Dalí, Day 2 The waters are divided

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IN VIAGGIO A MALTA PASSANDO PER IL VATICANO (O.R. 2010)
di Antonio Paolucci
La recente visita del Papa a Malta mi ha fatto venire in mente un affresco dipinto nella Cappella Paolina di recente restaurata. Quel luogo sacro piccolo e privato, escluso dai percorsi turistici perché riservato all’esposizione del Santissimo Sacramento e al servizio liturgico per la Famiglia Pontificia, è celebre nel mondo perché ospita gli ultimi capolavori pittorici del vecchio Michelangelo. Sono gli affreschi con la Caduta di Saulo sulla via di Damasco e la Crocifissione di san Pietro, dipinti negli anni Quaranta del XVI secolo regnando Paolo III Farnese, il grande Papa che inaugurò il Giudizio Universale in Sistina il giorno di Ognissanti del 1541 e aprì, quattro anni dopo, il concilio di Trento. La Cappella Paolina si chiama così in omaggio al nome di Papa Farnese che la edificò e la volle decorata con le storie degli apostoli Pietro e Paolo. Era ed è destinata, come si è detto, a ospitare il Santissimo Sacramento e ad accogliere le liturgie e le preghiere del Papa. Le storie dei Principi degli apostoli sono quindi iconograficamente giustificate e anzi necessarie.
All’interno della cappella in ginocchio di fronte al Santissimo Sacramento, il Pontefice era (ed è) nella pienezza del suo ruolo ministeriale: custode del Corpus Christi, successore del Vicario (le Storie dell’apostolo Pietro), difensore e garante dell’ortodossia (le Storie di san Paolo).
Paolo III Farnese morì nel 1549. Michelangelo che era legato a quel Papa da speciali vincoli di amicizia e di gratitudine e che era inoltre assai avanti con gli anni e in cattiva salute, non volle continuare la decorazione pittorica della Cappella Paolina. Le ultime energie che gli restavano intendeva dedicarle alla progettazione della cupola. Avvenne così che il cantiere, lasciato interrotto dal Buonarroti, rimase deserto per più di venti anni. Fino a quando Gregorio xIII Boncompagni non ordinò ai pittori Lorenzo Sabatini e Federico Zuccari di concludere il ciclo in affresco con le restanti storie dei santi Pietro e Paolo. Ed ecco la Cappella Paolina così come la vediamo oggi, dopo l’ultimo restauro inaugurato da Benedetto XVI il 4 luglio dell’anno scorso.
Seguendo scrupolosamente il testo degli Atti degli Apostoli Sabatini e Zuccari rappresentarono nelle pareti e nella volta gli episodi salienti della vita di san Pietro e di san Paolo: la Disputa di Simon Mago, la Liberazione di Pietro dal carcere, l’Incontro con il centurione Cornelio, la Lapidazione di santo Stefano e così via.
Fra gli altri episodi (ecco il collegamento con il recentissimo viaggio del Papa) c’è, affidato al pennello di Federico Zuccari, l’episodio del Naufragio a Malta di san Paolo. Fra i fatti della vita dell’apostolo non è dei più conosciuti e dei più rappresentati. Eppure grande è il suo significato simbolico. Ce lo ricordava Benedetto XVI in uno dei suoi discorsi maltesi: « Da quel naufragio è nata per Malta la fortuna di avere la fede e anche noi possiamo pensare che i naufragi della nostra vita facciano parte del progetto di Dio e possono essere utili per un nuovo inizio ».
Il « nuovo inizio », per Paolo, è stato l’approdo a Roma con quello che questo ha significato per il futuro del cristianesimo, per la storia della nostra cultura e della nostra civiltà.
Il naufragio a Malta fu un incidente accaduto, diremmo oggi, durante un viaggio di « traduzione giudiziaria ». Tutto comincia a Gerusalemme dove la predicazione di Paolo aveva scatenato le ire degli Ebrei che lo volevano morto. L’amministrazione romana era, come è noto, tollerante e cinica. Lasciava volentieri che i sudditi delle province sottomesse risolvessero fra di loro le loro questioni. Non però in questo caso. Perché Paolo era cittadino romano e aveva diritto di appellarsi a Cesare. Nella patria del corpus iuris, nell’impero governato dalla legge, la procedura penale era una cosa seria. I governatori delle province avevano potestà istruttoria e giudicante fino alla sentenza capitale. Il processo a Gesù insegna. Non l’avevano però sui cittadini romani. Per questi ultimi lo ius gladii era prerogativa esclusiva di Cesare e cioè della magistratura romana. Queste cose Paolo le sapeva benissimo. Si dichiarò cittadino romano e si appellò all’imperatore garantendosi così una provvisoria impunità. In seguito, dopo essere stato trattenuto agli arresti domiciliari a Cesarea, venne trasferito per nave, con tanto di scorta armata, a Roma.
Fu un viaggio disastroso, funestato da tempeste e da venti contrari fino al naufragio di Malta. A questo punto lasciamo parlare gli Atti degli Apostoli. « Una volta in salvo venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli abitanti ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti intorno a un fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia e faceva freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di rami secchi e lo gettava sul fuoco, una vipera saltò fuori a causa del calore e lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli abitanti dicevano fra di loro: « certamente costui è un assassino perché, sebbene scampato dal mare, la dea della giustizia non lo ha lasciato vivere ». Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non patì alcun male. Quelli si aspettavano di vederlo gonfiare o cadere morto sul colpo ma, dopo aver molto atteso e vedendo che non gli succedeva nulla di straordinario, cambiarono parere e dicevano che egli era un dio » (28, 1-10).
Nell’affresco in Cappella Paolina Federico Zuccari fornisce una traduzione figurativa pressoché letterale del testo. L’apostolo si è messo al riparo in una grotta (sullo sfondo si vede la nave incagliata e sfasciata) lo circondano i compagni di sventura e gli isolani di cui gli Atti ricordano la « rara umanità » (complimento più bello non si può fare a un popolo e a una nazione) mentre si verifica il fatto della vipera.
C’è la catasta di legna secca, c’è il fuoco acceso e noi vediamo la serpe attaccata alla mano di Paolo. Mentre sgomento e orrore attraversano i volti degli astanti.
Il lieto fine lo conosciamo. Vale la pena di notare che il passo degli Atti degli Apostoli dedicato al naufragio maltese (venticinque righe in tutto) si conclude con un ulteriore elogio della umanità e generosità degli isolani. Il governatore Publio accolse Paolo e i suoi compagni « con benevolenza », i maltesi li « colmarono di molti onori » e al momento della partenza per Roma li « rifornirono del necessario ». È quasi una prefigurazione della generosità e del calore con i quali l’isola di Malta ha ospitato, nei giorni scorsi, Papa Benedetto XVI.
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SALMI 113-118: L’HALLEL EGIZIANO
Rita Torti Mazzi
I Sal 113-118 costituiscono l’Hallel, che già nel Talmud babilonese è detto «egiziano», in quanto, come commenta Rashi a bBerakot 56a[1], è detto a Pasqua per celebrare l’uscita dall’Egitto. Secondo i maestri furono scelti questi salmi, perché contengono cinque temi fondamentali della fede giudaica: l’esodo (Sal 114,1), la divisione del Mar Rosso (Sal 114,3), il dono della Torah al Sinai (Sal 114,4; cf. Gdc 5,4-5), la risurrezione dei morti (Sal 116,9) e la sofferenza che precede la venuta del Messia (Sal 115,1) (bPesachim 118a). Tutto converge verso la Pasqua ultima, verso la redenzione messianica.
