Archive pour juillet, 2015

LA « SAPIENZA »

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Il Bello della Bibbia
per il mio caro Don…

LA « SAPIENZA »

A chi è privo di senno la Sapienza dice: «Abbandonate la stoltezza e vivrete, andate dritti sulla via dell’intelligenza». (Proverbi 9, 4-6)

Nella classificazione tradizionale dei libri dell’Antico Testamento, accanto alla Legge e ai Libri storiti e ai Profeti si configura un settenario di “libri sapienziali” (Giobbe, Salmi, Proverbi, Qohelet, Cantico, Sapienza, Siracide). Ora, la “sapienza” è una forma di riflessione di taglio filosofico-sperimentale, dotata di generi, espressioni e stili letterari, che era fiorita in tutto l’antico Vicino Oriente e che aveva prodotto molti testi di grande suggestione. In Israele era stata introdotta con Salomone, considerato come l’archetipo e l’emblema della sapienza israelitica (si veda iRe 5,9-14), tant’è vero che a lui furono attribuite anche opere sapienziali posteriori come il Cantico o la Sapienza.
La riflessione sapienziale ha al centro non solo l’ebreo ma l’uomo in quanto tale, ha-’adam in ebraico, còlto nelle sue tre relazioni fondamentali: verso Dio, verso il prossimo, verso il creato (significativi, al riguardo, sono i capitoli 2-3 della Genesi). Si ha una sapienza che s’interroga sul valore ultimo dell’esistenza: «Quale vantaggio ticava l’uomo dalla fatica con cui s’affatica sotto il sole?» (Qohelet 1,3). In essa emergono anche le contraddizioni dell’esistenza, lo scandalo del male, il silenzio di Dio: si pensi alla-figura di Giobbe e al suo contrasto con i suoi amici sapienti. Costoro incarnano un’altra sapienza, che ha radici anche popolari e che vede la storia retta da una legge, quella della retribuzione, ritmata sui binomi delitto- castigo e giustizia-premio, così da armonizzare la realtà in nome di Dio e della sua giustizia. La sapienza è, però, anche una categoria “teologica”: essa, cioè, serve a spiegare Dio soprattutto nella sua veste di creatore.
Significativo è l’inno che la Sapienza divina personificata intona nel capitolo 8 del libro dei Proverbi (vv. 22-31). Essa si presenta come derivante da Dio stesso e come un “architetto” teso alla sua opera, che è la creazione del mondo. Per questo il creato reca in sé un’impronta della Sapienza e rivela una sua armonia; ma l’uomo saggio è l’espressione più alta di questa opera creatrice della Sapienza divina. Certo, nella sua libertà egli può anche perdere questo dono ed ecco apparire sulla scena lo “stolto” che condensa in sé l’antitesi della saggezza (un notevole contrasto tra Sapienza e follia è “sceneggiato” in Proverbi 9,1-6.13-18).
Nel Nuovo Testamento la sapienza in greco sophia è una qualità divina applicata a Cristo che è «potenza e sapienza di Dio» (1Corinzi 1,24). La Sapienza divina, cantata dai Proverbi diventa così la base per definire Cristo nella sua funzione di creatore e di redentore di tutto l’essere: «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui…» (si legga l’inno di Colossesi 1,15-20). La sapienza, realtà propria del Padre, è così partecipata anche al Figlio. Il circolo trinitario sarà chiuso dalla tradizione cristiana che, sulla base del dono della sapienza e dell’intelligenza offerto dallo Spirito di Dio (Isaia 11,2), applicherà anche allo Spirito Santo una qualifica sapienziale: lo Spirito crea e dà vita (Salmo 104,30). Si ha, così, con la sola nozione di “sapienza”, la possibilità di parlare della Trinità e della sua azione nel mondo e nella storia.

LE PAROLE PER CAPIRE
SOPHIA – È il termine greco per indicare la “sapienza”. Pur confrontandosi con la sapienza filosofica greca, il vocabolo acquista nel Nuovo Testamento un valore teologico e sarà adottato per definire sia la figura di Cristo sia quella dello Spirito Santo. Nella tradizione cristiana posteriore avrà anche un’applicazione mariana (Maria, “sede della sapienza”).

STOLTO – Termine antitetico a “sapiente”,
nel linguaggio sapienziale biblico acquista un valore anche religioso. Egli è colui che sceglie un comportamento etico alternativo rispetto alla proposta divina (Salmo 36,2), al punto tale da essere un negatore di Dio e della sua presenza nella storia: «Lo stolto pensa: Non c’è Dio» (Salmo 14,1)

“ANNUNCIAMO CRISTO CROCIFISSO”

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“ANNUNCIAMO CRISTO CROCIFISSO”

Il brano di san Paolo dalla prima lettera ai corinzi parla di potenza e sapienza. Cristo crocifisso è entrambe. Cristo crocifisso è infatti sia potenza di Dio, a dispetto del fatto che scandalizza chi cerca miracoli (“scandalo per i giudei”), sia sapienza di Dio, a dispetto del fatto che venga disprezzato da chi cerca la sapienza umana (“stoltezza per i pagani”)…

