« L’ALFABETO EBRAICO, PROTOPLASMA DEL CREATO » DI RAV LUCIANO CARO
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« L’ALFABETO EBRAICO, PROTOPLASMA DEL CREATO » DI RAV LUCIANO CARO
L’ebraico appartiene al ramo nordoccidentale delle lingue semitiche, ramo che comprende il cananaico, l’aramaico e l’ugaritico. Gli studiosi sostengono che l’ebraico fa parte del ceppo cananaico assieme al fenicio e al moabitico. Tutti questi linguaggi derivano dal cosiddetto protosemitico.
Ebraico e aramaico sono i tradizionali veicoli linguistici della cultura rabbinica dei primi secoli dell’era volgare e godono di uno statuto simbolico di eccezionale dignità: per entrambe queste lingue si usa infatti l’alfabeto ebraico, le cui lettere sono, per il mistico, cifra conoscitiva dell’intero cosmo. Essendo l’idioma con cui è scritta la Bibbia, l’ebraico è considerato lingua sacra. Secondo la tradizione, l’ebraico era lingua parlata da tutta l’umanità fino a quando, dopo la costruzione della Torre di Babele, si suddivise in settanta linguaggi.
In quanto strumento adoperato dall’Eterno per creare l’universo, l’ebraico possiede qualità soprannaturali. Addentrarsi nella tradizione segreta dell’ebraismo significa, dunque, in primo luogo prestare ascolto a un pensiero che costruisce sulle lettere il fondamento stesso della conoscenza. Le lettere ebraiche sono depositarie della potenza divina e convogliano nel reale l’impulso della creazione: un legame indissolubile le unisce ai diversi nomi di Dio che con esse sono composti ed è da tale vincolo che esse traggono il loro sovrannaturale vigore. Questa nozione di potenza della lettera riveste, nella tradizione ebraica, un valore assoluto che coinvolge tutti i gradi dell’esperienza umana, sino a scendere nel livello più profondo dell’essere.
L’esistenza di un collegamento tra i diversi livelli della realtà ci introduce in un dominio di carattere magico che non cessa, lungo i secoli, di esercitare la propria attrazione sui mistici ebrei. All’interno di questa struttura simbolica sono possibili vari livelli di lettura e di approfondimento, dalla più astratta riflessione mistica sino alla concreta operatività della magia. Una lettera ebraica può assurgere alla funzione di icona di meditazione, diventando lo spunto per esperienze estatiche, oppure può essere utilizzata nel suo immediato valore pratico, poiché magia e mistica della scrittura sono entrambe espressioni di quel meccanismo di attrazione e repulsione che coinvolge ogni cosa.
L’alfabeto ebraico è certamente parte rilevante della vita quotidiana dell’ebreo. È attraverso l’alfabeto che avviene il primo impatto con molteplici forme di coinvolgimento con la cultura e la tradizione, a partire dal mondo della preghiera e dello studio del testo biblico.
L’alfabeto ebraico (Alef – Bet) è composto di ventidue lettere a cui vanno aggiunte cinque lettere finali. Il carattere quadrato attualmente in uso è diverso dall’antica scrittura ebraica. La tradizione sostiene che Ezra abbia adottato la forma attuale al ritorno dall’esilio babilonese, mentre i caratteri più antichi avevano connotazioni diverse. Non tutti accettano questa opinione giacché la forma delle lettere, in quanto sacra, è considerata originaria.
C’è chi ricava messaggi dall’allitterazione dei nomi di ogni singola lettera e chi, partendo dal fatto che ogni lettera possiede un valore numerico, interpreta ogni parola rilevando il valore dalla somma delle lettere che lo compongono. Si possono così mettere in relazione parole o locuzioni che hanno lo stesso valore numerico (ghematrià). L’energia racchiusa nelle lettere è il legame nascosto della molteplicità dell’esistere e la ragione ultima del divenire. La dottrina ebraica dell’alfabeto rappresenta un vero e proprio progetto di conoscenza, un metodo dinamico per rendere ragione del fluire dell’esperienza e dell’infinito comporsi e scomporsi delle realtà individuali.