L’Hallel è nato per la Pasqua e la sua origine sarebbe molto antica: «Al tempo in cui Israele uscì dall’Egitto, uscì dalla sua schiavitù di fango e mattoni, fu allora che dissero l’Hallel» (Midrash Salmi 113,2). Se Rabbi Eleazaro l’attribuiva a Mosè e al popolo d’Israele «quando erano risaliti dal mare», altri invece l’attribuivano a Davide, ma si preferiva la prima opinione, perché non sembrava possibile «che il popolo d’Israele avesse offerto l’agnello pasquale o preso i rami di palma [il lulav, composto da palma, mirto, salice e cedro, che si agita a Sukkot], senza avere mai detto canto [di lode]» (bPesachim 117a).
L’Hallel nella liturgia di Israele
Si sa dalla Mishnah che l’Hallel era cantato nel tempio durante gli otto giorni della festa delle Capanne (Sukkah IV 5), il 14 Nisan, nel momento in cui nel tempio si offriva il sacrificio pasquale (Pesachim V 7), e nelle case durante il Seder pasquale (Pesachim X 6). Dopo la distruzione del tempio divenne parte integrante della liturgia sinagogale. Il Talmud stabilisce che si reciti completo, dopo la camidah (preghiera delle Diciotto benedizioni) del mattino, negli otto giorni della festa delle Capanne (Sukkot), negli otto giorni della «festa delle luci» (o della «Dedicazione», Chanukkah), nel primo giorno di Pasqua (Pesach) e della festa delle Settimane (Shavucot) [nella diaspora nei primi due giorni] e nel Seder pasquale (bArachin 10b). Si recita invece abbreviato (omettendo i Sal 115,1-11 e 116,1-11) negli ultimi sei giorni di Pesach (secondo il Midrash Dio rimproverò gli angeli che si apprestavano a intonare canti di giubilo mentre gli egiziani perivano nel mare, dicendo: «Le opere delle mie mani periscono nel mare e voi osate cantare canti di giubilo?») e anche all’inizio di ogni mese (Rosh Chodesh), secondo un uso sviluppatosi prima in Babilonia e poi in Israele (bTaanit 28b).
Nel Seder pasquale si recita l’Hallel diviso. Prima di bere la seconda coppa, chi presiede ricorda che in ogni generazione ognuno ha l’obbligo di considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto (cf. Es 13,8) e per questo deve «ringraziare, lodare, glorificare, esaltare colui che ha fatto ai nostri padri e a noi tutti questi miracoli […]. Diciamo dunque davanti a lui: Alleluia!» (Pesachim X 5). Seguono i Sal 113-114 e poi la benedizione della «redenzione», di cui la seconda parte, attribuita a Rabbi Aqiba (verso il 135 d.C.), ha un evidente carattere messianico (Pesachim X 6).
La seconda parte dell’Hallel (Sal 115-118) si recita invece dopo il pasto sulla quarta coppa e si conclude con la «benedizione del canto» (bPesachim 118a).
Non si sarebbe potuto recitare l’Hallel al di fuori della festa: chi lo dice ogni giorno lo svilisce e lo profana (bShabbat 118b). La gioia che vi si esprime è incontenibile: deve essere cantato «con bellezza» (Cantico Rabba II 31) e cioè con forza, con entusiasmo. Si dice: «La Pasqua “nella casa” e l’Hallel fora il tetto» (Cantico Rabba, II 31)[2]. Uno dei modi più comuni e antichi di recitarlo comporta la ripetizione di «alleluia» da parte dell’assemblea a ogni mezzo versetto dei salmi: complessivamente 123 volte[3].
Unità e molteplicità
L’Hallel è sempre stato sentito nella tradizione ebraica come un unico poema, con cui Israele loda il Signore per le meraviglie da lui compiute e lo ringrazia. È composto secondo un ordine; se non si leggesse secondo quest’ordine non si adempirebbe il precetto (bMeghillah 17a). Riassume tutta la storia della salvezza:
«Quando Israele uscì dall’Egitto» [Sal 114,1] si riferisce al passato. «Non per noi, Signore, non per noi» [Sal 115,1] alle presenti generazioni; «Amo, perché il Signore ascolta la mia voce» [116,1] ai giorni del Messia; «Legate la festa con funi» [118,27] ai giorni di Gog e Magog; «Mio Dio sei tu e ti rendo grazie» [118,28] al secolo futuro (jBerakot II 4; jMegillah II 1. et al.).
Ma, pur facendo parte di un insieme, i singoli salmi che costituiscono l’Hallel (Sal 113-118), restano evidentemente dei testi a sé stanti, ciascuno collocato nel proprio tempo e ciascuno con il proprio genere letterario.
Salmo 113: invito alla lode universale
Apre l’Hallel il Sal 113, che nel v. 1 invita «‘i servi del Signore» (possono esserlo, perché sono stati liberati dalla «schiavitù» d’Egitto) a una lode universale, che abbraccia il tempo («ora e sempre», v. 2) e lo spazio («dal sorgere del sole al suo tramonto», v. 3, e quindi dall’est all’ovest, su tutta la terra).
1 Alleluia
Lodate, servi del Signore,
lodate il nome del Signore.
2 Sia benedetto il nome del Signore
ora e sempre.
3 Dal sorgere del sole al suo tramonto,
sia lodato il nome del Signore.
4 Su tutti i popoli eccelso è il Signore
più alta dei cieli è la sua gloria.
5 Chi è pari al Signore nostro Dio
che siede nell’alto
6 e si china a guardare
nei cieli e sulla terra?
7 Solleva l’indigente dalla polvere,
dall’immondizia rialza il povero
8 per farlo sedere tra i principi
tra i principi del suo popolo
9 fa abitare la sterile nella sua casa
quale madre gioiosa di figli.
In ebraico il salmo inizia e termina con l’alleluia, che abbraccia a un tempo la lode e il nome divino (Hallelu-Yah = «Lodate YHWH»), unificando la composizione in una grande inclusione. E l’alleluia risuona ancora due volte nel v. 1, nell’imperativo hallelu («lodate»). Nei vv. 2-3, disposti chiasticamente, si riprende l’invito, esortando a «benedire», a «lodare» il nome del Signore (cf. Zc 14,9).
La motivazione della lode è la «grandezza» del Signore, su cui si insiste nella seconda strofa, affermandone con forza l’incomparabilità (v. 5): è «eccelso» sopra tutti i popoli; la sua gloria (kabod) arriva fin sopra i cieli (v. 4: cf. Is 6,3; Sal 29), ma mentre «sta in alto (siede per giudicare)» allo stesso tempo «si abbassa per guardare» (vv. 5-6; cf. Is 57,15). Cerca gli ultimi della terra e ne capovolge la situazione: i vv. 7-9 mostrano che il Signore è grande perché esalta gli umili, i poveri (cf. Is 66,2). La maestà di Dio si manifesta nella sua misericordia.
«Chi è pari al Signore nostro Dio?», chiede il salmista con una domanda retorica nel Sal 113,5. Che nessuno sia pari al Dio d’Israele lo dicono chiaramente i due salmi che seguono immediatamente, i Sal 114 e 115, considerati nella LXX un’unità (113A e 113B): il primo mostra il cosmo intero sconvolto dalla presenza del Signore accanto al suo popolo, il secondo ne proclama la superiorità assoluta sugli idoli dei pagani.