III DOMENICA DI QUARESIMA
ANNUNCIARE
“Annunciamo Cristo crocifisso” 1Cor 1,22-25
Il brano di san Paolo dalla prima lettera ai corinzi parla di potenza e sapienza. Cristo crocifisso è entrambe. Cristo crocifisso è infatti sia potenza di Dio, a dispetto del fatto che scandalizza chi cerca miracoli (“scandalo per i giudei”), sia sapienza di Dio, a dispetto del fatto che venga disprezzato da chi cerca la sapienza umana (“stoltezza per i pagani”). Egli è vera potenza e vera sapienza, ma in un senso inaudito e scandaloso. L’attesa giudaica di potenza divina era fondata sull’evento della prima Pasqua avvenuta all’uscita dall’Egitto. La prima Pasqua fu accompagnata da segni e prodigi grandi: le dieci piaghe; l’aprirsi delle acque; terremoto, tuono e tempesta al Sinai. La “potenza di Dio” che è Cristo crocifisso non è così. Nessun prodigio pubblico. La croce è l’unico segno che Gesù ha voluto che fosse evidente alla storia. Né i miracoli, né la risurrezione volle che apparissero pubblicamente al mondo. Solo la croce, nella quale nessun prodigio appare. In Cristo crocifisso appare solamente un amore che non si ferma di fronte a niente. Il nostro amore di solito muore al primo sgarbo, alla prima offesa… In Cristo crocifisso appare un amore che non muore di fronte a niente: non muore di fronte al tradimento, né di fronte allo scherno, né di fronte alla crudeltà, né di fronte alla sofferenza, né di fronte alla morte. In Cristo crocifisso appare la potenza dell’Amore che non è ucciso da alcuna arma del maligno. Così “annunciare Cristo crocifisso” significa rivelare e attrarre gli uomini a questo amore. Questo annuncio è “potenza di Dio” perché lo Spirito opera in chiunque crede la salvezza, che è nel perdono dei peccati, e rende capaci di rispondere con lo stesso amore: amore umile e paziente, che non risponde al male col male, che non desiste dal servire nel bene i fratelli, che libera dal rancore, dall’odio e opera la riconciliazione… La vera potenza di Dio non è più dunque l’aprirsi prodigioso della acque del mare, ma l’aprirsi attraverso il costato aperto di Cristo crocifisso dell’amore di Dio per noi. Attraverso di Lui entriamo nella vera libertà dell’amore. Anche il concetto giudaico di sapienza è scaturito dall’evento della prima Pasqua.
Allora Israele ricevette al Sinai la Legge: “quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli”, Dt 4,6). Questa Legge è condensata nelle “dieci parole” che ascoltiamo nella prima lettura. La “sapienza di Dio” di cui parla san Paolo è invece Cristo crocifisso. La vera “sapienza di Dio” infatti non è osservare alla perfezione la Legge, cosa impossibile. I farisei avevano ipocritamente addomesticato la Legge riducendola a propria misura. Voler ‘mettersi a posto con Dio’ osservando i comandamenti, è come voler comprare il suo Amore, è come fare del luogo del nostro incontro con Dio, del Tempio, “un luogo di mercato”. In questo tempio corrotto portiamo i nostri meriti per comprare la Sua benevolenza. Questo modo di relazionarsi a Dio è la falsa sapienza che Gesù denuncia profeticamente nel Vangelo di questa domenica. Che figlio sarebbe, infatti, uno che dichiarasse di volersi comprare l’amore del papà o della mamma con i suoi servizi a loro? Non offenderebbe profondamente il loro amore gratuito per lui? Che cuore di figlio sarebbe? No, la vera “sapienza di Dio” è Cristo Crocifisso, ossia è riconoscere in Lui l’Amore del Padre. Amore che perdona e salva e, in forza di esso, in forza cioè dello Spirito, rispondere con un amore simile. È sapiente chi riconosce Cristo, Amore che perdona.

