Archive pour juillet, 2015

OMELIA XVI SETTIMANA DEL T.O. : GUAI AI PASTORI CHE NON CURANO IL GREGGE

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OMELIA (19-07-2015)

GUAI AI PASTORI CHE NON CURANO IL GREGGE

padre Antonio Rungi

Nella sacra scrittura ci sono passi forti, dirompenti, ma quello che oggi leggiamo e che è tratto dal profeta Geremia, mette i pastori delle anime davanti alle loro grandi responsabilità. La vocazione sacerdotale, religioso o qualsiasi ministero nella Chiesa una volta accettata, vagliata e scelta per sempre, non può essere considerata uno status sociale di benessere personale e di garanzie per ben vivere. Il pastore scelto dal Signore in mezzo al popolo di Dio deve essere tutto per tutto per il suo popolo. Non ci possono essere giustificazioni, né eccezioni, ne tolleranza alcuna. Nessuno è costretto a fare ciò che sceglie liberamente o accetta liberamente. Per cui, riflettendo sul brano della prima lettura di questa domenica XVI del tempo ordinario, penso a tutti i sacerdoti in cura di anime e soprattutto i parroci. Penso a coloro che in obbedienza al vescovo o ai superiori maggiori hanno accettato la guida pastorale di una parrocchia, di un santuario, di un gruppo religioso, di associazioni, di compiti e ministeri vari nella chiesa e che poi non si impegnano seriamente e costantemente in questo compito. Del loro disimpegno, del loro scarso impegno, dell’impegno a tempo determinato e parziale renderanno conto a Dio, in quanto c’è un’umanità che soffre e aspetta, almeno il conforto del pastore attento e generoso nel servire la causa dei poveri, dei sofferenti. Esempi mirabili di pastori zelanti e instancabili, generosi nel servizio, la chiesa ne conta tantissimi, al punto tale che li ha elevato agli onori degli altari. A tali pastori bisogna ispirare la propria vocazione e missione nella chiesa, se si vuole rispondere al dono ricevuto, che è anche un mistero.
Il severo ammonimento che ci ricorda il profeta Geremia deve far pensare ai pastori, ma anche alle pecore, perché spesso sono le pecore a distrarre i pastori dai loro veri doveri e compiti. Gli uni e gli altri devono camminare insieme e costruire insieme. « Dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere ». Quante persone lontane dalla chiesa anche per responsabilità diretta dei pastori che invece di accogliere, scacciano; invece di essere disponibili sono eternamente stanchi di svolgere il loro primario compito, facendo altre cose e ricoprendo uffici e ruoli incompatibili con quello del pastore che deve stare in mezzo al suo gregge per guidarlo sulla via della santità e non della perdizione, della pace e non della guerra, della disponibilità e non dell’indifferenza. Pastori che sappiano comunicare la loro di gioia di essere sacerdoti e consacrati e non persone tristi e risentite, come ci ricorda papa Francesco nella sua Esortazione Apostolica Evangelii gaudium. Pastori che esercitano ed amministrano il sacramento della misericordia con la stessa bontà e tenerezza di Dio e che non diventano giudici inflessibili con gli altri e permessivi con se stessi.
Sia costante la preghiera al Signore, rivolta al Lui con queste espressioni di sincera volontà di andare incontro a Dio: « Dona ancora, o Padre, alla tua Chiesa, convocata per la Pasqua settimanale, di gustare nella parola e nel pane di vita la presenza del tuo Figlio, perché riconosciamo in lui il vero profeta e pastore, che ci guida alle sorgenti della gioia eterna ». La gioia della propria consacrazione, la gioia da trasmettere agli altri nel servizio pastorale. Certo anche il pastore che ha svolto in pieno il proprio compito e la propria missione è chiamato ad una verifica periodica e sistematica del proprio agire. Il pastore lo può fare da solo, ma anche insieme (cosa preferibile) agli altri pastori e a chi ha la responsabilità in primis dell’opera di chi è pastore a livello locale o a livello parrocchiale. C’è una gerarchia nella responsabilità sui pastori. Il Papa su tutto l’episcopato e sul clero e il vescovo sul clero Diocesano e sull’intero popolo di Dio della chiesa locale. Il parroco responsabile della pastorale della sua comunità parrocchiale, di cui deve rendere conto soprattutto a Dio, oltre che ai propri vescovi o superiori. Perciò il pastore deve ritagliarsi dei tempi di tale verifica con gli esercizi spirituali, con i corsi di formazione permanente dei sacerdoti, dei ritiri mensili, di preghiera personale quotidiana, di attenzione ai bisogni della comunità alla quale è stato inviato, soprattutto i più deboli ed emarginati. Il Vangelo di questa domenica ci immette in questo clima di verifica costante del lavoro pastorale e ascoltando i suggerimenti di Gesù, dai agli apostoli, anche i pastori di oggi sapranno lavorare più serenamente e meglio nella vigna del Signore. Basta non accumulare, uffici, incarichi, ruoli, carriera, successo, interessi di altro genere che non siano quelle esclusivamente evangeliche. Anche il desiderato riposo, deve essere spesso accantonato, per continuare nell’azione pastorale. Il bene delle anime è la regola fondamentale di ogni pastore.
Concludiamo questa riflessione con il brano della seconda lettura di oggi, tratto dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni, che è il nostro progetto di vita e missione nella chiesa, sia come sacerdoti che fedeli laici. Aver la coscienza del proprio itinerario di fede, significa porsi davanti al mistero del Cristo Redentore con la responsabilità di chi è chiamato a salvarsi, ma anche ad essere strumenti di salvezza per gli altri: « Gesù è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito ».
E con il Salmo 22, che oggi possiamo cantare insieme all’assemblea dei fratelli che converranno nella chiesa per la partecipazione alla santa messa e all’eucaristia, noi eleviamo a Dio l’inno di lode e di ringraziamento.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 17 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

B.V. Maria Vergine del M. Carmelo

B.V. Maria Vergine del M. Carmelo dans immagini sacre olmc11

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Publié dans:immagini sacre |on 16 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

16 LUGLIO B.V. MARIA DEL MONTE CARMELO

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16 LUGLIO B.V. MARIA DEL MONTE CARMELO