Salmo 114
1 Alleluia
Quando Israele uscì dall’Egitto,
la casa di Giacobbe da un popolo barbaro,
2 Giuda divenne il suo santuario,
Israele il suo dominio.
3 Il mare vide e si ritrasse,
il Giordano si volse indietro;
4 i monti saltellarono come arieti,
le colline come agnelli di un gregge.
5 Che hai tu, mare, per fuggire
E tu, Giordano, perché torni indietro?
6 Perché voi, monti, saltellate come arieti?
E voi, colline, come agnelli di un gregge?
7 Trema, o terra, davanti al Signore,
davanti al Dio di Giacobbe,
8 che muta la rupe in un lago,
la roccia in sorgenti d’acqua.
Nei primi quattro versi si riassume il cammino che porta il popolo di Dio dall’Egitto alla terra promessa: il mare e il Giordano si fanno da parte per lasciarlo passare; montagne e colline tremano, quando Dio si manifesta sul Sinai per dare la Torah a Israele.
Il locutore sa cosa sta succedendo, ma finge di non sapere per suscitare una certa attesa, mettendo così in evidenza l’eccezionalità dell’avvenimento: perché il mare, il fiume, le montagne sono sconvolti da questo popolo in marcia? Il salmista non cerca una risposta alla sua domanda, né si preoccupa di darla, ma nel v. 7 invita la terra a tremare davanti al Dio di Giacobbe. Allora tutto diventa chiaro: lo sconvolgimento cosmico è provocato dalla presenza di Dio accanto al suo popolo[4].
Il Signore è il Dio creatore, che fa sgorgare l’acqua dalla roccia (v. 8). La sua potenza creatrice trasforma tutto: la roccia diventa stagno e il granito sorgente (v. 8: cf. Es 17,6): anche in altri passi l’episodio di Meriba è descritto come un prodigio di Dio (Is 48,21; Sal 107,35) come una figura dell’esodo futuro, una nuova creazione (Is 35,6s; 41,18; 43,20). Anche a Israele Dio dà una nuova identità, ne fa il suo popolo e lo conduce nella terra promessa ai Padri: il v. 1 sottolinea sia la sua separazione dall’Egitto, sia la relazione di appartenenza a Dio (cf. v. 7).
Salmo 115
1 Non a noi, Signore, non a noi,
ma al tuo nome da’ gloria,
per la tua fedeltà, per la tua grazia.
2 Perché i popoli dovrebbero dire:
«Dov’è il loro Dio?»
3 Il nostro Dio è nei cieli,
egli opera tutto ciò che vuole.
4 Gli idoli delle genti sono argento e oro
opera delle mani dell’uomo.
5 Hanno bocca e non parlano,
hanno occhi e non vedono,
6 hanno orecchi e non odono,
hanno narici e non odorano.
7 Hanno mani e non palpano,
hanno piedi e non camminano;
dalla gola non emettono suoni.
8 Sia come loro chi li fabbrica
e chiunque in essi confida.
9 Israele confida nel Signore:
egli è loro aiuto e loro scudo.
10 Confida nel Signore la casa di Aronne:
egli è loro aiuto e loro scudo.
11 Confida nel Signore chiunque lo teme:
egli è loro aiuto e loro scudo.
12 Il Signore si ricorda di noi, ci benedice:
benedice la casa d’Israele,
benedice la casa di Aronne.
13 Il Signore benedice quelli che lo temono,
benedice i piccoli e i grandi.
14 Vi renda fecondi il Signore,
voi e i vostri figli.
15 Siate benedetti dal Signore
che ha fatto cieli e terra.
16 I cieli sono i cieli del Signore
ma ha dato la terra l’ha data ai figli dell’uomo.
17 Non i morti lodano il Signore
né quanti scendono nella tomba.
18 ma noi, i viventi, benediciamo il Signore
ora e per sempre
L’inizio è insolito: un grido improvviso rivolto al destinatario della lode, il cui nome (YHWH) è invocato fin dal v. 1 e ripetuto poi in ogni verso nei vv. 9-18. Si vuole scuotere il Signore, sottolineando che sono in gioco il suo onore, la sua fama. Dio non può venire meno, senza perdere di credibilità, alle qualità essenziali su cui si fonda l’alleanza: l’amore, la magnanimità, la fedeltà, la lealtà, la verità.
Nel duplice «Non a noi!» risuona il desiderio di uscire dalla vergogna: se Dio glorifica il suo nome, anche i suoi fedeli verranno glorificati[5].
Se gli altri popoli dubitano delle capacità del Dio d’Israele ed esprimono il loro scherno con la domanda: «Dov’è il loro Dio?» (v. 2), l’orante col suo «perché?» esorta il suo Dio a intervenire e, replicando in base al significato letterale dell’interrogativa degli avversari, li mette a tacere con una stupenda risposta: «Il nostro Dio è nei cieli e opera tutto ciò che vuole!» (v. 3).
Reagendo all’insulto, si glorifica Dio, riuscendo a ribaltare la situazione: non il Signore, ma gli idoli dei pagani sono un nulla; nei vv. 4-8 se ne sottolinea l’impotenza con sette negazioni enfatiche. Gli idoli sono opera delle mani dell’uomo: chi confida in essi resta confuso. Possono invece confidare nel Signore, Israele, la casa di Aronne, coloro che lo temono: per tre volte si ripete che egli è veramente «loro aiuto» e «loro scudo» (vv. 9-11). Se gli idoli sono impotenti (vv. 4-8), non lo è certamente il Signore, che si ricorda del suo popolo e lo benedice (vv. 12-13). È il Creatore del cielo e della terra, e, come ha benedetto in passato, così benedirà anche in futuro: una benedizione che è fecondità (vv. 14-15). E la fede diventa lode, una lode che dura per tutta la vita, costituendo l’atteggiamento fondamentale del credente (vv. 17-18).
Salmo 116: l’azione di grazie
La lode è concatenata alla supplica nel Sal 116, nel quale LXX e Vulgata vedono due blocchi distinti (i vv. 1-9 costituiscono il Sal 114; i vv. 10-19 il Sal 115).
1 Alleluia.
Amo il Signore perché ascolta
il grido della mia preghiera.
2 Verso di me ha teso l’orecchio
nel giorno in cui lo invocavo.
3 Mi stringevano funi di morte,
ero preso nei lacci degli inferi.
Mi opprimevano tristezza e angoscia.
4 e ho invocato il nome del Signore:
ti prego, Signore, salvami!
5 Buono e giusto è il Signore,
il nostro Dio è misericordioso.
6 Il Signore protegge gli umili;
ero misero ed egli mi ha salvato.
7 Ritorna, anima mia, alla tua pace,
poiché il Signore ti ha beneficato;
8 egli mi ha sottratto dalla morte,
ha liberato i miei occhi dalle lacrime,
ha preservato i miei piedi dalla caduta.
9 Camminerò alla presenza del Signore
sulla terra dei viventi.
10 Alleluia.
Ho creduto anche quando dicevo:
«Sono troppo infelice».
11 Ho detto con sgomento:
«Ogni uomo è inganno».
12 Che cosa renderò al Signore
per quanto mi ha dato?
13 Alzerò il calice della salvezza,
e invocherò il nome del Signore.