CELEBRARE
Noi ti rendiamo grazie!
«E’ veramente cosa buona e giusta, renderti grazie…» Con queste parole ha inizio il momento centrale e culminante dell’intera celebrazione eucaristica: la grande preghiera di azione di grazie e santificazione. Questa preghiera costituisce da una parte, il vertice di tutto il percorso rituale (dall’ingresso, all’ascolto, alla benedizione), dall’altro, conduce la celebrazione verso la sua consumazione: i riti di comunione.
É una preghiera antica, che nel corso dei secoli ha conosciuto una grande varietà di forme e di testi. Prima della riforma liturgia, nella liturgia eucaristica si proclamava il solo Canone Romano (la nostra attuale Preghiera eucaristica I) successivamente, grazie al lavoro prezioso dei padri della riforma, sono stati ripristinati alcuni testi antichi e create preghiere di nuova composizione. La preghiera eucaristica ha una struttura unitaria, che attraverso le diverse parti, ci fa percorrere il sentiero orante dalla lode, all’invocazione, alla narrazione, all’intercessione, alla glorificazione. È dunque il modello di ogni preghiera cristiana.
La preghiera si apre con il prefazio: è una preghiera di lode in cui Dio viene ringraziato per le meraviglie compiute nel corso della storia. Le sue opere vengono cantate con un linguaggio lirico e poetico, così da accendere nel cuore la gratitudine e la meraviglia. La preghiera di lode si fa poi, invocazione. Il Dio che ha compiuto gesta prodigiose, viene invocato, perché possa, per la potenza dello Spirito Santo, realizzare per noi la pasqua del Signore Gesù. La preghiera epicletica ci conduce nel cuore del mistero della Croce, ha infatti inizio subito dopo, il racconto dell’isituzione in cui la Chiesa ricorda le parole e i gesti compiuti da Gesù nell’Ultima Cena. Dopo aver acclamato, al mistero grande della fede, l’assemblea viene invitata a trasformare tutta la propria vita in un sacrificio gradito a Dio: l’offerta. Infatti così esplicitano le norme liturgiche: «La chiesa desidera che i fedeli non solo offrano la vittima immacolata, ma imparino ad offrire se stessi e così portino a compimento ogni giorno di più, per mezzo di Cristo Mediatore, la loro unione con Dio e con i fratelli, perché finalmente Dio sia tutto in tutti» (OGMR 79). Dopo aver offerto la nostra vita con quella di Cristo, come Gesù sulla Croce, la Chiesa innalza a Dio preghiere e suppliche, per i presenti e per i defunti.
La preghiera eucaristica si conclude con la dossologia, con cui Dio è glorificato per l’opera compiuta nel sacrificio della morte e risurrezione di Gesù.
La preghiera Eucaristica è modello di ogni preghiera cristiana, in essa possiamo trovare ispirazione e insegnamento: ringraziare, invocare, narrare, acclamare, intercedere, glorificare, solo questi i movimenti del cuore che conducono la chiesa a vivere con fede il sacrificio eucaristico.

TESTIMONIARE
Incontri lungo il cammino…
Ripenso spesso all’anno trascorso laggiù. E devo partire dall’inizio.
Quando sono arrivato, mi sono sentito un “diverso”. Questa percezione mi ha portato a impostare il lavoro con le persone che incontravo basandolo su una bussola che poi mi ha guidato in tutti i momenti di dubbio: la condivisione. Una scelta che con il passare delle settimane ha dato i suoi frutti, ed è stata ricambiata con fiducia e amicizia.
Così ho vissuto un’esperienza unica per scoprire me stesso, i miei limiti, la sfida della differenza.
Nei miei dodici mesi in Ruanda ho seguito, insieme ai componenti di un’équipe della diocesi locale e ad altri due caschi bianchi, l’inserimento scolastico dei bambini: duemila nella scuola primaria e trecento nella secondaria. Abbiamo dedicato particolare attenzione al recupero di ex ragazzi di strada. Ancora, ho partecipato all’avviamento al lavoro di alcuni giovani attraverso il microcredito: piccoli prestiti, da investire (e restituire quando l’attività si consolida) in botteghe di barbiere, meccanico, parrucchiera, sarta, per aprire un autolavaggio, comprare la moto e diventare mototassista.
Questa esperienza mi ha formato come persona e come cristiano.
Influenzerà positivamente e per sempre le mie scelte future.
Ma soprattutto mi ha insegnato una cosa sorprendente e incoraggiante al tempo stesso: si può lodare Dio e ringraziarlo con naturalezza e immediatezza, come fanno i ruandesi, anche quando si è tremendamente sofferto, come è accaduto nella loro storia recente.
Così ho capito, scoprendo che è come se il nostro vivere convulso ci portasse a un rapporto con Dio più contorto e conflittuale, ciò che noi davvero rischiamo di perdere…

Un giovane “casco bianco” in Rwanda

… verso una vita nuova
Incontrare persone che escono da una terribile esperienza di guerra e imparare proprio da loro la lode a Dio, la speranza, la voglia di ricominciare…
È un’iniezione di fiducia nel nostro mondo che sembra perdere tutti questi valori, nonostante siamo ancora dei privilegiati. Il “Cristo crocifisso” che predichiamo sarà glorificato nella resurrezione.
Cerchiamo nella nostra vita personale e di gruppo occasioni per superare conflitti e ricostruire, insieme, una nuova vita.

PREGHIERA INTORNO ALLA MENSA
Noi annunciamo Cristo crocifisso, potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini. (1Cor 1,24-25).

(Teologo Borèl) Marzo 2009 – autore: Conferenza Episcopale Italiana

Christian means little Christ

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Publié dans:immagini sacre |on 28 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