Storia della devozione della Madonna del Carmine

Il Monte Carmelo, in Palestina, già dal sec. IX a.C. era celebrato come luogo di culto della religione politeistica fenicia e della religione monoteistica giudaica, come lo dimostra il drammatico scontro di Elia con i profeti seguaci di Baal, per difendere la purezza della fede d´Israele nell´unico Dio vivente.
Fin dal tempo dei Fenici (chiamati Filistei nella Sacra Bibbia) fu meta di anacoreti; lassù si ritirarono, dopo la morte di Gesù, alcuni cristiani aspiranti alla perfezione dei consigli evangelici e sopra questo monte, sulle rovine di un antico monastero greco, sorse il SANTUARIO di NOSTRA SIGNORA del CARMELO, forse il primo Santuario nella storia destinato a cantare le glorie della Vergine di Nazareth, costruito su di uno spiazzo alto 50 metri, da cui si gode lo spettacolo di un panorama vasto e vario.
E da quel Santuario, poi, altri sono sorti nel corso della storia, a centinaia, a migliaia, in tutto l´orbe cattolico, anche ad Avigliano, sulle cime dei vari monti, tanto che il CARMELO o CARMINE è diventato al di là dei ristretti confini palestinesi, sinonimo di un monte alto, a tutti noto, familiare al linguaggio dei vari pellegrini, come meta per centinaia e centinaia di fedeli, desiderosi di appartarsi in silenzio per parlare di sé e per gli altri con Dio, sotto la materna guida di Maria.
Ma il Carmelo divenne insufficiente a contenere tutti quelli che si raccoglievano intorno ai primi Carmelitani e si ebbero così molti eremiti devoti alla Vergine sparsi in Palestina prima, e poi in Egitto ed in tutto l’Oriente. Verso il 1150 finalmente si organizzarono a vita comune e nacquero i monasteri carmelitani che, col ritorno dei Crociati, si moltiplicarono anche in occidente e precisamente in Sicilia ed in Inghilterra. L’approvazione dell’Ordine fu concessa dal Papa Onorio III nel 1226 ed una conferma più solenne veniva data nel 1273 con Concilio di Lione che aboliva tutte le nuove Congregazioni, facendo però rimanere in vita solo Domenicani, Francescani, Carmelitani e Agostiniani.
Il 16 Luglio 1251 appariva la Vergine Santa a San Simone Stock d’origine inglese, che da qualche anno reggeva le sorti dell’Ordine inglese e, porgendogli lo Scapolare, gli diceva: “Prendi, o figlio dilettissimo, questo Scapolare del tuo Ordine, segno distintivo della mia Confraternita. Ecco un segno di salute, di salvezza nei pericoli, di alleanza e di pace con voi in sempiterno. Chi morrà vestito di questo abito, non soffrirà il fuoco eterno.”

Lo Scapolare è essenzialmente un « abito ».
Indica una striscia di stoffa che i monaci indossavano sopra l´abito religioso durante il lavoro manuale.
Col tempo assunse un significato simbolico: quello di portare la croce di ogni giorno, come i discepoli e i seguaci di Gesù.
In alcuni Ordini religiosi, come nel Carmelo, lo Scapolare divenne segno della loro identità e della loro vita. Per questo, chi lo riceve diventa membro della Famiglia Carmelitana, e si impegna a vivere la sua spiritualità con le caratteristiche del proprio stato di vita. Lo Scapolare o « abitino », infatti è l´abito in miniatura di questo Ordine, il quale per vivere « nello ossequio di Gesù Cristo » , ha scelto l´esperienza spirituale di familiarità con Maria, sorella, madre e modello.
Lo Scapolare è, quindi, il segno sensibile, approvato dalla Chiesa, con il quale rendiamo manifesta la nostra consacrazione a Maria e i vincoli che ci legano a Lei.
« Chi indossa lo Scapolare- come affermò esattamente Pio X – per mezzo di esso viene associato, in modo più o meno stretto, all´Ordine Carmelitano ».
Egli perciò deve sentirsi impegnato ad una speciale dedizione alla Vergine, al suo culto e alla sua imitazione: elementi essenziali di quella vocazione carmelitana di cui nella Chiesa lo Scapolare rende partecipi.
Così lo hanno considerato i numerosi Santi, che hanno mai voluto separarsene e che lo hanno considerato vincolo di unione ad una famiglia religiosa, di cui volevano vivere l´impegno di particolare dedizione alla Madonna, sicuri della sua speciale protezione materna durante la vita e nell´ora della morte.
« Per tutti coloro che lo indossano, lo Scapolare diventi – come disse ancora Pio XII – memoriale della Madonna, specchio di umiltà e di castità, breviario di modestia e di semplicità, eloquente espressione simbolica della preghiera d´invocazione dell´aiuto divino ».
In tale ottica, anche il « segno » costituito dallo Scapolare ha il significato più autentico.
Lo Scapolare è imposto solo la prima volta, da un sacerdote.
Può essere sostituito da una medaglia che raffigura da una parte l´immagine del Sacro Cuore di Gesù e dall´altra quella della Vergine.
Lo Scapolare impegna a vivere come autentici cristiani che si conformano alle esigenze evangeliche, ricevono i Sacramenti, professano una speciale devozione alla Santissima Vergine, espressa con la Consacrazione a Maria.

PREGHIERA: FIORE DEL CARMELO

Fior del Carmelo, vite fiorita, splendore del cielo, tu solamente sei vergine e madre.
Madre mite, pura nel cuore, ai figli tuoi sii propizia, stella del mare.
Ceppo di Jesse, che produce il fiore, a noi concedi di rimanere con te per sempre.
Giglio cresciuto tra alte spine, conserva pure le menti fragili e dona aiuto.
Forte armatura dei combattenti, la guerra infuria, poni a difesa lo scapolare.
Nell’incertezza dacci consiglio, nella sventura, dal cielo impetra consolazione.
Madre e Signora del tuo Carmelo, di quella gioia che ti rapisce sazia i cuori.
O chiave e porta del Paradiso, fa’ che giungiamo dove di gloria sei coronata. Amen.

Publié dans:FESTE DI MARIA |on 16 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

I VIZI CAPITALI. LUSSURIA: L’EROS SENZA PIENEZZA, DI GIANFRANCO RAVASI

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I VIZI CAPITALI. LUSSURIA: L’EROS SENZA PIENEZZA, DI GIANFRANCO RAVASI

Scritto da Redazione de Gliscritti: 19 /09 /2012 -

Riprendiamo dal sito di Avvenire un testo pubblicato il 7/7/2012 che riprende la relazione tenuta dal cardinale Gianfranco Ravasi a Spoleto nell’ambito delle Prediche sui vizi capitali per il Festival dei Due Mondi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Vedi anche Accidia: il demone della notte, di Pierangelo Sequeri, La superbia: un super-io contro Dio, di Rino Fisichella, La gola, di Andrea Lonardo. Sull’accidia, vedi anche L’accidia: il vizio nella vita spirituale e la lotta contro di esso, di Angelo De Donatis.

