una attesa, una utopia, una profezia: l’Europa sarà nuova in quanto accetterà il cristianesimo, cioè il riferimento al Dio incarnato, all’Eterno assoluto. Il momento attuale è propizio per stimolare gli Europei (o per lo meno tanti europei) a respingere l’apostasia e la non-cristianità del continente. Come si presenterebbe un’Europa senza cristianesimo nella presente fase evolutiva? Certo, l’Europa non vive di immagini di un passato solo accettato, ma essa sarà o no capace di scoprire nella drammatica immanenza del presente un ruolo specifico nella liberazione dell’uomo e nell’evoluzione del creato? O si dovrà giudicare tutto e preparare il futuro, escludendo questa Europa stanca e invecchiata, conservandone tuttavia i valori universali di civiltà e di fede che l’hanno sempre aiutata a ritrovare pace e vigore?

La soluzione di tali problemi è ardua; san Benedetto non li avrà probabilmente mai sognati, perché nel suo tempo, che è il V-VI secolo, il cristianesimo non si era compromesso con la situazione storica. E’ fuorviante asserire che il monachesimo sia nato e si sia sviluppato come atteggiamento di contestazione e di rifiuto nei confronti di una Chiesa « costantiniana » e « teodosiana ». Altre erano allora le responsabilità, altre sono le nostre; altre saranno quelle dei nostri successori.
L’Europa non è un mito conclusivo, un fine ideale o reale; ciò che invece e definitivo è una civiltà elaborata sul Vangelo, in cui la presenza cristiana nel concreto storico insisterà sui diritti dell’uomo e sulla giustizia (ciò significa anche corresponsabilità nello sviluppo planetario). Il monastero era una « piccola società ideale », nel senso dell’indipendenza di quella struttura comunitaria, in cui ogni persona era perfettamente integrata In quel senso, san Benedetto ha meritato davvero di essere guida e patrono dell’Europa nuova, senza mai aver sollecitato quella responsabilità e quel destino…
Oggi è in discussione il ruolo storico del cristianesimo nella civiltà europea, e non solo quello del monachesimo. Non è data per scontata l’esistenza di punti di riferimento culturali ancora validi attualmente, come lo furono verso l’XI secolo. In quell’epoca, l’Europa si trovò (e si sentì) cristiana, e un Papato energico riusciva a stringere rapporti tra tutte le Chiese occidentali, delle quali rispettò le peculiarità: strutturali. Le grandi università poi – la prima università « statale » è creata da Federico II a Napoli, nel 1224 – organizzano il sapere. Il sistema comunale democratico e libero riprende anche il modello delle assemblee monastiche; nasce una economia cristiana che respinge l’usura. In tutti i settori esistenziali, il cristianesimo è entrato; il volto dell’Europa non è più « latino » o occidentale, bensì cristiano. E lo sarà più tardi ancora, per esempio, quando sarà avvertita l’urgenza della questione sociale, nel secolo XIX.
Non si tratta di scegliere semplicemente tra paganesimo e cristianesimo, o tra Vangelo e Corano; ma l’unico dilemma è rintracciato nel bivio: Cristo o l’indifferenza. Si sceglierà pertanto l’universalismo, come l’Europa non è europeistica, ma universale. San Benedetto è anteriore a tutte le fratture ecclesiali, ecclesiologiche e dommatiche, culturali e politiche. La Regola non accenna a situazioni politiche e religiose, culturali e filosofiche. Ma il suo pensiero presenta un’etica cristiana e sviluppa un progetto di uomo sociale », non di « uomo-isola »; allora anche l’Europa nuova respingerà il nichilismo collettivista, che degrada l’uomo a mezzo e non rispetta la sua identità di fine.
Secondo la Regola, la società significa comunione e corresponsabilità, simultaneità della crescita personale e dello sviluppo comunitario. Gli « strumenti delle buone opere » (cap. 4) insegnano un massimo di libertà nel rispetto di tutti e di tutto; e questa personalizzazione è diametralmente opposta allo sfruttamento e alle disuguaglianze, perché crea comunicazione e integrazione, senza distinzione di razze, di culture, di ruoli, di appartenenza sociale ed economica. Benedetto aveva ideato nella Regola un progetto che è stato vissuto e applicato laddove è arrivato il suo monachesimo. Il modello di società cristiana è la comunità, l’essere insieme. Questo cristianesimo, che è una fede, non si è mai identificato con un cristianesimo-umanesimo, perché il Vangelo non trasmette una cultura, bensì una fede. Questa fede è personale, ma questa morale non insegna l’individualismo.
***
L’Europa nuova sarà un’Europa libera; la libertà non è un regalo, è un dovere e un diritto che non ammette condizionamenti ideologici. Con il Vangelo, san Benedetto vuole uomini liberi e semplici, accoglienti e disponibili. I suoi riferimenti dottrinali e teologici sono i Padri della Chiesa (cap. 73), cioè quegli scrittori che hanno accolto tutto il pensiero filosofico e scientifico accumulato dal tardo Impero e dalla civiltà greco-romana, e l’hanno incorporato nella interpretazione della Verità rivelata e incarnata, cioè del Dio manifestato nella Parola e comunicato nei sacramenti. L’orizzonte della storia è una pienezza; il prologo della Regola benedettina insiste nel proclamare la conclusione – la Risurrezione, il Regno – attraverso la Croce, cioè l’umiltà e l’obbedienza o, se si preferisce, la disponibilità e la gratuità. E’ il pensiero di san Paolo che riconosceva l’evoluzione universale verso una totalità, cioè verso il « pleroma » (Ef. 1). Infine, questa Europa nuova dimostrerà la capacità del pluralismo, che ammette la pluralità: non nel senso della convivenza o connivenza tra verità e errore, tra giustizia e ingiustizia, e altri contrasti analoghi, ma nella proclamazione di una unità di morale e di speranza, nel servizio e nella sussidiarietà. La quarantunesima Settimana sociale dei cattolici italiani, svoltasi a Roma dal 2 al 5 aprile 1991, ha realizzato un esame di una problematica importante nella presente fase storica: « I cattolici italiani e la nuova giovinezza dell’Europa ». In particolare si chiede di porre attenzione agli aspetti religiosi del « problema Europa », all’esigenza di un ricentramento evangelico; e si conclude: « Il nostro sforzo comune è orientato all’elaborazione di una nuova pedagogia di trasmissione della visione evangelica della vita, affinché questa penetri e fermenti, liberi e potenzi ogni esperienza umana ».

