Archive pour juillet, 2015

ISAIA 49,14-15 – TESTO E COMMENTO

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Isaia%2049,14-15

ISAIA 49,14-15

14 Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato,  il Signore mi ha dimenticato». 15 Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo grembo.  Anche se vi fosse una donna che si dimenticasse,  io invece non ti dimenticherò mai.  

COMMENTO Isaia 49,14-15

UN AMORE MATERNO INDEFETTIBILE

La seconda parte del libro di Isaia (Is 40-55), chiamata anche Deuteroisaia, si distacca nettamente dalla precedente in quanto non si situa nel periodo storico in cui è vissuto il profeta ma contiene una serie di oracoli rivolti ai giudei esuli in Mesopotamia per annunziare loro il ritorno nella loro terra. Il libro si apre con il lieto annunzio del ritorno (40,1-11) e termina con un poema sulla parola di Dio (55,1-13). Il corpo del libro contiene una serie di oracoli in cui manca un chiaro sviluppo tematico, ma possono dividersi in due blocchi, quelli composti prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12 – 48,22) e quelli che invece hanno visto la luce dopo questo evento (Is 49,1 – 54,17). Il brano liturgico si situa all’inizio della seconda parte, dopo il secondo carme del Servo di JHWH (49,1-6) e una piccola collezione di oracoli riguardanti il ritorno (49,7-13) ed è seguito da una raccolta di oracoli che hanno come tema la salvezza (49,16-26). Sullo sfondo si coglie il tema dello scoraggiamento, al quale il profeta invita a reagire prospettando un avvenire radioso. Lo scoraggiamento del popolo appare subito all’inizio del brano liturgico: «Sion ha detto: Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato» (v. 14). Il termine «Sion» indica una località geografica, cioè il monte su cui è costruito il tempio di Gerusalemme, ma al tempo stesso designa la nazione giudaica e i suoi membri. Il contesto del Deuteroisaia porta a supporre che lo scoraggiamento derivi dal prolungarsi dell’esilio babilonese, a causa del quale la terra di Israele è rimasta priva dei suoi abitanti e abbandonata alla desolazione. Questa situazione provoca una crisi di fede circa il rapporto strettissimo che unisce Israele al suo Dio. Il dubbio è che non soltanto Dio abbia castigato il suo popolo permettendo che cadesse sotto il dominio straniero, ma che addirittura la abbia abbandonato a se stesso e si sia dimenticato di lui. Per coloro a cui si rivolge il profeta ciò che fa problema non è tanto la sofferenza dell’esilio ma la lontananza di Dio e la rottura del legame che li unisce a lui.

Alla triste constatazione degli esuli il profeta risponde con una domanda: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?» (v. 15a). È chiaro che si tratta di una domanda retorica. Essa si rifà al fatto che spesso nella Bibbia l’alleanza tra Dio e il suo popolo è rappresentata come un rapporto tra un padre, descritto con tratti chiaramente materni, e il proprio figlio (cfr. Is 54,8; Os 11,8; Ger 31,20; Sal 103,8; Es 34,6-7). Qui invece è la madre stessa che viene presa come esempio del comportamento di Dio. Il suo atteggiamento nei confronti del figlio viene espresso con il verbo «commuoversi» (dalla radice rhm) che rievoca il seno materno, simbolo dell’amore speciale che lega una donna al suo bambino. Può darsi che una madre dimentichi il proprio figlio, ma sarebbe una eventualità fuori dell’ordinario, che non è facilmente immaginabile, e quindi non dovrebbe essere neppure presa in considerazione. Alla domanda retorica viene data questa risposta: «Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (v. 15b). Anche se nell’ambito umano si può verificare il caso limite di una madre che dimentica il suo figlio, il Signore non dimenticherà mai il suo popolo. Proprio perché dipende da una decisione irrevocabile di JHWH, l’alleanza non può essere rotta, e di conseguenza l’amore che lo ha spinto a scegliere Israele come suo popolo non potrà mai venire meno. Questo amore indefettibile di Dio deve essere la luce che guida Israele nel difficile compito che lo attende, quello cioè del ritorno nella terra promessa e della sua rinascita come comunità che attesta nel mondo l’amore di Dio per tutti.

