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IL NOSTRO « DEBITO » CON PAOLO : HA « BUCHERELLATO » L’IMPERO SALVANDO LE GENTI

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IL NOSTRO « DEBITO » CON PAOLO

HA « BUCHERELLATO » L’IMPERO SALVANDO LE GENTI

SAN PAOLO DI TARSO.

Pierangelo Sequeri
(« Avvenire », 28/6/’09)

Paolo di Tarso ha « inventato » il cristianesimo? Ricordiamo l’esasperazione di Friedrich Nietzsche, nei confronti di un Dio dell’avvilimento, della « rappresaglia », dei sacrifici umani, «quem Paulus creavit». Paolo deve averlo creato, secondo Nietzsche, perché nulla di ciò si trova nel « Vangelo » di Gesù. Nietzsche coglie a suo modo nel segno. Però manca totalmente il bersaglio, con Paolo.
Nel nucleo centrale del suo pensiero, « vulcanico » e roccioso, il Dio di Paolo è esattamente il Dio di Gesù: alla lettera. Quello stesso che per evitare sacrifici umani offre se stesso ai risentimenti di un « sacro » impazzito, che vuole smentirlo proprio su « agape ». Il Dio di Paolo è il Dio di « agape », del quale non si può pensare il più grande, secondo la formula di Anselmo d’Aosta. Per questo, dessi pure «il mio corpo alle fiamme», nell’atto di un supremo « martirio », se non ho « agape » «non sono niente» (« 1 Cor 13″). E persino – udite – «se avessi una fede che sposta le montagne». (Su questo aspettiamo un grande libro, colleghi « biblisti » e « teologi » quanti siamo – lo dico anche a me stesso – che ancora non abbiamo).
Di fatto, la domanda ha potuto avere un senso (polemico e, rispettivamente, « apologetico ») quando i credenti e i loro « critici » leggevano poco i testi. E molto di più leggevano i « bigini » che se n’erano fatti. Rimane vero, con tutto questo, che Paolo è persona – e personalità – prodigiosamente creativa, nell’orizzonte aperto dalla rivelazione di Gesù. Paolo ha messo al sicuro la singolarità del « cristianesimo », per ogni mondo possibile.
Vogliamo esemplificare, fuori da ogni « manierismo teologico »? Intanto non avremmo l’icona della « forma occidentale ». Inedita avventura di affetti e pensieri dell’umano, in cui le « dialettiche » dell’ »evangelo » hanno innervato due possenti creazioni dello spirito. In primo luogo, riabilitando religiosamente la grandiosa macchina « laica » della « cittadinanza liberale » (il « diritto romano »: messo in salvo dal suo stesso mondo, ormai a pezzi). Nessun altro pensiero religioso avrebbe potuto, se non quello che distingue radicalmente, senza contrapporli « pregiudizialmente », Cesare e Dio. (E il celebre « enunciato » è di Gesù, non di Cavour). In secondo luogo, metabolizzando religiosamente la prodigiosa conquista filosofica della « razionalità morale », che mette in rapporto il singolo con l’appello incondizionato della giustizia.
Lo spessore – giustamente drammatico – che viene conferito da Paolo al severo confronto della coscienza con se stessa, per la retta decifrazione della « legge » (con la minuscola e con la maiuscola), interpreta l’appello di Gesù alla libertà della coscienza che decide la vita. La coscienza cerca la giustizia sempre di fronte a Dio, « devoti » o « pagani » quanti siamo. E sempre le è accessibile, nell’onestà del cuore, la propria ingiustizia (« Rm 7″). Vale per la religione e per la « morale », per la verità e per l’amore.
Sarebbe solo l’inizio, se ci si vuole incamminare. L’ »Anno » che Benedetto XVI, con felice intuizione, ha proposto di dedicare alla viva « riappropriazione » di questa « colonna » dell’avventura cristiana, ha aperto il suo varco. L’ »Anno » si chiude, giustamente. Ma il « filo » da tessere va tenuto ben saldo. Poca conoscenza e troppi fraintendimenti, ancora. Con tutto il rispetto per Galileo e per Darwin, siamo in debito d’onore con Paolo: credenti e non credenti, quanti siamo, in questa parte del mondo che ci sembra, a tratti, così « s-finita ». Paolo, quasi dal niente, e con poco più che il suo Signore crocifisso e risorto, ha tessuto una « rete » miracolosa: « bucherellando » l’ »Impero » come un « colabrodo ». E salvando « le genti ». 

La « Kenosi di Cristo » secondo Paolo di Tarso (una prospettiva esegetica)

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TEOLOGIA BIBLICA DEL NUOVO TESTAMENTO

La « Kenosi di Cristo » secondo Paolo di Tarso

(una prospettiva esegetica)