LA SPIRITUALITÀ PAOLINA NELLA REGOLA DI SAN BENEDETTO

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LA SPIRITUALITÀ PAOLINA NELLA REGOLA DI SAN BENEDETTO

di Sr. Maria Cecilia La Mela OSBap

Vivere quest’anno all’insegna del messaggio paolina è, per noi monaci e monache, occasione preziosa per riaccostarci al testo della nostra Regola, interrogando san Benedetto circa la sua sintonia con il grande san Paolo che è, per lui, l’Apostolo per antonomasia. Se è vero che tutta la Regola è impregnata di Sacra Scrittura, non può non balzare subito agli occhi la massiccia presenza di citazioni, implicite ed esplicite, tratte dalle lettere di Paolo di Tarso. San Benedetto chiama spesso in causa l’Apostolo delle genti lasciando spazio alla sua autorevolezza per avvalorare quei concetti che vorrebbe imprimere con forza nei suoi monaci; non è un caso che i riferimenti paolini sono più abbondanti proprio nel Prologo e in quei capitoli che più sembrano stare a cuore al nostro Legislatore. Molte delle citazioni tratte dalle lettere di san Paolo rimandano, a loro volta, ad altre citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento, specie dei salmi e del Vangelo, ma circoscriviamo la nostra lectio divina limitandoci ai rapporti strettamente paolino-benedettini.
Diverse tematiche ricorrenti negli scritti paolini fanno da sottofondo a tutta la Regola, quasi attraversandola e strutturandola in un tutto organico e ben definito. Uno dei temi più sviluppati è quello della corsa e sul quale sono stati fatti autorevoli studi. Un altro è quello del combattimento, della milizia, dell’esercizio ginnico, della gara per cui il monaco, come il cristiano, si configura come lottatore, come soldato, come atleta, come agonista. Entrambi questi aspetti interpretativi dell’impegno del cristiano nel mondo e nella Chiesa sono pervasi da quella tensione escatologica che è tipica di san Paolo e di san Benedetto e che pone il cristiano, il monaco, il consacrato, quale segno vivente del destino ultimo per cui siamo stati creati. C’è poi tutta la cura pastorale che san Benedetto mutua dalle due lettere a Timoteo e da quella a Tito, attribuendo all’abate le prerogative e le responsabilità che san Paolo richiede al vescovo. E l’elenco potrebbe continuare ancora.
Tra i tanti sviluppi che si potrebbero approfondire in questo anno paolino, ad esempio quello dell’umiltà come « annientamento » (Fil 2,8), dell’obbedienza pronta e generosa « perché Dio ama chi dona con gioia » (2 Cor 9,7), del lavoro come processo di umanizzazione (1 Cor 4,12) e tanti altri; mi soffermo sul tema della carità lasciandomi orientare dall’invito di san Paolo rivolto a tutti noi: « Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole » (Rm 13,8). Per questo parto da quel meraviglioso capitoletto che è la sintesi e il cuore della Regola benedettina, il 72°, dello zelo buono che devono avere i monaci. Leggiamolo insieme: «Come vi è un maligno zelo di amarezza che allontana da Dio e conduce all’inferno, così vi è uno zelo buono, che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna». E, di seguito, san Benedetto, con chiari riferimenti all’insegnamento del Vangelo e alla teologia di San Paolo, esplicita i sentimenti e le azioni che devono animare il monaco in questa ascesa della carità. È necessario prima di tutto esercitarsi con « ardentissimo amore ». Attenzione ai superlativi: san Benedetto non è cristiano di mezze misure! Un amore, dunque, non fiacco, non tiepido, non part time, ma un amore ardente, che brucia, che non dà tregua, che ci sollecita, ci vuole tutti coinvolti in questa difficile, ma meravigliosa avventura della nostra vita cristiana e della nostra vocazione benedettina. E chi più « focoso » del belligerante Paolo di Tarso? Dalla sua magnifica penna è uscito quell’inno alla carità che ha sottolineato con forza la grandezza del cristianesimo! Tra l’altro, va detto che le lettere paoline più gettonate sono le due ai Corinzi e nella prima (1 Cor 13,1-13) vi è propriamente l’inno alla carità. Ed un inno alla carità può essere considerato, appunto, il capitoletto dello zelo buono.
Alcuni verbi vorrei trarre da questo crescendo « benedettino » dell’amore e consegnarli a me stessa, e a chi legge, come particolare impegno per questo anno di comunione e condivisione che il Signore ci dona di vivere all’insegna del fare memoria dell’Apostolo Paolo e della sua eredità spirituale: prevenire, sopportare, prestare, cercare, volere bene, temere, non anteporre.
« Si prevengano cioè l’un l’altro nel rendersi onore », ovvero la stima sia alla base dei nostri rapporti fraterni che si concretizzano anche in quelle basilari norme di buona educazione che sottolineano la preziosità dell’altro, il rispetto per la dignità umana: un onore, un rispetto, un’attenzione che sia reciproca, condivisa, che unisca sempre più i cuori e le menti. Così scrive san Paolo ai Romani (12,10): «Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda». La carità è ardentissima, non ammette cioè tiepidezze… spinge a correre, a gareggiare pur di arrivare primi, ma mai da soli … i primi, non il primo, cioè non io ma noi…