Linee interpretative In questi due versetti è contenuta una delle espressioni più belle e significative dell’esperienza religiosa di Israele. L’intuizione che sta alla base del messaggio biblico è quella di un Dio che va alla ricerca di un popolo, lo libera e lo unisce a sé in un rapporto d’amore. Quello che è dipinto in questa visione religiosa non è un Dio che si impone con la sua potenza infinita ed esige un’obbedienza servile alla sua legge, ma un Dio che interviene in forza di un amore tenero e materno. In questa prospettiva anche la sofferenza, presentata spesso come un castigo, si trasforma in una prova il cui scopo è quello di rendere più autentica la risposta del popolo, che non può essere se non quella dell’amore. Solo la fede in un Dio amore rende possibile l’impegno per un mondo migliore, in cui predomini la fraternità e la solidarietà. Il fatto che l’amore di Dio si concentri su Israele non deve fare dimenticare che il piano divino abbraccia tutta l’umanità. Dio ama un popolo particolare non per fare di esso un privilegiato, ma per renderlo testimone del suo amore per tutti. In questa prospettiva i rapporti di Dio con Israele sono una pedagogia con la quale si vuole mettere in luce una volontà salvifica universale. Dio è veramente tale se riserva a tutti lo stesso amore. Ciò che Israele ha sperimentato nella storia vale in chiave escatologica per tutta l’umanità. Non per nulla proprio al ritorno dall’esilio viene elaborata l’immagine, più usata precedentemente (cfr. Is 2,1-5), del pellegrinaggio escatologico di tutte le nazioni al monte Sion (cfr. Is 60-62). È questo il messaggio che sarà ripreso da Gesù, per il quale l’amore paterno/materno di Dio diventa il lieto annunzio per il quale egli dona tutto se stesso.

I SALMI CON RAVASI E «GIACOMINO»

http://www.toscanaoggi.it/Vita-Chiesa/I-salmi-con-Ravasi-e-Giacomino

I SALMI CON RAVASI E «GIACOMINO»

«La preghiera è pensare al senso della vita, e il pensare non è altro che ringraziare». È con queste parole che monsignor Gianfranco Ravasi ha dato inizio, lo scorso 10 aprile nella Basilica di San Miniato al Monte, alla sua lezione su «Una vita in compagnia dei salmi», inaugurando così il convegno organizzato dall’Associazione Biblia e dall’Ufficio Catechistico Diocesano «Salmi e cantici della Bibbia», davanti ad una folla di persone interessate e curiose di ascoltare dal vivo una delle voci più autorevoli nel campo dell’esegesi biblica.
DI JACOPO MASINI

Parole chiave: bibbia (114)
I salmi con Ravasi e «Giacomino»
16/04/2008 di Archivio Notizie

