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Baby Jesus and the Virgin Mary

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IRRADIARE LA BELLEZZA DI DIO

http://www.finesettimana.org/pmwiki/?n=Db.Sintesi?num=150

IRRADIARE LA BELLEZZA DI DIO

sintesi della relazione di Giannino Piana

Verbania Pallanza, 10 marzo 2001

Irradiare la bellezza di Dio significa rendere testimonianza con la vita e proclamarla con la parola sia da parte dei singoli credenti che delle comunità cristiane. Questo doppio movimento risponde alla logica che Gesù ha fatto propria: compiere gesti di liberazione e spiegarne il senso.
Si tratta di irradiare non la bellezza di una dottrina, per quanto sublime, ma la bellezza di una persona. Irradiare la bellezza di Dio vuol dire rendere trasparente il suo volto di misericordia e di amore, l’amore che Dio è.

la bellezza di Dio
Oltre alle definizioni già date nei precedenti incontri è possibile intendere la bellezza come la dimensione di profondità della realtà. La bellezza non va cercata in superficie, ma andando alla radice delle cose, oltre il livello della pura funzionalità, visione oggi dominante. Oggi conta sempre più il risultato, ciò a cui serve una certa cosa, ciò a cui è funzionale. La logica prevalente è quella funzionale e utilitaristica, anche nella valutazione etica.
La bellezza sfugge a queste logiche, per collegarsi alla logica del gratuito e dell’imprevedibile. E’ la bellezza del gesto gratuito, dello « spreco » da parte della donna che versa l’unguento sui piedi di Gesù.
Chi guarda la realtà in termini di funzionalità e utilità non è in grado di percepirne la bellezza, l’al di dentro, mai dominabile. La bellezza, la profondità è percepibile solo con un atteggiamento di ascolto e di accoglienza, come sa fare il poeta e il profeta, atteggiamento che apre all’al di là delle cose. Tanto più penetro al di dentro, tanto più sono rinviato al mistero insondabile che è dentro le cose e le trascende.
La percezione della bellezza delle cose, della loro dimensione più profonda apre alla bellezza di Dio, fonte sorgiva di ogni realtà.
la manifestazione di Dio nella storia del popolo di Israele e in Gesù Cristo
La rivelazione biblica di Dio ci mostra un Dio che afferma la sua assoluta trascendenza, la sua alterità, la sua non raffigurabilità, la sua innominabilità (primi comandamenti). Di Dio è sempre più quello che non conosciamo di quello che conosciamo. Rivelare significa per un verso manifestare e per altro verso velare di nuovo (ri-velare), coprire di nuovo. Il Dio della bibbia è un Dio presente e assente, vicino e lontano, alleato dell’uomo, ma insieme mai catturabile dentro a nessun concetto o immagine.
La preoccupazione di salvaguardare la trascendenza è espressa anche dal fatto che il volto di Dio non può essere guardato se non attraverso mediazioni (fenomeni naturali, angelo, sogno).
Ci sono però molte tracce che ci aiutano a scoprire, sempre solo analogicamente, il volto nascosto di Dio.
Innanzitutto la creazione porta su di sé l’impronta del creatore (« e Dio vide che tutto quello che aveva fatto era buono e bello »). La bellezza di Dio si rivela nelle sue opere e nel settimo giorno Dio si riposa contemplando la bellezza di ciò che ha fatto, svelandone così il senso ultimo, più profondo. « I cieli narrano la gloria di Dio ». La creazione è gratuità: Dio crea le cose perché è bello che siano.
Nel creato è l’uomo che rende maggiormente trasparente la bellezza di Dio, l’uomo creato a sua immagine e somiglianza. Anzi « a sua immagine li creò », quindi l’essere umano in quanto relazione, in quanto unità che si realizza in una differenza (maschio e femmina). L’immagine di Dio è nella realzione.
Il Nuovo Testamento poi ci dice che Dio non è un solitario, ma vive in una comunione di persone, che è un Dio relazione (Dio trinitario). In questo senso Dio è amore, è carità, come dice Giovanni. L’amore è la comunione tra persone.
In questa prospettiva la bellezza di Dio può essere annunciata solo dall’uomo, laddove sviluppa relazione autentiche. Bellezza e amore sono grandezze perfettamente omogenee.
Anche il mistero pasquale mette in luce questa dimensione. Il mistero pasquale comprende la croce, realtà in sé abbrutente. Ma la croce mostra la sua bellezza nell’essere un gesto d’amore estremo. O meglio la croce in sé non è bella, bello è l’amore senza riserve e misura che esprime.
Inoltre la croce è solo la penultima parola, l’ultima è la risurrezione, la nuova vita, la trasfigurazione. Il gesto di amore smisurato trasfigura, trasforma, è sorgente di novità di vita, di bellezza: è il Cristo risorto, primizia di tutti i risorti.
La bellezza di Dio è coglibile solo « come attraverso uno specchio », cioè solo attraverso la mediazione, ed « enigmaticamente », cioè attraverso la ineliminabile ambivalenza della bellezza umana, che non può mai essere assoluta gratuità. La bellezza che ci annuncia la presenza di Dio, denuncia anche la sua assenza.
La logica del mistero cristiano, della bellezza di Dio non è la logica formale della non contraddizione, ma quella dei doppi pensieri (Dostoevski), che mette insieme il diverso, l’opposto (Gesù perfetta immagine di Dio e piena immagine dell’uomo).
luoghi e modi di irradiazione della bellezza di Dio

Saranno indicati solo alcune modalità di espressione della bellezza di Dio
testimonianza della santità
Non si tratta della santità eroica, straordinaria, ma della santità a cui tutti i credenti sono chiamati. Tutti i credenti sono chiamati ad essere perfetti come il Padre, secondo modalità e forme legate alla propria vocazione.
E’ una santità che non è frutto anzitutto dello sforzo umano, dell’impegno ascetico, ma dono Dio, dello Spirito che plasma l’essere e l’agire dell’uomo. Non siamo noi per primi che amiamo Dio, ma è Dio che per primo ci ama. L’attitudine fondamentale, quanto mai impegnativa, non è quella del fare, ma del lasciarsi fare, del ricevere, dell’accogliere il dono. L’accoglienza implica una profonda attività. Ci vuole più forza nel riconoscere umilmente i propri limiti che non nel dare.
Il contenuto di questa testimonianza è espresso dall’adesione ai valori del regno, condensati nel discorso della montagna e nelle beatitudini. Nel vivere le beatitudini si rende trasparente la bellezza di Dio. Le beatitudini richiamano ad atteggiamenti di fondo che vanno poi tradotti in scelte quotidiane, ispirate a valori che sono controcorrente rispetto al modo di pensare e di vivere tutto incentrato sul potere, sul successo, sul denaro, sulla potenza. Le beatitudini proclamano la bellezza della mitezza, della povertà, della misericordia, dell’essere pacificatori…
Tutti questi valori sono riassumibili attorno al valore dell’amore, del dono di sé, indicando la necessità di una passaggio dalla ricerca di sé ad una perdita di sé (chi cerca la vita la perde, chi perde la vita la trova). E’ la bellezza del perdersi, del donarsi.
La santità come bellezza si esprime anche nel vivere secondo la logica dell’ « io vi dico »: non insultare il fratello (equiparato al non ucciderlo), al non opporsi al male con il male, all’amore per il nemico.
Una comunità cristiana che rendesse testimonianza a questi valori, che si impegnasse una migliore qualità dei rapporti, che reagisse al male con il bene, che fosse in grado di far cadere le barriere tra prossimo e nemico, considerando ogni uomo prossimo, sarebbe un elemento di feconda provocazione e darebbe concretezza e respiro al desiderio diffuso di un modo diverso di vivere le relazioni.