L’idea che l’alfabeto sia non solo uno strumento di denominazione ma anche il mezzo per controllare la realtà e intervenire su di essa, testimonia una riflessione linguistica che affonda le radici in un’epoca assai remota. Un gran numero di reperti materiali – provenienti dal bacino del Mediterraneo, da tutta l’area vicino-orientale e persino dalle zone più remote dell’Impero romano – testimonia la straordinaria diffusione dell’uso apotropaico e magico dell’alfabeto a partire dal 2° secolo E.V. Questo orientamento culturale mantenne il proprio vigore fino al 7° secolo E.V., quando il progressivo affievolirsi della tradizione aramaica in Oriente, a seguito della conquista islamica, tolse alla mistica dell’alfabeto un importante sostegno linguistico. Allo stesso modo, vennero a mancare alcuni fondamentali riferimenti teorici a causa dello spegnersi, in Occidente, dell’eredità gnostica ed ermetica, soffocata dalla drastica avversione cristiana. Solo l’esoterismo musulmano e la Cabalà mantennero una fedeltà ininterrotta all’antica speculazione sull’alfabeto.
La pratica di intervenire sul reale mediante il ricorso agli appellativi sacri e a combinazioni di frasi o di singole lettere tratte dalla Scrittura, rappresenta un aspetto rilevante quanto controverso della speculazione ebraica. Già il Talmud babilonese determina con meticolosità i casi in cui è lecito svelare i diversi nomi di Dio. Nel testo biblico non si fa cenno alla denominazione di ogni singola lettera. È nel Talmud che si cerca di attribuire un significato al nome delle lettere, spesso in relazione alla loro forma e all’ordine in cui sono collocate nell’alfabeto. Alla successione delle lettere sono attribuiti significati di valore etico (Shabat 104).
Il Talmud (Menahot 29) attribuisce a Rabbi Akivà (2° secolo E.V.) lo studio della scienza delle lettere, che è il cardine simbolico del pensiero ebraico e trova nell’Alfabeto da lui scritto l’esposizione narrativa forse più compiuta. Questo testo è noto anche come Lettere (Otiot) di Rabbi Akivà e apparve per la prima volta a stampa a Costantinopoli senza data, ma questa edizione viene fatta risalire probabilmente al 1516 o al 1525. Ogni lettera dell’alfabeto è raccontata nei suoi aspetti sonori e formali con grande ricchezza di particolari: l’espediente dell’acrostico, al quale il testo largamente ricorre, consente di ampliare in maniera straordinaria le combinazioni dei versetti della Scrittura, aprendo la prospettiva di inesauribili significati e nessi allusivi, non solo per quanto attiene agli aspetti fonetici, ma soprattutto per la loro valenza metafisica. Rabbi Akivà si soffermò altresì nella disamina dei cosiddetti ornamenti delle lettere dell’alfabeto e formulò osservazioni sul significato delle curve, degli apici e dei singoli elementi attinenti alla forma. Pare che questa scienza abbia tratto origine da una tecnica pedagogica usata per l’insegnamento della scrittura ai bambini.
È stato osservato che l’alfabeto ebraico ha caratteristiche che lo differenziano da tutti gli altri. Infatti, gli alfabeti relativi ai vari linguaggi sono costituiti da una raccolta di segni grafici disposti o casualmente o secondo convenzioni derivanti da considerazioni di comodità o utilità, per cui, al loro interno, sarebbe possibile variare la successione delle singole lettere. La tradizione attribuisce all’alfabeto ebraico un valore non riscontrabile in altre culture. In esso ogni lettera, oltre alla forma grafica e al valore numerico, ha una specifica collocazione. L’Alef – Bet non è tanto una sequela di segni grafici quanto piuttosto rappresentazione della realtà che, ove avvenisse la più lieve variazione della rappresentazione delle lettere, potrebbe modificarsi o alterarsi. Da questa considerazione deriva la normativa per cui, nella scrittura del testo biblico, occorre procedere con particolare cautela.
Ogni variazione nella scrittura di ciascuna lettera, ogni aggiunta o sottrazione di un singolo elemento, può rendere inutilizzabile il testo, in quanto ne deforma il significato. Si legge nel Talmud: « R. Meir raccontava: Quando incontrai R. Yshmael questi mi domandò: ‘Qual è la tua occupazione?’ Risposi: ‘Lo scriba’. E il Maestro: ‘Fai bene attenzione al tuo lavoro che è opera divina. Se tu aggiungessi o togliessi una sola lettera dal testo, potresti causare la distruzione dell’universo’ » (Eruvin 13).