di Jacopo Masini

«La preghiera è pensare al senso della vita, e il pensare non è altro che ringraziare». È con queste parole che monsignor Gianfranco Ravasi ha dato inizio, lo scorso 10 aprile nella Basilica di San Miniato al Monte, alla sua lezione su «Una vita in compagnia dei salmi», inaugurando così il convegno organizzato dall’Associazione Biblia e dall’Ufficio Catechistico Diocesano «Salmi e cantici della Bibbia», davanti ad una folla di persone interessate e curiose di ascoltare dal vivo una delle voci più autorevoli nel campo dell’esegesi biblica.
«La mia vita, il mio percorso intellettuale e spirituale è stato dettato dal camminare assieme ai salmi, alla lode e all’invocazione che in un simile testo si alternano con un’armonia senza pari», ha raccontato Ravasi, facendo accenno proprio a quanto nei salmi si fondano e si compenetrino «poesia e pensiero, fede e ragione. La Bibbia non è soltanto un libro storico e dunque un documento insostituibile per la ricerca scientifica – ha proseguito il Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura – ma è anche un libro di preghiere che Dio ha ispirato nel cuore dell’uomo perché siano rivolte a Lui stesso. L’uomo interroga Dio e Dio risponde suscitando risposte e ulteriori domande in un continuo scambio di significati, di suggestioni profonde, di sguardi in cui è l’amore ad essere il grande protagonista».
Un canale di comunicazione, uno strumento fondamentale di relazione con il divino che cerca l’uomo, un mezzo privilegiato di introspezione e di dialogo con il Creatore. «Se lo schema e la struttura del salmo ne costituiscono lo scheletro, è l’analisi letteraria, con tutti i suoi infiniti e inesauribili simbolismi, ad essere la carne viva di un testo così denso di ispirazione e di teologia», ha spiegato Ravasi.
La fisicità della preghiera, la descrizione del gusto e della corporeità dell’orazione. Altri temi che il relatore ha voluto soltanto sfiorare con delicatezza, semplicità e accessibilità di linguaggio. «La fame e la sete sono riferimenti continui nei salmi, metafore di un desiderio insaziabile dell’uomo nei confronti di Dio, un Dio che penetra col suo sguardo il grembo della madre per conoscere tutto dell’uomo ancor prima che nasca».
Una lezione che si è tramutata in un momento stesso di preghiera per i molti che seguivano incantati le riflessioni e le immagini proposte dal Vescovo: «Custodiscimi come pupilla degli occhi canta il salmo 16, in cui l’uomo è innalzato alla dignità dello sguardo di Dio, eredità finale dell’uomo stesso, porto sicuro a cui la vita di ogni uomo approda alla fine del viaggio».
Alle parole di Mons. Ravasi ha fatto eco la testimonianza di Giacomo Poretti, il popolare attore del trio «Aldo Giovanni e Giacomo», che si è esibito nella lettura di alcuni salmi, non prima di aver ceduto il passo al racconto di che cosa sia stata e sia ancora la preghiera nella sua vita. «Quand’ero piccolo pregavo Dio per chiedergli tante cose, soprattutto di diventare alto», ha detto l’artista, ripercorrendo con semplicità ed ironica schiettezza le fasi del proprio percorso di credente, per poi concludere con un originale dialogo fra sé e Dio: «A proposito Giacomo – chiede Dio – volevi diventare alto oppure grande?». Racconti di episodi, il ricordo della famiglia credente che lo aveva educato alla preghiera, il rapporto difficile negli anni dell’adolescenza e la riscoperta durante l’età più adulta: «Quando si ammalò una cara amica di famiglia, e purtroppo senza possibilità di guarigione, mi resi conto che sarebbe stato più importante chiedere che la persona non avesse paura. Fu ciò che accadde e capii che Dio voleva realizzare grandi cose grazie all’aiuto e alla preghiera degli uomini».
————————

Due testimonianze diverse eppure così affini hanno portato tutte le persone, in gran parte laici, che si sono strette nella Basilica ad immergersi nella bellezza e nell’intensità di un messaggio di spiritualità non solo letterario ma anche concreto. «Un’occasione – ha detto lo stesso Ravasi – per sentirmi ancor più legato alla città di Firenze».

 

Sinagoga di Roma, dal Teatro Marcello

Sinagoga di Roma, dal Teatro Marcello dans immagini sacre 800px-Roma-sinagoga

https://it.wikipedia.org/wiki/Tempio_Maggiore_di_Roma#/media/File:Roma-sinagoga.jpg

Publié dans:immagini sacre |on 1 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

LE RADICI EBRAICHE DI KAROL WOJTYLA

http://www.nostreradici.it/radici_Wojtyla.htm

LE RADICI EBRAICHE DI KAROL WOJTYLA

 Gian Franco Svidercoschi

È il Papa, il primo Papa dopo duemila anni, che è entrato in una sinagoga, compiendo così un gesto storico di riparazione e insieme di solidarietà verso i « Fratelli maggiori ».  