il linguaggio simbolico
Anche l’annuncio deve essere sempre più momento di trasparenza della bellezza di Dio.
L’annuncio della bellezza ha bisogno di un proprio linguaggio, diverso da quello deduttivo. Alla bellezza pervengo per intuizione e induzione, non per deduzione.
Il linguaggio della bellezza cioè non può essere quella della razionalità dominante, cioè della razionalità ideologica, che tende a creare un sistema totalizzante in cui includere tutto, e della razionalità strumentale di matrice tecnico-scientifica, volta al perseguimento del potere o del dominio sulla realtà, avendo come metro di misura la funzionalità.
La tentazione di fronte a questa razionalità occidentale che tende a dominare tutto a ridurre tutto a strumento è quella di fuggire nell’irrazionale.
Nella bellezza entrano anche le emozioni, i sentimenti, ma non in alternativa alla ragione, ma come elementi che qualificano un’altra forma di ragione, una ragione, per dirla con Lévinas che non mira alla totalità, a rinchiudere tutto in un sistema, ma all’infinito, che apre, che accosta la realtà rinviando sempre oltre verso qualcosa di mai totalmente definibile, verso l’infinito.
Questa ragione nuova è la ragione simbolica. Il simbolo descrive la realtà, ma rinvia sempre oltre. Mette insieme anche il diverso, ma evocando qualcosa che va oltre, che non può mai essere del tutto definito.
La razionalità simbolica è evocativa, allusiva, che piuttosto che dimostrare, mostra, indica, apre al mistero, alla trascendenza all’alterità, mentre la forma totalizzante di ragione esclude la possibilità del riconoscimento della vera alterità.
1. Questo concetto di razionalità dovrebbe essere applicato ai momenti dell’annuncio, innanzitutto nelle omelie durante le assemblee liturgiche.
Occorre accostarsi alla Parola lasciandola parlare, senza sovrapporsi ad essa con sterili moralismi o inutili ideologismi. Anche la parola di Dio può essere strumentalmente ridotta alle nostre tesi. In passato la tentazione era quella di leggere la Parola facendo l’applicazione immediata in senso moralistico, soprattutto nella sfera della sessualità. Oggi può esserci la tentazione dell’ideologismo, piegando la parola a precostituite letture della realtà sociale. Ma il giudizio, anche necessario su eventi sociali, deve sgorgare dalla forza evocativa originaria della Parola stessa.
C’è troppo spesso la tendenza a dimostrare, a fare applicazioni immediate e non a sollecitare nelle coscienze dei singoli assunzioni di responsabilità e applicazioni in forza della Parola.
I pastori delle chiese protestanti sanno predicare molto meglio dei preti, anche perché si rivolgono a persone aduse all’accostamento alla Parola e in grado di percepire più facilmente il senso dei testi, e quindi possono limitarsi a offrire chiavi di lettura molto generali…
2. Anche i segni liturgici hanno una grande importanza. Quando i segni hanno bisogno di essere spiegati non sono più segni. Il segno deve parlare immediatamente, seppure in modo allusivo, della realtà altra a cui si riferisce.
La riforma liturgica ha operato un grande sforzo di semplificazione di molti segni, molti dei quali però sono ancora troppo lontani dalla cultura dell’uomo di oggi. C’è ancora troppo didascalismo.
Si è passati da una sacralità magico-superstiziosa, che avvolgeva di mistero il non conosciuto e il non capito (il latino, ecc.), ad una fredda razionalità che tutto spiega. Non si è passati dal sacro al santo, ad un linguaggio che evochi il mistero che sta nelle profondità delle cose e che rinvia all’alterità.Non si è passati dal sacro al mistico, che spinge nella direzione della apertura al non spiegabile.
Il linguaggio evocativo è proprio delle parabole. Gesù parla in parabole « perché vedendo non vedano e udendo non odano », C’è un percepire la profondità della realtà che va oltre il vedere. E l’udire non è ascoltare. L’ascoltare come il credere è andare in profondità, significa sintonizzarsi con l’interiorità dell’altro e non il rimanere in superficie
Gli stessi sacramenti sono l’assunzione di realtà materiali e umane già di per sé significative , che rinviano ad un senso ulteriore.
Il bello, in quanto dimensione della profondità delle cose, trascende il bene e il vero, dà al bene e al vero una nuova carica. La bellezza è ciò che impedisce al vero di diventare verità dogmatica, verità che si chiude su se stessa, che definisce.
E la bellezza impedisce al bene di cadere nel moralismo, di assolutizzarsi in norme e valori trascurando la creatività personale: Soltanto la carità è un valore assoluto, al servizio del quale devono essere posti tutti gli altri valori.

la preghiera come paradigma
La preghiera, non il recitare preghiere, ma l’attitudine del pregare, è il luogo in cui si rende trasparente la bellezza di Dio. E’ il pregare come modo di essere-al-mondo, caratterizzato dallo stare davanti a Dio e dal sentirsi abitati da lui.
Lo stare davanti a Dio significa riconoscere un’alterità che mi trascende, a cui mi riferisco costantemente.
L’essere abitati da Dio significa riconoscere che Dio è più intimo dell’intimo di me stesso, che Dio è dentro di me.
E’ la bellezza come profondità delle cose e dell’essere personale. Vuol dire sentire Dio come compagni di viaggio, ma anche come colui che non si sostituisce alle mie responsabilità nel mondo e mi rinvia al mio impegno intramondano.
Il senso del pregare è fare esperienza di Dio nella storia (il Dio cristiano è nella storia) e fare esperienza della storia in Dio, riconoscendo che la storia è una storia aperta, dentro cui si manifestano i segni di liberazione, segni del Regno che viene.
La preghiera non è tanto un atto dell’uomo che tende a dialogare con Dio quanto un atto di Dio che tende a dialogare con l’uomo. « Ascolta Israele » è l’invito che emerge da tutta la tradizione ebraica. E’ l’invito all’ascolto, all’accoglienza, alla povertà, alla gratuità, al vivere e irradiare la bellezza di Dio.