di Francesco Cuccaro

Il ‘mysterion’ , delineato da Paolo di Tarso nel suo epistolario, concerne un ‘piano divino di salvezza’ , un ‘disegno di comunione e di unità’ , concepito “ab aeternum” nel pensiero di Dio. Che si realizza nella ‘storia’ che, in tal modo, palesa tutto il suo ‘valore salvifico’ .
L’Apostolo delle Genti svela l’essenza di questo piano : ‘ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle del cielo come quelle della terra’ ( Ef. 1,10 ).
Quindi Cristo é il “nucleo” o, per meglio, dire la “sostanza” del ‘mysterion’. Quest’ultimo si concretizza nel tempo e nello spazio attraverso la ‘creazione’ e la ‘storia della salvezza’ .
L’apice di questo ‘eventuarsi’ del ‘mysterion’ é costituito dalla ‘Incarnazione’ , dal farsi presente di Dio come uomo tra i suoi simili e dal prolungamento storico effettivo di questa presenza che é la ‘Chiesa’ .
La ‘ricapitolazione’ e la ‘riconciliazione’ risultano essere possibili non attraverso una semplice teorìa, bensì attorno all’Idea Universale della Storia, così denominata da von Balthasar, un’Idea che é anche Persona*.
*Ci viene da sorridere a volte, ma anche di rammaricarci, solo al pensare come l’uomo sia stato così vittima delle proprie illusioni. Ha fatto valere con la passione, il fanatismo, la violenza, principi astratti di per sé magari buoni, come libertà, giustizia ( giustizia sociale ), uguaglianza, fraternità, o concezioni sbagliate come il comunismo. Ma, invece, di creare un paradiso attorno a questi valori, ha prodotto sulla terra un vero e proprio inferno. Sono state commesse, nei secoli, le ignominie più atroci ed inaudite.
Certo che il Cristianesimo non é stato scevro da incoerenze per colpa dei numerosi peccati commessi da uomini di chiesa e attraverso la strumentalizzazione politica e mondana della religione, ma non si può negare che ha sempre cercato di promuovere l’unità delle coscienze, sensibilizzando l’amore per il prossimo, alleviando sofferenze e miserie materiali, inculcando il rispetto per la persona umana nella sua dignità e libertà. E mai si é “imposto” come una “rivoluzione”, del tipo di quelle che si caratterizzano nel duplice e demoniaco proposito di violentare la natura e di cancellare la storia in nome di modelli apriorici e precostituiti.
L’Incarnazione di Dio in Cristo sta a questo universale ‘disegno divino di comunione’ come il mezzo sta al fine.
Un urto teologico intollerabile per l’antico Giudaismo che ha sempre insistito sul tema della soprannaturalità divina, esasperando una incolmabile distanza tra questo e il livello creaturale. Ma la ‘possibilità da parte di una divinità di farsi uomo’ appare scontata nel paganesimo che la esprime nelle narrazioni mitologiche venate di antropomorfismo, con i suoi cicli di Osiride, Diòniso, Mithra, trattandosi, però, di personaggi veicolati dall’ottica del “simbolo”.
Il Cristianesimo, invece, nasce e si sviluppa già su un terreno abbastanza fecondo di idee su questi argomenti. Ma diffonde la sua prospettiva dell’Incarnazione in una veste unica ed originale. Unica perché Dio si é incarnato, una sola volta, in un individuo umano.
Il ‘mistero dell’incarnazione’ non comprende solo un inizio nel tempo, vale a dire quello relativo al concepimento verginale di Gesù Cristo. Ma trascende la storia stessa. Si tratta di un evento continuo ed aperto : sia nel senso che Gesù non deporrà mai più, per tutta l’eternità, la natura umana; sia per il fatto che il Risorto si rende partecipe della storia, in un modo per così dire “nascosto”, attraverso l’annuncio, la testimonianza, la fede e l’azione sacramentale della Chiesa.
La distanza del kerygma apostolico primitivo dalla mitologìa pagana é assoluta ed irriducibile. Prova il fatto che i Gentili più refrattari alla conversione non riescono proprio ad armonizzare il loro schema di incarnazione divina con quello dei ‘nuovi credenti’, come dimostra lo sconcertante equivoco degli abitanti di Listra, narrato dagli Atti degli Apostoli :
“C’era a Listra un uomo paralizzato alle gambe, storpio sin dalla nascita, che non aveva mai camminato. Egli ascoltava il discorso di Paolo e questi, fissandolo con lo sguardo e notando che aveva fede di esser risanato, disse a gran voce, disse a gran voce : ‘Alzati diritto in piedi !’. Egli fece un balzo e si mise a camminare. La gente, allora al vedere ciò che Paolo aveva fatto, esclamò in dialetto licaonio e disse : ‘Gli déi sono scesi tra di noi in figura umana !’’ . E chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes, perché era lui il più eloquente.
Intanto il sacerdote di Zeus, il cui tempio era all’ingresso della città, recando alle porte tori e corone, voleva offrire un sacrificio insieme alla folla. Sentendo ciò, gli apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando : ‘Cittadini, perché fate questo ? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi predichiamo di convertirvi da queste vanità al Dio vivente che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano. Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che ogni popolo seguisse la sua strada; ma non ha cessato di dar prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche di frutti, fornendovi di cibo e riempiendo di letizia i vostri cuori’. E così dicendo, riuscirono a fatica a far desistere la folla dall’offrire loro un sacrificio” ( At, 14, 8-18 ).
Anche per Paolo Dio é disceso tra noi, ma non ha assunto un corpo apparente, né si é unito ad una persona umana in modo accidentale. Tantomeno l’Apostolo fa un discorso attorno ad un semidio a guisa di Ercole o di Achille o su un uomo perfettissimo e, pertanto, immortale. Nulla di tutto questo.
L’evento dell’Incarnazione, oggetto del kerygma primitivo, é originale a causa della sua paradossalità e drammaticità e della sua estrema serietà. Pur tuttavìa, si tratta di un processo reale e ontologico in seno a Dio ( ed esistenziale nell’ambito della storia di Gesù di Nazareth ) che non modifica la sua essenza.
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Paolo offre, nella Lettera ai Filippesi, un condensato di teologìa dell’Incarnazione, stimolando la sensibilità religiosa, ma urtando la suscettibilità degli increduli. Si può notare in una tale teologìa l’assenza di termini tecnici desunti dalla metafisica greca ( Platone e Aristotele in primo luogo ), in uso presso i successivi Padri della Chiesa durante le controversie trinitarie e cristologiche.
Il brano biblico di Fil. 2, 5-11, tuttavìa, rivela una ricchezza di contenuto del ‘mistero dell’Incarnazione’, quasi da far da contraltare rispetto alla povertà e staticità di certe formule astratte ( come ‘ousìa’, ‘physis’, ‘ypostasis’, ‘energheia’, ecc. ) che sembrano irrigidirne la stessa trattazione.
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che ( furono ) anche in Cristo Gesù il quale, pur essendo nella forma di Dio, non stimò come un bene da tenersi gelosamente l’essere alla pari con Dio, anzi ‘svotò’ se stesso col prendere forma di servo, diventando simile agli uomini. E dopo essere stato trovato come un qualsiasi uomo, si umiliò ( ancora ) facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce.
Perciò Iddio lo ha anche sovraesaltato e gli ha dato il nome che é al di sopra di ogni altro nome, affinché, nel nome di Gesù ‘si pieghi ogni ginocchio’ ( Is. 45, 23 ) degli esseri celestiali, di quelli terrestri e sotterranei, e ‘ogni lingua proclami’ ( ivi ) che Gesù Cristo é Signore, a gloria di Dio Padre” ( Ef. 2, 5-11 ).
Si tratta di un inno cristologico pre-paolino, come sostiene la maggior parte degi esegeti. Ci interessa considerarlo, piuttosto, come una sua rielaborazione fatta dall’Apostolo delle Genti.
Esaminiamo i temi più salienti racchiusi in Fil. 2, 5-11.
E’ da notare la frequenza di preposizioni come “in” e “con” lungo tutto l’epistolario del Nostro, con i loro “significati più dinamici che statici” (1).
Secondo Gianfranco Ravasi, il versetto ( letteralmente preso ) “abbiate in voi gli stessi sentimenti che ( furono ) anche in Cristo Gesù” suggerisce la facile idea, secondo la quale i fedeli devono avere gli stessi sentimenti già manifestati dal loro Signore nella sua breve parentesi terrena. Concludendo: Cristo sarebbe un modello da seguire e da imitare (2). Ma, a ben riflettere, quell’ ‘in-Cristo sembra indicare un valore aggiuntivo : il Logos é la causa-sorgente dei sentimenti di umiltà, di obbedienza e di pace (3).
Allora, questo “abbiate” dell’Apostolo vuol essere un augurio, un auspicio, più che una raccomandazione. Tenendo conto di questa chiave esegetica suggerita dal Ravasi, l’inno sembra acquisire, in realtà aiuta alla riscoperta di un carattere liturgico con un proprio ritmo di preghiera.
Cristo é all’origine di questa nuova sensibilità religiosa e morale del redento. Nel caso del primo versetto, l’agire presuppone l’essere e un’esigenza, un invito, un “appello richiamano una realtà…..una persona, Gesù, che quanto più vive in noi, tanto più ci abilita ad essere come lui” (4).
Condividiamo questo punto di vista di Ravasi, secondo il quale la fonte dell’agire moralmente retto non va tanto ravvisata nella ragione, la quale opera sempre un necessario discernimento tra ciò che si deve e ciò che non si deve fare ( così come ben delineato in Rom. 1, 18-32, dove si allude ad una legge scritta nel cuore di ognuno, tanto giudeo quanto pagano ), ma alla unione alla persona di Cristo Gesù nell’indicativo del dono della fede’ (5).
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Alla luce del mistero dell’incarnazione di Dio é possibile inquadrare la storia di Gesù di Nazareth.
L’inno cristologico di Ef. 2, 5-11 é ambivalente : tanto nel descrivere un uomo, Gesù Cristo, legato al proprio tempo e vissuto in un determinato luogo; quanto nel delineare il Figlio di Dio che si incarna in lui. Paolo si attiene alla storia forse in un modo non molto esplicito, comunque attraverso l’uso del passato remoto ( “furono”, “stimò”, “ svuotò”, “umiliò” ) e la rimemorazione del dato empirico ed irrefutabile della ‘morte di croce’ del Cristo ( Ef. 2,8 ).
Secondo l’Apostolo, Gesù, nella sua vita terrena. ha la consapevolezza di essere Dio, ma non “stima”, vale a dire non giudica l’uguaglianza ( l’identità sostanziale ) con il Padre come un bene, una perfezione assoluta da conservare nella fierezza, nell’egoismo e nella possessività.
“Pur essendo nella ‘forma di Dio’ , non stimò come un bene da tenersi gelosamente l’essere alla pari con Dio” : quest’asserzione contiene un evidente paradosso costruito sulla parola greca “harpagmòn” che designa in senso attivo “qualcosa da rapire”, o passivo “qualcosa di rapito”. Quindi un “tesoro geloso” o una “preda ambìta” (6). Questo versetto, implicitamente, si riferisce alla chiara contrapposizione tra Cristo e il primo uomo**.
**Per Adamo l’uguaglianza con Dio era oggetto della sua brama e del suo desiderio ( Gn. 3,5 ), “qualcosa da rapire”, da prendere d’assalto, come sottolinea Ravasi (7), espressione di una “hybris”, di un atto di tracotanza e di superbia, non solo del nostro primo progenitore ( che dopo si pente ), ma di ogni uomo che sembra avere di Dio quasi un sentimento di terrore e di repulsione. Atti di tracotanza si moltiplicano nella Bibbia a dismisura ( quello di Nemrod e dei costruttori della Torre di Babele, tanto per citare qualcuno ), oppure narrati dalle più disparate mitologìe ( si cfr., per esempio, la rivolta dei Giganti contro Zeus, oppure le figure di Prometeo e di Capaneo ).
L’uomo Gesù non esibisce in modo velleitario e spropositato la sua altra natura di essere soprannaturale e la sua stessa uguaglianza con Jahveh. E quando si riferisce a Dio, lo chiama ‘Abbà’ –Padre- estremizzando la sua condizione di essere relativo e la sua diversità creaturale da Lui, fatte valere addirittura davanti alle dure e angosciose prove sottoposte dal Maligno ( Mt. 4, 1-11; Mc. 1, 12-13; Lc. 4, 1-13 ) e di fronte alla morte di croce.
La sua ritrosìa a compiere, in modo gratuito, i miracoli, inoltre, é evidente ( si cfr. Mt. 15, 21-28; Mc. 7, 24-30; Gv. 2,1-5. 4, 46-54. 5, 19-21 ), non per non voler beneficare i suoi simili, ma per manifestare la sua origine divina secondo tempi opportuni.
In tutto uguale agli altri uomini, distinto da loro nell’assenza del peccato e della concupiscenza carnale, distinto da loro anche dal suo esercizio di una scienza infusa e di altri doni soprannaturali, Gesù, tuttavìa, era un uomo come gli altri, nel senso che espletava gli elementari bisogni fisiologici ed era soggetto a sofferenze nell’anima e nel corpo, al lavoro, alla morte fisica ( e, per giunta, violenta ). Inoltre, apparteneva al grado più modesto della scala sociale e ai limiti dell’indigenza. Non si escludono in lui né la presenza di un certo fascino anche estetico e di una superiorità psicologica e morale nei comportamenti. Altrimenti non si spiegherebbero gli inizi della sequela da parte degli Apostoli e degli altri Discepoli, nonché la mancanza di indifferenza delle folle nei suoi confronti, tantomeno una ipotetica passione della Maddalena verso di lui ( un “gossip” tanto sbandierato ai giorni nostri ).
“Pur essendo nella forma di Dio…..” ( Fil. 2,5 ) equivale a dire che, prima dell’Incarnazione, Cristo pre-esiste in Dio e come Dio si trova in una condizione di esistenza gloriosa. Paolo, per designare quest’ultima, utilizza due vocaboli greci : “upérchein” e “morphé” . Con il primo intende “l’esserci” con “una nota di stabilità” (8); con “morphé” non soltanto l’aspetto esteriore e la manifestazione visibile di una cosa, ma anche la determinazione dell’esistenza. In che modo si dà un esserci ? Come esiste questo qualcosa o questo qualcuno ? Secondo Fil. 2,5-11 : come Dio ! Quindi la ‘forma’ può richiamare la ‘essenza’ ( anche se non ne é l’equivalente esatto ). Quanto meno é una “figura che scaturisce dalla natura reale di una persona” (9).
Bruno Maggioni sottolinea come la ‘storia di Gesù’ non sia altro che la “rivelazione di un ragionamento di Dio” (10). Il Signore non é stato geloso delle sue prerogative divine, ma ha voluto spogliarsele per condividere fino in fondo la condizione di una realtà finita. Ha illustrato all’uomo due maniere di esistere e di comportarsi per “potersi ritrovare”, “per essere-se-stesso” nel modo più autentico e vero : il ‘dono’ e la ‘umiltà’ . Due atteggiamenti che non sono possibili all’infuori del senso e della dinamica dell’ ‘amore’ . Se io amo una persona senza secondi fini, cosa non faccio se non elargisco qualcosa o, addirittura, me stesso ? “E-largire” significa ‘aprirsi’, e questo “aprirsi all’altro”, “offrirsi”, “darsi”, comporta l’impoverimento del proprio sé per perfezionare l’altro. Tutto l’opposto dell’egoismo che si fonda sulla chiusura del sé, del proprio essere, su una illusoria autosufficienza.