 È il Papa che ha pronunciato le parole più dure, e per certi aspetti, bisognerebbe dire, parole definitive, sulla Shoah, lo sterminio del popolo ebraico, e sulle rinascenti forme di antisemitismo, « peccato contro Dio e contro l’uomo ». Il Papa che ha sanzionato, anche sul piano diplomatico, i rapporti che già da tempo si erano instaurati fra la Santa Sede e lo Stato di Israele. Ma è soprattutto il Papa che più ha fatto per « purificare » l’insegnamento del cattolicesimo sull’ebraismo e gli ebrei. Il Papa che anche di recente ha denunciato la ricorrente tentazione di separare, anzi, di contrapporre il Nuovo e l’Antico Testamento. E invece, ricordava, Gesù è diventato «un autentico figlio di Israele, profondamente radicato nella lunga storia del proprio popolo». E perciò, il cristiano, se possiede una forte convinzione di ciò, non potrà più «accettare che gli ebrei in quanto ebrei siano disprezzati o, peggio, maltrattati». Ma tutto questo, e cioè che Giovanni Paolo II abbia dato un impulso decisivo al processo di riavvicinamento, e quindi alla comprensione reciproca, alla collaborazione, tra ebrei e cattolici, ebbene, tutto questo può essere spiegato solo come una evoluzione conseguente al Concilio Vaticano II? Come una tappa obbligata dopo la dichiarazione Nostra Aetate, che aveva cancellato l’accusa di deicidio, e ripudiato il secolare « insegnamento del disprezzo », ricordando e riproponendo il « legame spirituale » che unisce indelebilmente cristianesimo ed ebraismo. In Varcare la soglia della speranza il Papa ha scritto: «Dietro le parole della dichiarazione conciliare sta l’esperienza di molti uomini, sia ebrei sia cristiani. Sta anche la mia esperienza personale sin dai primissimi anni della mia vita nella città natale». Ecco: deve pur significare qualcosa – sul piano provvidenziale e non solamente su quello delle coincidenze – che l’artefice della svolta nel dialogo della Chiesa cattolica con i figli di Israele sia stato un Papa per il quale, da giovane, da ragazzo, la convivenza con gli ebrei era storia di tutti i giorni. Wadowice, dove Karol Wojtyla è nato ed è rimasto fino ai 18 anni, era una cittadina di diecimila abitanti, di cui tremila ebrei. E vivevano, cattolici ed ebrei, in un clima di serenità, senza conflitti. Karol alloggiava in una casa il cui proprietario, Balamut, era ebreo. Ebrea era Ginka Beer, più grande di un paio d’anni, che abitava al piano di sopra, e che, per prima, lo avvicinò al teatro. Ebrei erano molti compagni di scuola, come Jerzy Kluger, grande amico ancora oggi; e poi Zygmunt Selinger, Leopold Zweig; e Poldek Goldberger, che giocava a pallone da portiere, come Wojtyla. Il futuro Papa, così, ha conosciuto l’ebraismo dal di dentro. Attraverso una quotidianità fatta di amicizia, di stima e tolleranza reciproca. Attraverso la conoscenza di tante persone. Ma anche sul piano religioso, spirituale. In parrocchia, durante la funzione serale, era sempre colpito dal canto del salmo 147, quello dell’invito a Gerusalemme a glorificare il Signore perché ha rafforzato le sbarre delle sue porte, ha benedetto i suoi figli. Molti anni dopo, da Papa, ricorderà: «Ambedue i gruppi religiosi, cattolici ed ebrei, erano uniti, suppongo, dalla consapevolezza di pregare lo stesso Dio. Nonostante la diversità del linguaggio, le preghiere nella Chiesa e nella Sinagoga si basavano in considerevole misura sugli stessi testi». C’è poi un secondo aspetto, per spiegare quelle che potremmo chiamare le « radici » ebraiche di Giovanni Paolo II. E anche qui, alla luce della sua storia personale, in particolare del periodo giovanile. Ed è l’aver vissuto da vicino, pur senza poterne conoscere l’esatta realtà e le vere dimensioni, la grande tragedia del popolo ebraico, la Shoah. All’origine della quale c’era l’orribile disegno hitleriano. La « soluzione finale », com’era stato chiamato il piano per far sparire, annientandola, la razza ebraica dall’intero continente europeo. Ricordava il Papa, sempre in Varcare la soglia della speranza: «Poi venne la seconda guerra mondiale, con i campi di concentramento e lo sterminio programmato. In primo luogo lo subirono proprio i figli e le figlie della nazione ebraica, soltanto perché erano ebrei. Chiunque viveva allora in Polonia venne, anche solo indirettamente, in contatto con tale realtà. Questa fu, dunque, anche la mia esperienza personale, un’esperienza che ho portato dentro di me fino ad oggi». Karol Wojtyla – che in quella bufera ha perduto molti dei suoi amici ebrei – ha perciò conosciuto direttamente, in prima persona, fino a che punto potesse arrivare l’odio, il disprezzo dell’uomo, nel nome di una ideologia folle, omicida. Ha conosciuto gli abissi dell’ingiustizia, della violenza, dell’oppressione di un intero popolo. E questo può spiegare molte cose di un Papa che ha dedicato la prima enciclica, « Redemptor hominis », alla causa dell’uomo, alla sua dignità, alle minacce contro di lui, ai suoi diritti inalienabili. Un Papa che durante il primo ritorno in Polonia, nel giugno del 1979, quando è arrivato ad Oswiecim (Auschwitz) ha sentito il bisogno di dire pubblicamente: «Non potevo non venire qui!». Solo un Papa come lui, figlio di una nazione che aveva anch’essa sperimentato tragicamente la barbarie della guerra e dei campi di sterminio nazisti, che anzi è stata accomunata nel martirio al popolo ebraico, a quei poveri sei milioni di morti, solo un Papa come lui, parlando della Shoah, dell’Olocausto, ai rappresentanti della comunità ebraica polacca, a Varsavia, ha potuto dire di aver avuto «un particolare rapporto con tutto questo», perché insieme con essi aveva «vissuto in un certo senso tutto ciò qui, su questa terra». Solo un Papa come lui, che proprio nella memoria storica, nel retaggio culturale della sua Patria, ha trovato l’ispirazione per pronunciare sull’ebraismo parole nuove, parole profondamente diverse da quelle dette per secoli dalla Chiesa cattolica, solo un Papa come lui ha potuto scrivere in questi termini agli « amati fratelli ebrei » per il 50° dell’insurrezione del Ghetto di Varsavia: «Come non essere accanto a voi, per ricordare nella preghiera e nella meditazione un così doloroso anniversario? Siatene certi: non sostenete da soli la pena di questo ricordo». Insomma, nessuno vuole dimenticare la storia passata. Ma che il peso di questa storia non impedisca intanto di sviluppare il dialogo; e, soprattutto, di affrontare e risolvere, sul piano culturale ma prima ancora su quello religioso, il pesantissimo « contenzioso » che ancora rimane. E cioè, da parte degli ebrei, la presunzione, già così difficile da rimuovere nel ricordo collettivo, che ci sia stato in qualche modo anche il cristianesimo all’origine delle tante tragedie che essi hanno vissuto. E, dall’altra parte, il trauma del mondo cristiano, diviso tra la persuasione di non aver avuto responsabilità dirette nella Shoah e la drammatica ammissione, fatta dall’episcopato tedesco e ora da quello francese, di non essere stato al fianco del popolo ebraico nel momento del martirio. Ed ecco perché – come sostiene Giovanni Paolo II – è venuto il momento che ebrei e cristiani riscoprano e facciano fruttificare il comune patrimonio spirituale. Per poter camminare assieme. E assieme lottare contro l’antisemitismo. E collaborare per la difesa dei diritti umani, per la giustizia sociale, la pace. E poter così, giorno dopo giorno, sperimentare l’essere fratelli, membri di un’unica famiglia. Testimoniando, finalmente riconciliati, la stessa speranza nell’attesa del «Dio che viene».