« L’ALFABETO EBRAICO, PROTOPLASMA DEL CREATO » DI RAV LUCIANO CARO

http://www.keshet.it/rivista/sett-ott-03/pag9.htm

« L’ALFABETO EBRAICO, PROTOPLASMA DEL CREATO » DI RAV LUCIANO CARO

L’ebraico appartiene al ramo nordoccidentale delle lingue semitiche, ramo che comprende il cananaico, l’aramaico e l’ugaritico. Gli studiosi sostengono che l’ebraico fa parte del ceppo cananaico assieme al fenicio e al moabitico. Tutti questi linguaggi derivano dal cosiddetto protosemitico.
Ebraico e aramaico sono i tradizionali veicoli linguistici della cultura rabbinica dei primi secoli dell’era volgare e godono di uno statuto simbolico di eccezionale dignità: per entrambe queste lingue si usa infatti l’alfabeto ebraico, le cui lettere sono, per il mistico, cifra conoscitiva dell’intero cosmo. Essendo l’idioma con cui è scritta la Bibbia, l’ebraico è considerato lingua sacra. Secondo la tradizione, l’ebraico era lingua parlata da tutta l’umanità fino a quando, dopo la costruzione della Torre di Babele, si suddivise in settanta linguaggi.
In quanto strumento adoperato dall’Eterno per creare l’universo, l’ebraico possiede qualità soprannaturali. Addentrarsi nella tradizione segreta dell’ebraismo significa, dunque, in primo luogo prestare ascolto a un pensiero che costruisce sulle lettere il fondamento stesso della conoscenza. Le lettere ebraiche sono depositarie della potenza divina e convogliano nel reale l’impulso della creazione: un legame indissolubile le unisce ai diversi nomi di Dio che con esse sono composti ed è da tale vincolo che esse traggono il loro sovrannaturale vigore. Questa nozione di potenza della lettera riveste, nella tradizione ebraica, un valore assoluto che coinvolge tutti i gradi dell’esperienza umana, sino a scendere nel livello più profondo dell’essere.
L’esistenza di un collegamento tra i diversi livelli della realtà ci introduce in un dominio di carattere magico che non cessa, lungo i secoli, di esercitare la propria attrazione sui mistici ebrei. All’interno di questa struttura simbolica sono possibili vari livelli di lettura e di approfondimento, dalla più astratta riflessione mistica sino alla concreta operatività della magia. Una lettera ebraica può assurgere alla funzione di icona di meditazione, diventando lo spunto per esperienze estatiche, oppure può essere utilizzata nel suo immediato valore pratico, poiché magia e mistica della scrittura sono entrambe espressioni di quel meccanismo di attrazione e repulsione che coinvolge ogni cosa.
L’alfabeto ebraico è certamente parte rilevante della vita quotidiana dell’ebreo. È attraverso l’alfabeto che avviene il primo impatto con molteplici forme di coinvolgimento con la cultura e la tradizione, a partire dal mondo della preghiera e dello studio del testo biblico.
L’alfabeto ebraico (Alef – Bet) è composto di ventidue lettere a cui vanno aggiunte cinque lettere finali. Il carattere quadrato attualmente in uso è diverso dall’antica scrittura ebraica. La tradizione sostiene che Ezra abbia adottato la forma attuale al ritorno dall’esilio babilonese, mentre i caratteri più antichi avevano connotazioni diverse. Non tutti accettano questa opinione giacché la forma delle lettere, in quanto sacra, è considerata originaria.
C’è chi ricava messaggi dall’allitterazione dei nomi di ogni singola lettera e chi, partendo dal fatto che ogni lettera possiede un valore numerico, interpreta ogni parola rilevando il valore dalla somma delle lettere che lo compongono. Si possono così mettere in relazione parole o locuzioni che hanno lo stesso valore numerico (ghematrià). L’energia racchiusa nelle lettere è il legame nascosto della molteplicità dell’esistere e la ragione ultima del divenire. La dottrina ebraica dell’alfabeto rappresenta un vero e proprio progetto di conoscenza, un metodo dinamico per rendere ragione del fluire dell’esperienza e dell’infinito comporsi e scomporsi delle realtà individuali.
L’idea che l’alfabeto sia non solo uno strumento di denominazione ma anche il mezzo per controllare la realtà e intervenire su di essa, testimonia una riflessione linguistica che affonda le radici in un’epoca assai remota. Un gran numero di reperti materiali – provenienti dal bacino del Mediterraneo, da tutta l’area vicino-orientale e persino dalle zone più remote dell’Impero romano – testimonia la straordinaria diffusione dell’uso apotropaico e magico dell’alfabeto a partire dal 2° secolo E.V. Questo orientamento culturale mantenne il proprio vigore fino al 7° secolo E.V., quando il progressivo affievolirsi della tradizione aramaica in Oriente, a seguito della conquista islamica, tolse alla mistica dell’alfabeto un importante sostegno linguistico. Allo stesso modo, vennero a mancare alcuni fondamentali riferimenti teorici a causa dello spegnersi, in Occidente, dell’eredità gnostica ed ermetica, soffocata dalla drastica avversione cristiana. Solo l’esoterismo musulmano e la Cabalà mantennero una fedeltà ininterrotta all’antica speculazione sull’alfabeto.
La pratica di intervenire sul reale mediante il ricorso agli appellativi sacri e a combinazioni di frasi o di singole lettere tratte dalla Scrittura, rappresenta un aspetto rilevante quanto controverso della speculazione ebraica. Già il Talmud babilonese determina con meticolosità i casi in cui è lecito svelare i diversi nomi di Dio. Nel testo biblico non si fa cenno alla denominazione di ogni singola lettera. È nel Talmud che si cerca di attribuire un significato al nome delle lettere, spesso in relazione alla loro forma e all’ordine in cui sono collocate nell’alfabeto. Alla successione delle lettere sono attribuiti significati di valore etico (Shabat 104).
Il Talmud (Menahot 29) attribuisce a Rabbi Akivà (2° secolo E.V.) lo studio della scienza delle lettere, che è il cardine simbolico del pensiero ebraico e trova nell’Alfabeto da lui scritto l’esposizione narrativa forse più compiuta. Questo testo è noto anche come Lettere (Otiot) di Rabbi Akivà e apparve per la prima volta a stampa a Costantinopoli senza data, ma questa edizione viene fatta risalire probabilmente al 1516 o al 1525. Ogni lettera dell’alfabeto è raccontata nei suoi aspetti sonori e formali con grande ricchezza di particolari: l’espediente dell’acrostico, al quale il testo largamente ricorre, consente di ampliare in maniera straordinaria le combinazioni dei versetti della Scrittura, aprendo la prospettiva di inesauribili significati e nessi allusivi, non solo per quanto attiene agli aspetti fonetici, ma soprattutto per la loro valenza metafisica. Rabbi Akivà si soffermò altresì nella disamina dei cosiddetti ornamenti delle lettere dell’alfabeto e formulò osservazioni sul significato delle curve, degli apici e dei singoli elementi attinenti alla forma. Pare che questa scienza abbia tratto origine da una tecnica pedagogica usata per l’insegnamento della scrittura ai bambini.
È stato osservato che l’alfabeto ebraico ha caratteristiche che lo differenziano da tutti gli altri. Infatti, gli alfabeti relativi ai vari linguaggi sono costituiti da una raccolta di segni grafici disposti o casualmente o secondo convenzioni derivanti da considerazioni di comodità o utilità, per cui, al loro interno, sarebbe possibile variare la successione delle singole lettere. La tradizione attribuisce all’alfabeto ebraico un valore non riscontrabile in altre culture. In esso ogni lettera, oltre alla forma grafica e al valore numerico, ha una specifica collocazione. L’Alef – Bet non è tanto una sequela di segni grafici quanto piuttosto rappresentazione della realtà che, ove avvenisse la più lieve variazione della rappresentazione delle lettere, potrebbe modificarsi o alterarsi. Da questa considerazione deriva la normativa per cui, nella scrittura del testo biblico, occorre procedere con particolare cautela.
Ogni variazione nella scrittura di ciascuna lettera, ogni aggiunta o sottrazione di un singolo elemento, può rendere inutilizzabile il testo, in quanto ne deforma il significato. Si legge nel Talmud: « R. Meir raccontava: Quando incontrai R. Yshmael questi mi domandò: ‘Qual è la tua occupazione?’ Risposi: ‘Lo scriba’. E il Maestro: ‘Fai bene attenzione al tuo lavoro che è opera divina. Se tu aggiungessi o togliessi una sola lettera dal testo, potresti causare la distruzione dell’universo’ » (Eruvin 13).
Il Libro dei Proverbi termina con un brano (31,10-31) nel quale viene esaltata la donna virtuosa. Il passo comprende ventidue versi disposti in ordine alfabetico, segno di ordine e di completezza, quasi a sottolineare che la donna, più facilmente dell’uomo, può pervenire ad alti livelli di vicinanza con Dio. È significativo il fatto che, secondo alcuni Maestri, il brano può essere riferito non solo alla donna ma alla Provvidenza, al Sabato o all’anima dell’uomo.
Come si è detto, la prime considerazioni su ogni singola lettera possono derivare da esigenze di carattere pedagogico o mnemonico. Così, per esempio, la lettera alef è collegata al toro (la forma può evocarne le corna) o alla radice allef che ha il significato di insegnare. La seconda lettera dell’alfabeto, bet, esprime il concetto di casa (bait) anche in relazione alla sua forma di struttura chiusa da tre parti; e così via.
Questa tecnica, è stata poi sviluppata in chiave mistica soprattutto nel Sèfer Yetzirà (Libro della Formazione), una delle prime opere mistiche della tradizione del Maasè Bereshit (Opera della Creazione). Si tratta di considerazioni sulla creazione ispirate al primo capitolo della Genesi, in relazione alle modalità con cui la volontà divina ha prodotto l’esistenza del cosmo. Nei sei capitoli del Sèfer Yetzirà, un’opera risalente al 3° secolo, sono descritti i trentadue sentieri della saggezza che sono alla base del mondo. Questi sono costituiti dalle dieci Sefirot e dalla ventidue lettere dell’alfabeto nelle loro diverse combinazioni.