LA CROCE DI CRISTO RIVELA L’AMORE DI DIO PER IL MONDO

http://www.collevalenza.it/CeSAM/08_CeSAM_0168.htm

LA CROCE DI CRISTO RIVELA L’AMORE DI DIO PER IL MONDO

Gennadios Zervos*

Se l’uomo di oggi vedrà con serenità e senza complessi la Croce di Cristo, scoprirà veramente l’ineffabile amore di Dio Trino; scoprirà che, grazie a questo amore divino, la croce di Cristo rivela a lui, in modo meraviglioso, l’acquisto della sua libertà, della sua salvezza, della sua unità con Dio.
La croce di Cristo è il mistero della divina filantropia, il pegno della divina pietà e salvezza, la più terrena e tangibile immagine della Croce celeste dell’amore[1].
In realtà è la più genuina, amorosa risposta di Dio alla pazzia dell’uomo, il quale, peccando, ha scelto da sé stesso la più pesante condanna: la morte.
La croce rivela e afferma che l’uomo è nato soltanto per desiderio dell’amore del Dio Trino e si salva nella passione del suo amore soprannaturale.
La Chiesa Ortodossa particolarmente durante la Quaresima Pasquale, dedica una settimana proprio per la venerazione della Croce[2] per far capire ai suoi fedeli-membri, due cose amabili:
1) Senza la Crocifissione è impossibile incontrare Cristo, Crocifisso e Risorto per il suo amore verso l’uomo.
2) Incoraggiare con fedeltà gli ortodossi e assicurare loro che la Crocifissione è “una morte vivificante di amore” ed “una Resurrezione che ha la forma della Croce”, la quale ha come inizio e fine l’amore del Dio Trino.
La Croce di Cristo, nella quale abbiamo la più potente rivelazione dell’amore divino, ed ancora abbiamo la più grande e la più sacra rivelazione del sacramento dell’amore, è il mistero della invincibile debolezza di Dio verso la sua prediletta creatura, l’uomo. Dio è invincibile nella sua debolezza del suo amore, il quale sulla Croce si rivela come il più vero ed unico compimento, come la più vera ed unica manifestazione di amore verso l’umanità.
Mentre sulla Croce di Cristo si rivela l’ineffabile amore di Dio, il quale, come è stato detto prima, è per l’uomo libertà, salvezza, unità e resurrezione, Dio su questo sacro legno della Croce scopre sé stesso come “Dio debole e abbandonato”.
Certamente su questa soprannaturale verità della rivelazione dell’amore di Dio per l’interesse morale e spirituale dell’uomo ed in genere per la sua salvezza, la Croce si presenta nel mondo da una parte come “follia” e “scandalo” e dall’altra come “sapienza” e “potenza”[3].
Dal punto di vista umano sotto il primo aspetto è una cosa paradossale; è una forte tentazione. Sotto il secondo aspetto è una vera testimonianza, della potenza dell’amore del Dio Trino, il quale cancella ogni oscurità, apre nuove uscite e dà la grandiosa speranza per vincere ogni ostacolo mortale ed ogni difficoltà del mondo che portano alla disperazione e alla distruzione.
L’impeccabile amore divino sulla croce libera l’uomo dalla schiavitù di satana e vince il principe della morte; vincendo con la sua filantropa sapienza il dolore e la povertà, la schiavitù e la mortalità; trasforma l’universo[4] e dona la salvezza soltanto con Cristo: «Siamo salvati non per mezzo della legge, ma per mezzo della divina compassione»; «il regno dei cieli non è la ricompensa delle nostre opere, ma la grazia del Signore preparata per i servi fedeli”[5], i quali in seguito diventano figli.
Da questo momento comincia per l’uomo una nuova vita, caratterizzata dai suoi eterni frutti: vittoria, gioia, resurrezione, immortalità, esultanza pasquale ed eternità.
Così la croce non è più il simbolo della condanna e della morte, ma il simbolo della grazia e della vita, non è più il legno della sofferenza, ma l’albero dell’immortalità, non è più lo strumento dell’infamia ma il segno della gloria; non è più disperazione e sconfitta, ma è speranza e forza; non è più causa di lutto, ma fonte della consolazione pasquale per vivere in eternità; “E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato”[6]. Perciò la santa Croce viene celebrata inseparatamente con la Resurrezione nel mistero della Divina Economia.
I cori Bizantini della Chiesa Ortodossa cantano durante la terza settimana della Quaresima Pasquale: “Venite ad adorare l’amore della nostra vita… la Croce di Cristo, nostro Dio, per cui la morte è stata colpita… per noi volontariamente ha sofferto tutto per salvare il mondo”.
Un altro antico inno della Chiesa Ortodossa, che si canta nella terza Domenica della Quaresima Pasquale, dice: “Cristo, il Re della gloria che volontariamente stese le mani (sulla croce) ci ha esaltati fino all’originaria beatitudine: noi ce (eravamo stati) conquistati all’inizio dal nemico per mezzo del piacere, il quale ci ha esiliati da Dio”[7].
“Vediamo oggi compiersi un tremendo e straordinario mistero! L’inafferrabile viene arrestato; colui che libera Adamo dalla maledizione viene legato; colui che scruta i cuori e i nervi ingiustamente è sottoposto ad inchiesta. E’ chiuso in prigione colui che chiude l’abisso. Compare davanti a Pilato colui davanti al quale stanno tremanti le potenze celesti. Il creatore è schiaffeggiato dalla mano della creatura. E’ condannato al legno colui che giudica i vivi e i morti. Viene chiuso nel sepolcro lo sterminatore dell’Ade. Gloria a te, Signore, paziente che sopporti tutto con amore per salvare tutti dalla maledizione”[8].
S. Giovanni Damasceno insegna che “ogni azione e ogni miracolo di Cristo è divino e meraviglioso, però il più meraviglioso di tutti è la sua Croce; perché nessun‘altra cosa ha domato la morte, ha espiato la prima coppia, ha spogliato l’Ade, ha portato la resurrezione, ha donato la forza di vincere la stessa morte, ha preparato il nostro ritorno alla primiera benedizione, ha aperto la porta del paradiso, ha messo la nostra natura a sedersi alla destra di Dio e ci ha fatto suoi figli, quanto la Croce del nostro Signore Gesù Cristo”[9].