14 Adempierò i miei voti al Signore,
davanti a tutto il suo popolo.
15 Preziosa agli occhi del Signore
è la morte dei suoi fedeli.
16 Sì, io sono il tuo servo, Signore,
io sono tuo servo, figlio della tua ancella;
hai spezzato le mie catene.
17 A te offrirò sacrifici di lode
e invocherò il nome del Signore.
18 Adempirò i miei voti al Signore
davanti a tutto il suo popolo,
19 negli atri della casa del Signore
in mezzo a te, Gerusalemme
Si può considerare il salmo una composizione unitaria, racchiusa dal termine «invocare» nei vv. 2 e 17. Lo stesso verbo ricorre anche nei vv. 4 e 13, ma la prima volta il salmista ha invocato il nome del Signore per essere salvato dalla morte (v. 3), la seconda volta, invece, lo invoca per rendergli grazie. I vv. 8-9 in posizione centrale[6] mettono bene a fuoco la situazione: l’orante ha attraversato una prova mortale, ma è stato liberato; resterà in vita. Cosa potrà dare al Signore in cambio di quanto ha ricevuto? (v. 12).
Ha ricevuto la vita e pertanto deve offrire la vita che gli è stata donata. L’orante comprende che il fatto di non morire gli permette di continuare a invocare il nome di YHWH e questa volta non per chiedere aiuto, ma semplicemente per rendere grazie[7].
La supplica era il grido della sua fede; la stessa fede viene ora espressa nell’azione di grazie: alzerà «il calice della salvezza» invocando il nome del Signore davanti al suo popolo (questa seconda parte del Sal 116 è diventata nella liturgia cristiana il salmo eucaristico per eccellenza).
Salmo 117
In questo salmo, il più breve di tutto il Salterio, l’invito alla lode è universale, anche se la motivazione è nazionale:
1 Alleluia.
Lodate il Signore, popoli tutti,
Voi tutte nazioni, dategli gloria;
2 perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore dura in eterno.
Israele parla alle nazioni: «La lode ha per contenuto un avvenimento annunciato da Israele, annunciato fuori di Israele. Israele che loda è Israele che testimonia»[8]. In Rm 15,9 Paolo, citando questo salmo in una catena di citazioni bibliche, dirà che le nazioni pagane «glorificano Dio per la sua misericordia».
Salmo 118
L’Hallel termina col Sal 118, che ricorda agli ebrei la liberazione dall’Egitto, la salvezza operata dalla destra del Signore: la Pasqua è il giorno fatto dal Signore per il suo popolo (v. 24), il giorno in cui Israele è stato scelto come pietra angolare (v. 22) per costruire la dimora di Dio in mezzo agli uomini.
Il salmo si apre e si chiude con l’invito a celebrare il Signore «perché è buono, perché eterna è la sua misericordia» (vv. 1.29). I diversi gruppi a cui viene rivolto l’invito (cf. Sal 115,9-11) rispondono in coro: «Eterna è la sua misericordia» (vv. 2.3.4), ritornello ripetuto in ogni versetto anche nel Sal 136.
Un personaggio principale (il re? Il popolo rappresentato da un individuo?), superato un grave pericolo, rende grazie pubblicamente: loda il Signore perché l’ha esaudito, l’ha salvato (vv. 14-15.21). L’intera comunità chiede: hoshya-na = salvaci! (v. 25). È l’Osanna (cf. Mc 11,9), utilizzato dopo l’esilio (in particolare nella festa delle Capanne) essenzialmente come domanda. Si rinnova la domanda per il futuro, acclamando il Signore, l’unico capace di salvare. Al culmine della cerimonia (vv. 28-29) il personaggio principale pronuncia il suo atto di fede e di fedeltà verso il Signore («Sei tu il mio Dio») e, al tempo stesso, la sua azione di grazie, a cui tutti sono invitati a unirsi.
[1] I testi del Talmud babilonese sono preceduti dalla lettera b, quelli del Talmud palestinese (o di Gerusalemme) dalla lettera j.
[2] Oppure: «La Pasqua “come un’oliva” [la porzione di agnello pasquale che spetta a ciascuno è piccola come un’oliva] e l’Hallel fora il tetto» (jPesachim VII 12).
[3] Cf. U. Neri (ed.), Alleluia. Interpretazioni ebraiche dell’Hallel di Pasqua (Sal 113-118), Città Nuova, Roma 1981.
[4] R. Torti Mazzi, Quando interrogare è pregare. La domanda nel Salterio alla luce della letteratura accadica, San Paolo, Cinisello B. 2003, 276.
[5] Torti Mazzi, Quando interrogare è pregare, 249.
[6] Per l’analisi della struttura, cf. J.N. Aletti – J. Trublet, Approche poétique et théologique des Psaumes. Analyses et methodes, Cerf, Paris 1983, 38-39.
[7] Torti Mazzi, Quando interrogare è pregare, 263.
[8] P. Beauchamp, Salmi notte e giorno, Cittadella, Assisi 1983, 115.
http://www.famigliacristiana.it/blogpost/figli-e-padri.aspx
GIANFRANCO RAVASI
Cardinale arcivescovo e biblista
FIGLI E PADRI
26 dicembre 2010
« Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto! Padri, non esasperate i vostri figli, ma fateli crescere nella disciplina e negli insegnamenti del Signore! »
(Efesini 6,1.4)
Il grande scrittore russo Lev Tolstoj, nel suo monumentale romanzo Anna Karenina
(1875-1877), ha lasciato una frase curiosa ma significativa: «Le famiglie felici si assomigliano tutte, le famiglie infelici sono infelici ciascuna a modo suo». Chi ha letto quel libro sa che in esso si scava in profondità nei drammi della coppia, in particolare quella di Anna e Vronskij, con un esito tragico perché l’approdo sarà nel suicidio della Karenina.
Le famiglie molto spesso trascinano con sé un travaglio che non è riducibile a semplici
schemi psicologici e sociologici, soprattutto nel rapporto generazionale tra padri e figli
(tra l’altro, esemplare in questo senso è un celebre romanzo di un altro scrittore russo
contemporaneo di Tolstoj, Padri e figli di Ivan S. Turgenev).
Anche san Paolo, nelle sue Lettere, ci ha lasciato quelli che gli esegeti hanno chiamato
“codici familiari”, presenti in particolare nel capitolo 3 della Lettera ai Colossesi e nei capitoli 5-6 dello scritto indirizzato agli Efesini. È da quest’ultimo che abbiamo desunto il nostro frammento, un bell’esempio di morale domestica, segnata da equilibrio e rigore, nello stile anche dell’insegnamento etico della filosofia greca, soprattutto stoica. Come è evidente, l’Apostolo si rivolge a entrambi i protagonisti della vicenda familiare.
Da un lato, ci sono i figli che devono ai genitori il rispetto e l’obbedienza, un impegno
“giusto” perché si basa non solo sulla morale naturale, ma anche sul comandamento divino: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà» (Esodo 20,12). «Ognuno di voi rispetti sua madre e suo padre», si ripete nel libro del Levitico (19,3).
D’altro lato, però, ecco anche l’impegno dei genitori presentato sotto un duplice profilo. Il negativo: «Non esasperate i vostri figli», con la petulanza, con l’incomprensione, con l’eccesso di severità, con l’imposizione di uno stile di vita datato che non tiene conto dei nuovi contesti sociali e culturali. Ma c’è un aspetto positivo ben più rilevante, quello dell’educazione, della formazione, dell’esempio e della testimonianza. Non basta generare fisicamente. Essere genitori comprende un’arte pedagogica che esige pazienza, amore e tempo. Non si forma un figlio con un rimprovero sbrigativo o con la concessione illimitata di ciò che egli desidera, così da non avere discussioni.
