Luca da Cortona, detto anche Signorelli, Conversione di S. Paolo,

http://www.30giorni.it/articoli_supplemento_id_17041_l1.htm
14 MAGGIO: SAN MATTIA APOSTOLO
Mattia è l’apostolo associato agli undici dopo la Pasqua, in sostituzione di Giuda, che aveva tradito Gesù. Della sua scelta, avvenuta a sorte tra lui e Giuseppe detto Barsabba, soprannominato Giusto, si legge negli Atti degli Apostoli (At 1, 15-26). Era di origine giudaica e aveva seguito Gesù fin dall’inizio della sua predicazione: probabilmente era uno dei settantadue discepoli di cui si parla nel Vangelo di Luca (Lc 10, 1), come pensa Eusebio di Cesarea: «Si racconta anche che Mattia, che fu aggregato al gruppo degli apostoli al posto di Giuda, e anche il suo compagno che ebbe l’onore di simile candidatura, furono giudicati degni della stessa scelta fra i settanta» (Storia ecclesiastica, I, 12, 3).
Della sua vita, a parte l’episodio riportato dagli Atti degli Apostoli, nulla di certo si conosce. Una tradizione, riportata da Clemente Alessandrino che cita Eracleone, lo fa morire di morte naturale; una seconda (Niceforo Callisto) lo dice martire (crocifisso) e sepolto in Etiopia: ma la regione così denominata sarebbe in realtà il Ponto Eusino, dove si sarebbe recato dopo un primo periodo di predicazione in Giudea; una terza invece (Breviario Romano, Martirologio di Floro) ne afferma il martirio, dopo la predicazione in Macedonia e poi in Palestina, proprio in quest’ultima regione in quanto nemico della legge mosaica, lapidato da ebrei e finito da un soldato romano che gli avrebbe tagliato la testa con un colpo di scure, strumento che appare spesso nelle raffigurazioni dell’apostolo, soprattutto nella Chiesa d’Oriente.
Una tarda tradizione vuole che il corpo di Mattia sia stato ritrovato nel 325 da Elena, madre di Costantino, a Gerusalemme, e di lì trasportato a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dove fonti medievali e rinascimentali (la Leggenda Aurea di Iacopo da Varagine, e Onofrio Panvinio) lo danno presente nell’urna di porfido sotto l’altare maggiore, insieme alle reliquie di san Girolamo; mentre la testa, separata, era custodita in un reliquiario. Anche gli Annali di Treviri (Trier in Germania) dell’anno 754 (ma la loro redazione è di molto più tarda) conoscono la sepoltura di Mattia a Gerusalemme; e proprio a Treviri un’aggiunta posteriore agli Atti apocrifi di Mattia fa giungere il corpo dell’apostolo direttamente da Gerusalemme. Una terza tradizione cerca di conciliare le prime due, parlando di una traslazione da Gerusalemme a Treviri con tappa a Roma. A Treviri il corpo di Mattia venne ritrovato nel 1127 durante la ricostruzione della Basilica (ora a lui intitolata) collegata all’adiacente convento benedettino, e lì, nel mezzo della navata centrale, tuttora si mostra il suo sepolcro, nel luogo dove allora fu collocato. Altre reliquie che una tradizione medievale attribuisce all’apostolo sono infine conservate nella Basilica di Santa Giustina a Padova, ma recentissime indagini scientifiche sembrano escludere tale attribuzione.
http://www.stpauls.it/coopera/0906cp/0906cp07.htm
L’EREDITÀ SPIRITUALE DELL’APOSTOLO PAOLO
Bruno Simonetto
Il Papa ha concluso le catechesi su San Paolo illustrandone magistralmente la figura e l’insegnamento. La sua eredità è fondamento e nutrimento dell’intera Chiesa.
Ormai alla conclusione dell’Anno Paolino proponiamo i temi dell’Udienza che costituisce come il « canto finale » di ciò il Papa è venuto illustrando, in ben ventiquattro magistrali interventi, sulla figura e l’insegnamento Apostolo delle genti, iniziando già prima dell’indizione di quest’anno a lui dedicato.
Ma veniamo al discorso del 4 Febbraio 2009, a conclusione dell’intero ciclo di Catechesi del Papa durante l’Anno Paolino, iniziato nel 2 Luglio 2008. Benedetto XVI si è soffermato sulla morte e sull’eredità spirituale dell’Apostolo, così introducendosi: «La serie delle nostre Catechesi sulla figura di San Paolo è arrivata alla sua conclusione: vogliamo parlare oggi del termine della sua vita terrena.