BANCHETTO PASQUALE E ANTICHE ANAFORE CRISTIANE*

http://www.nostreradici.it/banchetto_anafore.htm

BANCHETTO PASQUALE E ANTICHE ANAFORE CRISTIANE*

La liturgia cristiana della Parola non ha dimenticato fino ad oggi le sue origini, tanto che possiamo ancor oggi ritrovare in essa alcune tracce dell’antica liturgia sinagogale, che è essenzialmente liturgia della Parola. Non possiamo dire altrettanto per quel che riguarda la seconda parte della Messa, il Sacrificio, che – almeno nel rito romano, sul quale si sono venuti stratificando elementi diversi durante i secoli – non presenta assomiglianze con il rito ebraico, che ha servito di sfondo all’Ultima Cena. Tuttavia se risaliamo nei secoli, o se allarghiamo lo sguardo oltre la liturgia romana, prendendo in esame le preghiere cristiane che inquadrano il momento centrale della Messa, la Consacrazione (preghiere dette anafore), vi possiamo riscontrare uno schema comune, che possiamo sintetizzare come segue :

la lode a Dio per la creazione; e per la redenzione compiuta per mezzo di Cristo, e che culmina nella sua passione e morte; il racconto dell’istituzione dell’Eucarestia, che riproduce la passione, morte e risurrezione di Gesù; frequentemente l’attesa del ritorno finale di Cristo; una dossologia finale. Le anafore quindi si presentavano formate essenzialmente di due parti, la prima a carattere rimemorativo di avvenimenti passati, la seconda costituita dalla riattualizzazione di essi in un avvenimento, che li porta a compimento, e che a sua volta si proietta verso il futuro. Se consideriamo questo schema alla luce di quello del banchetto pasquale ebraico, non possiamo non riscontrare tra di essi delle assomiglianze strutturali e teologiche che colpiscono. Prendiamo in esame l’anafora di Ippolito, dottore della Chiesa di Roma del III sec., dove i temi sono trattati con la sobrietà propria della liturgia romana e appaiono quindi in tutta la loro chiarezza: « Noi ti rendiamo grazie, o Dio, per il prediletto Tuo Servo, Gesù Cristo, che in questi ultimi tempi ci hai mandato per salvarci, redimerci ed evangelizzarci la Tua volontà, lui che è il Tuo inseparabile Verbo, per mezzo del quale hai fatto ogni cosa e l’hai trovata buona; che hai inviato dal cielo nel seno della Vergine; che nel suo seno si è incarnato, e si rivelò come Tuo Figlio nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine; che adempiendo la Tua volontà e acquistandoti un popolo santo, stese le sue mani nella passione, per liberare dal castigo coloro che hanno creduto in Te.

Quando fu consegnato, lui volendolo, alla passione, per distruggere la morte, per spezzare le catene del diavolo, per calpestare l’inferno, per illuminare i giusti, per stringere la (nuova) alleanza, e manifestare la risurrezione,

prese del pane e rendendo grazie, disse: ‘Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo che per voi sarà spezzato’; similmente (disse) sul calice: ‘Questo è il mio Sangue che per voi sarà sparso. Quando fate questo, fatelo in mia memoria’. …Per il Quale sale a Te e al Figlio, nell’unità dello Spirito Santo, gloria e onore nella Tua santa Chiesa, ora e per tutti i secoli dei secoli. Amen » (1).