Un uomo per ‘essere-se-stesso’ autenticamente – parlando in termini paradossali- deve donare sé, rendere l’altro partecipe delle proprie prerogative. Addirittura in modo incondizionato, simile all’amore genitoriale ( quello materno in primo luogo ). Poi, se ricambiato con generosità, l’amore ti appaga, ti arricchisce, neutralizza l’angoscia e la solitudine. Pertanto, la perdita di una persona estremamente cara rappresenta un impoverimento del proprio sé, delle proprie energie, della propria e più profonda realtà. La semplice amicizia e l’amore coniugale possono essere un veicolo dell’amore universale di Dio per gli uomini e di questi ultimi tra di loro, in maniera disinteressata, solo se vengono garantiti nella loro purezza e salvaguardati dal pericolo dell’esclusivismo.
Questo crediamo che sia il prezioso succo del processo di ‘svuotamento’ e di ‘spoliazione’ che caratterizza la discesa del Logos in mezzo alle creature. L’autore dell’articolo non condivide tanto la riflessione di Settimio Cipriani (11) dove si insiste sul carattere “metaforico” della ‘kenosi’. Quello che ci espone la Fil. 2,5-11 non sembra mostrare una “immagine letteraria” per indurre a seguire un Cristo maestro morale di umiltà. Ma si tratta di un vero e proprio processo ontologico ed esistenziale, dove Dio, finitizzandosi in un uomo, si rende partecipe delle miserie e delle sofferenze che travagliano il creato, raggiungendo i livelli più bassi ai quali può condurre il peccato. E dove, sulla croce, la sua coscienza di uomo sperimenta la vertigine del nulla e il momento di più totale abbandono ed estraneità da parte di Dio ( si cfr. il grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” in Mt. 27,47 e in Mc. 15.34 ). Strana e sconvolgente teofania !
Lo ‘svuotamento’ non é da interpretare come una modificazione o cancellazione della natura divina, quanto una rinuncia alle prerogative, alla gloria e allo splendore che competono al Logos divino nella sua pre-esistenza; anche se non mancano circostanze eccezionali nelle quali Gesù fa ricorso ai suoi straordinari poteri divini ( come nel caso dei miracoli e, tra questi, delle resurrezioni; o come nella Trasfigurazione sul monte Tabor ).
Questa ‘kenosi di sé da parte di Dio’ viene portata all’estremo. Il Logos “ha voluto limitare anche di più la sua umanità, ponendosi in uno stato di completa obbedienza e sottomissione sia a Dio che agli uomini” (12)
Ultimo in tutto, quindi, nel rapporto con la madre carnale, il padre putativo e i parenti, con le autorità civili e religiose costituite, perfino con i suoi Apostoli, con tutti, salvaguardando, tuttavìa, i diritti della verità e del Vangelo e il giusto rispetto della Legge di Dio ai quali non può derogare ( e che lo porta al duro scontro con i Farisei, i Sinedriti, i mercanti del Tempio, ecc. ). Dimostra anche di avere un senso critico che lo induce a smascherare il carattere puramente convenzionale di certe tradizioni rabbiniche che appesantiscono e snaturano l’osservanza della Toràh. L’obbedienza agli uomini gli impedisce tanto di sprofondare in un gretto, banale ed esagerato conformismo, quanto di incorrere nella ribellione aperta. Il carattere originale della predicazione di Gesù non avvalora affatto la posizione grossolana di certi storici laicisti dei nostri “gloriosi” atenei statali che intendono farlo passare per un “rivoluzionario” di quei tempi lontani.
Obbedienza agli uomini sì, ma non a prezzo di alcun compromesso che possa pregiudicare la volontà di Jahveh, la cui sottomissione é assoluta. Gesù si trova a vivere i momenti drammatici, l’ultimo dei quali lo condurrà alla crocifissione, avvertendo l’acutezza dello scontro tra le due obbedienze che non vengono, però, equiparate come avviene per un conflitto di valori. Anche se sa, in modo premeditato e doloroso, di dover fare la scelta giusta al momento opportuno.
Gesù comprende che la ‘morte violenta’ é parte integrante e culmine del disegno divino, espressione della volontà del Padre e delle conseguenze di una perseverante e fiduciosa sottomissione a Dio. Anche durante il suo ministero pubblico -possiamo asserire heideggerianamente- anticipa questa “possibilità dell’impossibilità”, tanto nell’angoscia e nella tristezza, quanto nella paura, di fronte ad un evento certo ed ineluttabile, per quanto raccapricciante***.
***La condizione di Gesù può essere simile ma non uguale a quella di un uomo che va in guerra a combattere. Quest’ultimo si trova a dover fronteggiare un pericolo che può porre termine alla sua vita. Si badi quel “può”, perché vi sono altre possibilità equivalenti : quella di rimanere incolume e vincitore, oppure ferito, o disperso, o prigioniero o addirittura disertore.
Noi abbiamo solo la certezza della morte, ma non sappiamo di quale tipo, né le modalità, né il tempo. Gesù, invece, conosce in anticipo tutto e sa che deve subire l’evento della crocifissione. Sa di dover morire solo in quel modo. Quando giunge “l’ora”, avviene nel Gethsémani una spossante ed incredibile lotta interiore nel suo animo, dove si scontrano l’io carnale, caratterizzato dall’istinto di conservazione, e il vincente io razionale, conforme al piano divino di salvezza. L’unica possibilità, per un peccatore, di sfuggire la croce é disobbedire alla volontà di Dio. Sarebbe bastato un “no” solo intenzionale in Gesù, perché Dio potesse contraddire se stesso.
“Svuotò ( ekènosen ) se stesso col prendere forma di ‘servo’ “. “Dentro il percorso di Gesù é possibile scorgere due antitesi che ne descrivono, sia pure indirettamente, anche la persona” (13). L’antitesi al ‘Signore’ non é quella di una semplice creatura, ma quella di ‘servo’ (in greco ‘doùlos’), sconvolgendo il pregiudizio dominante in base al quale la schiavitù é considerata il livello più infimo di esistenza che possa interessare un uomo. Questa del ‘servo’, in tal modo, diviene la chiave ermeneutica per una diversa ed originale concezione della divinità****.
****Gesù, nella sua breve parentesi terrena, si trova a vivere in un contesto dove la ‘schiavitù’ é un istituto sociale connesso ad una economìa prevalentemente agricola. Infatti, nel mondo ellenistico-romano, allo ‘schiavo’ non viene riconosciuta una vera e propria dignità personale, come gli sono negati i diritti civili.
Limitato anche nell’esercizio di quelli naturali, si trova ad essere soggetto in tutto e per tutto alla discrezionalità o, addirittura, all’arbitrio del padrone che può anche farlo uccidere. Inoltre, non ha per niente il diritto di disporre, autonomamente, di se stesso in qualche modo.
La possibilità per uno schiavo di mutare, in positivo, la propria misera condizione sociale é molto minima. La stessa sensazione di vivere sotto la signorìa assoluta dell’altro lo accompagna per tutta la vita.
Con l’influsso della filosofia stoica e con l’affermazione del Cristianesimo, anche la legislazione romana stabilisce una serie di misure filantropiche miranti a tutelare la figura del ‘servo’.
Ovviamente, Gesù non é nato in una famiglia di schiavi ma, per l’estrema obbedienza riservata a Dio, egli si é qualificato come ‘servus’, riabilitando anche una figura sociale fin troppo disprezzata, improntando di ‘amore’, di ‘dedizione’ e di ‘fraternità’ il suo rapporto di dipendenza dal signore.
In alcune citazioni evangeliche, Gesù allude non tanto alla condizione di esistenza del servo, quanto al rapporto di obbedienza e di dedizione che il credente deve stabilire con Dio e verso il prossimo. Pensiamo al suo gesto della lavanda dei piedi degli Apostoli e al suo conseguente ‘discorso sul primato del servizio’ ( Gv. 13, 1-20 ).
E poi non dimentichiamo che, nell’ambiente israelitico, la situazione dello schiavo é meno peggiore rispetto a quella vigente presso i Gentili, non solo per alcuni spazi di autonomìa a lui concessi, ma anche per il fatto che ad esso può spettare, di competenza, anche l’amministrazione dei beni del suo padrone ( a Roma ciò può essere di pertinenza solo dei liberti ), come Gesù ci ricorda in una sua similitudine in Mt. 24. 45-51 . Il Maestro galileo, inoltre, loda il centurione romano di Cafarnao non solo per l’illimitata fiducia in lui e per l’interesse mostrato alla religione mosaica, ma anche per lo spirito di carità verso un suo schiavo che lo induce a sottomettersi di buon grado al Cristo ( Mt. 8, 5-13; Lc. 7, 1-10 ).
Ma é pur vero che Paolo, quando scrive “col prendere forma di servo”, si confronta con le profezie messianiche di Isaia che alludono ad una misteriosa figura nota come quella del ‘Servo di Jahveh’ :
“Ecco il mio servo che io ho scelto; il mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Porrò il mio spirito sopra di lui e annunzierà la giustizia alle genti. Non contenderà, né griderò, né si udrà sulle piazze la sua voce. La canna infranta non si spezzerò, non spegnerà il lucignolo fumigante, finché abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo nome spereranno le genti” ( Is. 42, 1-4 ).
Effettivamente, l’inno pre-paolino di Fil. 2, 5-11 richiama la tradizione profetica veterotestamentaria con l’espressione ‘forma di servo’ . Esaminiamo, al riguardo, il quarto carme isaiano sul Messìa :
“Ecco, il mio servo avrà successo, sarà innalzato, onorato, esaltato grandemente. Come molti si stupirono di lui tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo, così si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano fatto” ( Is. 52, 13-15 ).
Questo brano é un pò la chiave ermeneutica retrospettiva dell’espressione di Fil. 2,7 : “col prendere forma di servo, diventando simile agli uomini. E dopo essere stato trovato come un qualsiasi uomo nell’aspetto esterno”. Puntualizziamo la nostra attenzione su questo versetto paolino “diventando simile agli uomini” e su questo di Isaia “tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo”. Si noti bene : “simile”, cioè non uguale agli uomini sotto un certo rispetto.
L’inno non ci dice che Gesù ha assunto un corpo apparente, oppure che é un essere intermedio tra Dio e noi ( come, per esempio, può essere inteso un angelo ). Non viene messa in discussione la sua identità essenziale ( fuorché nel peccato ) con gli altri uomini.
Il processo di umiliazione e di spoliazione non concerne solo il fatto che Gesù diventi un uomo come gli altri, nascendo, crescendo, subendo gli stessi processi biologici, e morendo. Oppure ad una continua autolimitazione, anche in quanto uomo, perché soggetto all’obbedienza verso i suoi simili.
Esso é una “discesa” che non esclude la ‘derelizione’ , la quale sarà fatto compiuto durante la Passione, dove Cristo sarà sottoposto al potere mortifero dei suoi persecutori, in modo che -come predìce Isaia- il suo aspetto esteriore sarà così sfigurato tanto da apparire diverso ( e quindi “simile” ) dagli altri.
“E alla morte di Croce” : questa citazione sembra essere, secondo le osservazioni di alcuni biblisti, un’aggiunta originale di Paolo all’inno cristologico preesistente. Eppure in Fil. 2,5-11 si evince una ‘teologìa della croce’ o ‘staurologìa’ che si apre in tre direzioni : verso Gesù, verso il Padre e verso gli uomini (14). In rapporto al Padre la ‘croce’ esprime l’obbedienza assoluta ed incondizionata, dove il sacrificio diventa atto di omaggio e di adorazione ( nonché di accoglienza ), da parte di un uomo, a Dio e il culmine della redenzione. Significativo questo suggerimento di Maggioni : “Gesù ha condiviso la sorte dell’ultimo degli uomini” (15), quale può essere inteso uno schiavo, al quale può essere comminata la crocifissione.
La staurologìa di Fil. 2, 5-11, e più precisamente di Fil. 2,8, si regge sui verbi “fattosi obbediente” e “si umiliò” che ci indicano come la crocifissione non sia stata una circostanza fortuita, un semplice incidente di percorso capitato al Maestro galileo, ma la logica conseguenza di questa continua umiliazione e di questa estrema obbedienza al Padre celeste (16).
Quindi, anche la ‘croce’ trova la sua logicità che si ravvisa nel ragionamento con il quale Gesù non intende la sua ‘uguaglianza con Dio’ come un bottino da conservare (17). La ‘Croce’ diviene anche una chiave di comprensione di come Dio sia stato capace di rinunciare alla propria condizione di esistenza gloriosa per poter essere un uomo, per giunta il più reietto, uno “schiavo”, in modo da dimostrare ai sofferenti la propria solidarietà e condivisione nel destino.
E’ chiaro che chi ha composto questo inno cristologico di Fil. 2,5-11 é partito proprio dalla Croce per scoprire il volto dell’Essere supremo, anche se all’incontrario legge la storia di Gesù a partire da Dio(18).
Maggioni asserisce che l’ultimo atto della storia di Gesù Cristo consiste nella sua ‘glorificazione’ come il diretto contrario dello ‘svuotamento’ che funge, rispetto alla prima, da “conditio sine qua non”. Ma non é l’ultimo e conclusivo “capitolo” della ‘storia della salvezza’ (19). La condizione del ‘Servo di Jahveh’ non é definitiva ed assoluta. Se fosse tale, rasenterebbe la più totale insensatezza, la follia più accertata, una forma assurda, inaccettabile e repellente di masochismo o di vittimismo. Non é definitiva perché ha uno scopo ben delineato : il ristabilimento di una ‘signorìa’ universale originaria, compromessa e guastata dal peccato e dalla disobbedienza.
Richiamando una formula felice di Hegel, la ‘positività del negativo’, la condizione del ‘servo’ diventa, paradossalmente, privilegiata. Non perché quest’ultimo possa garantire al suo padrone, ma anche a se stesso, la sopravvivenza materiale con il lavoro. Ma perché acquisisce una coscienza superiore a quella di chi esercita il potere su di lui e dei suoi limiti, la consapevolezza delle potenzialità costruttive della sua esistenza sacrificata. Analogamente alla posizione dello schiavo, Gesù si rende consapevole che di fronte a Dio il peccato e la morte fisica vanno incontro al loro limite e non hanno l’ultima parola su tutto.
“Perciò Iddio lo ha anche sovraesaltato” ( Fil. 2,9 ) : quel “perciò” pone un “legame di causalità tra l’obbedienza della Croce e la gloria della esaltazione” (20). La ‘gloria’ é il frutto della ‘obbedienza’ (21), ma che non esclude l’iniziativa del Padre di donarla in modo gratuito tanto all’uomo Gesù che si é fatto obbediente fino al sacrificio della propria vita terrena per l’attuazione del ‘mysterion’, quanto al Logos preesistente che, incarnandosi in lui, si é svuotato delle sue prerogative divine, donandosi, a sua volta, al Padre e agli uomini nella più totale ‘derelizione’ . Il legame di causalità tra l’obbedienza e la gloria viene rivendicato da Gesù nella sua vita terrena, come attestato dalla tradizione sinottica : “chi si abbassa sarà innalzato” ( Mt. 23, 12; Lc. 18,14 ).