«Nella seduzione, beatitudine; / sciagura a prova fatta. / Un sorridente sogno, prima; / una chimera, dopo. / È cosa che chiunque sa bene. / Ma nessuno sa bene sottrarsi / al cielo che conduce gli uomini / in tale inferno». Ancora una volta è il genio di Shakespeare (Sonetto 129) a intuire nella trama di una vicenda erotica tutto il miele e il fiele che vi si celano. Gli approcci amorosi sono un mirabile gioco di seduzione che genera felicità e attesa. Tutto appare come un sogno dorato, un dolce vagheggiamento.
Ti sembra di essere così lieve da toccare il cielo. Ecco, però, a questo punto il crinale: è significativo che spesso si usi un verbo brutale come “consumare” per indicare l’atto sessuale, quasi fosse un dare fondo a un piatto più o meno prelibato o esaurire una scorta di energia; anche la comune locuzione “fare all’amore” riduce una realtà così complessa e simbolica a un oggetto da manipolare e da modellare o a un atto da eseguire. Ora, se è vero, come affermava lo scrittore austriaco Karl Kraus, che «il vizio e la virtù sono parenti, come il carbone e i diamanti» che hanno una base comune nel carbonio, cerchiamo innanzitutto di risalire alla matrice di partenza da cui di diramano la virtù dell’amore e il vizio della lussuria.
Sesso, eros, amore
Il paradigma strutturale della sessualità umana ha il suo asse portante nella sua “simbolicità”. L’uomo assegna alla relazione sessuale, a differenza dell’animale, una molteplicità di valori ulteriori che travalicano la mera copula, il puro e semplice congiungimento carnale, regolato dall’estro e dall’istintività.
Questa “eccedenza” è, quindi, di indole non fisica ma ideale e spirituale. Potremmo, perciò, ricomporre questa esperienza umana secondo tre livelli coordinati, che la lussuria invece scardina e deforma. Il primo è quello del sesso nella sua fisicità e biologicità: appetitus ad mulierem est bonum donum Dei, recitava un adagio medievale, che pur nella forma maschilista del tempo, ben illustrava la legittimità della pulsione sessuale, definita un “buon dono divino”. L’uomo e la donna, però, non si fermano a questo livello dinamico-istintuale, iscritto nella loro stessa organicità fisiologica. Essi ascendono a un piano superiore di natura squisitamente simbolica: l’eros, che è desiderio allusivo, passione, tenerezza, intuizione della bellezza, fascino, attrazione, fantasia, gioco dell’apparire e dello sparire, del velarsi e dello svelarsi. L’eros lascia, come nei testi poetici, ampi spazi bianchi che ciascuno colma con la sua creatività, con l’invenzione, l’intuizione, la proiezione verso significati ulteriori. Si ha, dunque, con l’eros – che non è da confondere con l’accezione popolare ora dominante, soprattutto nella forma già ridimensionata di “erotismo”, ove è spesso sinonimo di pornografia – un trascendimento della mera corporeità e carnalità.
È, però, aperta una terza strada che porta a pienezza la parabola della sessualità umana. Si tratta del livello dell’amore che ingloba in sé e trasfigura le tappe precedenti, conducendo alla comunione e alla donazione reciproca. Illuminante, al riguardo, è lo straordinario poemetto biblico del Cantico dei cantici che, senza falsi pudori, esalta il rilievo della fisicità nella reiterata descrizione dei corpi dei due innamorati (cc. 4; 5; 7), ma che conduce all’ebbrezza di un eros fatto di passione e di fascino per approdare all’apice della mutua appartenenza dei due protagonisti, all’amore appunto. Due professioni di amore della donna del Cantico sono fondamentali per illustrare il vertice e la meta del paradigma descritto: “Il mio amato è mio e io sono sua… Io sono del mio amato e il mio amato è mio” (2, 16; 6, 3).
Alla “meccanica” del sesso si associa lo sfarfallio creativo dell’eros che sboccia nella donazione d’amore. Questo trittico compone la completa e autentica sessualità umana. Scindere questa trama ideale e accontentarsi solo del primo livello, è quello che noi denominiamo come “lussuria”. Anche un eros del tutto sganciato da un’intimità d’amore – intimità che rende i due veramente “una carne sola”, ossia un’unica esistenza e corporeità (secondo il celebre asserto di Genesi 2, 24) – è ancora un’incompiutezza, una pienezza non raggiunta, una perfezione che aspira ad attuarsi. Infatti come suggeriva il teologo svedese Anders Nygren in un noto studio dal titolo Eros e agape (1930), a differenza dell’agápe che designa l’amore cristiano, l’eros è ancora possesso, è tensione verso la bellezza o il valore dell’altro per conquistarli; il partner rimane ancora per certi versi un oggetto, anche se trasfigurato. L’amore è, invece, donazione reciproca libera e gioiosa, che riconosce e crea il valore dell’altro in un’operazione al tempo stesso epifanica e creativa.
La logica della “liberazione”
Ebbene, la lussuria rispetto alla trilogia appena illustrata segue un sistema alternativo che risponde a un’altra concezione. Si cancella la simbolicità radicale dell’umanità e ci si avvia verso una frammentazione e materializzazione della creatura umana. Cerchiamo, allora, di identificare alcune caratteristiche di questa logica che “perverte” l’armonia unitaria della triade.
Un primo aspetto di questa nuova visione è la logica della “liberazione”, codificata nel mito del “corpo liberato”. Il punto di partenza è stata la ribellione a quelli che erano ritenuti vincoli repressivi, siano essi naturali o culturali. Si voleva elaborare un nuovo codice che non avesse norme, ma fosse solo retto dall’immediatezza, dall’“irregolarità”, dalla pulsione. Certo, non c’è bisogno di ricordare che sulla sessualità umana – a partire dalla depressione svalutativa introdotta dalla cultura greca riguardo alla corporeità, considerata tomba dell’anima – si era stesa una pesante stratificazione moralistica, ascetico-puritana. Essa aveva scardinato a suo modo l’interazione sesso-eros-amore: la stessa interpretazione allegorica del Cantico dei cantici, che trasformava quei corpi e quella coppia in evanescenti o trasparenti metafore spirituali dell’anima e di Dio, ne era una conferma emblematica.
Da quell’eccesso spiritualistico si è precipitati nel polo opposto di una carnalità istintiva reiterata, spoglia di qualsiasi valore aggiunto che non fosse quello della spontanea e immediata fruibilità. Quello che Dante definiva un “seguir come bestie l’appetito” sessuale (Purgatorio 26, 84) è celebrato come liberazione da tabù oppressivi e repressivi. Si giunge anche al punto di concepire un modello che cancelli le differenze: pensiamo a certe rockstar che incarnano un indecifrabile androginismo, al traffico notturno dei travestiti, ai segni sessuali miscelati in combinazioni che forzano la stessa fisiologia umana. La scelta operata è un po’ quella che puntualizzava ancora Dante a proposito dei “peccator carnali”, cioè coloro “che la ragion sommettono al talento” (Inferno 5, 39).
La qualità viene così ricercata attraverso l’eccezionalità stravagante. Lo spirito di emulazione riduce la sessualità a esercizio, a sfida, al ricorso a stimolanti sempre più eccitanti, a una pornografia sempre più bieca, all’imitazione che incide anche nel corpo attraverso la chirurgia estetica, capace di enfatizzare alcune componenti sessuali. Il sesso rimane, così, imprigionato nella sua materialità denudata da ogni segno simbolico, è solo “carne” e l’uso e l’abuso del nudo televisivo o pubblicitario ne è la continua attestazione. Mai come in questo caso si vede che la virtù calpestata non è tanto quella della castità quanto piuttosto quella della temperanza, e il vizio che può essere appaiato alla lussuria è quello di gola, come insegnava il film La grande abbuffata di Marco Ferreri.
La logica del possesso