La struttura di ogni singola lettera riflette tre dimensioni: quella dello spazio, quella del tempo e quella dell’anima umana. L’uomo, considerato un microcosmo, possiede poteri creativi che possono essere impiegati utilizzando una appropriata tecnica di combinazioni delle lettere dell’alfabeto. Il pensiero ebraico oscilla continuamente tra la necessità di attenuare le pretese teurgiche di questa pratica e lo straordinario fascino che essa esercita. Come in molte altre tradizioni culturali, le speculazioni sull’occulto si considerano lecite solo quando sono volte a operare il bene e a favorire le creature, non a danneggiarle. Nel novero delle azioni benefiche rientrano naturalmente la protezione dagli influssi negativi di ogni genere (astrali, demoniaci e umani) e i rimedi alle malattie.
L’usanza di curare le infermità attraverso l’invocazione dei nomi divini conoscerà un’ampia diffusione in epoca post-talmudica, durante il Medioevo e, in alcune aree geografiche, fino alla piena età moderna.
I Maestri della mistica ricavano da ogni dettaglio grafico delle lettere ebraiche molteplici significati, giungendo ad attribuire a esse qualità pressoché umane tanto da riconoscere in ogni lettera la proprietà di possedere un corpo, uno spirito, un’anima (Shabat 104). Le lettere dell’alfabeto sono dunque ideogrammi che esprimono le energie primordiali, il protoplasma del creato o, secondo un’altra definizione, i mattoni della costruzione del cosmo, e l’alfabeto è fonte di energie dinamiche e cosmogoniche. Viene anche proposta una rispondenza tra le lettere dell’alfabeto e le articolazioni del corpo umano. Si sostiene che la conoscenza delle diverse modalità con cui si possono combinare le lettere consente l’avvicinamento dell’uomo a Dio, che ha creato appunto il cosmo attraverso la parola e, pertanto, rende l’uomo capace di realizzare a sua volta forme di creazione. La richiesta dell’Eterno ad Adamo di provvedere a dare una denominazione agli animali creati (Genesi 2,19) può essere vista come conferma del ruolo attribuito all’uomo di prendere parte alla creazione per ciò che attiene a elementi collegati con il linguaggio.
L’approfondimento della conoscenza del valore della parola può portare a meglio comprendere il progetto divino della creazione e spingere l’uomo a comportamenti corretti. Di Bezalel, l’artigiano che fu chiamato da Mosè a sovrintendere alla costruzione del Tabernacolo (Mishkhan) nel deserto, si afferma che: « Sapeva disporre le lettere dell’alfabeto con le quali furono creati il cielo e la terra » (Berachot 55). Il Midrash sostiene che la saggezza di Salomone derivava dal fatto che « Conosceva le lettere divine » (Midrash Mishlè). Questa considerazione può essere accostata a quanto detto a proposito di Bezalel. Infatti, il primo era preposto alla costruzione del Mishkhan e il secondo edificò il Santuario di Gerusalemme.
Un’opera più recente, risalente al secolo 18°, sostiene che: « Se le lettere dell’alfabeto si allontanassero e facessero ritorno alla loro sorgente, tutti i cieli tornerebbero al nulla » (Tanya, Shaar Haichud, 1). Un’eco di questa dottrina è riscontrabile nel Talmud: « Diceva Ravà: ‘Se i giusti volessero, potrebbero creare il mondo. Infatti è scritto: « Sono i vostri peccati a tenere separati voi dal vostro Dio » (Isaia 59, 2). Pertanto, senza peccato non vi sarebbe separazione tra uomo e Dio’ » (Sanhedrin 65). Il passo può indicare che l’uomo è in grado di pervenire a elevatissimi livelli, ove sappia liberare le forze spirituali di cui dispone dalle scorie del peccato. Lo stesso passo talmudico aggiunge che Ravà riuscì a creare un essere umano. E, secondo Rashì lo poté fare per mezzo del Sèfer Yetzirà, che indica come ci si possa servire delle ventidue lettere dell’alfabeto per agire sul creato. L’uomo può utilizzare le energie divine se conosce come servirsene e non si contamina con il peccato.
Le lettere dell’alfabeto svolgono un ruolo centrale anche in un altro tema classico dell’immaginario ebraico, cioè nella figura del golem, che si pone come punto di incontro tra magia e misticismo. La tradizione vuole che il Maharal di Praga (Yehuda Liva ben Bezalel, 1525-1609) sia riuscito a dare vita a un umanoide fatto con l’argilla affinché lo servisse, ma che in ben presto mostrò di possedere poteri straordinari, talvolta pericolosi e malefici.
Lo Zòhar rileva che il termine Israel può essere letto come acronimo della locuzione Yesh Shishim Ribò Otiot laTorà (la Torà contiene seicentomila lettere) (Shir Hashirim). Orbene, seicentomila era il numero degli ebrei usciti dall’Egitto che ricevettero la Torà. È come se ognuno di essi fosse collegato a una specifica lettera del testo. Pertanto a ogni ebreo e a ogni lettera è affidato un compito determinato. Tutti assieme vengono a formare un corpo ricco di potenzialità. Si dice che ogni lettera possiede la facoltà di ridare la vita ai morti e sono molte le tradizioni secondo cui, grazie all’uso delle lettere ebraiche, è possibile guarire e riportare in vita i defunti. Questa affermazione trae forse origine dalla tradizione secondo cui le lettere dei testi sacri sono pressoché immortali. Allorché Mosè spezzò le tavole: « Le lettere si dispersero nell’aria » (Pesachin 87). Analogamente, « Se un Sèfer Torà viene bruciato, le lettere volano nell’aria » (Ozar Hamidrashim).
Il pensiero divino si adorna di ventidue lettere celesti. Nella tradizione cabalistica questo pensiero si sviluppa fino a vedere nelle parole della Torà soltanto uno dei possibili modi di aggregazione delle lettere che la compongono. L’atto creativo si esplica nel misterioso susseguirsi delle lettere che formano l’insegnamento (Torà) dato a Israele, mentre le parole rappresentano solo il primo e più esterno livello di lettura.
La Torà è concepita non solo come raccolta ordinata di prescrizioni rituali e di narrazioni storiche, ma anche come un’ininterrotta serie di nomi divini, quasi un unico Nome di inimmaginabile potenza, dal quale trae origine tutto il portento della creazione: nel suono arcano di questo Nome, le lettere trascendono il limite provvisorio delle parole e mostrano intatta tutta la loro forza creativa. Un Sèfer Torà da cui manchi una sola lettera, o anche una parte di questa, è pasul cioè non adatto all’uso. Ove venisse a mancare una lettera nel testo o un singolo individuo venisse meno alla sua funzione, ne verrebbe compromesso l’equilibrio del cosmo.
Lo stesso Maimonide (1135-1204) noto per la sua visione razionalistica dell’ebraismo, scrive: « Nella Torà sono contenute espressioni che paiono irrilevanti, quali: ‘I figli di Cam erano Cush, Mizraim, Put e Canaan’ (Genesi 10,6); ‘La moglie di Hadar era Mehetavel figlia di Matred’ (Genesi 36,39) o ‘Sorella di Tuval Cain era Naamà’ (Genesi 4, 22), assieme ad altre ritenute di importanza fondamentale quali: ‘Io sono l’eterno tuo Dio’ (Esodo 20,2); ‘Ascolta, Israele’ (Deuteronomio 6, 4). In realtà non c’è differenza per quanto attiene all’importanza dei passi: ‘Tutto è parola divina, tutto è insegnamento divino, integro, puro, sacro e veritiero’ » (Commento alla Mishnà Sanhedrin X, 1).
In un contesto diverso, quello liturgico, Haim Josef Adulai (1724-1806), cabalista vissuto a Livorno e noto come Hidà, nel rilevare che nella preghiera è importante pronunciare correttamente le singole parole, sostiene: « La giusta pronuncia della parola promuove spiritualità e muove l’energia delle lettere determinando nuove forme di luce » (Shem Haghedolim). Di un altro cabalista, Yitzhak Luria (1534-1572) noto come l’Arì, si riferisce questo aneddoto: gli fu rivelato che, per quanto le sue preghiere del giorno di Kippur avessero effetti nei mondi superiori, quelle di un altro ebreo risultavano più efficaci e maggiormente gradite a Dio. Dopo molte ricerche, riuscì a trovare quell’uomo ed ebbe la sorpresa di trovarsi di fronte a un semplice contadino. Gli domandò: « Con quali modalità reciti le preghiere? » E questi: « Io sono ignorante e conosco solo le prime dieci lettere dell’alfabeto. Nel giorno di Kippur recito queste lettere dicendo: « Signore del mondo! Prendi queste lettere e provvedi Tu a formare la parole che Ti sono più gradite! ».
Dunque, nel testo biblico, ogni parola al di là del suo significato letterale, ogni lettera e ogni più piccolo dettaglio di questa, possiedono valenze solo intuibili dall’intelletto umano. »Ogni lettera può essere vista come la materializzazione di concetti astratti, come rivestimento di valori metafisici e strumento per rivelare la vera essenza del creato; una molteplicità di significati il cui numero corrisponde alle possibili combinazioni delle ventidue lettere dell’alfabeto » (Shem Tov B. Shem Tov, cabalista spagnolo del secolo 14°).
« Biancore superiore » è l’espressione con la quale gli antichi testi cabalistici designano lo stato antecedente alla creazione, allorché questa esisteva solo nella mente divina. L’espressione è tratta dalla locuzione « La parte scoperta del bianco » di cui si parla relativamente a Giacobbe (Genesi 30, 37). Le lettere dell’alfabeto, generalmente di colore nero (Midrash Shemuel 5), costituiscono l’inizio dell’intervento di Dio sul biancore primordiale. Questo concetto, difficile da spiegare, si è andato sviluppando nella letteratura cabalistica a partire dal Sèfer Yetzirà. Prima della creazione esisteva nel vuoto assoluto una situazione (il biancore) chiamata anche achdut hashavè (l’unicità di ciò che è uniforme), vale a dire che non esisteva nessun elemento dotato di specificità. Si trattava di una situazione primordiale nella quale il cosmo esisteva solo in potenza, in quanto ancora soltanto immaginato nella mente di Dio. Poi è sopravvenuta l’esplosione della luce: la volontà creatrice trasformò in atto quanto era stato solo immaginato. Tutto ciò si è realizzato per mezzo di lettere non ancora di consistenza materiale e chiamate le « forme dell’utero dell’eternità ». Queste hanno dato vita a una Torà primordiale dalla quale sono scaturiti il tempo, il cosmo e la Torà vera e propria. La scrittura ha assunto così aspetti figurativi, acustici ed emozionali caratteristici dell’alfabeto ebraico e solo di questo.
È stato osservato che pressoché tutte le kinot, vale a dire le elegie liturgiche recitate nei giorni di lutto, sono redatte in forma di acrostico alfabetico. Ma, allorché si realizzerà la redenzione dei tempi messianici, questa scaturirà dall’Alef – Bet. Allora l’umanità intera riprenderà a usare la lingua ebraica: tutti gli uomini faranno uso di un unico linguaggio, quello di cui Dio si è servito per creare il mondo.