L’antica tradizione cristiana testimonia unanimemente che la morte di Paolo avvenne in conseguenza del martirio subito qui a Roma. Gli scritti del Nuovo Testamento non ci riportano il fatto. Gli Atti degli Apostoli terminano il loro racconto accennando alla condizione di prigionia dell’Apostolo, che poteva tuttavia accogliere tutti quelli che andavano da lui (cfr. At 28,3031).
Solo nella Seconda Lettera a Timoteo troviamo queste sue parole premonitrici: « Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele » (2Tm 4,6; cfr. Fil 2,17). Si usano qui due immagini, quella cultuale del sacrificio, che aveva usato già nella Lettera ai Filippesi interpretando il martirio come parte del sacrificio di Cristo, e quella marinaresca del mollare gli ormeggi: due immagini che insieme alludono discretamente all’evento della morte e di una morte cruenta».
Il martirio di Paolo sulla Via Ostiense
«La prima testimonianza esplicita sulla fine di San Paolo ci viene dalla metà degli anni 90 del sec. I, quindi poco più di tre decenni dopo la sua morte effettiva. Si tratta precisamente della Lettera che la Chiesa di Roma, con il suo Vescovo Clemente I, scrisse alla Chiesa di Corinto.
In quel testo epistolare si invita a tenere davanti agli occhi l’esempio degli Apostoli, e, subito dopo aver menzionato il martirio di Pietro, si legge così: « Per la gelosia e la discordia Paolo fu obbligato a mostrarci come si consegue il premio della pazienza. Arrestato sette volte, esiliato, lapidato, fu l’araldo di Cristo nell’Oriente e nell’Occidente, e per la sua fede si acquistò una gloria pura. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, e dopo essere giunto fino all’estremità dell’Occidente, sostenne il martirio davanti ai governanti; così partì da questo mondo e raggiunse il luogo santo, divenuto con ciò il più grande modello di pazienza » (1Clem 5, 2) (…).
Molto interessante è in questa lettera di Clemente il succedersi dei due nomi di Pietro e di Paolo, anche se l’ordine dei loro nomi verrà invertito nella testimonianza di Eusebio di Cesarea (sec. IV), che parlando dell’Imperatore Nerone scriverà: « Durante il suo regno Paolo fu decapitato proprio a Roma, e Pietro vi fu crocifisso. Il racconto è confermato dal nome di Pietro e di Paolo, che è ancor oggi conservato sui loro sepolcri in quella città » (Hist. eccl. 2, 25, 5).
Eusebio poi continua riportando l’antecedente dichiarazione di un presbitero romano di nome Gaio, risalente agli inizi del secolo II: « Io ti posso mostrare i trofei degli Apostoli: se andrai al Vaticano o sulla Via Ostiense, vi troverai i trofei dei fondatori della Chiesa » (ibid 2,25,6-7). I « trofei » sono i monumenti sepolcrali; e si tratta delle stesse sepolture di Pietro e di Paolo, che ancora oggi noi veneriamo dopo due millenni negli stessi luoghi: sia qui in Vaticano per quanto riguarda San Pietro, sia nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura sulla Via Ostiense per quanto riguarda l’Apostolo delle genti.
Roma è fondata su Pietro e Paolo
È interessante rilevare che i due grandi Apostoli sono menzionati insieme. Anche se nessuna fonte antica parla di un loro contemporaneo ministero a Roma, la successiva coscienza cristiana, sulla base del loro comune seppellimento nella capitale dell’impero, li assocerà anche come fondatori della Chiesa di Roma.
Così infatti, si legge in Ireneo di Lione, verso la fine del II secolo, a proposito della successione apostolica nelle varie Chiese: « Poiché sarebbe troppo lungo enumerare le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo » (Adv. haer. 3,3,2).
Ma concentriamoci sulla figura di Paolo, il cui martirio viene raccontato per la prima volta dagli Atti di Paolo, scritti verso la fine del II secolo. Essi riferiscono che Nerone lo condannò a morte per decapitazione, eseguita subito dopo (cfr. 9,5).