Un secondo aspetto della lussuria si esprime nella logica del possesso. Proprio l’incapacità dell’ammirare e vivere la qualità conduce a un accumulo di “quantità”: si moltiplicano le esperienze illudendosi che per questa via si raggiunga la profondità di un incontro. In realtà si rimane sempre a un contatto di pelle, a un accoppiamento che non ha neppure come effetto il piacere. Si configura, così, un vero e proprio mercato del sesso che mette “on-line” i suoi prodotti. Significativa è l’offerta sessuale virtuale attraverso Internet: una fredda e anonima consumazione di atti solitari, con la sicurezza di poter dominare l’altro, senza impegnarsi in un incontro di persone. Questa riduzione del dialogo amoroso a semplice acquisto e possesso di una serie di immagini mobili, di oggetti manipolabili, molto meno impegnativi del confronto interpersonale, era già stata configurata nella mitologia.
È la figura virgiliana di Pigmalione, re di Tiro, che s’innamora talmente di una statua d’avorio della dea Afrodite, da desiderare di unirsi ad essa. Il mito ha, però, un esito liberatorio perché la dea fa vivere la statua, trasformandola in una donna che Pigmalione sposerà. Ben diverso è lo sbocco del cultore odierno di icone erotiche virtuali: egli in un certo senso si riduce ad aggrapparsi a una statua, a una cosa, in una forma maniacale di possesso. È ciò che è stato rappresentato, ad esempio, nel film Life size – Grandezza naturale, diretto nel 1974 da Luis Garcia Berlanga con Michel Piccoli nelle vesti di un dentista parigino che si fa pervenire dal Giappone una donna-bambola di gomma, anatomicamente completa e appunto di grandezza naturale, innamorandosene follemente e gelosamente.
La logica dell’eccesso
Un altro film, ancora con Michel Piccoli ma anche con Gérard Depardieu e Ornella Muti, ci introduce in un terzo aspetto della lussuria, quello che potremmo definire la logica dell’eccesso. Il film, diretto da Marco Ferreri nel 1976 s’intitolava L’ultima donna e vedeva come protagonista un giovane professionista violento che, abbandonato dalla moglie, passa di amante in amante sempre con la voluttà del dominio e alla fine si decide a compiere su se stesso un’emblematica evirazione. Sì, perché l’eccesso conduce a impotenza. Il possesso, a cui prima si accennava, ti permette certo di acquistare quanto vuoi, più o meno, come accade per le auto che di solito la pubblicità associa a fanciulle discinte e provocanti: possedere l’una è come avere l’altra, con una gratificazione sociale e sessuale. Il ricco può ostentare un parco-macchine e un harem di ragazze.
Questa dismisura incontinente ha come risultato paradossale la caduta della potenza sessuale e del desiderio, la saturazione e persino la paura. La donna, sempre più aggressiva ed eccessiva nella seduzione, spesso non attira ma allontana. E soprattutto questa esplosione pirotecnica di sessualità, che non è mai integrata da un tessuto di passione, di tenerezza, di vero eros e, naturalmente, di amore, alla fine ha come approdo la solitudine. Il grande mercato del sesso imbandito dalla pornografia virtuale o cartacea, esaltata da un’offerta esasperata ed estenuante, produce non la sazietà che colma lo spirito ma la nausea che genera anoressia comunicativa. L’uomo contemporaneo, libero da ogni vincolo, dopo aver percorso tutte le strade della trasgressione, si ritrova non pieno di esperienze ma colmo di vuoto e solitudine.
In una raccolta di saggi intitolata suggestivamente La terra desolata dei teenagers (1990) Raymond Jalbert rappresentava così quelli che definiva “i ragazzi nello scantinato”, sepolti appunto nell’incomunicabilità di un oscuro bassofondo: “Occhi incollati alla tv, orecchie sigillate dalle cuffie, lasciato a se stesso, un estraneo in casa sua. Ma un giorno dovrà unirsi al mondo di sopra e non ce la farà a sopravvivere”. È incredibile, ma proprio quell’assoluta moltiplicazione di contatti sessuali immediati, ha prodotto isolamento perché l’uomo e la donna non sono organi sessuali in azione ma persone che col corpo devono non solo consumare ma comunicare la loro umanità.
La logica della spudoratezza
C’è un quarto elemento che contribuisce a demolire l’armonia unitaria tra sesso, eros e amore: è la logica della spudoratezza. Si badi bene che non abbiamo parlato semplicemente di “impudicizia” che è il frutto scontato della lussuria, incapace di conoscere la delicatezza dello svelamento, dell’ammiccamento, della finezza. La spudoratezza è l’ostentazione non solo della nudità fisica ma anche di quella intima. Il filosofo Max Scheler giustamente osservava nell’opera dedicata al Pudore e sentimento del pudore (1933) che esso “consiste in un ritorno dell’individuo su se stesso, volto a proteggere il proprio sé profondo dalla sfera pubblica”. Ognuno calibra questa rivelazione secondo cerchi concentrici che vanno dall’intimità più intensa con chi ti ama e col quale sei in comunione di vita interiore fino alla chiusura più netta con chi ti è estraneo a cui riservi solo l’esteriorità che è, però, pur sempre un certo svelamento di sé (talora inconscio e incontrollabile).
Oggi, invece, in certi programmi televisivi, che sono “osceni” anche nel senso etimologico del termine perché mettono sulla ribalta della scena vergogne di ogni genere, si assiste alla caduta di ogni pudore, proprio perché non esiste più la comunicazione modulata e personale, ma solo l’apparire volgare. Si vomita spudoratamente tutto il contenuto dell’anima, dopo essersi denudati anche sessualmente nell’impudicizia. Alla base di tutto questo c’è un nuovo imperativo dell’odierna comunicazione di massa: per essere bisogna apparire. E così, dopo aver mostrato corpo e cose, pur di essere apparendo, si svuota il repertorio segreto dell’intimità, a partire proprio dalle cosiddette “storie d’amore” che in realtà sono solo storie di sesso. La precedente logica del mercato ha qui una sua variante, rendendo pubblico e di proprietà comune ciò che dovrebbe essere personale e privato, in un colossale emporio in cui si vende ancora e solo sesso.
La logica della riduttività
C’è una quinta e ultima forma di abbattimento del paradigma iniziale fatto di armonia tra sesso, eros e amore: è la logica della riduttività. È forte ai nostri giorni, in nome delle pur giuste autonomie delle scienze, la tentazione di procedere soltanto settorialmente, secondo statuti stabiliti e definiti, rendendo totalizzante ed esclusivo un solo approccio a una determinata realtà. Nel campo della sessualità un evento importante è stata l’introduzione della psicoanalisi. Il suo contributo è, al riguardo, di grande rilievo e non può certo essere marginalizzato. Basti solo evocare il nome di Sigmund Freud per riuscire a comprendere come, dopo di lui, non sia possibile anche al filosofo e al teologo moralista analizzare la sessualità senza tener conto delle interpretazioni e delle osservazioni dello studioso viennese.
Detto questo, però, non si può condividere quella sorta di integralismo psicoanalitico che Freud alla fine ha imposto nella sua concezione della sessualità e della stessa persona umana. La legittimità di altri approcci permane; anzi, è necessario che i criteri di verifica e di giudizio di una realtà così complessa com’è l’uomo e la donna rimangano ancora in funzione. A nostro avviso l’anima umana, la psychè, comunque la si intenda, è molto più ampia della “psiche” freudiana e rivela altri livelli di manifestazione. Gli approcci esclusivamente psicologici o neurologici della sessualità, pur indispensabili, non riescono a esaurire la ricchezza e la grandezza del fenomeno umano e della sua sostanza metafisica e esistenziale. La logica della riduttività impedisce un’analisi globale, rispettosa della diversità e della molteplicità. Essa non riuscirebbe mai a spiegare, ad esempio, il senso della castità che non è un “andare vestiti tutti d’acciaio”, come diceva John Milton, pur grande poeta inglese.
Un filosofo “laico” ma capace di evitare ogni riduzionismo come Salvatore Natoli nel citato Dizionario dei vizi e delle virtù (1996) scriveva acutamente: “Vi sono uomini di Chiesa che per primi sviano l’attenzione: proponendo una versione etico-moralistica della castità, ne impoveriscono il valore simbolico, impediscono l’insorgere di quello spaesamento che invita perfino gli estranei a domandarsi:… E se vi fosse dell’altro? Vi sono uomini che lo testimoniano nella loro carne secondo le antiche parole: Perché Tu hai già preso possesso delle mie viscere. E non sono folli, sono amanti. Amanti di Dio”.