Rav Luciano Caro, rabbino capo della Comunità Ebraica di Ferrara e delle Romagne.

 

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 22 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

LA VERITÀ NON È MAI SOLO TEORICA – DA RATISBONA AL COLLÈGE DES BERNARDINS…

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/241q04b1.html

DA RATISBONA AL COLLÈGE DES BERNARDINS IL RAPPORTO TRA FEDE E RAGIONE (GUARDANDO A ORIENTE)

LA VERITÀ NON È MAI SOLO TEORICA

Si chiude domenica 18 nella Villa Ambiveri a Seriate (Bergamo), il convegno internazionale « Cercatori dell’eterno, creatori di civiltà. Il monachesimo tra Oriente e Occidente », organizzato dalla Fondazione Russia Cristiana. Pubblichiamo un ampio estratto di una delle relazioni.

di Adriano Dell’Asta

« Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio »: è una delle affermazioni più ripetute e appassionate della lezione di Benedetto XVI a Ratisbona, perché dalla separazione tra fede e ragione, come ha dimostrato la storia, nascono le condizioni per la distruzione dell’umano nella sua pienezza. Può essere l’idea di un Dio capace di disfarsi del Lògos e di agire senza o contro il Lògos, idea che ha cominciato a farsi strada addirittura tra i cristiani stessi, in forme di volontarismo poi sfociate in un vero e proprio irrazionalismo; può essere l’idea di un uomo che pretende di chiudersi a qualsiasi questione legata all’eterno e all’universale e di poter separare così la ragione da qualsiasi problematica che non sia nettamente utilitaristica. Quale che sia il polo privilegiato in questa separazione, la fede o la ragione, il suo esito resta sempre lo stesso: la distruzione dell’umano, umiliato nella sua ragione, che per aver voluto emanciparsi da Dio si è autolimitata « a ciò che è verificabile nell’esperimento », e offeso nella sua fede, che per aver voluto preservare la purezza del divino, spingendolo « lontano da noi in un volontarismo puro e impenetrabile », ha finito col rendersi da sé estranea all’umano e incapace di dirgli alcunché.
Da quando l’uomo ha proclamato razionalmente insignificanti « gli interrogativi fondamentali della sua ragione », cioè le domande sulla verità e sul senso, l’esito inevitabile di questa avversione è stata la dissoluzione dell’immagine dell’uomo; e questo rischio è presente anche oggi, quando l’uomo, dopo la fine dei totalitarismi, è attaccato da quelle che Benedetto XVI ha chiamato « le patologie minacciose della religione e della ragione », la violenza fondamentalista e il nichilismo ateo.
Non si può non essere colpiti dalle somiglianze che avvicinano questo quadro a quello tracciato da Solov’ëv nella sua Crisi della filosofia occidentale; pur in un contesto completamente diverso, senza avere alle spalle un’esperienza tragica come quella del XX secolo, anche il grande filosofo russo constata che il principio razionale e quello materiale, quando pretendono di emanciparsi da Dio e di potersi affermare in solitudine, l’uno contro l’altro, finiscono di fatto per autonegarsi, abbandonando l’uomo e il mondo all’insensatezza, con una ragione, quella idealista, che finisce per diventare un principio materiale quando attribuisce un’esistenza reale ai concetti, e una realtà, quella materialista, che finisce per diventare un principio logico quando per dare alla materia un valore assoluto la si trasforma nell’idea di materia.
Ancora va notato come questa argomentazione in Solov’ëv non sia affatto antimoderna, essendo anzi caratterizzata da un grande rispetto per la filosofia e la scienza occidentali. In questo senso, invece di contrapporsi, ragione e fede trovano proprio nel cristianesimo, e più precisamente in Cristo, la loro autentica verità e, addirittura, cercando di spiegare il proprio ritorno alla fede, Solov’ëv lo motiva proprio in nome delle esigenze della ragione. Se si respinge la pretesa della ragione di potersi disfare della fede non è per difendere la fede ma anzi proprio per salvare la ragione e renderla conforme alla sua vocazione; non diverso è il desiderio che manifesta Benedetto XVI quando ricorda che lo scopo cui mira la sua ricostruzione del rapporto tra ragione e fede non è certo una negazione della ragione moderna ma piuttosto « un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa ».
Un altro elemento dal quale non si può non essere colpiti è allora il fatto che questo discorso, oltre a non essere antimoderno, è pronunciato da cristiani che non giudicano e non condannano, ma che si fanno corresponsabili di quello che può succedere quando la grandezza dell’uomo non viene educata a cogliere la propria origine e l’uomo stesso si crede padrone della verità. Non deve passare inosservato a questo proposito che Benedetto XVI inizia la sua critica della ragione moderna denunciando « il volontarismo puro e impenetrabile » che era nato nell’ambito della teologia cristiana del tardo medioevo e che aveva fatto dell’uomo e della sua ragione un gioco da nulla a cospetto della volontà di Dio e dell’arbitrio dei suoi interpreti; quando questa presunzione ha la meglio, la Chiesa diventa una torre d’avorio, anch’essa « pura e impenetrabile », che non solo non ha più niente da dire al mondo, ma lo condanna alla perdizione. « L’ideale della perfezione senza grazia porta al nichilismo », aveva detto Berdjaev in un testo scritto subito dopo la rivoluzione del 1917 e di questo nichilismo erano certo colpevoli i rivoluzionari, ma non erano innocenti neppure tutti coloro che avevano voluto preservare la purezza divina dalle miserie terrene, e così non avevano saputo educare quella sete di assoluto e di giustizia che essendo rimasta senza risposta aveva poi portato alla rivoluzione o non aveva saputo farvi fronte.
Il dovere del pentimento che a questo punto interpella tutti non significa certo un appiattimento e un’equiparazione delle colpe e delle responsabilità, e non implica neppure la rinuncia a dire la verità e a dare un giudizio preciso sui diversi livelli di responsabilità: semplicemente la verità non è più un discorso astratto di cui si possa essere creatori e padroni, ma qualcosa cui si deve rispondere, di cui si è responsabili e custodi.
Il tema della custodia della verità è esattamente quello col quale si apre il discorso di Benedetto XVI alla Sapienza, là dove egli si presenta in maniera sofferta come il pastore, « l’uomo che si prende cura » della comunità, « del giusto cammino e della coesione dell’insieme », conservando « unita » la comunità umana e « mantenendola sulla via verso Dio ».
Innanzitutto va notato che la verità di cui Benedetto XVI si presenta custode non è il prodotto di un’elaborazione teorica; più precisamente, dice il Papa, « la verità non è mai soltanto teorica », ma un’esperienza. Il Papa, infatti, « parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità ». Questa esperienza è appunto l’esperienza di un cammino, ma di un cammino del tutto particolare, perché la via sulla quale l’uomo cammina è nello stesso tempo Colui verso il quale si cammina. Questa verità è allora l’esperienza della vita con Colui verso il quale si cammina e in Colui nel quale si cammina: vita con Cristo e in Cristo, comunione con una Verità che, essendosi fatta « amica degli uomini », è Buona.
Centrale in questo discorso sull’esperienza della verità è la continua articolazione tra la certezza della verità di cui ci si sente addirittura custodi e l’esigenza di un’inesausta ricerca di questa stessa verità, che nessuna risposta singola può mai soddisfare: l’uomo è in un cammino che non ha mai fine, ma come Benedetto XVI dirà al Collège des Bernardins, per il cristiano questa ricerca non è mai « una spedizione in un deserto senza strade ». Ciò che permette di superare la contraddizione apparentemente insormontabile tra la ricerca e l’esperienza della verità è appunto questo Cristo che si fa compagnia e via per gli uomini.
