IL GRANDE PELLEGRINO (SAN PAOLO)
http://www.fmboschetto.it/religione/il_grande_pellegrino.htm
IL GRANDE PELLEGRINO (SAN PAOLO)
Se diciamo « pellegrino » pensiamo subito ai nostri cari santuari, a un luogo in cui si arriva. Ma « pellegrino » significa letteralmente uno che attraversa i campi, cioè uno che viaggia, che va di luogo in luogo. In questo senso, chi più pellegrino di san Paolo? A piedi, a cavallo, su un carro, per nave, con tutti i mezzi di trasporto di duemila anni fa, l’instancabile apostolo ha percorso in lungo e in largo il mondo allora conosciuto, affrontando ostacoli, persecuzioni, carcere, disastri di ogni genere. Egli stesso li rievoca nella sua seconda lettera ai Corinti: « Cinque volte ho ricevuto i trentanove colpi dai giudei, tre volte mi hanno fustigato con le verghe, una volta lapidato, tre volte ho fatto naufragio… Quanti viaggi a piedi tra i pericoli! Pericoli dei fiumi, pericoli degli assassini, percoli dai miei compatrioti, pericoli dai Gentili, pericoli nelle città, pericoli nelle solitudini del deserto, pericoli del mare, pericoli dei falsi fratelli, nelle fatiche e nelle avversità, nella fame e nella sete, nei tanti digiuni, nel freddo e nella nudità ».
Il mondo allora conosciuto – Europa, Asia, Africa – gravitava intorno al Mediterraneo. E Paolo di Tarso ne percorse le vie e le acque fino a conoscerne quasi ogni angolo, ogni città o villaggio che potesse accogliere l’Annuncio. Gerusalemme, Damasco, Antiochia, Seleucia, Cipro, Pafo, Antiochia di Pisidia, Filippi, Atene, Corinto, Efeso, Malta, e via via fino in Italia, fino a Roma, verso il martirio. Se non l’avessero decapitato in età ancora non tarda, Paolo sarebbe stato capace di varcare l’oceano e arrivare in America, spinto dal fuoco divorante che gli ardeva dentro.
Perché parlare ancora di san Paolo? Perché compie duemila anni. Il 2008-2009 è infatti l’ « anno Paolino », il grande giubileo proclamato per il bimillenario della nascita del santo apostolo. La data è approssimativa, d’accordo; ma poco importa. Per un anno, da giugno a giugno, si parlerà molto di lui, del grande pellegrino che consumò sandali e vita sulle vie della fede, dell’annuncio, del martirio.
Non a caso la sua conversione avvenne su una strada. La « via di Damasco », passata in proverbio per definire qualcosa di improvviso e di folgorante, qualcosa che cambia tutto. Paolo di Tarso si chiamava in realtà Saulo, Saul, come il grande e terribile re dell’Antico Testamento. Era della sua stessa tribù (di Beniamino) e gli somigliava un po’ per il temperamento passionale e problematico. Era un uomo colto e un ebreo devotissimo: allievo del grande Gamaliele. E ardeva di santo sdegno contro la nuova setta di fanatici che insidiava la santità della Legge, sulle orme di quello strano profeta nazareno che lui, Saulo, non aveva conosciuto di persona, ma che tanti danni stava facendo tramite i suoi seguaci postumi. Una mala erba da estirpare senza pietà. Quando il giovane Stefano morì sotto i colpi di pietra, Saulo reggeva i vestiti dei lapidatori.
Ma neppure le appassionate parole di Stefano avevano fatto breccia nel suo cuore. Occorreva incontrare « lui », quello che non aveva incontrato in vita. « Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? » La folgorazione, il buio, la crisi, il deserto, la nuova vita. Fino al martirio. Ma la decapitazione era solo il suggello cruento di un martirio di ogni giorno, nel corpo e nell’anima. Il martirio di « dover » portare l’Annuncio, a chi ascolta e chi no, a tempo e fuori tempo, tra tempeste di mare e bufere di uomini, a dispetto della cattiva salute e della poca vista, contro amici, nemici, parenti, istituzioni, non esclusa la stessa nascente Chiesa cristiana (che, tra l’altro, si disse « cristiana » proprio a partire dal viaggio di Paolo ad Antiochia). Tasto doloroso.
Ma Paolo – si volle chiamare così, « piccolo », per umiltà – non fu solo un instancabile, eroico pellegrino. Fu il primo, sistematico teologo della nuova fede, dopo il mistico Giovanni (nessun teologo raggiungerà mai questi due, per genialità e grandezza); tanto fondamentale nell’ « inculturazione » del cristianesimo nella società e nella cultura dell’epoca – quella cultura greco-latina che abbiamo ancora, e quanto, nel sangue – da indurre certi filosofi neoidealisti del secolo scorso a sostenere che il cristianesimo lo ha addirittura inventato lui.