Questo monito rivolto a figli e a genitori è ripetuto quasi alla lettera anche ai cristiani di Colossi e, in forma più ampia e con destinatari giovani e anziani, pure al discepolo Tito (2,1-8). È, questa, la dimostrazione non solo della figura di pastore propria di Paolo, spesso bollato come un freddo e astratto intellettuale, ma è al tempo stesso la testimonianza di una fede che si innerva nella quotidianità, che esce dal tempio e si presenta nelle case, che non ignora il groviglio delle relazioni, dei problemi, delle crisi di ogni famiglia. La parola di Dio, infatti, «è una lampada, il suo insegnamento una luce, un sentiero di vita l’istruzione che ammonisce» (Proverbi 6,23).
http://www.zenit.org/it/articles/le-catene-di-san-paolo
LE CATENE DI SAN PAOLO
6 Marzo 2009
ROMA, lunedì, 16 marzo 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’articolo di Graziano Motta apparso sul nono numero della rivista « Paulus » (marzo 2009), dedicato al tema “Paolo il prigioniero”.
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La Catena di san Paolo, che secolare tradizione vuole abbia segnato la sua condizione di prigioniero in Roma, è stata oggetto in occasione dell’Anno Paolino di una straordinaria operazione di “visibilità”. Lo scorso anno infatti, ai primi di giugno, ha lasciato il posto d’onore che per secoli aveva mantenuto nella piccola Cappella delle reliquie dell’Abbazia dei monaci benedettini – dentro un reliquiario a forma di tabernacolo, di ottone dorato e cristallo – per essere esposta alla venerazione dei fedeli. La Catena, ora posta dentro un’ampia teca illuminata e visibile in tutta la sua estensione, è stata collocata vicino al sepolcro dell’Apostolo. Con la collocazione della Catena proprio vicino alla più preziosa reliquia di san Paolo, il sarcofago con i suoi resti mortali, l’impatto emozionale dei visitatori è indubbiamente cresciuto. La Catena non è lunga come doveva essere all’inizio, cioè – si presume – più o meno un metro. È composta da nove anelli che hanno la forma del numero otto. E è leggera, diversamente dalle due pesanti catene venerate nella chiesa romana di San Pietro in Vincoli, a cui appunto, tradizione vuole, fu “incatenato” san Pietro. La Catena di san Paolo serviva invece per tenere il suo polso agganciato al soldato che ne sorvegliava la prigionia a Roma, negli anni tra il 61 e il 63 d.C., in particolare quando uscivano dalla casa dove viveva in regime di libertà vigilata. Potrebbe essere stata la catena che lo trattenne al soldato sino alle Acque Salvie, il luogo del martirio, oggi noto come Le Tre Fontane. Una testimonianza tramandata dagli Acta Petri et Pauli, apocrifi dei secoli IV e VII ricorda l’episodio di una donna, di nome Perpetua, cieca di un occhio, che viene miracolata quando si imbatte in Paolo in catene e, commossa, scoppia in lacrime. È di san Giovanni Crisostomo (344-407) la prima testimonianza della venerazione della Catena di san Paolo, del quale fu grande ammiratore; suoi fra l’altro i commenti più profondi alle Lettere dell’Apostolo che ci siano giunti dall’antichità cristiana; e al Crisostomo si deve la stabile introduzione nella Divina Liturgia, che porta il suo nome, della lettura di un passo delle Lettere. Seguono le testimonianza di san Leone Magno e di san Gregorio Magno, papa il primo dal 440 al 461, il secondo dal 590 al 604, che con la Basilica di San Paolo ebbero un rapporto importante. Furono infatti impegnati entrambi a difenderla dalle inondazioni del vicino fiume Tevere: papa Leone fece costruire una piattaforma coperta per il sarcofago dell’Apostolo, mentre papa Gregorio fece sollevare questo piano per creare un accesso diretto dal presbiterio al sarcofago attraverso una cripta. Sulla venerazione della Catena, papa Gregorio scrisse una lettera a Costantina Augusta, il cui testo integrale (cfr. Migne P.L. LXXVII, 704) è apparso in uno studio di padre Anselmo Tappi-Cesarini sulla rivista Benedectina VIII del 1954. Dopo aver parlato di questa reliquia (De catenis quas ipse sanctus Paulus Apostolus in collo et in manibus gestavit) e dei miracoli attribuitile (ex quibus multa miracula in populo demonstrantur), il Pontefice promette che ne invierà una parte alla moglie dell’Imperatore… si presume alcuni anelli (partem aliquam vobis trasmettere festinabo). Riferisce poi della tradizione, allora invalsa, di dare la limatura della catena ai devoti (quia dum frequenter ex catenis eiusdem multi venientes benedictione petunt, ut parum quid ex limatura accipiant); un’operazione alla quale attendeva un sacerdote (assistit sacerdos cum lima). Ma accadeva sovente che «inutilmente egli si affaticava a menar su e giù la lima, poiché il ferro non si lasciava intaccare» (così traduce un’antica Guida della Basilica di San Paolo: et aliquibus petentibus ita concite aliquid de catenis ipsis excutitur, ut mora nulla sit. Quibusdam vero petentibus, diu per catenas ipsas ducitur lima, et tamen ut aliquid exinde exeat non obtinetur ). Si sa che la limatura veniva versata in un bicchiere d’acqua, bevuta da ammalati che imploravano la guarigione. Padre Tappi-Cesarini scrive che «il Rucellati, il Panvinio e il Mercurius confermano l’esistenza della catena di san Paolo nel reliquiario del monastero di San Paolo. Così pure gli inventari della Sacrestia dal 1630 al 1727». Sull’autenticità delle antiche testimonianze non può esserci alcun ragionevole dubbio: la venerazione della Catena come reliquia ex contactu si è protratta ininterrottamente sino a oggi. Ancora nel secolo scorso, nelle feste della Conversione di San Paolo (25 gennaio) e dei Santi Pietro e Paolo (29 giugno) il reliquiario veniva solennemente esposto e, dopo le funzioni, era offerto al bacio dei fedeli. «Al 30 giugno, dopo la Cappella Papale – ricorda padre Tappi-Cesarini – il corteo dei vescovi assistenti al soglio, guidati dal cerimoniere pontificio, si reca all’altare per il bacio della Catena. Nel giorno poi della stazione quaresimale, feria quarta in tradizione symboli, viene portata in processione per le navate della basilica». Attualmente questa processione avviene il 29 giugno, al termine dei Vespri della solennità dei santi Pietro e Paolo. L’Abate benedettino e i monaci – accompagnati di recente anche da rappresentanti di diverse confessioni cristiane in Roma – percorrono con la reliquia la zona adiacente alla Basilica.