La data della morte varia già nelle fonti antiche, che la pongono tra la persecuzione scatenata da Nerone stesso dopo l’incendio di Roma nel luglio del 64 e l’ultimo anno del suo regno, cioè il 68 (cfr. Gerolamo, De viris ill. 5,8). Tradizioni successive preciseranno due altri elementi. L’uno, il più leggendario, è che il martirio avvenne alle « Acquae Salviae », sulla Via Laurentina, con un triplice rimbalzo della testa, ognuno dei quali causò l’uscita di un fiotto d’acqua, per cui il luogo fu detto fino ad oggi « Tre Fontane » (cfr. Atti di Pietro e Paolo dello Pseudo Marcello, del sec. V).
L’altro, del presbitero Gaio, è che la sua sepoltura avvenne non solo « fuori della Città… al secondo miglio sulla Via Ostiense », ma più precisamente « nel podere di Lucina », che era una matrona cristiana (cfr. Passione di Paolo dello Pseudo Abdia, del sec. VI). Qui, nel secolo IV, l’Imperatore Costantino eresse una prima Chiesa, poi grandemente ampliata tra secolo IV e V dagli Imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio. Dopo l’incendio del 1800, fu qui eretta l’attuale Basilica di San Paolo fuori le Mura.
Nutrimento spirituale per i fedeli di tutti i tempi
In ogni caso, la figura di San Paolo grandeggia ben al di là della sua vita terrena e della sua morte; egli infatti ha lasciato una straordinaria eredità spirituale. Anch’egli, come vero discepolo di Gesù, divenne segno di contraddizione. Mentre tra i cosiddetti « Ebioniti » – una corrente giudeo-cristiana – era considerato come apostata dalla Legge mosaica, già nel libro degli Atti degli Apostoli appare una grande venerazione verso l’Apostolo Paolo. (…)
(…) Le Lettere di San Paolo entrano nella Liturgia, dove la struttura profeta-apostolo-Vangelo è determinante per la forma della Liturgia della Parola. Così, grazie a questa « presenza » nella Liturgia della Chiesa, il pensiero dell’Apostolo diventa da subito nutrimento spirituale dei fedeli di tutti i tempi. È ovvio che i Padri della Chiesa, e poi tutti i teologi, si sono nutriti delle Lettere di San Paolo e della sua spiritualità. Egli è così rimasto nei secoli, fino ad oggi, il vero maestro e apostolo delle genti.
Il primo commento patristico, a noi pervenuto, su uno scritto del Nuovo Testamento è quello del grande teologo alessandrino Origene, che commenta la Lettera di Paolo ai Romani. San Giovanni Crisostomo, oltre a commentare le sue Lettere, ha scritto di lui sette Panegirici memorabili.
Sant’Agostino dovrà a lui il passo decisivo della propria conversione, e a Paolo egli ritornerà durante tutta la sua vita. Da questo dialogo permanente con l’Apostolo deriva la sua grande teologia cattolica e anche per quella protestante di tutti i tempi.
San Tommaso d’Aquino ci ha lasciato un bel commento alle Lettere paoline, che rappresenta il frutto più maturo dell’esegesi medioevale (…).
Resta luminosa davanti a noi la figura di un apostolo e di un pensatore cristiano estremamente fecondo e profondo, dal cui accostamento ciascuno può trarre giovamento.
Attingere è lui, tanto al suo esempio apostolico quanto alla sua dottrina, sarà quindi uno stimolo, se non una garanzia, per il consolidamento dell’identità cristiana di ciascuno di noi e per il ringiovanimento dell’intera Chiesa.
Ed è questo il frutto più bello che ci si può augurare dalla celebrazione dell’Anno Paolino che termina con la fine del mese di Giugno.
http://www.zenit.org/it/articles/dio-opera-meraviglie-attraverso-la-nostra-debolezza
« DIO OPERA MERAVIGLIE ATTRAVERSO LA NOSTRA DEBOLEZZA »
DURANTE L’UDIENZA GENERALE, BENEDETTO XVI SPIEGA LA METAFORA DELLA SPINA NELLA CARNE DI SAN PAOLO
13 Giugno 2012
di Luca Marcolivio
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 13 giugno 2012 (ZENIT.org) – Anche oggi, in occasione dell’Udienza generale, papa Benedetto XVI si è soffermato sulla preghiera nelle Lettere di San Paolo. Dopo aver fatto una breve sosta in piazza Santa Marta per la presentazione dei lavori di restauro della Basilica Vaticana, il Santo Padre si è recato in Aula Paolo VI per la catechesi, iniziata poco dopo le 10.30.