E fu uno straordinario, geniale comunicatore, preso a modello fin nell’età dei mass media da giornalisti, editori, papi (papa Montini volle essere un altro Paolo, un « pellegrino annunciatore » come lui). La sua parola appassionata – scritta o a voce – trascinava. Scriveva in greco, la lingua internazionale dell’epoca, perché voleva convertire il mondo, dilatare la redenzione di « Israele » a dimensioni planetarie. Oggi forse scriverebbe in inglese. Quanto gli piacerebbe Internet! Quanto gli piacerebbe il sito www.annopaolino.org, curato dalla basilica romana di San Paolo fuori le Mura, cuore del bimillenario! Oggi, in un attimo giunge in tutte le case del mondo quell’Annuncio che lui, Paolo, portava faticosamente affrontando fatiche e ostacoli a non finire. Pensate, se avesse avuto i mezzi di oggi, televisione, radio, telefono, stampa, computer, Internet, posta elettronica. Ma non aveva altro che se stesso e le sue lettere. Dove non arrivava lui, arrivavano quelle. Aspettate con ansia, lette con emozione, conservate religiosamente, fino ai nostri giorni. Lettere che insegnavano, sostenevano, confortavano, ravvivavano la presenza dell’Apostolo passato di lì e ormai lontano, e intanto ponevano le basi della grande nuova teologia. Lettere d’amore, dettate da una fiamma tanto grande da non poter essere contenuta, una fiamma divorante, totale, assoluta, incendiaria. Come leggere senza sentirsene contagiati? (Se qualcuno ci riusciva, Paolo ne soffriva autentico strazio. Sordità e infedeltà dei fratelli ci hanno procurato splendide « sgridate » epistolari.)
Il contatto con quell’anima ardente scottava cuori e istituzioni. Pietro, uomo semplice e capo della nuova gerarchia, ne rimase sconcertato. Un altro apostolo? Anzi due, contando Barnaba? Ma gli apostoli siamo noi. Dodici, come le tribù d’Israele. Quando ne mancava uno l’abbiamo eletto noi. Una struttura già ben definita. E stabilita da Gesù stesso, no? (Quante volte sentiremo ripetere questa frase, in venti secoli.)
Per fortuna l’amore supera tutto, vedi prima lettera ai Corinti. La storia li ha resi inseparabili, l’apostolo gerarchico e l’apostolo mistico: « San Pietro e Paolo », non hanno neppure una festa per ciascuno. San Paolo è il capostipite dei chiamati dopo la morte di Gesù, il primo esempio di vocazione come l’intendiamo noi, alla moderna: una voce interiore che non lascia dubbi e che ti capovolge la vita. E che spesso costringe a fare i conti col « sistema ». Per primo, san Paolo ha vissuto il dramma di chi si sente, si sa « investito » da Dio e non dalle istituzioni. Quanti possibili santi si sono rovinati per questo, ribellandosi, separandosi! San Paolo non si rovinò. Rimase ostinatamente, appassionatamente unito alla nascente Chiesa. Ma per tutta la vita e le lettere, certo dell’investitura divina, continuò a ripetere: anch’io sono un apostolo! « Paolo, apostolo non da parte degli uomini, né per mezzo di un uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e da parte di Dio Padre ». Tanto che oggi, quando si dice « l’Apostolo » per antonomasia, si intende proprio lui, Paolo.
Figura gigantesca. Ma complessa, tormentata, ineguale. Il suo stile – efficacissimo – riflette l’uomo. Passione, dolcezza, rigore, veemenza, contraddizioni. Non nella fede, che è diamantina, ma nel carattere, nelle relazioni umane, nella prassi da suggerire in concreto nell’ambito politico familiare, sociale. Pensiamo quanto ha pesato su venti secoli di cristianesimo sua visione non serena della donna. Eppure ne aveva incontrate, di figure forti di donne, Prisca, la diaconessa Febe. E Maria? Possibile che non l’abbia incontrata? Non la nomina mai.
« Era la mentalità del suo tempo » si dice a sua scusa. Ma il profeta, nelle cose grandi, nell’essenziale, non ha mai la mentalità del suo tempo, o non sarebbe un profeta. In quelle ha la mentalità dell’eterno, della verità universalmente valida. E in quelle dovremmo prenderlo alla lettera, non quando si adegua alle convenzioni del tempo. E in quelle Paolo giganteggia. « Non c’è dunque più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna… » Dinamite. Siamo ben lontani dall’averne tratto tutte le conseguenze. Dopo venti secoli.
Pellegrinò per il mondo ed ora il mondo (intero) pellegrinerà per lui. A Roma ci attende. Con la sua tomba, le sue reliquie, le catene che portò per liberare noi. Vi saranno pellegrinaggi, manifestazioni, liturgie, momenti di riconciliazione, conferenze, concerti. O figli dell’era di Internet, su quel sito troverete tutte le indicazioni necessarie. Chissà che, non visto, vi abbia collaborato anche lui.
Elena Cristina Bolla