La ‘glorificazione’ deve avvenire attraverso la ‘sofferenza della croce’ . Gesù, in due occasioni, mostra di avere questa angosciosa ma tenace consapevolezza :
“ ‘L’anima mia é turbata e che devo dire ? Padre, salvami da quest’ora ? Ma per questo sono giunto a quest’ora ! Padre glorifica il tuo nome’. Venne allora una voce dal cielo : ‘L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò !’. La folla che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano : ‘un angelo gli ha parlato’. Rispose Gesù : ‘Questa voce non é venuta per me, ma per voi. Ora é il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” ( Gv. 12, 27-32 ).
“Così parlò Gesù. Quindi, alzati gli occhi al cielo, disse : ‘Padre, é giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa é la vita eterna : che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse……..Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola come noi” ( Gv. 17, 1-11 ).
II termine greco di ‘gloria’ é indicato, sia in Fil. 2,5-11 che negli scritti giovannei, con ‘doxa’ . Maggioni ci informa che con essa si intende tanto la ‘lode’ dal punto di vista della creatura, quanto la ‘manifestazione visibile di Dio’ perché, per l’appunto, l’uomo possa stupirsi, accettarlo, amarlo e riconoscerlo quale supremo Signore (22).
Parafrasando Gv. 12, 17 sembra che Gesù voglia dire : “Padre, manifestati in me !”. Secondo gli schemi religiosi israelitici, riferirsi al ‘Nome’ di Dio significa rapportarsi alla sua Persona, per la sussistenza di una stretta correlazione tra il nome e la realtà da esso designata. Per il pio ebreo Dio é innominabile nella sua assoluta inaccessibilità.
L’angoscia di Gesù si fa più pressante per l’avvicinarsi della fatidica ora della morte e rivela già una tensione tra l’istinto di conservazione e il principio di realtà. Parafrasando lo stesso versetto, é come se dicesse : “Non pensare a me, alla mia vita, ma solo a manifestare la tua potenza e la tua gloria”. Una voce dal cielo intende richiamare l’attenzione degli astanti, confermando le parole del Messìa. Per chi ammette il soprannaturalismo, é indubbio che parecchie persone assistano ad una rivelazione sorprendente di Dio. Non tutte percepiscono il fenomeno allo stesso modo ( forse un tuono, forse una voce magari penetrata direttamente nell’animo ), né la sua origine. E Gesù non precisa più di tanto, lasciando intendere che si tratti di una voce rivolta ai suoi ascoltatori.
Quanto alla ‘elevazione’ , la si può intendere a due livelli : sia attraverso la ‘crocifissione’, sia mediante la ‘resurrezione’ e la ’ascesa al cielo’.
E’ interessante esporre questo ragionamento. Non solo attraverso i miracoli e la sua predicazione, ma anche mediante l’obbedienza e la sofferenza –fino alla morte- del Logos incarnato, é avvenuta la glorificazione del Padre celeste. Attraverso il ‘martyrion’, la ‘testimonianza’ dalle azioni più elementari fino al sacrificio della propria esistenza terrena di Gesù, il Padre ha avuto la sua manifestazione visibile più solenne, sul piano storico, anche se non ultima e definitiva. Ora il Figlio di Dio incarnato invita il Padre a glorificarlo, a donargli, nella pienezza della sua unione ipostatica teandrica, quella gloria che il Logos possedeva ( e possiederà ) sul piano metastorico.
Questa gloria non é vista, per l’appunto, come un “tesoro geloso”, ma dovrà essere partecipata dagli uomini, da coloro che credono e crederanno nel Logos.
Sul piano storico Gesù sarà continuamente glorificato, prima dagli Apostoli e poi ( secondo la figura dell’enallage ) dai fedeli di tutte le generazioni, affinché “siano una cosa sola come noi” ( Gv. 17,11 ). Da non considerare l’ultimo versetto come una semplice metafora, se per ‘cosa’ si intende una realtà fatta di piena comunione tra il creato e il suo Autore.
L’inno cristologico utilizza un termine greco che rafforza, superlativamente, l’esaltazione di Gesù, dono del Padre : “hyperypsosen”. Che concerne un ‘sovraelevamento’, una “possente ascensione del Cristo” (23). “E’ la resurrezione con lui di tutto l’essere” (24). Non solo il ritorno ad un’esistenza originariamente gloriosa ma, per la natura umana, é anche il conseguimento della completezza.
Questo supremo atto divino, denominato “hyperypsosis”, concerne proprio il ristabilimento di quella signorìa che Dio aveva prima dell’Incarnazione, prima ancora che Satana e l’uomo la violassero con il peccato di disobbedienza.
Tuttavìa, é sbagliato pensare che l’atto sia stato compiuto una volta per tutte con l’uscita di Gesù, nel suo corpo risorto, dalla scena del mondo, come sembra suggerire il verbo “hyperypsosen” volto al passato. Si tratta piuttosto di un atto perenne e continuo perché metastorico, ma che si svolge anche nel tempo e nello spazio.
L’Apostolo delle Genti –come, del resto, tutti gli autori neotestamentari, non considera gli eventi della storia della salvezza come conclusi in sé, non solo per la constatazione che tali avvenimenti si richiamano l’un l’altro, oppure perché uno di essi é sempre foriero di conseguenze e “gravido dell’avvenire”. Ma anche perché ciascuno assume una dimensione metastorica che gli permette di trascendersi e di universalizzarsi. In caso contrario, la liturgia cristiana (prendiamo, per esempio, la celebrazione eucaristica) sarebbe una semplice commemorazione di atti del Signore, ormai conclusi una volta per tutte. Il rapporto tra Dio e le creature, nell’ottica neotestamentaria, richiama la distinzione tra l’eternità e il tempo. E una loro implicazione e compenetrazione. Mai la loro separazione. E gli autori biblici sanno molto bene questo dettaglio : quando indicano alcuni eventi importanti -che coinvolgono Gesù- utilizzano un tempo verbale indefinito.
Si esprime, per indicare un atto divino compiuto nel tempo, una forma verbale di passato, ma senza la funzione di indicarlo. Con un verbo volto al passato si descrive la qualità dell’azione colta nel suo svolgersi, senza prendere in considerazione la sua durata.
Così vale per la “hyperypsosis” di Gesù che é continuata nei cieli e sulla terra, nel senso che il Figlio di Dio si glorifica anche attraverso la Chiesa e in ognuno dei credenti che si conforma alla fede ricevuta.
L’atto di ‘innalzamento di Cristo’ –che non si riduce solo alla sua ascensione corporea- ha il suo momento culminante nel conferimento del ‘Nome’ che é al di sopra di ogni altro nome ( Fil. 2,9 ).
Conferire un “nome”, nell’ottica biblica, significa designare una profonda realtà e riconoscerla, effettivamente, per quella che essa é. Lo si é visto già nel racconto della creazione dell’uomo, secondo la tradizione jahvista, dove Adamo viene invitato da Dio a dare un nome a tutti gli esseri viventi ( Gn. 2, 19-20 ), esercitando un potere sul creato in virtù di una scienza a lui infusa. Si badi che a Gesù crocifisso e risorto non viene attribuito un nome, ma il ‘Nome’ per eccellenza che lo pone a livello di Dio ( nel senso che lo si riconosce solo con quello ), al di sopra di ogni altro essere.
Per i pii israeliti Dio ha il suo ‘Nome’ e molteplici attributi con tanto di superlativi assoluti. Esso non può neanche essere pronunciato se non con un rispetto elevato. E’ un nome che designa la sua essenza metafisica ma, durante la rivelazione sul Monte Horeb, andava inteso come “Io sono colui che sono” ( IHWH ) l’aiuto di Israele che farà uscire dall’Egitto, umiliando il Faraone.
Gesù risorto ha lo stesso nome di Dio. Rifacendosi alla tradizione veterotestamentaria, riprendendo una espressione di Isaia ( Is. 45, 23 ) che richiama il gesto di adorazione e di sottomissione – consistente nel “piegare il ginocchio” – di tutti gli esseri creati nei confronti di Jahveh, l’inno cristologico di Fil. 2,5-11 ribadisce che lo stesso atto deve essere rivolto a Gesù nella dignità assunta dalla sua natura umana, “dopo l’umiliazione dell’Incarnazione e della morte di croce” (25).
Ma qual é questo ‘Nome’ ( in greco “to onoma” ) da conferire a Gesù Cristo ?
L’inno di Fil. 2,5-11 lo cita al singolare, ma si guarda bene dal dirci qual é. Non é difficile immaginare che esso, in maniera implicita, si riferisca al sacro tetragramma I H W H che i pii ebrei non osano pronunciare, sostituendolo con il termine ‘Adonai’ che significa ‘Signore’.
Il Padre conferisce il Nome a Gesù. Ma cosa sta a significare ? Che il Nome non era mai appartenuto al Logos ? Si tratta, invece, proprio di riconoscere a quest’uomo, Gesù Cristo ( nel quale il Verbo si é incarnato ), che ha sofferto e morto in modo così violento per totale obbedienza a Dio, la stessa dignità divina e la sovranità universale su tutti gli esseri, permettendo così “di esercitare con pienezza i diritti di sovranità, di giustizia e di giudizio” (26).
Probabilmente Paolo ( come pure gli Evangelisti ) ha letto l’Antico Testamento nella versione greca detta dei ‘Settanta’, dove il termine ‘Adonai’ é tradotto con ‘Kyrios’. Duplice é lo scopo della ‘esaltazione’ : una ‘proclamazione universale’ che equivale ad una ‘confessione di fede’ ( nell’inno viene utilizzato il verbo “exomologhein” ), secondo la quale Gesù Cristo é il Signore ( Fil. 2,11 ), esprimentesi anche come assoluta ‘lode a Dio Padre Onnipotente’ ( Fil. 2,11 ).
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Una confessione che neanche le potenze avversarie al piano di Dio ( Fil. 2,10 ), quelle che agiscono nel mondo umano e le realtà infernali, possono ignorare e negare. E che viene richiesta alla fede dei credenti, soprattutto quelli contemporanei a Paolo di Tarso, e che “sostanzia” la propria vita su questa terra e nell’oltretomba. Non si può evitare nessuna circostanza che possa indurre a sottrarsi alla confessione della propria fede . Altro che a voce ! Addirittura fatta con il sacrificio della propria esistenza terrena.
I cristiani del I secolo, del tempo di Nerone e di Domiziano, hanno la gaudiosa ma anche tragica consapevolezza della loro vita inserita nell’ottica del ‘martyrion’, da meditare e vivere giorno per giorno, in un ambiente difficile, a loro diffidente e ostile, dove sono discriminati e vessati da parte del popolino e dei Giudei, ancor prima della persecuzione legale. Incorrendo poi in circostanze tremende dove non é possibile eludere una tale confessione di fede attraverso un conflitto di valori e di doveri, perché l’Imperatore di Roma ( come pure l’errore ) non ha gli stessi diritti di Dio ( e della verità ).
Domiziano, considerandosi “signore e dio”, esprimeva un atto di tracotanza, una “hybris”, una prevaricazione nei confronti della misura e del giusto equilibrio, urtando la suscettibilità anche dei pagani più rispettosi delle loro tradizioni religiose, nonché degli intellettuali onesti.
Non si é tenuti ad una cieca obbedienza, traducentesi in un atto di omaggio e di adorazione, per non compiere un attentato all’unità di Dio, del Dio biblico; ma anche per non essere ritenuti complici di un inaudito atto di superbia.
Il programma imperiale di una riforma religiosa che sarà perseguito, con tenace determinazione, da Domiziano e da altri “princeps”, mirava non solo a rafforzare l’assolutismo, ma anche a far valere una pretesa totalitaria a tutto il mondo romano. Che si doveva per forza interpretare in termini religiosi.
Il consenso alla persona dell’Imperatore non doveva essere solamente civile e politico, ma anche interiore. Il culto a questo monarca, in quanto “dominus et deus”, non era solo un atto liturgico a favore di un dio accanto ad altri. Possiamo affermare in questo modo : i diversi culti e le varie religioni del Mediterraneo del I secolo avevano il diritto di esistere solo se ritenuti subordinati e in funzione di quelli imperiali.
I pagani si assoggettavano a queste aberrazioni, dimostrando tutta la loro viltà di fronte alle disposizioni imperiali ed incoerenza nel tributare onori alle loro specifiche divinità.
Ma il riconoscimento della ‘signorìa’ di Gesù non può avvenire se non attraverso l’umiliazione più assoluta che non é tanto quella di farsi uomo di Dio, quanto quella del prendere la forma di ‘servo’, gratificando una categoria sociale reietta, dimostrando la sollecitudine dell’unico Creatore di tutte le cose non dalla parte del pre-potere, ma sempre nei confronti dei deboli, dei sofferenti, dei vessati.
Il Cristianesimo, tuttavìa, non si é mai diffuso come un tentativo di rivoluzione sociale. Esso ha sempre rispettato il principio di gerarchia e il diritto naturale della proprietà privata, accettando e coesistendo perfino con strutture socio-economico-giuridiche, sorte con il peccato, immettendovi in esse una nuova e vitale linfa, fatta di fraternità, di amore, di riconoscimento della dignità di qualsiasi uomo, il rispetto dei deboli e dei sofferenti, che deve improntare sempre i rapporti interpersonali, compresi quelli di interdipendenza.
Il ‘Vangelo’ si é proposto come un ‘rinnovamento delle coscienze’ : ha chiamato alla fede “il giudeo e il greco, lo schiavo e il libero, l’uomo e la donna, senza la pretesa di abolire distinzioni naturali o anche le disuguaglianze artificiali. Queste ultime sarebbero venute meno col tempo, grazie anche al trionfo dei principi cristiani nella società greco-romana e in virtù delle contingenze di fatto ( come, per esempio, la fine delle guerre di conquista da parte di Roma, le invasioni barbariche con connessi contrazione dei commerci e impoverimento delle campagne ).
Quella di Paolo é una religione che riesce ad assecondare la domanda di spiritualità e a rispondere alle esigenze di rigenerazione esistenziale anche di una grande massa di uomini senza speranza ( e tali non sono solo gli schiavi ) che prima hanno trovato un debole conforto nei culti misterici, opponendoli alle religioni delle classi medio-alte, ritenute, non a torto, come ipocrita espressione culturale e ideologica del predominio di altri uomini.
L’Apostolo indica, tuttavìa, un’oppressione e una sofferenza ancora peggiori che interessano tutti, potenti e deboli, ricchi e poveri : quelle legate al peccato, all’egoismo e al mancato disciplinamento delle passioni.
Cristo ha mostrato che il vero ‘servizio’ da vivere con umiltà e dono di sé controbatte la peggiore delle servitù, cioé quella al peccato e al demonio. Esso consiste nel “fare la volontà di Dio” e nell’amore disinteressato verso il prossimo e, addirittura, verso i nemici (Mt. 5,43-48; Lc. 6,27-36).