Nella nostra ricerca di contatti con l’esperienza russa, a questo punto dobbiamo ancora una volta richiamare la figura di Solov’ëv che in una delle sue primissime opere presenta proprio questa formula calcedoniana del « senza confusione e senza separazione » come lo strumento capace di far superare i vicoli ciechi del pensiero (in questo caso particolare parla dell’opposizione kantiana tra fenomeno e cosa in sé). Al di là della coincidenza immediata, v’è un’altra cosa da segnalare ed è che Solov’ëv definisce questa soluzione la « via regale » della conoscenza. « Via regale » è un’espressione strana, che potrebbe sembrare addirittura inappropriata se non fosse che richiama le porte regali dell’iconostasi, attraverso le quali ci vengono incontro il vangelo, l’eucaristia e cioè quel Cristo che è via e meta del nostro cercare, e se non fosse soprattutto che « via regale » è un’espressione entrata nella tradizione cristiana per definire propriamente la vita monastica e la sua caratteristica precipua, che è quella di portare la ricerca dell’uomo a superare la dissipazione di chi non sa cosa cercare per indurlo a unirsi a Dio solo. È dunque evidente che utilizzando questo termine Solov’ëv esprime l’idea molto precisa secondo cui l’uomo che vuole conoscere la realtà in tutte le sue sfaccettature ma senza dissipazioni, vizi, eccessi, fantasie o vani pensieri – in una parola, con una continua ricerca che però ha una meta precisa e sicura – deve seguire non la via privata, tortuosa e pericolosa delle proprie opinioni, ma quella già tracciata che porta direttamente al Signore della realtà e che nella sua signoria ritrova tutto. Al di là di una contrapposizione senza pace abbiamo così l’esperienza di un’unità nella quale nulla va perduto: un’unità che parte da quella di fede e ragione per estendersi a tutte le sfere dell’essere.
La suggestione della via regale di Solov’ëv ci spinge a sua volta verso il terzo discorso di Benedetto XVI; la conoscenza integrale richiama infatti in russo la celomudrie, termine che letteralmente equivale a « sapienza integrale » ma che significa « verginità » e che dunque, normalmente, indica proprio una delle caratteristiche principali di quella vita monastica cui è dedicato il terzo discorso del Papa.
Il discorso si apre sottolineando che se i monaci seppero salvare la cultura antica e crearne una nuova non era però questo il loro scopo; non meno sottolineata è l’affermazione secondo cui il cristianesimo non è « una religione del libro ». A questa duplice insistenza sulla posizione subalterna della cultura pare contrapporsi un’altra serie di affermazioni altrettanto reiterate circa il valore della « formazione della ragione », dell’ »erudizione » e persino della « grammatica » come strumenti senza i quali sarebbe stato impossibile « percepire, in mezzo alle parole, la Parola ». Allo stesso modo si insiste sul valore dell’interpretazione. Littera gesta docet, quid credas allegoria, si dice citando un vecchio adagio (« la lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria »). Abbiamo così l’apparente paradosso di una ragione che, mentre viene subordinata alla fede, viene anche immediatamente mostrata come indispensabile per la piena comprensione dei contenuti dell’esperienza di fede. Ovviamente tutto questo può sembrare paradossale solo se non si è seguito sin qui il percorso di Benedetto XVI che ha mostrato come l’opposizione di fede e ragione sia esiziale per l’uomo e come questa opposizione sia possibile solo là dove si ha a che fare con una fede o una ragione snaturate, cioè solo là dove si parla di una fede la cui verità viene intesa come una violenta imposizione che nega la ragione, e solo là dove si parla di una ragione la cui libertà viene intesa come l’arbitrio della soggettività.
Completamente diversa è la prospettiva aperta da Benedetto XVI quando spiega che, se « la lettera uccide » e v’è quindi bisogno dello Spirito, questo Spirito è propriamente « lo Spirito del Signore », cioè Cristo, così che la vera interpretazione, lungi dall’essere arbitraria, è quella caratterizzata da « un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore »: la vera interpretazione, così come si era detto per l’esperienza della verità, è quella che si ha stando con Cristo e camminando sulla strada che Lui stesso è: l’eterno che è entrato nel tempo, il mistero indicibile che si è fatto carne visibile, dicibile, ragionevole, il Verbo fatto carne. È solo un simile Dio che merita di essere annunciato, perché, precisa Benedetto XVI, « un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio », mentre « la novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos ». Il fatto è ragionevole, ma la ragione deve avere l’umiltà di accoglierlo e non pretendere di esserne la creatrice e padrona: così si apre uno spazio di libertà che non è quello dell’arbitrio e della mancanza di legami, ma, come si è visto, quello dell’amore.
Anche questo tema dell’annuncio, della sua credibilità e, ancor più della sua possibilità (come in fondo della possibilità di ogni comunicazione), può ricevere una particolare luce dall’esperienza della Russia del XX secolo. Il trionfo della verità ideologica e i milioni di morti che questa verità ha prodotto nelle due esperienze totalitarie sembrano aver reso impossibile e persino inaccettabile non solo qualsiasi annuncio della verità, ma anche qualsiasi discorso sulla verità, alla quale viene rimproverata appunto una pretesa di dominio sulla realtà che è diventata poi nei regimi totalitari la distruzione della realtà stessa.
Questa pretesa di dominio è stata così totalizzante e distruttiva che il male derivatone sembra non avere altra alternativa se non quella della rinuncia altrettanto totale a qualsiasi verità. Quando Adorno pronuncia il suo famoso aforisma sull’impossibilità di scrivere ancora poesia dopo Auschwitz è condizionato appunto dall’apparente insuperabilità di questa alternativa: di fronte alle esperienze estreme del XX secolo, di fronte al dolore e alla « morte atroce », qualsiasi forma (estetica o altro non fa differenza) pare un oltraggio alla sofferenza, come una sorta di pretesa di togliere lo scandalo dell’indicibile dicendolo e mettendolo così a nostra disposizione. Dietro questa paura si cela in realtà una nuova forma di iconoclastia in quanto si finisce ancora una volta col negare che attraverso il finito possa mostrarsi l’infinito.
A questa contestazione della possibilità di dire la verità, mai così radicale dai tempi appunto dell’iconoclastia, l’esperienza dei campi di concentramento, per come è stata narrata dalla grande letteratura russa ha dato una risposta altrettanto radicale: il secolo lupo ha detto che gli uomini potevano restare uomini; è stato detto l’indicibile, cioè che l’uomo ha dentro di sé qualcosa di infinito e irriducibile, persino là dove tutto sembrava dovesse finire e dove sembrava che si fosse realizzata la riduzione più totale dell’uomo stesso. Ma l’indicibile che è stato detto non è stato creato dall’uomo, in una nuova forma di dominio ideologico, come teme Adorno che non sa concepire un’interpretazione libera ma non arbitraria o una verità incontrovertibile ma non totalitaria: questo indicibile, che definisce l’uomo in ciò che gli è maggiormente proprio, è qualcosa che l’uomo non poteva neppure immaginare. Come l’interpretazione autentica è possibile non sostituendo o annullando il mistero ma affidandosi a esso, così l’arte è questo dare spazio all’infinito e al mistero che rende le cose degne di essere guardate; l’arte è « l’immortalità della vita », diceva Salamov.