Impossibile sapere quanti fossero all’inizio gli anelli della Catena. Dei tredici che erano stati inventariati nel 1639 e collocati su una Statua d’argento di san Paolo, oggi ne rimangono soltanto nove. Gli ultimi due anelli furono donati da papa Giovanni Paolo II all’arcivescovo di Atene Christodoulos e consegnati a lui personalmente il 14 dicembre 2006 dall’arciprete della Basilica – il cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo – che ricevette in contraccambio un’icona moderna di Paolo, di scuola greca, posizionata sulla parete della navata mediana destra della Basilica. L’icona è sempre illuminata per richiamare l’attenzione e la venerazione dei pellegrini, soprattutto di quelli ortodossi; una targa fa memoria dell’evento ecumenico. Ed è stato sempre il cardinale Montezemolo a volere il trasferimento della Catena dalla Cappella delle reliquie all’area del Sepolcro di Paolo, e ad affidare il disegno della teca espositiva allo scultore Guido Veroi, 82 anni, Accademico Pontificio nella sezione delle Arti. Veroi aveva già progettato, su suo incarico, la medaglia commemorativa dell’Anno Paolino (disponibile nelle coniazioni in bronzo e in argento) e soprattutto la Porta Paolina della Basilica. Della Porta Paolina – nel Quadriportico d’ingresso è la seconda da sinistra – Veroi ha disegnato in quattro grandi pannelli altrettanti episodi della vita dell’Apostolo e, in sei più piccoli, stemmi e iscrizioni tratti dalle Lettere [cfr. Paulus 2, pp. 62-63]. Questi pannelli – collocati pochi giorni prima dell’apertura dell’Anno Paolino – verranno però sostituiti entro il 29 giugno. «In questi giorni – ci spiega Veroi – per rispettare i tempi, sto modellando, con l’aiuto di una mia allieva, i quattro grandi pannelli relativi agli episodi della vita di san Paolo, che verranno poi realizzati in bronzo». Veroi è divenuto celebre con le Caravelle di Colombo della prima moneta d’argento della Repubblica Italiana, emessa nel 1954. La sua fama è cresciuta nel tempo, e non solo con le centinaia di medaglie e di monete che recano la sua firma (l’ultima è la moneta di 2 euro che lo Stato della Città del Vaticano ha emesso nel 2008, “anno dedicato a San Paolo” e quarto del pontificato di Benedetto XVI). Ricordiamo le porte della chiesa dello Spirito Santo a Pescara, con i mosaici di altre chiese – rinomato quello della parrocchia Santa Famiglia di Martina Franca – e con la copia in bronzo realizzata nel 1995 della statua equestre di Marco Aurelio collocata nella piazza del Campidoglio di Roma, in sostituzione dell’originale antico, ora custodito nel Museo Capitolino. La Teca delle Catene è in bronzo patinato, biondo, con una finestra in cristallo sempre illuminata. È di proporzioni rettangolari: lunga 87,20 centimetri, larga 42,20, alta 62. Ma se si considerano le tre statuette in alto – san Paolo in catene fra due soldati romani – raggiunge gli 85 centimetri. La finestra, lunga 70 centimetri, consente di vedere in tutta la loro estensione i nove anelli della Catena, disposti sopra un rivestimento di seta bianca. «Ho voluto – dice Veroi – che questi anelli fossero trattenuti all’estremità da due riproduzioni di una moneta romana, da me modellata in diametro doppio dell’originale, di un sesterzio con l’effigie di Nerone, per ricordare che san Paolo fu prigioniero e martire nel tempo in cui questi fu imperatore di Roma». La teca è stata posta davanti al Baldacchino di Arnolfo di Cambio su un piano inclinato, per cui per il lato anteriore è stato necessario modellare due grosse zampe di leone, mentre per il lato posteriore è stato sufficiente appoggiare la teca su due piccoli cilindri. Poi il maestro Veroi ci tiene a ricordare chi lo ha affiancato nel lavoro: la sua allieva Gabriella Titotto «che ha modellato i tre personaggi posti poi sul colmo: san Paolo in catene tra due soldati romani; e le zampe di leone, le colonne scanalate e gli acroteri che sormontano le quattro colonne». E il cesellatore che ha realizzato in bronzo l’intera teca, il suo montaggio e la sua collocazione sul marmo inclinato: Remo Mansutti, «artista validissimo con il quale ho rapporti di lavoro da oltre cinquant’anni, con grandi soddisfazioni». Così la Catena è stata restituita alla secolare venerazione dei pellegrini, proprio in occasione dell’Anno Paolino: si può proprio parlare di un evento incastonato nelle celebrazioni dell’Apostolo.
Graziano Motta
http://oodegr.co/italiano/tradizione_index/insegnamenti/condanliberipop.htm
CONDANNATI AD ESSERE LIBERI
Arch. Justin Popovic
Gli uomini condannarono Dio a morte. Dio, però, attraverso la sua Risurrezione condanna tutti gli uomini all’immortalità. Ai loro colpi risponde con degli abbracci. Agli insulti con delle benedizioni. Alla morte con l’immortalità. L’odio degli uomini non fu mai tanto, quanto nella Sua crocifissione. E Dio non mostrò mai tanto amore agli uomini, quanto nella Sua Risurrezione. Gli uomini volevano rendere Dio mortale, ma Dio attraverso la Sua Risurrezione ha reso gli uomini immortali. Risuscitò il Dio crocifisso e distrusse la morte. Ormai la morte non c’è più. L’immortalità inondò l’uomo e tutti i suoi mondi.
Attraverso la Risurrezione del Teantropo la natura umana fu condotta definitivamente sulla via dell’immortalità e divenne terribile anche per la stessa morte. Perché prima della Resurrezione di Cristo la morte era terribile per l’uomo, mentre dalla Resurrezione del Signore, l’uomo diventa terribile per la morte. Se l’uomo attraverso la fede vive nel Risorto Teantropo, vive al di sopra della morte. Si rende inespugnabile anche dalla morte. La morte si trasforma in “sgabello dei suoi piedi”: “dov’è, o morte, la tua vittoria? dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (cfr. 1 Cor 15, 55-56). Così, quando l’uomo che vive in Cristo muore, lascia semplicemente la veste del suo corpo per rivestirsi nel giorno della Seconda Venuta.
Fino al momento della Risurrezione del Cristo Teantropo la morte era la seconda natura dell’uomo. La prima era la vita, e la morte la seconda. L’uomo era abituato a vivere la morte come una cosa naturale. Eppure con la Sua Risurrezione il Signore cambiò tutto: l’immortalità divenne la seconda natura dell’uomo, successe qualcosa di naturale nell’uomo, e la morte si rese innaturale. Come fino alla Risurrezione di Cristo era naturale per gli uomini essere mortali, così dopo la Risurrezione divenne naturale per loro l’immortalità.
Attraverso il peccato l’uomo si rese mortale e limitato. Attraverso la Risurrezione del Teantropo diventa immortale ed eterno. In questo esattamente sta la forza e la potenza e l’onnipotenza della Risurrezione di Cristo. E per questo senza la Risurrezione di Cristo non ci sarebbe neppure il Cristianesimo. La Risurrezione del Signore è il più grande miracolo tra i miracoli. Tutti gli altri miracoli nascono da questo e si riassumono in questo. Da questo derivano la fede e l’amore e la speranza e la preghiera e la devozione di Dio. I discepoli fuggiti, quelli che andarono via, lontano da Gesù quando moriva, ritornarono da Lui quando risuscitò. E il centurione Romano quando vide il Cristo alzarsi dalla tomba, lo confessò come Figlio di Dio. Allo stesso modo anche tutti i primi Cristiani divennero Cristiani, perché Cristo risuscitò, perché vinse la morte. Questo è quello che nessun’altra religione ha. Questo è quello che in modo unico e incontestabile dimostra e prova che Gesù Cristo è l’unico vero Dio e Signore in tutti i mondi visibili e invisibili.