Infatti la pienezza della rivelazione della Croce che è la rivelazione dell’amore di Dio nel mondo per l’uomo consiste nel fatto che sul legno non è stata crocifissa una qualsiasi persona, un uomo innocente, ma il “Re della Gloria”, il Dio dell’amore e della salvezza.
Il vescovo Ilia Miniatis, grande predicatore durante i tempi della schiavitù turca, dice: «Il mondo ha visto due cose straordinarie e curiose: un Dio che è diventato uomo e questo stesso Dio e Uomo che si è innalzato sulla croce per la salvezza dell’uomo».
La Croce da una parte, secondo S. Giovanni Crisostomo è l’”inizio della salvezza dell’uomo”, “causa di innumerevoli beni”[10], perché “salvò e trasformò il mondo, scacciò l’errore, introdusse la verità, cambiò la terra in cielo, fece gli uomini angeli”[11]. E dall’altra parte secondo S. Cirillo di Gerusalemme “ogni opera di Cristo è gloria della Chiesa universale, ma gloria delle glorie è la Croce”[12] rivelando (essa) nel mondo il suo infinito amore per l’uomo, riconcilia di conseguenza l’amore con l’immortalità che possedeva l’uomo prima della sua caduta nel peccato e l’immortalità con la vita, che sono frutti eterni, doni divini, dati dal Dio Trino all’uomo salvato.
Desidero chiudere questo nostro incontro, questa nostra conversazione con quei filantropi e amorosi detti del Grande Martire della salvezza dell’umanità, con gli ultimi sette sapienti discorsi d’amore, benché il maggior tempo del suo martirio sulla croce l’ha passato in silenzio, discorsi detti da Lui che “non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca”[13].
Questi ultimi sacri discorsi dell’amore crocifisso sono in verità un testamento autentico, una ricapitolazione della dottrina del Salvatore dell’umanità; è la più profonda e la più grande espressione e manifestazione dell’amore di Dio verso l’umanità; è il corollario dell’amore di Dio che si rivela nel mondo.
l regno”[16].
3) “Donna, ecco il tuo Figlio!” – “Ecco la tua Madre”[17].
Cristo sulla Croce considerando sé stesso abbandonato da Dio-Padre, nella solitudine della sua Passione, dimenticando sé stesso, non avendo nessun altro aiuto, rivolge i suoi pensieri agli altri. Quando l’hanno crocifisso, lui era mediatore per i suoi crocifissori. Quando lo rimproveravano, lui dava promessa al ladro riconoscente. Quando era l’ora di consegnare il suo spirito dimentica il suo dolore, la sua sofferenza e pensa con amore particolarmente a sua madre.
4) “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”[18].
Senz’altro questo meraviglioso discorso racchiude in sé un oceano intero di teologia.
Anche con questo discorso la croce rivela in verità l’amore ineffabile di Dio verso la sua creatura.
Cristo sulla Croce soffre per i peccati dell’uomo e per salvare l’uomo è diventato “maledizione”. E’ possibile dimenticare questo sacrificio di amore genuino?
5) “Ho sete”[19].
La croce rivela anche questa volta questo amore superumano: il Crocifisso ha sete per la salvezza dei suoi crocifissori, per la diffusione del vangelo, per l’unità dell’umanità.
6) “Tutto è compiuto”[20], in greco: “Tetélestai”.
Il tremendo martirio con le diverse sofferenze si è compiuto. Però con il compimento del martirio e la fine della sua salvifica missione è stato sconfitto satana, e il sangue di Cristo ha purificato l’uomo e l’ha fatto diventare figlio di Dio, donando la salvezza.
7) “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito”[21].
Questo discorso è una voce trionfale, piena di amore infinito, da una parte, verso il Padre, perché “mostra che l’anima del Signore gode di nuovo della paterna comunione e serenità”[22], compiendo così la grandissima opera della volontà di Dio e dall’altra parte verso l’uomo, perché quando prima Cristo, invocando il Padre, diceva: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato” mostrandosi così come “garante, pagando il debito[23] dell’uomo, ha inizio la Redenzione, il glorioso preludio della Resurrezione che vince sul peccato e sulla morte e dona all’uomo la vita. Così come canta la Chiesa Ortodossa: “Cristo è risorto dai morti, calpestando la morte con la morte e donando la vita ai morti nei sepolcri”[24]; “Festeggiamo la morte della morte, la distruzione dell’Ade, l’inizio della vita diversa, eterna, e con esultanza inneggiamo a Colui che ne è la causa, l’unico Dio benedetto dai Padri e glorificato”[25]; “Venite nel lieto giorno della Resurrezione a partecipare vivamente al frutto della vite, alla divina esultanza, al regno di Cristo, inneggiando a lui, Dio nei secoli”[26].
Con questo ultimo discorso che è soltanto una frase in cui abbiamo la pienezza dell’amore divino ed ancora un capolavoro modello di preghiera e di comunione con Dio, la croce di Cristo che in verità rivela al mondo l’amore e la verità, la speranza e la pace, la salvezza e l’eternità, oggi si presenta nel mondo come una contestazione permanente all’anormale situazione dei cristiani ancora divisi.
Però nello stesso tempo è un appello potente, senz’altro l’unico alla ricomposizione della piena unità. E’ un appello continuo a portare ai popoli l’annuncio della riconciliazione, della pace, dell’amore e dell’unità, opera di Cristo per mezzo della sua Croce.
Un uomo spirituale induista, in una conversazione privata, confessava ad un Arcivescovo Ortodosso che Cristo Crocifisso, dal punto di vista della sua religione, era la verità più forte del cristianesimo. Se i fedeli delle varie Chiese, diceva e, perché no, delle varie religioni venissero a scambiare le loro riflessioni ai piedi della croce, allora forse si incontrerebbero sull’essenziale per il bene, la pace, l’amore e l’unità del mondo.
E’ cosa buona che la Cristianità divisa, vivendo oggi la tragedia della separazione, ma anche la necessità di superare quest’anormale situazione nel seno della Chiesa di Cristo, approfondisca il senso spirituale della Croce, la quale costituisce l’unico inizio, il vero mezzo ed il fine principale per realizzare la volontà di Dio: “Che tutti siano una sola cosa”.