Parole folgoranti che inducono anche nel libertino deluso il sospetto e che insediano una bandiera di libertà ben diversa da quella impugnata da chi si illude che essa sventoli solo nell’eccesso e non nell’ascesi. A proposito di quest’ultima, è riduttivo concepirla come “rinuncia” perché in greco àskesis è “esercizio” e, quindi, è abilità, creatività, padronanza di sé. Il corpo dell’acrobata e della danzatrice classica sfida la gravità, si fa lieve, è dominatore perché è dominato, si libra nello spazio in libertà assoluta perché è controllato. Tutto questo sboccia non dalla corrività bensì dall’esercizio, dalla fatica che diventa bellezza, dalla rinuncia a un piacere per aver un godimento ben più emozionante e sublime.
“A immagine di Dio, maschio e femmina li creò”
La lussuria tenta, dunque, brutalmente di tarpare le ali a un’ascensione verso il valore pieno e “simbolico” della sessualità umana, nella convinzione che sia l’agitarsi eccitato, frenetico e scomposto della libidine la grande possibilità di godimento, di felicità, di appagamento. Thomas Stearns Eliot nel Frammento di un agone (1922) sintetizzava in modo incisivo la brutalità riduttiva di una certa lettura della persona umana: “Nascita, copula e morte, / tutto qui, tutti qui, tutto qui, / nascita, e copula e morte. / E se tiri le somme, è tutto qui”. Ad andare oltre questo riduzionismo è in particolare la genuina teologia cristiana. Proviamo, allora, ad abbozzare un ritratto della persona secondo la Bibbia per intuire quale collocazione abbia la sessualità. Già si è visto – attraverso il Cantico dei Cantici – che la sua anima profonda è donazione, comunione totale, intimità personale.
C’è, però, un altro passo che è posto “in principio” alla Bibbia stessa, quasi come un’asserzione di principio. Si legge, infatti, nella Genesi: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò” (1, 27). L’elemento curioso di questa dichiarazione non è semplicemente nell’assegnazione alla creatura umana di una “immagine divina” attraverso l’anima, quanto piuttosto nell’identificare tale “immagine” proprio nella bipolarità sessuale e, quindi, nella coppia maschio-femmina. È ciò che risulta dallo stretto “parallelismo” semitico che regge la frase: a “immagine di Dio” corrisponde appunto “maschio e femmina”. Dio, allora, è forse sessuato e, accanto a lui, si asside una compagna divina, come l’Ishtar-Astarte babilonese o la Giunone latina? La risposta è ovviamente negativa, sapendo con quanta asprezza la Bibbia polemizzi contro nozze e coppie divine e contro i culti della fertilità diffusi in tutta l’area dell’antico Vicino Oriente.
Dio resta trascendente, ma la fecondità della coppia umana che ama e genera è parallela all’atto creativo divino, è un segno visibile del Dio creatore e salvatore. La vera effigie divina non è solo nell’uomo maschio, come vorrà una successiva tradizione giudaica, attestata da san Paolo che scriveva: “L’uomo è immagine e gloria di Dio, la donna è gloria dell’uomo” (1 Corinzi 11, 7). Il nostro legame “naturale” col Creatore è da cercare, al contrario, proprio nell’umanità in quanto comprende i due sessi, la capacità di unirsi e di generare, in ultima analisi di amare. Questa è l’antropologia teologica fondamentale che ha nel matrimonio e nella generazione la sua espressione capitale. Si comprende, allora, perché la morale cristiana abbia centrato nel matrimonio dell’uomo e della donna l’emblema della sessualità che si dona reciprocamente, in un’ideale pienezza di amore e di fedeltà. Si intuisce anche perché, a partire dai profeti (Osea è il primo, nell’VIII sec. a.C., sulla base di una personale esperienza matrimoniale travagliata) fino a Cristo stesso e a san Paolo (Efesini 5, 25-33), la teologia ha considerato l’unione nuziale come simbolo dell’alleanza tra Dio e l’umanità.
È proprio su questo valore “simbolico” (nel senso reale e non metaforico del termine, capace cioè di “tenere insieme” divino e umano) che si è sviluppata la dottrina cattolica del matrimonio come sacramento: nell’atto sessuale nuziale, segno reale di amore e di donazione, non è solo in azione il Dio della vita ma si ha anche un’epifania dell’amore divino per l’umanità. In questa luce si comprende quanto sia lontana dalla genuina spiritualità cristiana uno spiritualismo disincarnato, che disprezzi corporeità e sessualità. L’equilibrio da raggiungere è, certo, delicato, ma non si conquista attraverso un’eterea astrazione dalla realtà concreta dell’essere umano che è appunto sesso, eros, amore.
In sé la sessualità umana contiene un germe che può fiorire nel cielo della bellezza e dell’amore. Il vizio è limitazione, riduzione perché restringe e mortifica le potenzialità trascendenti che la persona umana ha in se stessa. Apparente celebrazione della libertà senza vincoli, la lussuria si ritrova incatenata alla bruta “consumazione”, alla reiterazione, all’isolamento possessivo. Ignora la creatività dell’eros autentico, i palpiti emozionanti del sentimento, il fascino della totalità insito all’amore. Il grande tragico greco Sofocle (V sec.a.C.). che pur conosceva i meandri oscuri e indecifrabili della sessualità, nell’Edipo a Colono concludeva: “Una parola ci libera da tutto il peso e il dolore di una vita: questa parola è amore”. E chi ha vissuto un amore pieno e genuino può comprendere senza esitazione ciò che un lussurioso non capirà e che lo scrittore francese François Mauriac così descriveva nel suo diario: “L’amore coniugale, che persiste attraverso mille vicissitudini, mi sembra il più bello dei miracoli, benché sia anche il più comune ».