Il Papa ha esordito ricordando che “l’incontro quotidiano con il Signore e la frequenza ai Sacramenti permettono di aprire la nostra mente e il nostro cuore alla sua presenza, alle sue parole, alla sua azione”.
Riprendendo la Seconda Lettera ai Corinzi, Benedetto XVI ha posto in evidenza come l’intensissimo apostolato di San Paolo sia segnato in primo luogo da un profondo dialogo con il Signore, “un rapporto così intenso da essere caratterizzato anche da momenti di estasi, di contemplazione profonda (cfr. 2Cor 12,1)”.
Al punto che lo stesso Paolo, parlando di se stesso in terza persona, narra del suo “rapimento” mistico in paradiso (cfr. 2Cor 12,2). “La contemplazione – ha spiegato il Papa – è così profonda e intensa che l’Apostolo non ricorda neppure i contenuti della rivelazione ricevuta, ma ha ben presenti la data e le circostanze in cui il Signore lo ha afferrato in modo così totale, lo ha attirato a sé, come aveva fatto sulla strada di Damasco al momento della sua conversione (cfr. Fil 3,12)”.
Di seguito l’Apostolo delle Genti riferisce del suo tormento della carne, la “spina” (2Cor 12,7) che simboleggia l’attaccamento alle cose di quaggiù e l’amor proprio di cui Paolo è consapevole e per il quale “supplica con forza il Risorto di essere liberato dall’inviato del Maligno”.
Tre volte l’Apostolo supplica il Signore e il Risorto gli risponde con la seguente frase “chiara e rassicurante”: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9).
Paolo prende quasi alla lettera queste parole, arrivando a vantarsi delle sue debolezze e a compiacersi degli oltraggi e delle persecuzioni (2Cor 12,9b-10). Non si vanta delle sue azioni “ma dell’attività di Cristo che agisce proprio nella sua debolezza”, ha osservato il Pontefice.
L’Apostolo non specifica in cosa consista la “spina” delle sue debolezze e della sua imperfezione umana. Si limita a dire che è proprio “nel momento in cui si sperimenta la propria debolezza”, che “si manifesta la potenza di Dio, che non abbandona, non lascia soli, ma diventa sostegno e forza”.
Sebbene umanamente, Paolo desideri di essere liberato dal tormento della “spina”, Dio non glielo toglie, per poterlo aiutare a “maturare nelle sofferenze, nelle difficoltà, nelle persecuzioni”.
“In realtà – ha proseguito il Papa – umanamente parlando, non era leggero il peso delle difficoltà, era gravissimo; ma in confronto con l’amore di Dio, con la grandezza dell’essere amato da Dio, appare leggero, sapendo che la quantità della gloria sarà smisurata”. Dio, quindi, “opera meraviglie proprio attraverso la nostra debolezza, la nostra inadeguatezza all’incarico”.
Prendere atto della potenza di Dio che annulla la debolezza umana, è per Paolo, la seconda rivelazione divina, quasi un secondo incontro con il Signore, dopo la travolgente conversione sulla via di Damasco.
Per descrivere Dio che viene ad abitare la debolezza umana, l’Apostolo usa il termine greco “episkenoo” (letteralmente: “porre la propria tenda”). “Il Signore continua a porre la sua tenda in noi, in mezzo a noi: è il Mistero dell’Incarnazione”, ha commentato Benedetto XVI.
Un’immagine che riporta alla mente la Trasfigurazione del Signore sul Monte Tabor, dove Pietro dice: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Mc 9,5).
La contemplazione del Signore è un atto che risulta, allo stesso tempo, “affascinante e tremendo”. Affascinante perché “ci attira a sé e rapisce il nostro cuore verso l’alto, portandolo alla sua altezza dove sperimentiamo la pace, la bellezza del suo amore”, ha spiegato il Santo Padre.
Dio, però, è anche “tremendo”, in quanto “mette a nudo la nostra debolezza umana, la nostra inadeguatezza, la fatica di vincere il Maligno che insidia la nostra vita, quella spina conficcata anche nella nostra carne”.
Per usare le parole del teologo protestante, Nobel per la Pace, Albert Schweitzer, San Paolo è “nient’altro che un mistico”, ovvero “un uomo veramente innamorato di Cristo e così unito a Lui, da poter dire: Cristo vive in me”, ha detto il Papa.