Il Libro dei Proverbi termina con un brano (31,10-31) nel quale viene esaltata la donna virtuosa. Il passo comprende ventidue versi disposti in ordine alfabetico, segno di ordine e di completezza, quasi a sottolineare che la donna, più facilmente dell’uomo, può pervenire ad alti livelli di vicinanza con Dio. È significativo il fatto che, secondo alcuni Maestri, il brano può essere riferito non solo alla donna ma alla Provvidenza, al Sabato o all’anima dell’uomo.
Come si è detto, la prime considerazioni su ogni singola lettera possono derivare da esigenze di carattere pedagogico o mnemonico. Così, per esempio, la lettera alef è collegata al toro (la forma può evocarne le corna) o alla radice allef che ha il significato di insegnare. La seconda lettera dell’alfabeto, bet, esprime il concetto di casa (bait) anche in relazione alla sua forma di struttura chiusa da tre parti; e così via.
Questa tecnica, è stata poi sviluppata in chiave mistica soprattutto nel Sèfer Yetzirà (Libro della Formazione), una delle prime opere mistiche della tradizione del Maasè Bereshit (Opera della Creazione). Si tratta di considerazioni sulla creazione ispirate al primo capitolo della Genesi, in relazione alle modalità con cui la volontà divina ha prodotto l’esistenza del cosmo. Nei sei capitoli del Sèfer Yetzirà, un’opera risalente al 3° secolo, sono descritti i trentadue sentieri della saggezza che sono alla base del mondo. Questi sono costituiti dalle dieci Sefirot e dalla ventidue lettere dell’alfabeto nelle loro diverse combinazioni.
La struttura di ogni singola lettera riflette tre dimensioni: quella dello spazio, quella del tempo e quella dell’anima umana. L’uomo, considerato un microcosmo, possiede poteri creativi che possono essere impiegati utilizzando una appropriata tecnica di combinazioni delle lettere dell’alfabeto. Il pensiero ebraico oscilla continuamente tra la necessità di attenuare le pretese teurgiche di questa pratica e lo straordinario fascino che essa esercita. Come in molte altre tradizioni culturali, le speculazioni sull’occulto si considerano lecite solo quando sono volte a operare il bene e a favorire le creature, non a danneggiarle. Nel novero delle azioni benefiche rientrano naturalmente la protezione dagli influssi negativi di ogni genere (astrali, demoniaci e umani) e i rimedi alle malattie.
L’usanza di curare le infermità attraverso l’invocazione dei nomi divini conoscerà un’ampia diffusione in epoca post-talmudica, durante il Medioevo e, in alcune aree geografiche, fino alla piena età moderna.
I Maestri della mistica ricavano da ogni dettaglio grafico delle lettere ebraiche molteplici significati, giungendo ad attribuire a esse qualità pressoché umane tanto da riconoscere in ogni lettera la proprietà di possedere un corpo, uno spirito, un’anima (Shabat 104). Le lettere dell’alfabeto sono dunque ideogrammi che esprimono le energie primordiali, il protoplasma del creato o, secondo un’altra definizione, i mattoni della costruzione del cosmo, e l’alfabeto è fonte di energie dinamiche e cosmogoniche. Viene anche proposta una rispondenza tra le lettere dell’alfabeto e le articolazioni del corpo umano. Si sostiene che la conoscenza delle diverse modalità con cui si possono combinare le lettere consente l’avvicinamento dell’uomo a Dio, che ha creato appunto il cosmo attraverso la parola e, pertanto, rende l’uomo capace di realizzare a sua volta forme di creazione. La richiesta dell’Eterno ad Adamo di provvedere a dare una denominazione agli animali creati (Genesi 2,19) può essere vista come conferma del ruolo attribuito all’uomo di prendere parte alla creazione per ciò che attiene a elementi collegati con il linguaggio.
L’approfondimento della conoscenza del valore della parola può portare a meglio comprendere il progetto divino della creazione e spingere l’uomo a comportamenti corretti. Di Bezalel, l’artigiano che fu chiamato da Mosè a sovrintendere alla costruzione del Tabernacolo (Mishkhan) nel deserto, si afferma che: « Sapeva disporre le lettere dell’alfabeto con le quali furono creati il cielo e la terra » (Berachot 55). Il Midrash sostiene che la saggezza di Salomone derivava dal fatto che « Conosceva le lettere divine » (Midrash Mishlè). Questa considerazione può essere accostata a quanto detto a proposito di Bezalel. Infatti, il primo era preposto alla costruzione del Mishkhan e il secondo edificò il Santuario di Gerusalemme.