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La valenza teologica della ‘Croce’ di Cristo permette al neofita di fissare la concentrazione di tutta la storia della salvezza e del ‘mysterion’ divino in quello strumento di morte ( e, paradossalmente, di vita ), in quell’evento, in modo che tutto ciò che attiene alla Rivelazione biblica non potrà mai risultare concepibile al di fuori di esso. All’infuori della ‘croce’ più nulla é comprensibile.
Divenendo il segno inequivocabile di una fede che dura da due millenni.
Una tale valenza rispecchiata così bene in questo densissimo e mirabile inno cristologico della Lettera ai Filippesi.

Athanasius, Bishop of Alexandria, 373

Athanasius, Bishop of Alexandria, 373 dans immagini sacre

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BENEDETTO XVI: SANT’ATANASIO DI ALESSANDRIA – 2 APRILE

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070620.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 20 giugno 2007

SANT’ATANASIO DI ALESSANDRIA – 2 APRILE

Cari fratelli e sorelle,

continuando la nostra rivisitazione dei grandi Maestri della Chiesa antica, vogliamo rivolgere oggi la nostra attenzione a sant’Atanasio di Alessandria. Questo autentico protagonista della tradizione cristiana, già pochi anni dopo la morte, venne celebrato come «la colonna della Chiesa» dal grande teologo e Vescovo di Costantinopoli Gregorio Nazianzeno (Discorsi 21,26), e sempre è stato considerato come un modello di ortodossia, tanto in Oriente quanto in Occidente. Non a caso, dunque, Gian Lorenzo Bernini ne collocò la statua tra quelle dei quattro santi Dottori della Chiesa orientale e occidentale – insieme ad Ambrogio, Giovanni Crisostomo e Agostino –, che nella meravigliosa abside della Basilica vaticana circondano la Cattedra di san Pietro.
Atanasio è stato senza dubbio uno dei Padri della Chiesa antica più importanti e venerati. Ma soprattutto questo grande Santo è l’appassionato teologo dell’incarnazione del Logos, il Verbo di Dio, che – come dice il prologo del quarto Vangelo – «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Proprio per questo motivo Atanasio fu anche il più importante e tenace avversario dell’eresia ariana, che allora minacciava la fede in Cristo, riducendolo ad una creatura «media» tra Dio e l’uomo, secondo una tendenza ricorrente nella storia, e che vediamo in atto in diversi modi anche oggi. Nato probabilmente ad Alessandria, in Egitto, verso l’anno 300, Atanasio ricevette una buona educazione prima di divenire diacono e segretario del Vescovo della metropoli egiziana, Alessandro. Stretto collaboratore del suo Vescovo, il giovane ecclesiastico prese parte con lui al Concilio di Nicea, il primo a carattere ecumenico, convocato dall’imperatore Costantino nel maggio del 325 per assicurare l’unità della Chiesa. I Padri niceni poterono così affrontare varie questioni, e principalmente il grave problema originato qualche anno prima dalla predicazione del presbitero alessandrino Ario.
Questi, con la sua teoria, minacciava l’autentica fede in Cristo, dichiarando che il Logos non era vero Dio, ma un Dio creato, un essere «medio» tra Dio e l’uomo, e così il vero Dio rimaneva sempre inaccessibile a noi. I Vescovi riuniti a Nicea risposero mettendo a punto e fissando il «Simbolo della fede» che, completato più tardi dal primo Concilio di Costantinopoli, è rimasto nella tradizione delle diverse confessioni cristiane e nella Liturgia come il Credo niceno-costantinopolitano. In questo testo fondamentale – che esprime la fede della Chiesa indivisa, e che recitiamo anche oggi, ogni domenica, nella Celebrazione eucaristica – figura il termine greco homooúsios, in latino consubstantialis: esso vuole indicare che il Figlio, il Logos, è «della stessa sostanza» del Padre, è Dio da Dio, è la sua sostanza, e così viene messa in luce la piena divinità del Figlio, che era negata dagli ariani.
Morto il Vescovo Alessandro, Atanasio divenne, nel 328, suo successore come Vescovo di Alessandria, e subito si dimostrò deciso a respingere ogni compromesso nei confronti delle teorie ariane condannate dal Concilio niceno. La sua intransigenza, tenace e a volte molto dura, anche se necessaria, contro quanti si erano opposti alla sua elezione episcopale e soprattutto contro gli avversari del Simbolo niceno, gli attirò l’implacabile ostilità degli ariani e dei filoariani. Nonostante l’inequivocabile esito del Concilio, che aveva con chiarezza affermato che il Figlio è della stessa sostanza del Padre, poco dopo queste idee sbagliate tornarono a prevalere – in questa situazione persino Ario fu riabilitato –, e vennero sostenute per motivi politici dallo stesso imperatore Costantino e poi da suo figlio Costanzo II. Questi, peraltro, che non si interessava tanto della verità teologica quanto dell’unità dell’Impero e dei suoi problemi politici, voleva politicizzare la fede, rendendola più accessibile – secondo il suo parere – a tutti i sudditi nell’Impero.
La crisi ariana, che si credeva risolta a Nicea, continuò così per decenni, con vicende difficili e divisioni dolorose nella Chiesa. E per ben cinque volte – durante un trentennio, tra il 336 e il 366 – Atanasio fu costretto ad abbandonare la sua città, passando diciassette anni in esilio e soffrendo per la fede. Ma durante le sue forzate assenze da Alessandria, il Vescovo ebbe modo di sostenere e diffondere in Occidente, prima a Treviri e poi a Roma, la fede nicena e anche gli ideali del monachesimo, abbracciati in Egitto dal grande eremita Antonio con una scelta di vita alla quale Atanasio fu sempre vicino. Sant’Antonio, con la sua forza spirituale, era la persona più importante nel sostenere la fede di sant’Atanasio. Reinsediato definitivamente nella sua sede, il Vescovo di Alessandria poté dedicarsi alla pacificazione religiosa e alla riorganizzazione delle comunità cristiane. Morì il 2 maggio del 373, giorno in cui celebriamo la sua memoria liturgica.
L’opera dottrinale più famosa del santo Vescovo alessandrino è il trattato su L’incarnazione del Verbo, il Logos divino che si è fatto carne divenendo come noi per la nostra salvezza. Dice in quest’opera Atanasio, con un’affermazione divenuta giustamente celebre, che il Verbo di Dio «si è fatto uomo perché noi diventassimo Dio; egli si è reso visibile nel corpo perché noi avessimo un’idea del Padre invisibile, ed egli stesso ha sopportato la violenza degli uomini perché noi ereditassimo l’incorruttibilità» (54,3). Con la sua risurrezione, infatti, il Signore ha fatto sparire la morte come se fosse «paglia nel fuoco» (8,4). L’idea fondamentale di tutta la lotta teologica di sant’Atanasio era proprio quella che Dio è accessibile. Non è un Dio secondario, è il Dio vero, e tramite la nostra comunione con Cristo noi possiamo unirci realmente a Dio. Egli è divenuto realmente «Dio con noi».
Tra le altre opere di questo grande Padre della Chiesa – che in gran parte rimangono legate alle vicende della crisi ariana – ricordiamo poi le quattro lettere che egli indirizzò all’amico Serapione, Vescovo di Thmuis, sulla divinità dello Spirito Santo, che viene affermata con nettezza, e una trentina di lettere «festali», indirizzate all’inizio di ogni anno alle Chiese e ai monasteri dell’Egitto per indicare la data della festa di Pasqua, ma soprattutto per assicurare i legami tra i fedeli, rafforzandone la fede e preparandoli a tale grande solennità.
Atanasio è, infine, anche autore di testi meditativi sui Salmi, poi molto diffusi, e soprattutto di un’opera che costituisce il best seller dell’antica letteratura cristiana: la Vita di Antonio, cioè la biografia di sant’Antonio abate, scritta poco dopo la morte di questo Santo, proprio mentre il Vescovo di Alessandria, esiliato, viveva con i monaci del deserto egiziano. Atanasio fu amico del grande eremita, al punto da ricevere una delle due pelli di pecora lasciate da Antonio come sua eredità, insieme al mantello che lo stesso Vescovo di Alessandria gli aveva donato. Divenuta presto popolarissima, tradotta quasi subito in latino per due volte e poi in diverse lingue orientali, la biografia esemplare di questa figura cara alla tradizione cristiana contribuì molto alla diffusione del monachesimo, in Oriente e in Occidente. Non a caso la lettura di questo testo, a Treviri, è al centro di un emozionante racconto della conversione di due funzionari imperiali, che Agostino colloca nelle Confessioni (VIII,6,15) come premessa della sua stessa conversione.
Del resto, lo stesso Atanasio mostra di avere chiara coscienza dell’influsso che poteva avere sul popolo cristiano la figura esemplare di Antonio. Scrive infatti nella conclusione di quest’opera: «Che fosse dappertutto conosciuto, da tutti ammirato e desiderato, anche da quelli che non l’avevano visto, è un segno della sua virtù e della sua anima amica di Dio. Infatti non per gli scritti né per una sapienza profana né per qualche capacità è conosciuto Antonio, ma solo per la sua pietà verso Dio. E nessuno potrebbe negare che questo sia un dono di Dio. Come infatti si sarebbe sentito parlare in Spagna e in Gallia, a Roma e in Africa di quest’uomo, che viveva ritirato tra i monti, se non l’avesse fatto conoscere dappertutto Dio stesso, come egli fa con quanti gli appartengono, e come aveva annunciato ad Antonio fin dal principio? E anche se questi agiscono nel segreto e vogliono restare nascosti, il Signore li mostra a tutti come una lucerna, perché quanti sentono parlare di loro sappiano che è possibile seguire i comandamenti e prendano coraggio nel percorrere il cammino della virtù» (93,5-6).
Sì, fratelli e sorelle! Abbiamo tanti motivi di gratitudine verso sant’Atanasio. La sua vita, come quella di Antonio e di innumerevoli altri Santi, ci mostra che «chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino» (Deus caritas est, 42).