(L’Osservatore Romano 18 ottobre 2009)

NON CEDIAMO AL GRIGIORE, VIVIAMO DAVVERO di Gianfranco Ravasi

http://paroledivita.myblog.it/2010/01/05/non-cediamo-al-grigiore-viviamo-davvero/

NON CEDIAMO AL GRIGIORE, VIVIAMO DAVVERO

di Gianfranco Ravasi

È, questo, l’editoriale più difficile da scrivere, collocato com’è su un crinale da cui si diramano gli orizzonti di due anni. Da un lato, ci si affaccia sulla valle dei giorni ormai finiti, non di rado archiviati col timbro del pessimismo, quasi fossimo sempre in presenza di un annus horribilis. L’ironico ‘Dizionario del diavolo’ dell’americano Ambrose Bierce non aveva esitazioni. Alla voce ‘Anno’ recitava: «Periodo fatto di 365 delusioni». D’altro lato, si allarga la pianura dei giorni futuri sui quali cade, invece, la retorica degli auguri che spargono ottimismo e certezza di felicità e prosperità. Su questo crinale mi avventuro anch’io per condividere, però, coi lettori solo poche e semplici riflessioni. Lo spunto della prima me lo offre un cantautore che tutti conoscono, Claudio Baglioni: «A volte più che di un mondo nuovo, c’è bisogno di occhi nuovi per guardare il mondo».
Siamo spesso afflitti da una sorta di daltonismo spirituale; il nostro sguardo non è più abilitato a cogliere la ricchezza dei colori; indossiamo lenti scure che ci mostrano solo l’ombra della storia, immaginandola soltanto sotto il segno del male, della perversione, della negazione. Ignoriamo che, accanto all’egoismo, all’indifferenza e alla vacuità di molti, c’è una folla di persone che si dedicano silenziosamente ai miseri della terra, attraverso un volontariato sempre più generoso. Ci sono chiese e comunità che assumono anche su di sé il carico della crisi che attanaglia tante famiglie. È quel bene – come ha detto Benedetto XVI – sul quale non si puntano mai i riflettori dell’informazione. C’è un altro pensiero che vorrei condividere coi lettori di Avvenire. Essi hanno ragione di indignarsi nei confronti della corruzione pubblica e privata che anche lo scorso anno si è ben attestata sulla scena mediatica, oppure di sbuffare davanti a una politica così litigiosa e inconcludente. Certo, speriamo che un ritorno di saggezza si manifesti e si insedi nei palazzi del potere politico ed economico, anche sulla base degli appelli del presidente della Repubblica, di tanti pastori e persone stimate e oneste. C’è, però, un’ulteriore necessità primaria che riguarda quello che potremmo chiamare il ritmo del respiro della vita sociale. « Per compiere grandi passi, non dobbiamo solo agire, ma anche sognare; non solo pianificare, ma anche credere ». Era lo scrittore Anatole France a suggerirlo nell’Ottocento, ma l’idea è forse più adatta alla situazione odierna in cui un po’ tutti – e non solo i governanti o i protagonisti della vita pubblica – ci siamo assuefatti al piccolo cabotaggio, all’interesse privato, al vantaggio e alla sicurezza personale o di gruppo. Clint Eastwood in un suo film aveva questa battuta ironica: «Se vuoi una garanzia a tutti i costi, allora comprati un tostapane!». Nella scuola, nella famiglia e talora persino nella religione ci si accontenta sempre più del minimo comun denominatore. Sappiamo, però, che quando ci si abitua alle piccole cose, si diventa incapaci delle grandi. Ecco, infatti, l’incombere dei luoghi comuni, il rinchiudersi a riccio nella propria cerchia, il timore per gli orizzonti vasti che si aprono, l’assenza degli ideali, la caduta della ricerca della verità e dei valori permanenti. Per essere veramente uomini e donne bisogna coltivare sempre un sogno, un progetto, una fede, non rassegnandosi alla banalità, alla bruttezza, al grigiore, alla sopravvivenza. La stessa cura del creato, generatrice di un’armonia serena, a cui ci ha rimandato ieri il messaggio del Papa per la Giornata Mondiale della pace, partecipa di questo respiro più alto. Giungiamo, così, a un’ultima riflessione un po’ scontata. Ogni nuovo anno è una porzione di tempo che ci è offerta. E proprio perché il tempo non è ‘infinito’ come l’eternità, ha in sé la stimmata della fine e, diciamolo pure (anche se questa parola è oggi esorcizzata), può avere in sé anche la morte. L’augurio che, allora, vogliamo proporre a noi e a tutti è quello che ci ha lasciato un grande pensatore come il cardinal Newman: «Non aver paura che la vita possa finire. Abbi invece paura che non cominci mai davvero».