Grazie alla Risurrezione di Cristo, grazie alla vittoria sulla morte gli uomini diventavano, diventano e diventeranno per sempre Cristiani. Tutta la storia del Cristianesimo non è altra cosa che la storia di un unico e solo miracolo, della Risurrezione di Cristo, che è perpetuato costantemente in tutti i cuori dei Cristiani di giorno in giorno, di anno in anno, di secolo in secolo fino alla Seconda Venuta.
L’uomo nasce veramente non quando lo porta nel mondo sua madre, ma quando crede nella Risurrezione del Salvatore Cristo, perché allora nasce nell’immortalità e nella vita eterna, mentre la madre genera il suo figlio che arriverà alla morte, alla tomba. La Risurrezione di Cristo è la madre di tutti noi, di tutti i Cristiani, la madre degli immortali. Attraverso la fede nella Risurrezione del Signore, nasce di nuovo l’uomo, nasce per l’eternità.
“Questo è impossibile!”, nota lo scettico. E il Risorto Teantropo risponde: “ogni cosa è possibile a chi crede” (cfr. Mc 9, 23). E chi crede è colui che con tutto il suo cuore, tutta la sua anima, tutto il suo essere vive secondo l’Evangelo del Risorto Signore Gesù.
La nostra speranza è la vittoria attraverso cui vinciamo la morte, cioè la fede nel Signore Risorto. “Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?”, “pungiglione della morte è il peccato” (1 Cor 15, 55-56). Attraverso la Sua risurrezione il Signore “ha indebolito il pungiglione della morte”. La morte è il serpente mentre il peccato è il suo pungiglione. Attraverso il peccato la morte effonde il veleno nell’anima e nel corpo dell’uomo. Quanti più sono i peccati che l’uomo ha, tanti di più ne sono i pungiglioni tramite i quali la morte effonde il suo veleno in lui.
Quando la vespa punge l’uomo, egli si sforza per quanto possibile ad estrarre il pungiglione dal suo corpo. Quando invece lo pungerà il peccato – il pungiglione stesso della morte – cosa deve fare? – Deve con la fede e la preghiera invocare il Risorto Salvatore Cristo, perché Egli estragga il pungiglione della morte dall’anima. Ed Egli come misericordioso lo farà, poiché è Dio della Misericordia e dell’Amore. Quando molte vespe andranno, attaccheranno il corpo dell’uomo e lo feriranno molto con i loro pungiglioni, allora l’uomo si avvelenerà e morirà. E questo accade anche nell’anima dell’uomo quando viene ferita dai tanti pungiglioni dei tanti peccati. Costui muore di una morte che non conosce resurrezione.
L’uomo, vincendo attraverso il Cristo, il peccato dentro di sé, vince la morte. Se viene trascorso un giorno e tu non hai vinto neanche un tuo peccato, sappi che sei diventato ancora più mortale. Se invece vinci una o due o tre tuoi peccati, sei diventato più giovane di una giovinezza che non invecchia, che è immortale ed eterna! Non dimentichiamo mai: quando qualcuno crede nel risorto Cristo, questo significa che lotta continuamente la lotta contro il peccato, del male e della morte.
Il fatto che l’uomo crede veramente nel Signore Risorto lo prova lottando contro il peccato e le passioni. Se lotta deve sapere che lotta per l’immortalità e la vita eterna. Se però non lotta, allora la sua fede è vana! Perché, se la fede dell’uomo non risulta una lotta per l’immortalità e l’eternità, allora che cosa è? Se con la fede in Cristo non raggiunge l’immortalità e la vittoria sulla morte, allora a cosa serve la nostra fede? Se Cristo non è risorto ciò significa che il peccato e la morte non sono sconfitti. Se questi ultimi due non sono sconfitti, allora perché si deve credere a Cristo? Costui, però, che attraverso la fede nel Cristo Risorto lotta contro ogni suo peccato, egli rafforza gradualmente in sé la sensazione che il Signore è effettivamente risorto, ha infatti indebolito il pungiglione della morte, ha veramente vinto la morte su tutti i fronti della battaglia.
Il peccato sminuisce l’anima dell’uomo gradualmente, la porta pian piano alla morte, la trasforma da immortale a mortale, da incorruttibile e immensa in corruttibile e limitata. Quanti più peccati ha l’uomo, tanto più è mortale. E se l’uomo non sente lui stesso la morte, è evidente che si trova tutto immerso nei peccati, nei pensieri miopi, nei sentimenti morti. Il Cristianesimo è una chiamata, per una lotta fino all’ultimo respiro contro la morte, cioè fino alla vittoria definitiva su di lei. Ogni peccato risulta un ritiro, ogni passione un tradimento, ogni malvagità una sconfitta.
Non si deve chiedere perché anche i Cristiani muoiono della morte fisica. Questo succede perché la morte del corpo è una semina. Si semina corpo mortale, dice l’Apostolo Paolo (cfr. 1 Cor 15, 42 e seg.), e germoglia, cresce e diventa immortale. Come il grano seminato, anche così il corpo si scoglie, perché il Santo Spirito lo vivifichi e lo perfezioni. Se il Signore Gesù non avesse risuscitato il corpo che guadagno avrebbe avuto il corpo da Lui? Egli non avrebbe salvato l’uomo interamente. Se non ha risuscitato il corpo, allora perché si incarnò, perché assunse il corpo, visto che non gli diede niente della Sua Divinità?[1]
Se Cristo non è risuscitato, perché allora si deve credere in Lui? Confesso, sinceramente, che non avrei mai creduto in Cristo, se non fosse risuscitato e non avesse vinto la morte, il nostro maggiore nemico. Però Cristo è risorto e ha donato a noi l’immortalità. Senza questa verità, il nostro mondo è solo una mostra caotica di odiose sciocchezze. Solo con la gloriosa Sua Risurrezione l’ammirabile Signore e Dio nostro, ci ha liberati dall’assurdità e la disperazione. Perché senza la Risurrezione non esiste niente di più assurdo in questo mondo, né sui cieli né sotto i cieli. Né maggior disperazione di questa vita, senza l’immortalità. Per questo in tutti i mondi non esiste un essere più disgraziato dell’uomo, che non crede nella Risurrezione di Cristo e la risurrezione dei morti (cfr. 1 Cor 15, 19). “Sarebbe stato meglio per quest’uomo che non fosse mai nato” (Mt 26, 24).
Nel nostro mondo umano la morte è il più grande tormento e la più orripilante disumanità. La liberazione da questo tormento e da questa disumanità è esattamente la salvezza. Questa salvezza è stata donata al genere umano dal Vincitore della morte – il Risorto Teantropo [= Dio-uomo]. Attraverso la Sua Risurrezione Egli ci ha rivelato tutto il mistero della nostra salvezza. Salvezza significa assicurare per il corpo e l’anima l’immortalità e la vita eterna. E come si riesce in questo? Solo attraverso una vita teantropica, la nuova vita nella Risurrezione e attraverso il Cristo Risorto!