San Bonaventura

San Bonaventura dans immagini sacre 800px-Vittore_Crivelli_-_Saint_Bonaventure

https://it.wikipedia.org/wiki/Filosofia_medievale

Publié dans:immagini sacre |on 15 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – SAN BONAVENTURA 1

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100303.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 3 marzo 2010

SAN BONAVENTURA

San Bonaventura 2 e 3
http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100310.html
http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100317.html

Cari fratelli e sorelle,

quest’oggi vorrei parlare di san Bonaventura da Bagnoregio. Vi confido che, nel proporvi questo argomento, avverto una certa nostalgia, perché ripenso alle ricerche che, da giovane studioso, ho condotto proprio su questo autore, a me particolarmente caro. La sua conoscenza ha inciso non poco nella mia formazione. Con molta gioia qualche mese fa mi sono recato in pellegrinaggio al suo luogo natio, Bagnoregio, una cittadina italiana, nel Lazio, che ne custodisce con venerazione la memoria.
Nato probabilmente nel 1217 e morto nel 1274, egli visse nel XIII secolo, un’epoca in cui la fede cristiana, penetrata profondamente nella cultura e nella società dell’Europa, ispirò imperiture opere nel campo della letteratura, delle arti visive, della filosofia e della teologia. Tra le grandi figure cristiane che contribuirono alla composizione di questa armonia tra fede e cultura si staglia appunto Bonaventura, uomo di azione e di contemplazione, di profonda pietà e di prudenza nel governo.
Si chiamava Giovanni da Fidanza. Un episodio che accadde quando era ancora ragazzo segnò profondamente la sua vita, come egli stesso racconta. Era stato colpito da una grave malattia e neppure suo padre, che era medico, sperava ormai di salvarlo dalla morte. Sua madre, allora, ricorse all’intercessione di san Francesco d’Assisi, da poco canonizzato. E Giovanni guarì.
La figura del Poverello di Assisi gli divenne ancora più familiare qualche anno dopo, quando si trovava a Parigi, dove si era recato per i suoi studi. Aveva ottenuto il diploma di Maestro d’Arti, che potremmo paragonare a quello di un prestigioso Liceo dei nostri tempi. A quel punto, come tanti giovani del passato e anche di oggi, Giovanni si pose una domanda cruciale: “Che cosa devo fare della mia vita?”. Affascinato dalla testimonianza di fervore e radicalità evangelica dei Frati Minori, che erano giunti a Parigi nel 1219, Giovanni bussò alle porte del Convento francescano di quella città, e chiese di essere accolto nella grande famiglia dei discepoli di san Francesco. Molti anni dopo, egli spiegò le ragioni della sua scelta: in san Francesco e nel movimento da lui iniziato ravvisava l’azione di Cristo. Scriveva così in una lettera indirizzata ad un altro frate: “Confesso davanti a Dio che la ragione che mi ha fatto amare di più la vita del beato Francesco è che essa assomiglia agli inizi e alla crescita della Chiesa. La Chiesa cominciò con semplici pescatori, e si arricchì in seguito di dottori molto illustri e sapienti; la religione del beato Francesco non è stata stabilita dalla prudenza degli uomini, ma da Cristo” (Epistula de tribus quaestionibus ad magistrum innominatum, in Opere di San Bonaventura. Introduzione generale, Roma 1990, p. 29).
Pertanto, intorno all’anno 1243 Giovanni vestì il saio francescano e assunse il nome di Bonaventura. Venne subito indirizzato agli studi, e frequentò la Facoltà di Teologia dell’Università di Parigi, seguendo un insieme di corsi molto impegnativi. Conseguì i vari titoli richiesti dalla carriera accademica, quelli di “baccelliere biblico” e di “baccelliere sentenziario”. Così Bonaventura studiò a fondo la Sacra Scrittura, le Sentenze di Pietro Lombardo, il manuale di teologia di quel tempo, e i più importanti autori di teologia e, a contatto con i maestri e gli studenti che affluivano a Parigi da tutta l’Europa, maturò una propria riflessione personale e una sensibilità spirituale di grande valore che, nel corso degli anni successivi, seppe trasfondere nelle sue opere e nei suoi sermoni, diventando così uno dei teologi più importanti della storia della Chiesa. È significativo ricordare il titolo della tesi che egli difese per essere abilitato all’insegnamento della teologia, la licentia ubique docendi, come si diceva allora. La sua dissertazione aveva come titolo Questioni sulla conoscenza di Cristo. Questo argomento mostra il ruolo centrale che Cristo ebbe sempre nella vita e nell’insegnamento di Bonaventura. Possiamo dire senz’altro che tutto il suo pensiero fu profondamente cristocentrico.