* Omelia di Zervos S.E. Mons. Gennadios, vescovo ortodosso di Kratias, nella celebrazione ecumenica, commentando: Is. 49, 14-16; Sal 102; Rom. 5, 6-11; Gv. 3, 14-17

NOTE SUL SITO

LA VITA NUOVA NASCE DA UNO SGUARDO CHE SALVA-GUARDA

http://www.zenit.org/it/articles/la-vita-nuova-nasce-da-uno-sguardo-che-salva-guarda

LA VITA NUOVA NASCE DA UNO SGUARDO CHE SALVA-GUARDA

Invito alla lettura di « Un Dio umano »

Roma, 13 Novembre 2013 (ZENIT.org)

«Una delle verità capitali del cristianesimo, oggi particolarmente misconosciuta da tutti, sta nel fatto che è lo sguardo a salvare», quest’affermazione della filosofa ebrea Simone Weil che capta una dimensione essenziale del cristianesimo costituisce anche uno dei leitmotiv della riflessione del nostro collega a Zenit Robert Cheaib nel suo nuovo libro Un Dio umano. Primi passi nella fede cristiana. Il principio-amore che costituisce l’essenza del cristianesimo si traduce in uno sguardo che non condanna ma che salva-guarda e la salvezza è anche l’esperienza di un’anima che riesce a sollevare lo sguardo a risorgere verso la dignità dei figli di Dio. Nelle parole di Simone Weil: «Lo sforzo attraverso il quale l’anima si salva somiglia a quello per mezzo del quale si guarda, per mezzo del quale si ascolta, per mezzo del quale una fidanzata dice di sì. È un atto di attenzione e di consenso». Di seguito un piccolo assaggio del libro.