Jesus the Good Shepherd

Jesus the Good Shepherd dans immagini sacre

https://thehandmaid.wordpress.com/2009/03/15/the-good-shepherd/

Publié dans:immagini sacre |on 17 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

1.LA SANTITÀ DI SAN PAOLO EBBE PRINCIPIO IL GIORNO DELLA SUA CONVERSIONE (Alberione)

http://www.alberione.org/100anni/documenti/convspaolo/alberione-mese.pdf

DON GIACOMO ALBERIONE – MESE A SAN PAOLO

Sesto giorno – Conversione di San Paolo.

1.LA SANTITÀ DI SAN PAOLO EBBE PRINCIPIO IL GIORNO DELLA SUA CONVERSIONE. Ora: che cosa è la conversione? E’ un cambiamento, è un mutare strada, è un prendere un altro metodo di vita. Importa: cambiamento di pensieri, di desideri, di opere: cioè che il convertito cominci a stimare quanto prima disprezzava e disprezzare ciò che prima
stimava. La conversione non si può soltanto avere cambiando religione, o lasciando una vita di vizi1 e di peccati: si può anche verificare lasciando certi difetti. Chi da disobbediente si fa obbediente, da pigro si fa laborioso, da freddo diventa fervoroso, da superbo diviene umile: si converte. In questo senso la Chiesa ogni giorno mette in
bocca ai suoi sacerdoti questa preghiera: Signore, degnatevi convertirci: e il Venerabile Olier2 chiedeva e proponeva spesso di convertirsi.
2.La conversione di San Paolo3 fu così straordinaria, così completa, così stabile che la chiesa ha creduto di ricordarla con una festa speciale che si deve celebrare in tutto il mondo solennemente. Fu straordinaria più di quella di Pietro e di Sant’Agostino perché avvenne per un prodigio, avendolo Gesù atterrato sulla via di Damasco ed essendo Paolo allora così persuaso della verità della sua religione che era divenuto un vero e fiero persecutore della Chiesa: la sua conversione fu così
repentina che neppur Anania e gli Apostoli volevano crederla: fu così completa che egli cominciò subito4 a predicare Gesù Cristo con tanto ardore e tanta convinzione quanto prima ne aveva usate nell’incoraggiare i farisei a uccidere Santo Stefano e nel cercare di incarcerare i cristiani: fu così stabile che mai più egli ebbe un giorno di esitazione né per il tempo che passò nella solitudine, né durante i viaggi apostolici, né nelle sue prigionie.
3.San Paolo esortando gli Ebrei a convertirsi dice loro: Abbiate grande fiducia nella divina misericordia5: andate solo con sincero sentimento: portate una grande volontà di far meglio. Chi avesse dei peccati gravi dovrebbe fare una buona
confessione e cambiare radicalmente. – E gli altri? Scegliere il loro difetto principale, col consiglio del confessore: dichiararvi una guerra senza tregua: giorno per giorno pregare, promettere, esaminarsi; settimana per settimana renderne conto al Confessore; una grande vigilanza, una violenza costante. Si richiederanno anche anni ed anni; ma si riuscirà ad acquistare la virtù opposta: sarà la fede, sarà la carità, sarà
1Nel ms: vizzi.
2Jean-Jacques Olier (1608-1657), sacerdote francese; fondatore della « Società di San Sulpizio » (Sulpiziani) per la formazione del clero. Guidato spiritualmente da san Vincenzo de’ Paoli, l’Olier operò con risultati eccellenti sia nel ministero parrocchiale sia nella cura dei seminaristi. Vi fu chi, a motivo soprattutto della sua finezza di sentimento, lo accostò a san Francesco di Sales. La sua spiritualità, ispirata all’Oratorio francese e specialmente alla dottrina del cardinale de Bérulle, si caratterizza soprattutto per l’amore verso Cristo e la mistica unione con il Verbo incarnato.
3Il racconto della conversione, o vocazione, di san Paolo si può leggere in At 9,1-30. Come sappiamo, l’apostolo stesso racconta più volte il suo incontro decisivo con il Signore Gesù: At 22, 3-21; At 26, 2-23; Ga1 l, 11-24.
4subito: aggiunto nel ms.
5Cf Eb 4,16.

la umiltà, sarà l’obbedienza? Qualunque sia: è certo che in pratica è impossibile acquistare completamente una virtù, senza che con essa ne vengano molte altre. Esempio. Il fatto della conversione di San Paolo. Saulo, poi Paolo, persuaso della verità della religione ebraica, desiderava mettere a morte tutti i cristiani. Avendo ottenuto la facoltà di andare a Damasco e incarcerarne quanti troverebbe, si recava colà con soldati. Presso Damasco all’improvviso lo circondò uno splendore improvviso6 di luce e cadendo a terra udì una voce che diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? – Rispose: E chi sei, o Signore? – E questi: Io sono quel Gesù che tu perseguiti. – Tremando e stupito, Saulo rispose: Signore, che vuoi che io faccia? – E il Signore: Entra in città e ti sarà detto il da farsi. – I circostanti udivano, ma non vedevano: alzarono Saulo, che più non vedeva, e lo condussero per mano in Damasco. Vi rimase tre giorni pregando e digiunando. – In fine il Signore mandò al discepolo Anania una visione in cui l’avverti di cercare Saulo all’albergo, senza alcun timore, e di dargli il battesimo. – Così fece Anania: Saulo fu battezzato, riacquistò la vista, fu ripieno di Spirito Santo e di sapienza. Da quel giorno egli fu il più fervente fra gli Apostoli di Nostro Signore Gesù Cristo.
——————-
Per umiltà rifiuta gli onori divini: V. Atti degli Apostoli7; oppure Bosco, Vita di San Paolo8, pag.27.
6Vocabolo aggiunto in un secondo momento, a margine del foglio. Probabilmente, l’Autore non si ricordava di aver già espresso lo stesso concetto con l’avverbio « all’improvviso ».
7Si tratta di una aggiunta a fondo pagina. Per questo riferimento, cf At 14,13ss.
8Si tratta di un’opera scritta da san Giovanni Bosco: « Vita di S. Paolo Apostolo dottore delle genti, per cura del Sacer. Bosco Giovanni », Torino, Tip. di G.B. Paravia e Comp., 1857. – Verosimilmente, Don Alberione avrà utilizzato una edizione più recente.

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