SAN PAOLO (VERSO ROMA)

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SAN PAOLO (VERSO ROMA)

Paolo (Saulo), ebreo di Tarso in Cilicia e cittadino romano, chiamato da Gesù tra gli apostoli mentre si sta recando a Damasco per organizzare la persecuzione contro i cristiani, è sepolto a Roma. Nella capitale dell’Impero era giunto nella primavera del 61, prigioniero, per essere sottoposto al giudizio di Nerone al quale si era appellato, in quanto cittadino romano, dopo l’arresto avvenuto a Gerusalemme nel 58, accusato da alcuni giudei di avere oltraggiato la legge di Mosè. Il viaggio di Paolo è descritto da Luca, che lo accompagnò, negli Atti degli Apostoli (At 27, 1-44): per nave a Malta, toccando prima le isole di Cipro e di Creta, poi a Siracusa, Reggio, Pozzuoli, quindi lungo la via Appia a Forum Appi (presso Terracina) e alle Tres Tabernae (Pizzo Cardinale, a pochi chilometri dall’attuale Cisterna), località presso le quali gli vennero incontro i cristiani di Roma, per giungere infine nell’Urbe. Qui rimase sotto custodia militaris (cioè libero di abitare in casa propria ma sotto la sorveglianza di un soldato) in attesa del processo, che non avvenne verosimilmente perché i suoi accusatori non si presentarono a Roma. Una tradizione indica come abitazione di Paolo un edificio presso il Tevere, dove ora sorge la chiesa di San Paolo alla Regola (qui le indagini archeologiche hanno finora attestato strutture romane della fine del I secolo d.C.); e si è voluta indicare un’altra successiva dimora dell’apostolo presso la domus di Aquila e Prisca, sull’Aventino, nel luogo dove ora sorge la chiesa dedicata a santa Prisca. Liberato dalla prigionia, forse Paolo non era più a Roma nel 64, l’anno di inizio della persecuzione neroniana. Vi tornò però subito dopo, di nuovo prigioniero e questa volta trattenuto in carcere, nel 66 o nel 67, anno in cui subì il processo e il martirio per decapitazione. Il passo di papa Clemente, già citato a proposito di Pietro, fa intuire che l’arresto di Paolo e la sua condanna avvennero per denuncia di cristiani; e alcune parole rivolte a Timoteo testimoniano del suo abbandono e della sua solitudine: «Dema mi ha abbandonato avendo preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica» (2Tm 4, 10); «Solo Luca è con me» (2 Tm 4, 11); «Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro» (2 Tm 4, 16).
Varie tradizioni accomunano Pietro e Paolo nelle circostanze del martirio: dalla loro comune detenzione nel Carcere Mamertino a quella del loro ultimo incontro lungo la via Ostiense, poco fuori di Roma; anche se, come già detto, gli studi più recenti e accettati tendono a collocare in anni differenti il martirio di Pietro e quello di Paolo. È però costante e molto antica la tradizione, risalente al II secolo, che pone il martirio di Paolo nel luogo detto Ad Aquas Salvias, subito fuori dall’abitato cittadino, dove indagini archeologiche della fine del XIX secolo hanno attestato testimonianze risalenti al I secolo, e dove nel V secolo venne edificata la chiesa di San Paolo Ad Tres fontes, attualmente compresa nell’abbazia delle Tre Fontane. La sua sepoltura avvenne invece in un’area cimiteriale lungo la via Ostiense, in un podere, secondo la tradizione, di proprietà di una certa Lucina (praedium Lucinae); ci è testimoniata per la prima volta dal passo di Gaio, già citato a proposito di Pietro, che alla fine del II secolo, al tempo del pontificato di papa Zefirino (198-217), dice: «Io posso mostrarti i trofei degli apostoli. Se vorrai recarti sul Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa» (in Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, II, 25, 6-7). Giova ancora qui ripetere che, utilizzando la parola greca trópaion, Gaio non vuole alludere primariamente alla struttura architettonica, che dovette senz’altro esserci, ma, in senso proprio, al suo contenuto, cioè al corpo del martire, nel quale si è mostrata la vittoria di Cristo: è questo il “trofeo della vittoria”. Tracce di parte della necropoli dove fu sepolto Paolo, sviluppatasi dal I secolo a.C. fino a tutto il IV secolo, riportate alla luce e recintate, sono tuttora visibili lungo la via Ostiense, presso l’attuale basilica di San Paolo. Il Liber pontificalis, in cui sono raccolte le biografie dei vescovi di Roma fino al tardo Medioevo, ci informa che Costantino edificò sul sepolcro di Paolo una Basilica, che dunque deve datarsi agli anni precedenti al 337, anno della morte di Costantino. Di questa prima costruzione non sono state ritrovate tracce sicure, nonostante alcune ipotesi anche recentemente riproposte a proposito di una piccola abside (che a rigor di logica potrebbe essere pertinente a un qualsiasi mausoleo della necropoli in cui avvenne la sepoltura di Paolo) emersa di fronte all’altare della Basilica durante scavi nel 1850, che testimonierebbe un edificio molto più piccolo dell’attuale e con orientamento opposto. Verso il 384-386 i tre imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio in un rescritto al praefectus Urbi Sallustio prescrissero di decorare (ornare), ampliare (amplificare) e innalzare, o meglio far più grande e magnifica (attollere) la chiesa costruita sulla tomba dell’apostolo, in funzione anche della notevole quantità dei pellegrini. Ne risultò una Basilica a cinque navate, di notevole grandezza, con un transetto larghissimo. Questa Basilica rimase grosso modo intatta fino al XIX secolo, quando il rovinoso incendio sviluppatosi il 26 luglio del 1823 la fece in gran parte rovinare, senza peraltro intaccare il luogo del sepolcro di Paolo. Quella che a noi resta, ricostruita nei tre decenni seguenti, è dunque solamente una copia della Basilica del IV secolo. Il già citato Liber pontificalis (la cui redazione risale al VI secolo, ma su fonti che sicuramente si rifanno a tempi ben più antichi) ci informa anche che Costantino aveva fatto chiudere il corpo di Paolo in una cassa di bronzo, contenuta e protetta da un ambiente murato, a similitudine del sepolcro di Pietro. La cassa, sulla quale era posta una grande croce d’oro del peso di 150 libbre, dovrebbe trovarsi (la mancanza di verifiche impone di usare il condizionale) al di sotto del livello del pavimento della Basilica costantiniana, più basso rispetto al livello di quella, successiva, dei tre imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio. Al luogo della sepoltura corrisponde ora, più in alto, l’altare centrale. La sistemazione della confessione paolina, così come sopra descritta, non fu mai sostanzialmente modificata nel corso dei secoli, se non nel suo intorno, una prima volta all’epoca di papa Leone Magno (440-461), che rialzò il transetto, e una seconda volta quando papa Gregorio Magno (590-604), dopo un ulteriore rialzamento del livello pavimentale, fece scavare una cripta che si sviluppava con un percorso anulare attorno alla tomba dell’apostolo, permettendo l’accesso e la visita dei fedeli. Di questa cripta rimane tuttora una parte, quella di fronte all’altare, mentre la restante parte andò distrutta nel corso di lavori di restauro eseguiti nel XVI secolo, che resero non più direttamente accessibile il luogo dove sono custodite le spoglie mortali di Paolo. All’attuale livello del presbiterio, al di sotto dell’altare, si trova una lastra marmorea, formata da due pezzi diversi uniti fra loro, che reca incise le parole “PAULO APOSTOLO MART(YRI)” (“a Paolo apostolo e martire”), risalente presumibilmente al V secolo. Sulla lastra tre fori, uno circolare e due rettangolari, introducono a tre pozzetti (cataractae) comunicanti tra di loro, usati per tutto il Medioevo per ottenere reliquie per contatto mediante l’inserimento di brandea (strisce di stoffa). Il sepolcro paolino è rimasto pressoché intatto fino ai giorni nostri senza che nessuno lo abbia mai toccato. Mentre la Basilica veniva ricostruita, furono eseguiti anche, nel gennaio 1838, scavi nell’area della confessione; non si poté però esaminare a fondo la tomba dell’apostolo, per l’esplicito divieto del papa Gregorio XVI. Ma l’architetto Virginio Vespignani (colui che curò la riedificazione della basilica nella forma che oggi vediamo) poté osservare da vicino ciò che era rimasto precluso agli occhi di tutti per secoli, ed eseguì degli schizzi a documentazione di quella occasionale ricognizione che però non giunse fino all’apertura della cassa sepolcrale. Lo studio di questa documentazione, unitamente ad alcuni saggi avvenuti ultimamente nella zona dell’altare, ha permesso di evidenziare la quota dei livelli pavimentali più recenti fino a quello della Basilica dei Tre Imperatori. Tra questo e l’altare si è liberata parte del lato lungo di quella che è stata interpretata come una cassa marmorea, sul cui coperchio un foro circolare (ora occluso) è in corrispondenza col foro circolare presente sulla soprastante lastra con l’epigrafe “PAULO APOSTOLO MART(YRI)”. Non sono state al momento compiute indagini all’interno della supposta cassa. Dato il livello, non si tratta però comunque dell’originaria sepoltura di Paolo, che si trova a un livello sicuramente inferiore (al di sotto dovrebbe trovarsi il livello costantiniano e ancora al di sotto di questo quello corrispondente al trópaion citato da Gaio), ma non si può escludere una traslazione “verticale” del corpo di Paolo in un luogo più elevato alla fine del IV secolo, come avvenne (in epoca diversa) per quello di Pietro. Dal 2006 nella confessione della Basilica ostiense è stato rimosso l’altare moderno dedicato a un san Timoteo martire del IV secolo ed è così visibile parte dell’area sottostante all’altare e alla lastra con l’epigrafe.
È opportuno anche segnalare qui, come fatto a proposito di Pietro, l’epigrafe di papa Damaso (366-384) presso la Memoria Apostolorum ad catacumbas lungo la via Appia (oggi Basilica di San Sebastiano), che dice: «Chiunque sei che cerchi i nomi congiunti di Pietro e di Paolo, sappi che questi santi hanno qui riposato (habitasse) un tempo. L’Oriente inviò i discepoli – lo affermano volentieri – ed essi, grazie al sangue del martirio e alla eccelsa sequela di Cristo, hanno raggiunto le regioni celesti e il regno dei giusti. Roma ha piuttosto meritato di rivendicarli come suoi cittadini. Questo in vostra lode canta Damaso, o nuovi luminari». Sulla base di questo testo, e della presenza nelle catacombe di numerose iscrizioni di invocazione congiunta a Pietro e Paolo, si è ipotizzata una temporanea traslazione delle reliquie dei due fondatori della Chiesa di Roma in questo luogo nel periodo della persecuzione avviata dall’imperatore Valeriano (258): ma siamo nel campo delle ipotesi di studio.
Infine, una tradizione medievale vuole che la testa di Paolo e quella di Pietro siano state conservate dall’VIII secolo nel Sancta Sanctorum e poi trasferite da papa Urbano V, il 16 aprile 1369, nei due busti argentei all’interno del ciborio della Basilica lateranense. Una ricognizione venne compiuta il 23 luglio 1823 dal cardinale Antonelli; mentre indagini scientifiche dagli esiti incerti sono state compiute qualche decennio fa, nell’ambito delle ricerche su Pietro. 