Con l’invito «sopportino con somma pazienza a vicenda le loro infermità fisiche e morali», che fa eco a quello paolino «sopportandovi a vicenda con amore» (Ef 4,2), il nostro Santo Padre Benedetto ci esorta a non scandalizzarci della fragilità degli altri, a non giudicarla, a non condannarla, ma a farci carico della debolezza altrui, ricordando che è una eredità comune, che nessuno è esente dal poter sbagliare, … coprire amorevolmente, scusare la fragilità degli altri, valorizzare le loro qualità, le potenzialità umane, così come vorremmo sia fatto a noi. Anzi, secondo l’esortazione del capitolo 7° Dell’umiltà, bisogna salire il settimo gradino che «è quello del monaco che non solo con la lingua si professa più indegno e spregevole di tutti, ma ne è convinto anche nell’intimo del cuore»; infatti così ci esorta Paolo: «Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso» (Fil 2,3). E ancora san Benedetto nel cap. 63 Dell’ordine della comunità: «Dovunque i fratelli s’incontrano, il più giovane chieda la benedizione al più anziano; quando passa un anziano, il più giovane si alzi e gli offra da sedere; né ardisca sedersi con lui se l’anziano non glielo permetta perchè si avveri ciò che è scritto: « Prevenitevi a vicenda nel rendervi onore » (Rm 12,10». Non cerchiamo di imporre sempre il nostro parere ma ascoltiamo tutti, sempre pronti a far felici i fratelli accontentandoli se, quello che ci chiedono, è un bene per loro e per noi. Sempre, comunque, non lasciamo mai nessuno nell’amarezza per causa nostra. E quest’urgenza inderogabile di non rattristare nessuno non è proprio una delicatezza meravigliosa di carità? (Cfr RB capp. 27 e 31). Infatti, l’indicazione di san Paolo, fatta propria da san Benedetto, pone come orientamento pedagogico (la sollecitudine dell’abate verso gli scomunicati) e relazionale (il lavoro del cellerario e, in un certo senso, la cura dei propri uffici da parte di tutti i monaci) quello di «far prevalere la carità» (2 Cor 2,8).
Ma torniamo al nostro zelo buono: «Si prestino a gara obbedienza reciproca»: dialoghiamo con serenità confrontandoci per crescere, gareggiamo per fare del monastero veramente la casa di Dio e «nessuno cerchi l’utilità propria, ma piuttosto l’altrui»; ecco le citazioni paoline implicite nel testo della Regola: «Nessuno cerchi l’utile proprio, ma quello altrui» (1 Cor 10,24) «Senza cercare il proprio interesse ma anche quello degli altri» (Fil 2,4).
«Si voglia bene a tutti i fratelli con casta dilezione», ossia il nostro voler bene agli altri sia limpido, rifletta la carità evangelica, sia capace di cedere pur di costruire sempre il dialogo, la condivisione, la pace. E cerchiamo di volere bene a tutti, senza distinzioni. Così San Paolo ai Tessalonicesi (4,9): «Riguardo all’amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri». E di rimando San Benedetto: «Temano Dio nell’amore}», un timore che non è paura, ma riverente confidenza, un timore che ci aiuta a vivere costantemente alla presenza di Dio mediata dall’abate: «Amino il loro abate con sincera ed umile carità». E, infine, «nulla assolutamente antepongano a Cristo, il quale ci conduca tutti alla vita eterna». Tutti insieme: è il « pallino » di San Benedetto, il suo chiodo fisso … è l’ansia, l’urgenza di Cristo che, come nella sua ultima cena terrena, continua a raccomandare l’amore vicendevole, l’inderogabile e suprema priorità dell’amore. Non per nulla la vita e l’opera di San Paolo, così come di San Benedetto, sono eminentemente cristologici.
Velocemente mi soffermo su alcuni inviti alla carità con i quali San Benedetto costella diversi capitoli della Regola in sinossi con le relative citazioni paoline. Per prima cosa l’elenco degli strumenti delle buone opere (cap. 4°) che esordisce proprio con i due precetti evangelici della carità: «Anzitutto amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze; quindi il prossimo come se stesso». I 74 strumenti delle buone opere sono quasi tutti avvalorati da citazioni bibliche, tuttavia, quelli inerenti all’amore verso il prossimo sono per lo più presi da San Paolo che così scrive ai Romani (13,9): «Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso». E con voce unanime, Paolo e Benedetto, ci invitano a consolare gli afflitti così come siamo consolati noi stessi da Dio (2 Cor 1,3-4), a non lasciarci trascinare dall’ira e ritornare in pace prima del tramonto (Ef 4,26), a non rendere male per male ma cercare sempre il bene con tutti (l Tess 5,15), a subire l’ingiustizia piuttosto che infliggerla agli altri (l Cor 6,7-8) … perché, come è detto nel 4° gradino dell’umiltà, «per dimostrare che il servo fedele deve per il Signore tollerare anche qualche contrarietà, dice ancora la Scrittura nella persona di quelli che soffrono: « Per te siamo ridotti ogni giorno alla morte, siamo considerati come pecore da macello »(Rm 8,36) e sicuri per la speranza della ricompensa di Dio, proseguono con gioia e dicono: « Ma in tutto ciò noi vinciamo per Colui che ci ha amati »» (8,37) « [ ... ] e con l’Apostolo Paolo tollerano i falsi fratelli (2 Cor 11,26) e benedicono chi li maledice (1 Cor 4,12».
Questo amore lo troviamo « incarnato » nell’Eucaristia: alimentati dal « pane dei forti », avremo energie e coraggio per esercitarci in questo zelo buono, ossia la carità; questo amore lo dobbiamo incarnare nei fratelli «poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede» (Gal 6, 10), cioè «a tutti si renda il conveniente onore» (RB 53) certi che tutto passa, tutto delude, solo Dio e il bene che ci vogliamo rimangono in eterno. E dopo due mila anni dalla sua opera di evangelizzazione ce lo continua a dire « ardentissimamente » San Paolo e, perché non lo dimentichiamo, c’è San Benedetto a ricordarcelo continuamente nella nostra Regola.