* * *
Nella vita quotidiana ci sfioriamo con gli sguardi. Ci fissiamo per prepotenza, manteniamo lo sguardo per cortesia o ci perdiamo negli occhi dell’altro per amore. Lo sguardo è una meraviglia misteriosa. Quando guardi chi ti guarda, ti rendi conto che non dovresti trattare l’altro come un oggetto. L’altro è una presenza, è un «tu». Lo sguardo, però, può essere indiscreto, un giudizio ancor più spietato delle parole.
Ciò che vale per le persone si applica anche alla nostra percezione dello sguardo di Dio. Jean-Paul Sartre, un filosofo esistenzialista ateo, racconta che, una volta, nella sua infanzia, mentre stava giocando con i fiammiferi ha bruciato un piccolo tappeto. In quell’istante, mentre cercava di nascondere le tracce del delitto, ha sentito «lo sguardo di Dio all’interno della sua testa e sulle sue mani». Era «orribilmente visibile» agli occhi di quel Dio. Sartre si è infuriato contro tale «indiscrezione» e ha bestemmiato e da allora, racconta: «Dio non m’ha più guardato». Non c’è da meravigliarsi se quell’uomo è diventato ateo! Uno sguardo onnipresente di questa aggressività è insostenibile, è diabolico! Non è affatto questo lo sguardo di Dio nei vangeli.
Nella pericope di Gv 1,35-51 c’è una grande intensità di sguardi: il Battista «fissa lo sguardo su Gesù» e i due discepoli sono chiamati a venire e vedere. Ma lo sguardo che conta e che non solo guarda ma salva-guarda è quello di Gesù. È lo sguardo luminoso che illumina i vari incontri. Il climax di questo gioco di sguardi è l’incontro con Natanaele.
Filippo – uomo semplice ed entusiasta – annuncia all’amico Natanaele: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazaret!». Natanaele, l’intellettuale, coglie la palla al balzo per mostrarsi saccente: «Da Nazaret può venire qualcosa di buono?». «Vieni e vedi!». Natanaele viene a vedere Gesù, non per curiosità, né per convinzione, ma per sfida, come se dicesse a Filippo: «Vengo, vedo e vinco il tuo abbaglio». Gesù, intanto, vede Natanaele ed elogia la sua integrità. Ma questi, diffidente, replica: «Come mi conosci?». Gesù risponde: «Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto sotto l’albero di fichi».
La risposta suscita in Natanaele una reazione a prima vista esagerata. Lo scettico saccente, infatti, confessa la divinità di Gesù: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re di Israele!». Cosa è successo?
È difficile compenetrare fino in fondo il valore di quest’esperienza; è certo però che la frase di Gesù non è stata una localizzazione spazio-temporale. Gesù ha visto Natanaele nella sua essenza, nella sua dimora spirituale, come persona assetata della verità, come uomo in cammino (homo viator), un cuore giovane che cerca il volto di Dio.
Il midrash Rabbah racconta che a volte i rabbini insegnavano e studiavano sotto un albero di fichi. Natanaele stava forse gustando la parola di Dio, stava cercando lo sguardo di Dio, la sua visuale, la sua visione. Ed ecco che si scopre cercato prima di essere cercatore, visto con amore prima di vedere.
Gesù coglie e accoglie questo desiderio, questa passione divina in Natanaele. Da qui possiamo immaginare lo sguardo di Gesù. Non uno sguardo scrutatore di fredda curiosità, o di giudizio e condanna, ma lo sguardo che salva-guarda. Il salmista ci insegna che Dio ci guarda, scruta e conosce, ci vede con amore mentre ancora siamo informi, trasformandoci in una meraviglia stupenda (cf. Sal 139). Quello sguardo divino, Natanaele l’ha visto negli occhi di Gesù.
Quando qualcuno ci avvolge con uno sguardo caldo, la nostra vita è visitata, siamo improvvisamente strappati dall’anonimato e dalla solitudine esistenziale. Agli occhi di Gesù si applica in modo eccellente ciò che dice il filosofo francese Jean-Louis Chrétien: «L’ascolto è più congeniale allo sguardo dell’udito». Gesù ascolta, accoglie e ama con i suoi occhi. Lo sguardo di Gesù trasmette, guarda dentro e ama; così nell’episodio del giovane ricco: «Gesù lo guardò dentro e lo amò» (emblepsas autō ēgapēsen auton) (Mc 10,21).
Giacomo Biffi osserva che l’esistenza di Pietro è segnata da due sguardi trasformanti. Il primo risale al primo incontro con Gesù, il quale, «fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa che significa Pietro”» (Gv 1,42). Il secondo sguardo è dopo il triplice rinnegamento di essere discepolo di Gesù e il canto del gallo, quando «il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro… uscito fuori, pianse amaramente» (Lc 22,61-62).
Non è facile sostenere lo sguardo, soprattutto quello di Dio. Abbiamo troppi pregiudizi inculcati dagli ammonimenti dell’infanzia e dalla voce del serpente che sussurra nel giardino di ogni cuore parole di diffidenza nei confronti di Dio: l’abbiamo visto in Sartre che afferma che lo sguardo dell’altro ferisce, è pericoloso, uccide.
Il vangelo, però, è la «buona notizia» sullo sguardo misericordioso di Dio. Thérèse di Lisieux, che ha colto lo sguardo di Dio nella sua verità, ebbe a dire in un suo poema intitolato Mon Ciel à moi: «Lo sguardo del mio Dio, il suo splendido sorriso. Ecco il mio Cielo!». Da qui si capisce quel che Balthasar scrive: «La santità consiste nel tollerare lo sguardo di Dio».

Non è facile lasciarsi guardare, lasciarsi amare soprattutto laddove noi stessi non riusciamo a guardarci e amarci. A volte ci capita di essere elogiati da qualcuno per qualità che non vediamo in noi stessi. In quei momenti, siamo attraversati da due sentimenti contrastanti: siamo contenti di essere amati e apprezzati, ma, al contempo, serpeggia dentro di noi un senso di tristezza che ci spiffera cinicamente: «Se ti conoscesse veramente, non penserebbe questo di te».
Gesù conosce nel profondo Natanaele, conosce ognuno di noi, ci guarda come quel giovane del vangelo e ci ama. Lui è fatto così: non ci ama perché siamo degni, ma ci rende degni perché ci ama.
A Gesù si applicano in modo pieno le parole sull’amore di Jean Vanier, il fondatore della comunità L’arche che si occupa dei disabili mentali: «Amare qualcuno è rivelargli la sua bellezza».
Gesù guarda l’uomo e il suo sguardo creatore effonde in lui la bellezza originaria e originale di Dio. Lo sguardo di Gesù restaura l’immagine ferita di Dio.
Se il cuore è pronto, basta solo uno sguardo d’amore per risorgere.

(13 Novembre 2013) © Innovative Media Inc.