Un’opera più recente, risalente al secolo 18°, sostiene che: « Se le lettere dell’alfabeto si allontanassero e facessero ritorno alla loro sorgente, tutti i cieli tornerebbero al nulla » (Tanya, Shaar Haichud, 1). Un’eco di questa dottrina è riscontrabile nel Talmud: « Diceva Ravà: ‘Se i giusti volessero, potrebbero creare il mondo. Infatti è scritto: « Sono i vostri peccati a tenere separati voi dal vostro Dio » (Isaia 59, 2). Pertanto, senza peccato non vi sarebbe separazione tra uomo e Dio’ » (Sanhedrin 65). Il passo può indicare che l’uomo è in grado di pervenire a elevatissimi livelli, ove sappia liberare le forze spirituali di cui dispone dalle scorie del peccato. Lo stesso passo talmudico aggiunge che Ravà riuscì a creare un essere umano. E, secondo Rashì lo poté fare per mezzo del Sèfer Yetzirà, che indica come ci si possa servire delle ventidue lettere dell’alfabeto per agire sul creato. L’uomo può utilizzare le energie divine se conosce come servirsene e non si contamina con il peccato.
Le lettere dell’alfabeto svolgono un ruolo centrale anche in un altro tema classico dell’immaginario ebraico, cioè nella figura del golem, che si pone come punto di incontro tra magia e misticismo. La tradizione vuole che il Maharal di Praga (Yehuda Liva ben Bezalel, 1525-1609) sia riuscito a dare vita a un umanoide fatto con l’argilla affinché lo servisse, ma che in ben presto mostrò di possedere poteri straordinari, talvolta pericolosi e malefici.
Lo Zòhar rileva che il termine Israel può essere letto come acronimo della locuzione Yesh Shishim Ribò Otiot laTorà (la Torà contiene seicentomila lettere) (Shir Hashirim). Orbene, seicentomila era il numero degli ebrei usciti dall’Egitto che ricevettero la Torà. È come se ognuno di essi fosse collegato a una specifica lettera del testo. Pertanto a ogni ebreo e a ogni lettera è affidato un compito determinato. Tutti assieme vengono a formare un corpo ricco di potenzialità. Si dice che ogni lettera possiede la facoltà di ridare la vita ai morti e sono molte le tradizioni secondo cui, grazie all’uso delle lettere ebraiche, è possibile guarire e riportare in vita i defunti. Questa affermazione trae forse origine dalla tradizione secondo cui le lettere dei testi sacri sono pressoché immortali. Allorché Mosè spezzò le tavole: « Le lettere si dispersero nell’aria » (Pesachin 87). Analogamente, « Se un Sèfer Torà viene bruciato, le lettere volano nell’aria » (Ozar Hamidrashim).
Il pensiero divino si adorna di ventidue lettere celesti. Nella tradizione cabalistica questo pensiero si sviluppa fino a vedere nelle parole della Torà soltanto uno dei possibili modi di aggregazione delle lettere che la compongono. L’atto creativo si esplica nel misterioso susseguirsi delle lettere che formano l’insegnamento (Torà) dato a Israele, mentre le parole rappresentano solo il primo e più esterno livello di lettura.
La Torà è concepita non solo come raccolta ordinata di prescrizioni rituali e di narrazioni storiche, ma anche come un’ininterrotta serie di nomi divini, quasi un unico Nome di inimmaginabile potenza, dal quale trae origine tutto il portento della creazione: nel suono arcano di questo Nome, le lettere trascendono il limite provvisorio delle parole e mostrano intatta tutta la loro forza creativa. Un Sèfer Torà da cui manchi una sola lettera, o anche una parte di questa, è pasul cioè non adatto all’uso. Ove venisse a mancare una lettera nel testo o un singolo individuo venisse meno alla sua funzione, ne verrebbe compromesso l’equilibrio del cosmo.