In quegli anni a Parigi, la città di adozione di Bonaventura, divampava una violenta polemica contro i Frati Minori di san Francesco d’Assisi e i Frati Predicatori di san Domenico di Guzman. Si contestava il loro diritto di insegnare nell’Università, e si metteva in dubbio persino l’autenticità della loro vita consacrata. Certamente, i cambiamenti introdotti dagli Ordini Mendicanti nel modo di intendere la vita religiosa, di cui ho parlato nelle catechesi precedenti, erano talmente innovativi che non tutti riuscivano a comprenderli. Si aggiungevano poi, come qualche volta accade anche tra persone sinceramente religiose, motivi di debolezza umana, come l’invidia e la gelosia. Bonaventura, anche se circondato dall’opposizione degli altri maestri universitari, aveva già iniziato a insegnare presso la cattedra di teologia dei Francescani e, per rispondere a chi contestava gli Ordini Mendicanti, compose uno scritto intitolato La perfezione evangelica. In questo scritto dimostra come gli Ordini Mendicanti, in specie i Frati Minori, praticando i voti di povertà, di castità e di obbedienza, seguivano i consigli del Vangelo stesso. Al di là di queste circostanze storiche, l’insegnamento fornito da Bonaventura in questa sua opera e nella sua vita rimane sempre attuale: la Chiesa è resa più luminosa e bella dalla fedeltà alla vocazione di quei suoi figli e di quelle sue figlie che non solo mettono in pratica i precetti evangelici ma, per la grazia di Dio, sono chiamati ad osservarne i consigli e testimoniano così, con il loro stile di vita povero, casto e obbediente, che il Vangelo è sorgente di gioia e di perfezione.
Il conflitto fu acquietato, almeno per un certo tempo, e, per intervento personale del Papa Alessandro IV, nel 1257, Bonaventura fu riconosciuto ufficialmente come dottore e maestro dell’Università parigina. Tuttavia egli dovette rinunciare a questo prestigioso incarico, perché in quello stesso anno il Capitolo generale dell’Ordine lo elesse Ministro generale.
Svolse questo incarico per diciassette anni con saggezza e dedizione, visitando le province, scrivendo ai fratelli, intervenendo talvolta con una certa severità per eliminare abusi. Quando Bonaventura iniziò questo servizio, l’Ordine dei Frati Minori si era sviluppato in modo prodigioso: erano più di 30.000 i Frati sparsi in tutto l’Occidente con presenze missionarie nell’Africa del Nord, in Medio Oriente, e anche a Pechino. Occorreva consolidare questa espansione e soprattutto conferirle, in piena fedeltà al carisma di Francesco, unità di azione e di spirito. Infatti, tra i seguaci del santo di Assisi si registravano diversi modi di interpretarne il messaggio ed esisteva realmente il rischio di una frattura interna. Per evitare questo pericolo, il Capitolo generale dell’Ordine a Narbona, nel 1260, accettò e ratificò un testo proposto da Bonaventura, in cui si raccoglievano e si unificavano le norme che regolavano la vita quotidiana dei Frati minori. Bonaventura intuiva, tuttavia, che le disposizioni legislative, per quanto ispirate a saggezza e moderazione, non erano sufficienti ad assicurare la comunione dello spirito e dei cuori. Bisognava condividere gli stessi ideali e le stesse motivazioni. Per questo motivo, Bonaventura volle presentare l’autentico carisma di Francesco, la sua vita ed il suo insegnamento. Raccolse, perciò, con grande zelo documenti riguardanti il Poverello e ascoltò con attenzione i ricordi di coloro che avevano conosciuto direttamente Francesco. Ne nacque una biografia, storicamente ben fondata, del santo di Assisi, intitolata Legenda Maior, redatta anche in forma più succinta, e chiamata perciò Legenda minor. La parola latina, a differenza di quella italiana, non indica un frutto della fantasia, ma, al contrario, “Legenda” significa un testo autorevole, “da leggersi” ufficialmente. Infatti, il Capitolo generale dei Frati Minori del 1263, riunitosi a Pisa, riconobbe nella biografia di san Bonaventura il ritratto più fedele del Fondatore e questa divenne, così, la biografia ufficiale del Santo.
Qual è l’immagine di san Francesco che emerge dal cuore e dalla penna del suo figlio devoto e successore, san Bonaventura? Il punto essenziale: Francesco è un alter Christus, un uomo che ha cercato appassionatamente Cristo. Nell’amore che spinge all’imitazione, egli si è conformato interamente a Lui. Bonaventura additava questo ideale vivo a tutti i seguaci di Francesco. Questo ideale, valido per ogni cristiano, ieri, oggi, sempre, è stato indicato come programma anche per la Chiesa del Terzo Millennio dal mio Predecessore, il Venerabile Giovanni Paolo II. Tale programma, egli scriveva nella Lettera Novo Millennio ineunte, si incentra “in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste” (n. 29).
Nel 1273 la vita di san Bonaventura conobbe un altro cambiamento. Il Papa Gregorio X lo volle consacrare Vescovo e nominare Cardinale. Gli chiese anche di preparare un importantissimo evento ecclesiale: il II Concilio Ecumenico di Lione, che aveva come scopo il ristabilimento della comunione tra la Chiesa Latina e quella Greca. Egli si dedicò a questo compito con diligenza, ma non riuscì a vedere la conclusione di quell’assise ecumenica, perché morì durante il suo svolgimento. Un anonimo notaio pontificio compose un elogio di Bonaventura, che ci offre un ritratto conclusivo di questo grande santo ed eccellente teologo: “Uomo buono, affabile, pio e misericordioso, colmo di virtù, amato da Dio e dagli uomini… Dio infatti gli aveva donato una tale grazia, che tutti coloro che lo vedevano erano pervasi da un amore che il cuore non poteva celare” (cfr J.G. Bougerol, Bonaventura, in A. Vauchez (a cura), Storia dei santi e della santità cristiana. Vol. VI. L’epoca del rinnovamento evangelico, Milano 1991, p. 91).
Raccogliamo l’eredità di questo santo Dottore della Chiesa, che ci ricorda il senso della nostra vita con le seguenti parole: “Sulla terra… possiamo contemplare l’immensità divina mediante il ragionamento e l’ammirazione; nella patria celeste, invece, mediante la visione, quando saremo fatti simili a Dio, e mediante l’estasi … entreremo nel gaudio di Dio” (La conoscenza di Cristo, q. 6, conclusione, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 187).