PADRE CANTALAMESSA : LA PACE DI CRISTO REGNI NEI VOSTRI CUORI (COL 3,15)

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PADRE CANTALAMESSA : LA PACE DI CRISTO REGNI NEI VOSTRI CUORI (COL 3,15)

20 DICEMBRE 2014

1. La pace frutto dello Spirito
San Paolo pone la pace al terzo posto tra i frutti dello Spirito: “Il frutto dello Spirito, dice, è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, dominio di sé” (Gal 5, 22). Cosa sono “i frutti dello Spirito”, lo scopriamo proprio analizzando il contesto in cui tale idea ricorre. Il contesto è quello della lotta tra la carne e lo spirito, cioè tra il principio che regola la vita dell’uomo vecchio, pieno di concupiscenze e voglie terrene, e quello che regola la vita dell’uomo nuovo, condotto dallo Spirito di Cristo. Nell’espressione “frutti dello Spirito”, “spirito” non indica lo Spirito Santo in se stesso, quanto il principio della nuova esistenza, o anche “l’uomo che si lascia guidare dallo Spirito”.
A differenza dei carismi, che sono opera esclusiva dello Spirito, che li dà a chi vuole e quando vuole, i frutti sono il risultato di una collaborazione tra la grazia e la libertà. Sono, dunque, ciò che intendiamo oggi per virtù, se diamo a questa parola il senso biblico di un abituale agire “secondo Cristo”, o “secondo lo Spirito”, anziché il senso filosofico aristotelico di un abituale agire “secondo retta ragione”. Ancora, a differenza dei doni dello Spirito che sono diversi da persona a persona, i frutti dello Spirito sono identici per tutti. Non tutti nella Chiesa possono essere apostoli, profeti, evangelisti; ma tutti indistintamente, dal primo all’ultimo, possono e debbono essere caritatevoli, pazienti, umili, pacifici.
La pace frutto dello Spirito è dunque distinta dalla pace dono di Dio e dalla pace come compito per cui lavorare. Indica la condizione abituale (habitus), lo stato d’animo e lo stile di vita di chi, mediante lo sforzo e la vigilanza, ha raggiunto una certa pacificazione interiore. La pace frutto dello spirito è la pace del cuore. Ed è di questa cosa tanto bella e tanto desiderata che oggi parleremo. Essa è, sì, distinta dal compito di essere operatori di pace, ma serve meravigliosamente anche a questo scopo. Il titolo del messaggio di papa Giovanni Paolo II per la Giornata mondiale della pace del 1984 diceva: “La pace nasce da un cuore nuovo” e Francesco d’Assisi, mandando i suoi frati per il mondo, raccomandava loro: “La pace che annunciate con la bocca, abbiatela anzitutto nei vostri cuori”.[1]
2. La pace interiore nella tradizione spirituale della Chiesa
Il raggiungimento della pace interiore o del cuore ha impegnato lungo i secoli tutti i grandi cercatori di Dio. In Oriente, a cominciare dai Padri del deserto, tale sforzo si è concretizzato nell’ideale della hesychia, cioè dell’esicasmo, o della quiete. In esso si è osato proporsi e proporre agli altri un traguardo altissimo, se non addirittura sovraumano: sottrarre alla mente ogni pensiero, alla volontà ogni desiderio, alla memoria ogni ricordo, per lasciare alla mente il solo pensiero di Dio, alla volontà il solo desiderio di Dio e alla memoria il solo ricordo di Dio e di Cristo (la mneme Theou). Una lotta titanica contro i pensieri (logismoi), non solo quelli cattivi, ma anche quelli buoni. Esempio estremo di questa pace ottenuta con una guerra feroce, è rimasto nella tradizione monastica il monaco Arsenio il quale, alla domanda “che devo fare per salvarmi?”, si senti rispondere da Dio: “ Arsenio, fuggi, taci e mantieniti nella quiete” (alla lettera, pratica l’hesychia)[2].
Più tardi questa corrente spirituale darà luogo alla pratica della preghiera del cuore, o preghiera ininterrotta, tuttora largamente praticata nella cristianità orientale e di cui “I racconti di un pellegrino russo” sono l’esempio più suggestivo. All’inizio però non si identificava con essa. Era un modo per giungere alla perfetta tranquillità del cuore; non una tranquillità vuota e fine a se stessa, ma una tranquillità piena, simile a quella dei beati, un cominciare a vivere in terra la condizione dei santi in cielo.
La tradizione occidentale ha perseguito lo stesso ideale ma per altre vie, accessibili sia a quelli che praticano la vita contemplativa che a quelli che praticano una vita attiva. La riflessione comincia con Agostino. Egli dedica un libro intero del De civitate Dei a riflettere sulle diverse forme della pace, dando per ognuna una definizione che ha fatto scuola fino ai nostri giorni, tra cui quella classica della pace come “tranquillitas ordinis”, tranquillità dell’ordine.
Ma è soprattutto con quello che dice nelle Confessioni che Agostino ha influito nel delineare l’ideale della pace del cuore. Egli rivolge a Dio, all’inizio del libro una parola destinata ad avere una risonanza immensa in tutto il pensiero successivo: “Tu ci hai fatto per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”[3]. Più avanti egli illustra questa affermazione con l’esempio della gravità. Scrive:
“Nella buona volontà è la nostra pace. Ogni corpo, a motivo del suo peso, tende al luogo che gli è proprio. Un peso non trascina soltanto al basso, ma al luogo che gli è proprio. Il fuoco tende verso l’alto, la pietra verso il basso, spinti entrambi dal loro peso a cercare il loro luogo… Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto”.[4]
Finché siamo su questa terra il luogo del nostro riposo è la volontà di Dio, l’abbandono ai suoi voleri. “Non si trova requie se non si consente alla volontà di Dio senza resistenza”[5]. Dante Alighieri riassumerà questo pensiero agostiniano nel suo celebre verso: “En la sua volontate è nostra pace”[6].
Solo in cielo questo luogo di riposo sarà Dio stesso. Agostino termina, perciò, la sua trattazione del tema della pace con un appassionato elogio della pace della Gerusalemme del cielo che vale la pena ascoltare per infiammarci anche noi del desiderio di essa:
“Vi è poi la pace finale […] In quella pace non è necessario che la ragione domini gli impulsi perché non ci saranno, ma Dio dominerà l’uomo, l’anima spirituale il corpo e sarà così grande la serenità e la disponibilità alla sottomissione, quanto è grande la delizia del vivere e dominare. E allora in tutti e singoli questa condizione sarà eterna e si avrà la certezza che è eterna e perciò la pace di tale felicità ossia la felicità di tale pace sarà il sommo bene”.[7]
La speranza di questa pace eterna ha improntato tutta la liturgia dei defunti. Espressioni come “Pax”, “In pace Christi”, “Requiescat in pace” sono le più frequenti sulle tombe dei cristiani e nelle preghiere della Chiesa. La Gerusalemme celeste, con allusione all’etimologia del nome, è definita “beata pacis visio”[8], beata visione di pace.
3. La via della pace
La visione di Agostino della pace interiore come adesione alla volontà di Dio trova una conferma e un approfondimento nei mistici. Maestro Eckhart scrive: “Nostro Signore dice: ‘In me soltanto avrete pace’ (cf. Gv 16,33). Più si penetra in Dio, più si penetra nella pace. Chi ha ormai il suo io in Dio ha la pace; chi ha il suo io fuori di Dio non ha la pace”[9]. Non si tratta quindi soltanto di aderire alla volontà di Dio, ma di non avere altra volontà che quella di Dio, di morire del tutto alla propria volontà. La stessa cosa si legge, sotto forma di esperienza vissuta, in santa Angela da Foligno: “Successivamente la divina bontà, di due volontà, ne fece una sola, di modo che non posso volere se non come vuole Dio.[…] Non mi trovo più nella solita condizione, ma sono stata condotta a una pace, in cui sto con lui e sono contenta di ogni cosa”[10].
Uno sviluppo diverso, ascetico più che mistico, si ha con sant’Ignazio di Loyola con la sua dottrina della “santa indifferenza”.[11] Essa consiste nel porsi in uno stato di totale disponibilità ad accogliere la volontà di Dio, rinunciando, in partenza, a ogni preferenza personale, come una bilancia pronta a inclinarsi dal lato dove sarà il peso maggiore. L’esperienza della pace interiore diventa così il criterio principale in ogni discernimento. È da ritenersi conforme al volere di Dio, la scelta, che dopo prolungata ponderazione e preghiera, è accompagnata da maggior pace del cuore.
Nessuna sana corrente spirituale però, né in Oriente né in Occidente, ha mai pensato che la pace del cuore sia una pace a basso prezzo e senza sforzo. Provò a sostenerlo, nel medio evo, la setta “del libero Spirito” e nel secolo XVII, il movimento quietista, ma furono entrambi condannati dalla gerarchia e dalla coscienza della Chiesa. Per mantenere e accrescere la pace del cuore bisogna domare, momento per momento, specie agli inizi, una rivolta: quella della carne contro lo spirito.
Gesú lo aveva detto in mille modi: “Chi vuol venire dietro a me rinneghi se stesso”, “chi ama la propria vita la perderà, chi perde la propria vita la troverà” (cf. Mc 8, 34-35). C’è una falsa pace che Gesú dice di essere venuto a togliere, non a portare sulla terra (cf. Mt 10, 34). Paolo tradurrà tutto questo in una specie di legge fondamentale della vita cristiana:
“Quelli infatti che vivono secondo la carne, tendono verso ciò che è carnale; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, tendono verso ciò che è spirituale. Ora, la carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio…. Se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete” (Rom 8, 5-13).
L’ultima frase contiene un insegnamento importantissimo. Lo Spirito Santo non è la ricompensa ai nostri sforzi di mortificazione, ma ciò che li rende possibili e fruttuosi; non è solo alla fine ma anche all’inizio del processo: “Se, mediante lo Spirito, fate morire le opere del corpo, voi vivrete”. In questo senso si dice che la pace è frutto dello Spirito; essa è il risultato del nostro sforzo, reso possibile dallo Spirito di Cristo. Una mortificazione volontaristica e troppo fiduciosa di se stessa può diventare (e lo è diventata spesso) anch’essa un’opera della carne.
Tra coloro che hanno illustrato lungo i secoli questa via alla pace del cuore, spicca, per concretezza e realismo, l’autore della Imitazione di Cristo. Egli immagina una specie di dialogo tra il Maestro divino e il discepolo, come tra un padre e il proprio figlio:
Maestro:“Figlio mio, ora ti insegnerò la via della pace e della vera libertà”.
Discepolo: “Fa’, o Signore, come tu dici; mi è gradito ascoltare il tuo insegnamento”.
Maestro: “Studiati, o figlio, di fare la volontà di altri, piuttosto che la tua. Scegli sempre di aver meno, che più. Cerca sempre di avere il posto più basso e di essere inferiore a tutti. Desidera sempre, e prega, che in te si faccia interamente la volontà di Dio. Un uomo che faccia tali cose, ecco, entra nel regno della pace e della tranquillità”.
Un altro mezzo suggerito al discepolo è di evitare la vana curiosità:
“Figliolo, non essere curioso; non prenderti inutili affanni. Che t’importa di questo e di quello? «Tu seguimi » (Gv 21,22). Che ti importa che quella persona sia di tal fatta, o diversa, o quell’altra agisca e dica così e così? Tu non dovrai rispondere per gli altri; al contrario renderai conto per te stesso. Di che cosa dunque ti vai impicciando? Ecco, io conosco tutti, vedo tutto ciò che accade sotto il sole e so la condizione di ognuno: che cosa uno pensi, che cosa voglia, a che cosa miri la sua intenzione. Tutto deve essere, dunque, messo nelle mie mani. E tu mantieniti in pace sicura, lasciando che altri si agiti quanto crede, e metta agitazione attorno a sé: ciò che questi ha fatto e ciò che ha detto ricadrà su di lui, poiché, quanto a me, non mi può ingannare” [12].
4. “Pace perché in te ha fiducia”
Senza pretendere di sostituire questi mezzi ascetici tradizionali, la spiritualità moderna mette l’accento su altri mezzi più positivi per conservare la pace interiore. Il primo è la fiducia e l’abbandono in Dio. “Tu gli assicurerai la pace, pace perché in te ha fiducia”, si legge in Isaia (26, 3). Gesú, nel Vangelo, motiva il suo invito a non temere e a non essere in ansia per il domani, con il fatto che il Padre celeste sa di che abbiamo bisogno, lui che nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo “ (cf. Mt 6, 5 ss).
Questa è la pace di cui è diventata maestra e modello Teresa di Gesú Bambino. Un esempio eroico di questa pace che viene dalla fiducia in Dio è stato anche il martire del nazismo Dietrich Bonhöffer. Mentre era in carcere e in attesa della esecuzione capitale, egli scrisse alcuni versi che sono diventati un inno liturgico in molti paesi anglosassoni:
Da forze amiche a meraviglia avvolti
attendiamo fiduciosi l’avvenire.
Dio è con noi di sera e di mattino,
sarà con noi in ogni giorno nuovo[13].
Il nome rivelato da Dio a Mosè, secondo alcuni grandi esegeti moderni (G. von Rad) non indica tanto l’essenza divina quanto la sua esistenza; non dovrebbe perciò tradursi “Colui che è”, l’Essere per se”, ma “Colui che c’è, che è con noi e per noi, “sempre vicino nelle angosce” (Sal 46,2). E’ l’affermazione che più ha colpito sulla bocca dell’attore che, nella settimana scorsa, ha commentato in TV i Dieci comandamenti, ma essa non è nuova e ha solide basi.
Uno studioso francescano, Eloi Leclerc, nel suo libro La saggezza d’un povero, racconta come Francesco d’Assisi ritrovò la pace in un momento di profondo turbamento. Era rattristato dalla resistenza di alcuni al suo ideale e sentiva il peso della responsabilità della numerosa famiglia che Dio gli aveva affidato. Partì dalla Verna e andò a San Damiano a trovare Chiara. Chiara lo ascoltò e per incoraggiarlo gli portò un esempio.
“Supponiamo che una delle nostre sorelle venisse da me a scusarsi d’aver rotto un oggetto. Ebbene, io le farei senza dubbio un’osservazione e le infliggerei, come d’uso, una penitenza. Ma se ella venisse a dirmi d’aver dato fuoco al convento e che tutto è bruciato o quasi, credo che in tal caso non avrei nulla da ribattere. Io mi sorprenderci sopraffatta da un avvenimento più grande di me. La distruzione del convento è un fatto troppo grande perché io possa esserne profondamente turbata. Ciò che Dio stesso ha costruito non può fondarsi sulla volontà o sul capriccio d’una creatura umana. L’edificio di Dio si fonda su basi ben più solide”.
Francesco capì la lezione e rispose:
“L’avvenire di questa grande famiglia religiosa che il Signore ha affidato alle mie cure costituisce un fatto troppo importante perché possa dipendere da me solo e dalle mie deboli forze, sì ch’io ne resti turbato. È un fatto, questo, di Dio. Voi l’avete ben detto. Ma pregate che questa parola fiorisca in me come un seme di pace”[14].
Il Poverello tornò tra i suoi rasserenato, ripetendo a se stesso lungo la strada: “Dio c’è, e tanto basta! Dio c’è e tanto basta!” Non è un episodio storicamente documentato, ma interpreta bene, nello stile dei Fioretti, un momento della vita di Francesco e contiene una importante lezione.
Ma ci avviciniamo al Natale e io vorrei mettere in luce quello che credo sia il mezzo più efficace per conservare la pace del cuore e cioè la certezza di essere amati da Dio. “Pace in terra agli uomini che Dio ama”, alla lettera: “Pace in terra agli uomini del (divino) beneplacito (eudokia)” (Lc 2, 14). La Volgata traduceva tale termine con “buona volontà” (bonae voluntatis), intendendo con essa la buona volontà degli uomini, o gli uomini di buona volontà. Ma si tratta di una interpretazione errata, oggi riconosciuta da tutti come tale, anche se per rispetto alla tradizione, nel Gloria della Messa, si continua ancora, almeno in italiano, a dire “e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Le scoperte di Qumran hanno apportato la prova definitiva. “Uomini, o figli, della benevolenza” sono detti, a Qumran, i figli della luce, gli eletti della setta[15]. Si tratta dunque degli uomini che sono oggetto della benevolenza divina.
Presso gli esseni di Qumran “il divino beneplacito” discrimina; sono soltanto gli adepti della setta. Nel vangelo “gli uomini della divina benevolenza” sono tutti gli uomini, senza eccezione. È come quando si dice “gli uomini nati da donna”; non si intende dire che alcuni sono nati da donna e altri no, ma solo caratterizzare tutti gli uomini in base al loro modo di venire al mondo. Se la pace fosse accordata agli uomini per la loro “buona volontà”, allora sì che essa sarebbe limitata a pochi, a quelli che la meritano; ma siccome è accordata per la buona volontà di Dio, per grazia, essa è offerta a tutti.
“Assueta vilescunt”, dicevano i latini; le cose ripetute spesso sviliscono, perdono mordente, e questo succede purtroppo anche con le parole di Dio. Dobbiamo fare in modo che non succeda anche in questo Natale. Le parole di Dio sono come dei fili elettrici. Se ci passa dentro la corrente, a toccarli danno la scossa; se non ci passa nessuna corrente, o si hanno dei guanti isolanti, si possono maneggiare quanto si vuole, non danno nessuna scossa.
La potenza e la luce dello Spirito è sempre in atto, ma dipende da noi raccoglierla, mediante la fede, il desiderio e la preghiera. Che forza, che novità, contenevano quelle parole: “Pace in terra agli uomini amati dal Signore”, quando furono proclamate per la prima volta! Dobbiamo rifarci un orecchio vergine, l’orecchio dei pastori che l’udirono per primi e “senza indugio”, si misero in viaggio.
San Paolo ci indica un metodo per superare tutte le nostre ansietà e ritrovare ogni volta la pace del cuore, mediante la certezza di essere amati da Dio. Scrive:
“Se Dio è per noi chi sarà contro di noi? Colui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per noi tutti, non ci donerà forse anche tutte le cose con lui? […] Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Sarà forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] Ma, in tutte queste cose, noi siamo più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati.” (Rom 8, 31-37)
La persecuzione, i pericoli, la spada: non si tratta di un elenco astratto o immaginario; sono i motivi di angoscia che egli ha sperimentato, di fatto, nella sua vita; li descrive ampiamente nella Seconda Lettera ai corinzi (cf 2 Cor 11, 23 ss). L’Apostolo li passa ora in rassegna nella sua mente e constata che nessuno di essi è così forte da reggere al confronto con il pensiero dell’amore di Dio. Implicitamente, l’Apostolo invita a fare lo stesso anche noi: a guardare la nostra vita, così come essa ci si presenta, a portare a galla le paure e i motivi di tristezza che vi si annidano e che non ci fanno accettare serenamente noi stessi: quel complesso, quel difetto fisico o morale, quell’insuccesso, quel ricordo penoso; esporre tutto ciò alla luce del pensiero che Dio ci ama e concludere con l’Apostolo: “In tutte queste cose, posso essere più che vincitore, in virtù di colui che mi ha amato”.
Dalla sua vita personale, l’Apostolo passa, subito dopo, a considerare il mondo che lo circonda. Scrive:
“Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati; né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 37-39).
Egli osserva il “suo” mondo, con le potenze che lo rendevano allora minaccioso: la morte con il suo mistero, la vita presente con le sue lusinghe, le potenze astrali o quelle infernali che incutevano tanto terrore all’uomo antico. Siamo invitati, anche qui, a fare lo stesso: a guardare, alla luce dell’amore di Dio, il mondo che ci circonda e che ci fa paura. Quello che Paolo chiama l’“altezza” e la “profondità”, sono per noi ora l’infinitamente grande in alto e l’infinitamente piccolo in basso, l’universo e l’atomo. Tutto è pronto a schiacciarci; l’uomo è debole e solo in un universo tanto più grande di lui e divenuto, per giunta, ancora più minaccioso, in seguito alle sue scoperte scientifiche, alle guerre, alle malattie incurabili, oggi al terrorismo… Ma nulla di tutto ciò può separarci dall’amore di Dio. Dio c’è, e tanto basta!
Santa Teresa d’Avila, ci ha lasciato una specie di testamento, che è utile ripeterci ogni volta che abbiamo bisogno di ritrovare la pace del cuore: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi; tutto passa, Dio non cambia; la pazienza ottiene tutto; a chi ha Dio nulla gli manca. Solo Dio basta”[16].
Che il Natale del Signore, Santo Padre, Venerabili padri, fratelli e sorelle, sia davvero per noi, come diceva san Leone Magno, “il natale della pace”: con Dio, con il prossimo e nei nostri cuori!
*
NOTE
[1] Legenda dei tre compagni, 58 (Fonti Francescane, n.1469)
[2] Apophtegmi, Arsenio 1-2
[3] S. Agostino, Confessioni, I, 1.
[4] Ib. XIII, 9.
[5] S. Agostino, Adnotationes in Iob, 39
[6] Paradiso, 3, v.85
[7] S. Agostino, De civitate Dei, XIX, 27.
[8] Inno dell’ufficio della Dedicazione della Chiesa.
[9] Meister Eckhart, Prediche, 7 (Ed. J. Quint, Deutsche Werke, I,. Stuttgart 1936, p. 456)
[10] Il libro della Beata Angela, VII (ed. Quaracchi, 1985, p. 296).
[11] Cf. G. Bottereau, Indifference, in “Dictionnaire de Spiritualité , vol 7, coll. 1688 ss
[12] Imitazione di Cristo, III, 23-24.
[13] Von guten Mächten wunderbar geborgen /erwarten wir getrost, was kommen mag.
Gott ist mit uns am Abend und am Morgen / und ganz gewiss an jedem neuen Tag.
[14] E. Leclerc, La sagesse d’un pauvre, Paris, Desclée de Brouwer, 22e éd. 2007.
[15] Cf Inni, I QH, IV, 32 s, (XI, 9) (I manoscritti di Qumran, a cura di L. Moraldi, UTET, Torino 1971, pp. 386 e 428).
[16] “Nada te turbe, nada te espante, todo se pasa, Dios no se muda; la paciencia todo lo alcanza; quien a Dios tiene nada le falta. Solo Diòs basta”.

Conversion of St. Paul, The Artist: FOUQUET

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http://www.artbible.net/2NT/ACTS%2009_01%20THE%20CONVERSION%20OF%20SAUL…LA%20CONVERSION%20DE%20SAUL/slides/15%20FOUQUET%20CONVERSION%20OF%20PAUL.html

Publié dans:immagini sacre |on 2 mai, 2015 |Pas de commentaires »
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