Per noi Cristiani questa vita terrena è una scuola, nella quale impariamo come mettere al sicuro l’immortalità e la vita eterna. Poiché che guadagno abbiamo da questa vita, se tramite essa non riusciamo a ottenere quella eterna? Ma perché l’uomo possa risorgere insieme a Cristo, deve prima morire insieme a Lui e vivere la vita di Cristo come sua. Se fa questo, allora nel giorno della Risurrezione potrà dire, insieme a san Gregorio il Teologo: “Ieri sono stato crocifisso con Cristo, oggi sono glorificato con Lui. Ieri ero morto insieme a Lui, oggi sono vivificato. Ieri mi ero sepolto con Lui, oggi mi alzo insieme a Lui”[2].
Tutti e quattro i Vangeli di Cristo si possono ricapitolare in quattro sole parole: Χριστός Ανέστη! – Αληθώς Ανέστη!… [= Cristo è Risorto! – È veramente Risorto!...] Ad ognuna di queste parole si trova un Evangelo e nei quattro Evangeli si trova l’intero senso di tutti i mondi di Dio, di quelli visibili e invisibili. E quando tutti i sentimenti dell’uomo e tutti i suoi pensieri saranno concentrati nel tuono di questo saluto: “Cristo è Risorto!”, allora la gioia dell’immortalità scuoterà tutti gli esseri, e questi risponderanno in esultanza, confermeranno il miracolo pasquale: “È veramente Risorto!”.
Sì, è veramente risorto il Signore! E testimone di questo fatto sei tu, ne sono io, ne è ogni Cristiano, partendo dai santi Apostoli fino al giorno della Seconda Venuta. Poiché solo la forza del Risorto Teantropo Cristo riuscì a dare – dà continuamente e continuamente darà – la forza ad ogni Cristiano – dal primo fino all’ultimo – per vincere ogni cosa mortale e anche la morte stessa. Ogni cosa peccatrice e il peccato stesso. Ogni cosa demoniaca e il diavolo stesso. Poiché il Signore solo con la Sua Risurrezione, secondo il modo più convincente, mostrò e dimostrò che la Sua vita è Vita Eterna, la Sua verità è Eterna Verità, il Suo amore Eterno Amore, la Sua bontà Eterna Bontà, la Sua gioia Eterna Gioia. Anzi, mostrò e dimostrò che tutte queste cose le dà Lui, secondo la Sua impareggiabile filantropia, ad ogni Cristiano in tutte le epoche.
A questo riguardo, non esiste un fatto non solo nell’Evangelo, ma neanche nell’intera storia del genere umano, che non sia testimoniato in modo talmente forte, talmente inespugnabile, talmente innegabile, quanto la Risurrezione di Cristo. Indubbiamente, il Cristianesimo in tutta la sua realtà storica, la sua forza storica e la sua onnipotenza, si fonda sull’evento della Risurrezione di Cristo, cioè sull’Esistenza eternamente viva del Teantropo Cristo. E di questo ne è testimone tutta la longeva e sempre miracolosa storia del Cristianesimo.
Poiché se esiste un evento nel quale bisognerebbe riassumere tutti gli eventi, della vita del Signore e degli Apostoli e in genere di tutto il Cristianesimo, questo evento sarebbe la Risurrezione di Cristo. Inoltre, se esiste una verità nella quale sarebbe possibile riassumere tutte le verità Evangeliche, questa verità sarebbe la Risurrezione di Cristo. E ancora, se esiste una realtà nella quale sarebbe possibile riassumere tutte le realtà Neotestamentarie, questa realtà sarebbe la Risurrezione di Cristo. E infine, se esiste un miracolo Evangelico nel quale sarebbe possibile riassumere tutti i miracoli Neotestamentari, allora questo miracolo sarebbe la Risurrezione di Cristo. Perché solo nella luce della Risurrezione di Cristo, vengono messe in risalto meravigliosamente e chiaramente, sia il volto del Teantropo Gesù che la Sua opera. Solo nella Risurrezione di Cristo assumono la piena spiegazione tutti i miracoli di Cristo, tutte le Sue verità, tutte le Sue parole, tutti i fatti del Nuovo Testamento.
Fino alla Sua Risurrezione il Signore insegnava sulla vita eterna, ma dopo la Sua Risurrezione ha mostrato che Egli è la Vita Eterna. Fino alla Sua Risurrezione insegnava sulla risurrezione dei morti, ma con la Sua Risurrezione ha mostrato che Egli è difatti la Risurrezione dei morti. Fino alla Sua Risurrezione insegnava che la fede in Lui ci porta dalla morte alla vita, ma con la Sua Risurrezione ha mostrato che Egli stesso ha vinto la morte e assicurò in questo modo a quelli che erano morti il passaggio dalla morte alla Risurrezione. Sì, sì, sì: il Teantropo Gesù Cristo con la Sua Risurrezione ha mostrato e dimostrato che è l’unico vero Dio, l’unico vero Teantropo in tutti i mondi umani.
E qualcosa ancora: senza la Risurrezione del Teantropo non è possibile spiegare né l’apostolato degli Apostoli, né il martirio dei Martiri, né la confessione dei Confessori, né la santità dei Santi, né l’ascesi degli Asceti, né la miracolosità dei Taumaturghi, né la fede di quelli che hanno creduto, né l’amore di quelli che amano, né la speranza di quelli che sperano, né il digiuno dei digiunatori, né la preghiera degli oranti, né la mitezza dei miti, né il pentimento dei penitenti, né la misericordia dei misericordiosi, né l’ascesi di qualsiasi virtù cristiana. Se il Signore non fosse risorto e come Risorto non avesse riempito i Suoi discepoli con la forza vivifica e la sua sapienza taumaturgica, chi avrebbe potuto radunare e dare il coraggio e la forza e la sapienza a questi impauriti fuggiaschi perché riuscissero così intrepidamente e con tanta forza e sapienza a predicare e confessare il Signore Risorto e andare con tanta gioia alla morte per Lui? E se il Risorto Salvatore non li avesse riempiti con la Sua divina forza e sapienza, come avrebbero potuto accendere nel mondo l’inestinguibile incendio della fede Neotestamentaria, questi ingenui, analfabeti, ignoranti e poveri uomini? Se la fede Cristiana non fosse la fede del Risorto e di conseguenza dell’eternamente vivo e vivificante Signore, chi avrebbe potuto ispirare i Martiri nelle imprese del martirio, e i Confessori nelle imprese della confessione, e gli Asceti nell’impresa dell’ascesi, e gli Anargiri nell’impresa della cura gratuita [anargiria], e i Digiunatori nell’impresa del digiuno e della continenza, e qualsiasi Cristiano in qualsiasi impresa Evangelica?
Tutte queste cose quindi sono vere e reali sia per me e per te, che per ogni esistenza umana. Poiché il mirabile e dolcissimo Signore Gesù, il Risorto Teantropo, è la sola Esistenza sotto il cielo con la quale l’uomo può vincere, qui sulla terra, la morte, il peccato e il diavolo, e divenire beato e immortale, compartecipe nell’Eterno Regno dell’Amore di Cristo… Per questo, per l’esistenza umana il Risorto Signore è tutto per tutti in tutti i mondi: per ogni cosa Bella, Buona, Vera, Cara, Lieta, Divina, Sapiente, Eterna. Egli è tutto il nostro Amore, tutta la nostra Verità, tutta la nostra Gioia, tutte le nostre cose Buone, tutta la nostra Vita, la Vita Eterna in tutte le eternità divine infinite.
– Per questo e di nuovo, e per molte, innumerevoli volte: Cristo è Risorto!
Traduzione a cura di Tradizione Cristiana, gennaio 2009