La preghiera presenta all’inizio una breve sintesi della storia della salvezza, nella quale tuttavia riscontriamo una differenza di prospettiva di fronte a quella narrata nel banchetto ebraico: se nel testo cristiano, la storia della salvezza comincia con la creazione del mondo, considerato come primo atto salvifico di Dio, il testo ebraico inizia con la « creazione » del popolo eletto, chiamato dal Signore nella persona del suo capostipite, il patriarca Abramo, quando ancora non era che « un arameo errante ». La liturgia ebraica resta fedele alla formulazione delle più antiche sintesi della storia della salvezza che si trovano nella Bibbia, mentre quella cristiana si dimostra qui erede dello spirito profetico; è presso i profeti – in particolare presso Isaia, che la storia della salvezza subisce un cambiamento di prospettiva e, rotto il cerchio della storia d’Israele, comprende in sé anche la creazione, la creazione che è la prima manifestazione della potenza di Dio e della Sua bontà che vuole gli uomini salvi. Il cerchio della storia d’Israele più che rotto viene allargato e assume proporzioni cosmiche, per cui la creazione alle origini non è che il primo atto di un lungo sviluppo, che condurrà alla vocazione di Abramo e arriverà alla liberazione d’Israele e alla conquista della Terra, e infine all’avvento del Messia. La concezione cristiana vede nella redenzione per opera di Cristo quel compimento che la creazione primigenia attendeva e di cui essa quasi portava in se l’esigenza. Quel compimento si attualizza nel banchetto eucaristico, che riproduce il Sacrificio di Cristo, e ripetendo l’atto centrale della storia della salvezza, la sintetizza in se stesso. La redenzione è già qui, la redenzione messianica, attesa per la fine dei tempi. Nelle stringate parole della dossologia finale ritroviamo, in forma essenziale e teologicamente perfetta, quella lode a Dio che l’ebreo, con ridondanza prettamente orientale, esprimeva con i salmi di lode e con la « benedizione del canto ». Uno schema simile si ritrova nella liturgia siro-caldaica o persiana, quella conosciuta sotto il nome di Addeo e Maris, che si ritengono essere stati discepoli di Tommaso apostolo ed evangelizzatori della regione di Edessa; si tratta di una liturgia assai antica, anche se redatta non prima degli inizi del VII seco, diffusa nella Siria nord-orientale e ancora viva presso alcuni piccoli gruppi cattolici. La mentalità orientale, diversa da quella occidentale, si rivela qui nella forma dossologica più ampia e ridondante, al disotto della quale tuttavia ritroviamo lo stesso schema della storia della salvezza: « Degno di essere lodato da ogni bocca e di essere glorificato da ogni lingua, degno di essere adorato e glorificato da ogni creatura è l’adorabile e glorioso Nome, poiché Tu creasti il mondo con la Tua grazia e i suoi abitanti con la Tua bontà, e salvasti il mondo con la Tua misericordia, concedendo la Tua grazia ai mortali »… Esposti così i due momenti essenziali della storia della salvezza, segue il Sanctus, che si ritiene essere qui un’interpolazione, e si continua: « Noi Ti ringraziamo, o Signore, anche noi Tuoi servi, deboli, fragili e miserabili, perché ci hai elargito un aiuto grande oltre ogni dire, vivificando la nostra umanità con la Tua divinità, esaltando il nostro basso stato e restaurandolo caduto, e innalzando la nostra umanità dimenticando le nostre colpe, giustificando i nostri trascorsi, illuminando le nostre menti »… Ma il più grande atto che Dio ha compiuto per gli uomini è stato il Sacrificio di Cristo, attualizzato nella celebrazione eucaristica: « E noi pure, o mio Signore, noi Tuoi deboli, fragili e miserabili servi, i quali si sono radunati insieme nel Tuo Nome e stanno dinanzi a Te, e hanno ricevuto per tradizione l’esempio che ci hai dato »… La « riunione nel Nome di Dio » è la sinassi eucaristica, che anche se solo accennata con scarne parole costituisce il centro di tutta l’anafora, dopo della quale si passa a una preghiera, con cui si implorano i benefici effetti della Comunione: «Venga, o mio Signore, il Tuo Santo Spirito e si posi su questa offerta dei Tuoi servi, la benedica e la consacri perché serva a noi, o mio Signore, per il perdono delle offese e per la remissione dei peccati e per la grande speranza della risurrezione dai morti e per la nuova vita nel Regno dei Cieli con coloro che sono stati accetti al Tuo cospetto »; e si conclude come d’abitudine con una dossologia: …« Per tutta questa meravigliosa dispensazione (di doni