Lo stesso Maimonide (1135-1204) noto per la sua visione razionalistica dell’ebraismo, scrive: « Nella Torà sono contenute espressioni che paiono irrilevanti, quali: ‘I figli di Cam erano Cush, Mizraim, Put e Canaan’ (Genesi 10,6); ‘La moglie di Hadar era Mehetavel figlia di Matred’ (Genesi 36,39) o ‘Sorella di Tuval Cain era Naamà’ (Genesi 4, 22), assieme ad altre ritenute di importanza fondamentale quali: ‘Io sono l’eterno tuo Dio’ (Esodo 20,2); ‘Ascolta, Israele’ (Deuteronomio 6, 4). In realtà non c’è differenza per quanto attiene all’importanza dei passi: ‘Tutto è parola divina, tutto è insegnamento divino, integro, puro, sacro e veritiero’ » (Commento alla Mishnà Sanhedrin X, 1).
In un contesto diverso, quello liturgico, Haim Josef Adulai (1724-1806), cabalista vissuto a Livorno e noto come Hidà, nel rilevare che nella preghiera è importante pronunciare correttamente le singole parole, sostiene: « La giusta pronuncia della parola promuove spiritualità e muove l’energia delle lettere determinando nuove forme di luce » (Shem Haghedolim). Di un altro cabalista, Yitzhak Luria (1534-1572) noto come l’Arì, si riferisce questo aneddoto: gli fu rivelato che, per quanto le sue preghiere del giorno di Kippur avessero effetti nei mondi superiori, quelle di un altro ebreo risultavano più efficaci e maggiormente gradite a Dio. Dopo molte ricerche, riuscì a trovare quell’uomo ed ebbe la sorpresa di trovarsi di fronte a un semplice contadino. Gli domandò: « Con quali modalità reciti le preghiere? » E questi: « Io sono ignorante e conosco solo le prime dieci lettere dell’alfabeto. Nel giorno di Kippur recito queste lettere dicendo: « Signore del mondo! Prendi queste lettere e provvedi Tu a formare la parole che Ti sono più gradite! ».
Dunque, nel testo biblico, ogni parola al di là del suo significato letterale, ogni lettera e ogni più piccolo dettaglio di questa, possiedono valenze solo intuibili dall’intelletto umano. »Ogni lettera può essere vista come la materializzazione di concetti astratti, come rivestimento di valori metafisici e strumento per rivelare la vera essenza del creato; una molteplicità di significati il cui numero corrisponde alle possibili combinazioni delle ventidue lettere dell’alfabeto » (Shem Tov B. Shem Tov, cabalista spagnolo del secolo 14°).
« Biancore superiore » è l’espressione con la quale gli antichi testi cabalistici designano lo stato antecedente alla creazione, allorché questa esisteva solo nella mente divina. L’espressione è tratta dalla locuzione « La parte scoperta del bianco » di cui si parla relativamente a Giacobbe (Genesi 30, 37). Le lettere dell’alfabeto, generalmente di colore nero (Midrash Shemuel 5), costituiscono l’inizio dell’intervento di Dio sul biancore primordiale. Questo concetto, difficile da spiegare, si è andato sviluppando nella letteratura cabalistica a partire dal Sèfer Yetzirà. Prima della creazione esisteva nel vuoto assoluto una situazione (il biancore) chiamata anche achdut hashavè (l’unicità di ciò che è uniforme), vale a dire che non esisteva nessun elemento dotato di specificità. Si trattava di una situazione primordiale nella quale il cosmo esisteva solo in potenza, in quanto ancora soltanto immaginato nella mente di Dio. Poi è sopravvenuta l’esplosione della luce: la volontà creatrice trasformò in atto quanto era stato solo immaginato. Tutto ciò si è realizzato per mezzo di lettere non ancora di consistenza materiale e chiamate le « forme dell’utero dell’eternità ». Queste hanno dato vita a una Torà primordiale dalla quale sono scaturiti il tempo, il cosmo e la Torà vera e propria. La scrittura ha assunto così aspetti figurativi, acustici ed emozionali caratteristici dell’alfabeto ebraico e solo di questo.
È stato osservato che pressoché tutte le kinot, vale a dire le elegie liturgiche recitate nei giorni di lutto, sono redatte in forma di acrostico alfabetico. Ma, allorché si realizzerà la redenzione dei tempi messianici, questa scaturirà dall’Alef – Bet. Allora l’umanità intera riprenderà a usare la lingua ebraica: tutti gli uomini faranno uso di un unico linguaggio, quello di cui Dio si è servito per creare il mondo.
Rav Luciano Caro, rabbino capo della Comunità Ebraica di Ferrara e delle Romagne.
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