 

ABRAHAM JOSHUA HESCHEL: IL RABBI DELL’INEFFABILE

http://www.stpauls.it/jesus/0701je/0701je86.htm

CULTURA – ABRAHAM JOSHUA HESCHEL

IL RABBI DELL’INEFFABILE

di Maurizio Schoepflin

Considerato una delle figure di maggiore spicco della cultura ebraica del ’900, Heschel fu un grande studioso del filosofo ebreo sefardita Maimonide e del movimento mistico sorto in Polonia nel XVIII secolo. Dai quali attinse l’idea che al mistero divino ci si può avvicinare solo con lo stupore della fede.

Cento anni fa, l’11 gennaio 1907, nasceva a Varsavia Abraham Joshua Heschel, una delle figure di maggior spicco della cultura ebraica del XX secolo. La famiglia in cui venne alla luce vantava solidissime tradizioni che affondavano le radici nel ricco terreno del giudaismo dell’Europa orientale. Educato fin dalla più tenera età in questo clima, Heschel si dimostrò tanto brillante e recettivo da sembrare avviato al rabbinato quando era ancora soltanto un ragazzo. Egli scelse però di continuare gli studi in un contesto secolare e frequentò prima il Real-Gymnasium di Vilnius in Lituania e poi l’Università di Berlino, laureandosi, nel 1933, presso la famosa Hochschule fur die Wissenschaft des Judentums, con una tesi sulla profezia, che, pubblicata qualche anno più tardi, lo impose all’attenzione generale, procurandogli, tra l’altro, la stima del noto filosofo Martin Buber, che lo volle come suo successore al Freies Judisches Lehrhaus di Francoforte.
Nel 1938, costretto a fuggire dalla Germania a causa della sempre più incombente minaccia nazista, Heschel riparò a Varsavia e poi a Londra, da dove, nel 1940, si recò negli Stati Uniti, andando a occupare la cattedra di Filosofia e rabbinismo dello Hebrew Union College di Cincinnati, che, a motivo di disaccordi con le dottrine dell’ebraismo liberale, lasciò nel 1945, trasferendosi al Jewish Theological Seminary of America di New York. Qui insegnò etica ebraica e misticismo fino al 1972, l’anno della sua morte.
Grande conoscitore della Bibbia e del Talmud, della filosofia ebraica medievale (rilevante è una sua biografia di Maimonide) e del misticismo chassidico, Heschel ha lasciato un cospicuo patrimonio di opere, tra le quali emergono le seguenti, di cui si citano i titoli in italiano e la data della pubblicazione nella lingua originale: La terra è del Signore. Il mondo interiore dell’ebreo in Europa orientale (1950), L’uomo non è solo (1951), Il sabato (1951), Dio alla ricerca dell’uomo (1955), Chi è l’uomo? (1965) e Israele eco di eternità (1967).
La vita di Heschel non fu soltanto quella di uno studioso e gli si farebbe torto se non ricordassimo le molteplici iniziative e prese di posizione che lo resero noto anche al di fuori degli ambienti accademici. In particolare, egli fu un attivo sostenitore dei diritti civili e un deciso avversario della segregazione razziale; si oppose alla guerra del Vietnam e si adoperò per rendere migliori le condizioni di vita degli ebrei nella Russia comunista.
In campo religioso ebbe convinzioni moderate e mantenne una collocazione intermedia tra i fautori di una modernizzazione dell’ebraismo e coloro che, al contrario, si schieravano su posizioni conservatrici e ultraortodosse. Particolarmente vivace fu il suo impegno ecumenico e molteplici furono i suoi contatti e legami col mondo protestante e con la Chiesa cattolica: partecipò ai lavori preparatori del Concilio Vaticano II e, alla chiusura di esso, fece parte della delegazione ebraica ricevuta da papa Paolo VI.
Ha scritto Massimo Giuliani, uno dei maggiori studiosi del pensiero ebraico contemporaneo: «Tutta la filosofia di Heschel può definirsi, più che un pensiero della religione, un pensiero della religiosità ebraica. La dialettica propria del complesso rapporto tra filosofia e religione non resta perpetuamente aperta ma trova una sua flessibile soluzione nel riconoscimento che, per principio, il discorso religioso sfugge all’approccio filosofico. Perché la religione, e segnatamente l’ebraismo, eccede sempre la filosofia». Proprio in virtù di questa « superiorità », la religione è in grado – a giudizio di Heschel – di offrire le risposte alle domande fondamentali dell’uomo, quelle risposte che, sole, sono in grado di conferire un senso autentico alla vita umana e di indirizzare le scelte della persona verso approdi ricchi di significato.
Alla filosofia deve essere attribuito un ruolo maieutico, cioè capace di far emergere i contenuti più profondi presenti nell’animo umano, che sono, in ultima analisi, quegli interrogativi a cui poi soltanto la fede religiosa può dare soddisfazione. Seguendo questa strada, l’uomo si troverà nella condizione di riscoprire la dimensione sacra della vita, troppe volte dimenticata, e con essa la presenza di Dio nel mondo e nella storia.
Di fronte alla questione di Dio, Heschel manifesta alcune convinzioni. A suo giudizio, non esiste la possibilità di provare l’esistenza del Divino trascendente attraverso la ragione. In questa certezza lo avevano confermato pure gli studi sul pensiero ebraico medievale, in particolare quello dedicato a Maimonide.
A tale proposito, osserva ancora Massimo Giuliani: «E maimonidea è anche la confessione della limitatezza della ragione umana nel cogliere e, dunque, nell’esprimere la realtà divina. Nella sua essenza Dio resta ineffabile, è l’Ineffabile. Presupposto ontologico e vita dei viventi, Dio è un mistero».
Si legge nell’opera hescheliana L’uomo non è solo: «Il regno dell’ineffabile e non la speculazione è l’ambito in cui sorge l’interrogativo ultimo, ed è appunto in questa sua dimora naturale, qui dove il mistero è accessibile a tutti i pensieri, che l’interrogativo dev’essere studiato». Piuttosto che a strumenti razionali, perciò, è opportuno ricorrere ad altri mezzi per avvicinarsi al Divino: lo stupore, il timore e la fede risulteranno preziosi per incontrare il sublime, il mistero e la gloria. Tutto questo fa sì che l’uomo prenda atto di un fatto assai rilevante, che Heschel descrive nei termini seguenti: «Questa è dunque la successione che s’instaura nel nostro pensiero e nella nostra esistenza: ciò che è supremo, ovverossia Dio, viene prima e il nostro ragionamento su di lui viene dopo».
Tuttavia, la scoperta più importante e, per certi aspetti, più sconvolgente è un’altra e consiste nel rendersi conto che, in verità, è Dio stesso che va alla ricerca dell’uomo e non viceversa. L’incontro fra l’uomo e Dio è reso possibile dall’iniziativa divina: all’uomo compete il compito di aprirsi alla dimensione divina – e in questo filosofia e teologia naturale risultano di grande utilità –, ma la fede che corona il cammino e rende certi dell’esistenza di Dio, proviene da Dio stesso, è un suo dono. È così che Dio manifesta una sua peculiarità fondamentale, ovvero quella di nutrire una viva « preoccupazione » per l’uomo: «Vi è un solo modo per definire la religione ebraica», scrive Heschel in L’uomo non è solo. «Essa è consapevolezza dell’interesse di Dio per l’uomo, consapevolezza di un patto, di una responsabilità che investe tanto Lui quanto noi».
Nello scritto dedicato a I profeti, chiarisce ulteriormente questo aspetto così importante: «I profeti non avevano né teorie né idee di Dio… Per i profeti Dio era reale in maniera travolgente e la sua presenza era schiacciante… Essi non offrirono un’interpretazione della natura di Dio, bensì un’interpretazione della presenza di Dio nell’uomo, della sua sollecitudine per l’uomo». La testimonianza più alta di tale sollecitudine è reperibile nella Torah, la legge del Sinai, evento centrale della fede ebraica, che mette in evidenza la netta differenza che intercorre tra il Dio dei filosofi e il Dio biblico.
Nella stessa opera Heschel afferma che mentre la divinità come la intende la filosofia è silenziosa e indifferente nei confronti degli uomini, «il Dio di Israele è un Dio che ama, un Dio conosciuto dall’uomo, che si occupa dell’uomo».

Per questo Abraham Joshua Heschel ritiene che l’ebraismo e ogni filosofia che all’ebraismo si ispira non possano che risolversi in un costante confronto con la Bibbia, la quale non richiede tanto la sapienza quanto l’adesione del cuore e della vita.
D’altro canto, è lo stesso Dio a farsi « condizionare » dal pathos, perché, come attestano in particolare i libri profetici della Bibbia, la rivelazione nasce proprio dal pathos divino per Israele e, più in generale, per l’uomo: a questo riguardo, è opportuno ricordare che Heschel giudicò inestricabilmente intrecciati il destino del popolo eletto e quello dell’intera umanità.
Quale atteggiamento si impone dunque all’uomo che ha scoperto e ammirato il pathos di Dio per lui?
La risposta hescheliana si trova nelle seguenti considerazioni tratte da Dio alla ricerca dell’uomo: «L’uomo è responsabile delle sue azioni, e Dio a sua volta è responsabile della responsabilità dell’uomo. Colui che dà la vita deve dare anche la legge. Egli partecipa alla nostra responsabilità, e attende di penetrare nelle nostre azioni mediante la nostra lealtà alla sua legge. Egli può diventare il compagno delle nostre azioni. Dio e l’uomo hanno un compito comune e anche una reciproca responsabilità…». La religione esprime, secondo Heschel, «un compito da svolgere nell’ambito del mondo dell’uomo, ma i suoi fini vanno molto più in là. Perciò la Bibbia ha proclamato la legge non solo per l’uomo, ma, nello stesso tempo, per l’uomo e per Dio».
Il rispetto della legge e l’osservanza dei precetti divini, lungi dall’essere atti meramente legalistici, tracciano il perimetro di una vita ricca di senso e degna di essere vissuta.
Il ruolo di Heschel fu molto importante anche nel dibattito interno all’ebraismo ed egli offrì contributi assai significativi su questioni quali quella delle diverse tradizioni e culture giudaiche susseguitesi nei secoli e quella riguardante il mistero del male resosi presente nella Shoà.
A un secolo dalla nascita, Abraham Joshua Heschel rimane il testimone di una fede biblica che è speranza e impegno, certezza interiore e azione concreta. Ne La terra è del Signore leggiamo: «La nostra vita è assediata dalle difficoltà eppure non è mai priva di significato… La nostra esistenza non è vana. C’è una sollecitudine divina per la nostra vita… Il peccato più grave per un ebreo è dimenticare che cosa rappresenta. Noi siamo la scommessa di Dio nella storia umana… Fedeli alla presenza di ciò che è fondamentale in ciò che è comune, possiamo essere capaci di chiarire che l’uomo è più che uomo, che nel compiere il finito egli può percepire l’infinito».

Maurizio Schoepflin

 

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