fatta) a noi, Ti ringraziamo e Ti lodiamo incessantemente nella Tua Chiesa, redenta dal prezioso sangue del Tuo Cristo, con aperta bocca e faccia elevata, innalzando lode, onore, adorazione, confessione al Tuo vivente e vivificante Nome, ora e sempre e per tutti i secoli ». Se passiamo a considerare un altro filone della stessa liturgia orientale, quella siriaca di Giacomo, che rispecchia l’antico rito gerosolomitano, diffuso anch’esso nella Siria nord-occidentale, vediamo che le linee generali non cambiano: si parte dalla lode di Dio creatore, si ricorda la caduta dell’uomo, in occasione della quale il Signore si mostrò Padre misericordioso, aiutando l’umanità peccatrice per mezzo della Legge e dei profeti prima e mandando poi il Figlio, perché rinnovasse negli uomini la Sua immagine; il Figlio poi « quando stette per accettare volontariamente la sua morte vivificante per mezzo della Croce, senza peccato, a vantaggio di noi peccatori, nella notte in cui fu tradito, o piuttosto consegnò se stesso per la vita e la salvezza del mondo, prese il pane »… Mentre però nelle anafore di Ippolito e di Addeo e Maris, l’attesa del ritorno glorioso di Cristo non è espressa chiaramente, qui, nella preghiera che segue immediatamente la consacrazione, leggiamo: « E noi peccatori ricordando le sue sofferenze vivificatrici, la sua Croce salvatrice, la sua morte e sepoltura e la risurrezione il terzo giorno dalla morte, la sua sessione alla destra Tua, suo Dio e Padre, e il suo secondo e glorioso e terribile avvento, quando egli verrà a giudicare i vivi e i morti, quando rinnoverà ogni uomo secondo le sue opere, offriamo a Te, o Signore »… L’attesa del ritorno di Cristo, quando « Dio sarà tutto in tutti » è qui esplicita e, insieme con gli atti salvifìci compiuti da Gesù durante la sua prima venuta, costituisce l’oggetto per cui l’uomo offre al Padre il sacrificio di lode. Le cose non sono molto diverse nella tradizione siro-antiochena documentata nelle Costituzioni Apostoliche (IV sec.), in cui, come abbiamo detto, tutti gli studiosi sono d’accordo nel riconoscere un evidente carattere ebraico. La storia della salvezza parte anche qui dalla creazione e viene presentata in forma ampia e dettagliata, menzionandone i personaggi più rappresentativi; essa arriva a un momento cruciale, che si riattualizza nel banchetto eucaristico, e a sua volta il momento presente si proietta verso il futuro: « Ogni volta che mangerete questo pane e berrete questo calice, annuncerete la mia morte, fino a che io venga. Perciò ricordando la sua passione e morte, la risurrezione dai morti e il ritorno in cielo, così pure il suo futuro secondo avvento, nel quale con gloria e potenza verrà a giudicare i vivi e i morti e a dare a ciascuno secondo le proprie opere, offriamo a Te, re e Dio, questo pane e questo calice »… La storia della salvezza, anche se arrivata al suo momento culminante, è tuttora storia in cammino, fino a che « egli venga ». Se abbiamo riportato per lo più brani di antichi rituali, non dobbiamo per questo pensare che lo schema che siamo venuti tracciando sia un bel pezzo da museo, relegato in alcune liturgie, cadute da lungo tempo in disuso. Se la liturgia di Addeo e Maris – come abbiamo detto – è tuttora in uso, anche se presso gruppi ristretti, anche la liturgia siriaca di Giacomo ad es., è viva ancor oggi, e i siro-maroniti che in parte si ricollegano ad essa, dopo la Consacrazione, esprimono ancor oggi la loro attesa del ritorno di Cristo: « Ricordiamo, o Signore, la tua morte, confessiamo la tua risurrezione e aspettiamo la tua se- conda venuta; da te imploriamo misericordia e pietà e domandiamo il perdono dei peccati. Abbracci noi tutti la tua misericordia » ( trad. P. Sfair) . A differenza del banchetto ebraico, che attende per « quel giorno » -secondo l’espressione profetica – l’avvento del Messia, quello cristiano, di ieri e di oggi, si volge verso l’attesa di un avvenimento che ha già avuto inizio e che deve soltanto arrivare al suo momento conclusivo. Ambedue messianici, ambedue dinamicamente volti verso l’avvenire, banchetto ebraico e cristiano si differenziano però per quel che riguarda l’oggetto della loro attesa e della loro speranza; l’uno attende il realizzarsi di un avvenimento, l’altro ne ricorda l’inizio nel passato e attende che si compia: il Messia è già venuto e se ne attende il glorioso ritorno. Potremmo così sintetizzare le assomiglianze e le differenze che siamo venuti osservando nella struttura del banchetto pasquale e delle anafore:

banchetto pasquale ebraico anafore cristiane 1) lode a Dio per la « creazione » del popolo d’Israele al tempo di. Abramo; 1) lode a Dio per la creazione del mondo; 2) lode a Dio per la redenzione d’Israele, per mezzo di Mosè; 2) lode a Dio per la redenzione dell’umanità mezzo di Cristo; 3) riattualizzazione della salvezza d’Israele in ciascun ebreo che partecipa al banchetto; 3) riattualizzazione della salvezza nell’Eucarestia; 4) attesa della venuta del Messia; 4) attesa del ritorno del Messia; 5) salmi di lode. 5) dossologia finale.

Se le analogie tra banchetto pasquale e anafore cristiane fossero dovute solo a cause accidentali, sarebbero limitate ad alcuni casi particolari, ma il fatto che esse si ritrovino in ambienti diversi non può non indurci a pensare che le due istituzioni siano legate tra loro da concezioni teologiche simili, anche se viste in prospettive diverse: la concezione cioè di un Dio attivo artefice della storia del Suo popolo, nel corso della quale interviene continuamente e in modo particolare in alcuni momenti decisivi, di un Dio che guida la storia verso una meta precisa, verso il giorno in cui la conoscenza del Signore riempirà tutta la terra « come le acque riempiono il mare », il giorno in cui nel mondo ci sarà il « Signore unico e il Suo Nome unico ». Una simile concezione teologica, fondamentale presso i cristiani e presso gli ebrei, non poteva mancare di imprimere la sua impronta anche sulla prassi cultuale. E a noi interessa qui sottolineare come, anche nel momento essenziale della sua vita di fedele, il cristiano possa sentire che le radici di essa affondano nella vita religiosa ebraica, costituendo un legame che è determinato certamente dall’eredità comune dell’Antico Testamento, ma anche da una affinità di prassi liturgica, che persiste attraverso i secoli.

_______________

(1) Trad. Righetti, o.c. [*] Fonte: Sofia Cavalletti, Ebraismo e spiritualità Cristiana Cap.XI, Editrice Studium – Roma, 1966  

1...678910

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01