(da Il Sacro Speco di San Benedetto, n. 2, 2009)

Le condizioni che san Benedetto esige perché un monaco possa essere suo discepolo, il fine al quale il monaco deve aspirare, le linee maestre del metodo pedagogico che caratterizza la scuola benedettina, sono fatti non soggetti ai mutamenti dei tempi e, per ciò stesso, validi attuali anche a distanza di quattordici secoli. Per riuscire nel suo proposito, san Benedetto organizzò il monastero nella maniera che credette più adatta per gli uomini del suo tempo. Se ancora oggi i monasteri sparsi nei cinque continenti devono essere scuola di formazione, perché i monaci possano raggiungere quel fine, è del tutto comprensibile che si vedano obbligati ad adattare il metodo pedagogico della Regola e l’organizzazione del monastero alle esigenze di tempi, luoghi e culture tanto diverse da quelli nei quali visse san Benedetto; a condizione, naturalmente, che le nuove forme non distruggano, ma anzi favoriscano la coerenza interna della Regola (Gabiele M. Brasò, Lettere ai monaci, Praglia 1980).

AQUILA E PRISCILLA

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http://awestruck.tv/groups/a-yearbook-of-saints/

Publié dans:immagini sacre |on 8 juillet, 2015 |Pas de commentaires »
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