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Publié dans:immagini sacre |on 27 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

IN COSA CONSISTE LA FELICITÀ DELL’UOMO – S. AMBROGIO – PREGHIERA

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20010605_ambrogio_it.html

IN COSA CONSISTE LA FELICITÀ DELL’UOMO – S. AMBROGIO – PREGHIERA

I. 1. « Nel libro precedente abbiamo trattato dei doveri che giudicavamo attinenti all’onestà, nella quale nessuno ha mai dubitato sia posta la vita felice che la Scrittura chiama vita eterna. Lo splendore dell’onestà è così grande che la tranquillità della coscienza e la certezza d’ essere senza colpa, che ne conseguono, rendono felice la vita. Come il sole, una volta sorto, nasconde il globo lunare e la luce delle altre stelle, così il fulgore dell’onestà, quando brilla di una bellezza autentica ed incorrotta, oscura tutte le altre cose che, secondo il piacere dei sensi, sono ritenute buone o, secondo il giudizio del mondo, sono stimate motivo di onore e di gloria.
2. Certamente felice è tale vita che non si valuta secondo i giudizi altrui, ma con autonomo giudizio si intuisce per mezzo del proprio sentimento interiore. Non cercando giudizi popolari come ricompensa ne temendoli come pena, quanto meno segue la gloria, tanto più si eleva sopra di essa. Coloro infatti che cercano la gloria, ottengono, quale ombra dei beni futuri, una tale ricompensa di beni presenti che è di ostacolo alla vita eterna, perché nel Vangelo sta scritto: In verità vi dico, hanno ricevuto la loro ricompensa. Ciò si dice evidentemente, di coloro che sono smaniosi di divulgare, quasi a suon di tromba, la loro generosità verso i poveri. Similmente è detto di coloro che digiunano per ostentazione: Hanno ricevuto la loro ricompensa.
3. È proprio dell’onestà, dunque, o esercitare la misericordia o digiunare in segreto, perché appaia che si cerca la ricompensa unicamente da Dio, non anche dagli uomini. Chi la vuole dagli uomini, ha già la sua ricompensa; chi la chiede a Dio, ha la vita eterna che può esserci data unicamente dal Creatore dell’eternità, come afferma il ben noto passo: In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso. Con maggior chiarezza, la Scrittura chiamò vita eterna la vita felice, per non lasciarne la valutazione ai giudizi degli uomini, ma per affidarla invece al giudizio di Dio.
II. 4. I filosofi posero la felicità, alcuni nell’assenza del dolore, come Ieronimo, altri nella scienza, come Erillo, il quale, sentendola lodare mirabilmente da Aristotele e da Teofrasto, la considerò sommo bene, mentre essi la esaltarono come un bene, non come l’unico bene. Altri la dissero piacere, come Epicuro, altri, come Callifonte e, dopo di lui, Diodoro, la intesero così da aggiungere l’uno al piacere, l’altro all’assenza di dolore la partecipazione dell’onestà, pensando che senza di questa non possa esistere vita felice. Zenone Stoico affermò che il solo e sommo bene consiste nell’onestà; Aristotele, invece, e Teofrasto e gli altri peripatetici sostennero che la felicità consiste bensì nella virtù, cioè nell’onestà, ma che la felicità di questa è resa completa anche dai beni del corpo e da quelli esteriori.
5. La Scrittura divina invece pose la vita eterna nella conoscenza di Dio e nel premio delle opere buone. Di entrambe le affermazioni abbiamo la testimonianza evangelica. Così disse il Signore della conoscenza di Dio: Questa è la vita eterna, che conoscano te solo vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo. E a proposito delle opere così rispose: Ognuno che lascerà la casa e i fratelli o le sorelle o il padre o la madre o i figli o i campi per il mio nome, riceverà il centuplo e possiederà la vita eterna. « 

S. AMBROGIO, I doveri, II, I [1-3] – II [4-5].

Preghiera
Ti supplico, Signore,
dammi la felicità da sempre cercata,
struggente desiderio,
inappagato sogno.

Felicità che è pace del cuore,
frutto di vita onesta,
sguardo misericorde sul cosmo.

Felicità che è gioia della conoscenza,
disvelamento saporoso del mistero,
cammino senza inciampo verso la pienezza.

Felicità che è bellezza,
armonia delle forme,
inebriante cascata di luce.

Felicità che è amore corrisposto,
riposo dell’amante nell’amato,
ebbrezza reciproca,
parola divenuta silenzio,
silenzio mutato in verginale sguardo.

Ma, Signore,
se tu sei la Pace,
se tu, la Sapienza,
se tu, la Bellezza,
se tu, l’Amore,
perché cerco la felicità fuori di te?
e se tu sei in me,
perché la cerco fuori di me?

Ti supplico, Signore,
manifestati a me tu che vivi in me:
la tua pace inondi il mio cuore,
lo rallegri la tua luminosa sapienza,
lo diletti la tua trasparente bellezza,
arda del tuo amore, che placa e consuma.

Manifestati a me tu che vivi in me:
perché comprenda che tu sei la sola Felicità,
posseduta fin d’ora,
seme immarcescibile che fiorirà nei secoli senza confini.

ADAMUS, episc. Jennesis
sec. XII

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