Paolo, tuttavia, nel suo misticismo, non si allontana dalla realtà ma, al contrario, trova “la forza di vivere ogni giorno per Cristo e di costruire la Chiesa fino alla fine del mondo di quel tempo”.
Anche nell’aridità spirituale e nell’apparente distacco da Dio, con San Paolo, siamo “convinti che tutto possiamo in Colui che ci dà la forza (cfr Fil 4,13)”. Un po’ come avvenne alla beata Madre Teresa di Calcutta che “nella contemplazione di Gesù e proprio anche in tempi di lunga aridità trovava la ragione ultima e la forza incredibile per riconoscerlo nei poveri e negli abbandonati, nonostante la sua fragile figura”.
Il Santo Padre ha quindi concluso la catechesi, ricordando che la contemplazione di Cristo ci rende “ancora più partecipi delle vicende umane, perché il Signore, attirandoci a sé nella preghiera, ci permette di farci presenti e prossimi ad ogni fratello nel suo amore”.
IL « GRANDE MISTERO» LA LETTURA DI Ef 5, 21-33 NELLA MULIERIS DIGNITATEM
ALBERT VANHOYE, S.J.
Rettore della Facoltà di Sacra Scrittura nel Pont. Istituto Biblico dell’Università Gregoriana.
Membro della Pont. Commissione Biblica
Pubblicato in: AA.VV., Dignità e vocazione della donna: per una lettura della Mulieris Dignitatem. Testo e commenti. Città del Vaticano 1989.
Libreria Editrice Vaticana
I1 21 agosto scorso, la seconda lettura della celebrazione eucaristica domenicale era il celebre passo della Lettera agli Efesini che si rivolge alle mogli e ai mariti per esortarli a una condotta matrimoniale pienamente cristiana, cioè ispirata dal mistero pasquale di Cristo. Nel luogo dove mi trovavo, questa lettura suscitò vive reazioni. «Questo testo, osservava una persona, mette tutti a
disagio, in particolare i sacerdoti che lo debbono commentare nell’omelia. Preferiscono non parlarne». Un’altra aggiungeva: «Se a leggerlo durante la messa fosse stata invitata Suor Tizia, femminista, sono certa che avrebbe rifiutato, perché questo testo è ritenuto inaccettabile dalle femministe». Il punto nevralgico era evidentemente l’esortazione indirizzata alle mogli, cioè di «essere sottomesse ai mariti» (E f 5, 22. 24). Fissati su questo punto molto contestato ai nostri tempi, molti uditori e uditrici non danno più la minima attenzione agli altri contenuti del brano, per quanto siano illuminanti e profondi. In tale situazione, la Lettera Apostolica Mulieris dignitatem ci offre un insegnamento quanto mai opportuno. Sapendo evidentemente che le reazioni negative provocate dai vv. 22-24 ostacolano una lettura proficua dell’insieme del testo, Giovanni Paolo II ha
scelto di omettere questi versetti nella prima presentazione che egli fa del brano, all’inizio del cap. VII della Lettera Apostolica (n. 23). In questo posto, vengono letti soltanto i vv. 25-32. Tale scelta si giustifica perfettamente, dal fatto che il tema del capitolo non è la situazione delle mogli, ma «La Chiesa-Sposa di Cristo», secondo l’orientamento preso dal testo paolino, il quale presenta tutto «in
riferimento a Cristo e alla Chiesa» (Ef 5, 32).
Come l’apostolo in Ef 5, 25-32, così la Lettera Apostolica invita i cristiani a innalzare i loro sguardi al di sopra delle loro preoccupazioni e rivendicazioni immediate, per contemplare il «grande mistero» dell’amore estremo di Cristo per la Chiesa e dell’unione sponsale della Chiesa con Cristo. Senza contemplazione, il popolo non può che perire. Se i cristiani si lasciano intrappolare in problematiche sociologiche, non potranno mai trovare le soluzioni feconde, che lo Spirito di
Cristo vuole ispirare. La contemplazione di Colui che è stato trafitto (Gv 19, 37) è la principale sorgente di luce e di forza, che permette di progredire nell’amore. «Cristo ha amato la Chiesa e ha consegnato se stesso per lei, per renderla santa» (Ef 5, 25-26): ecco la rivelazione più profonda sul rapporto tra Dio e le persone umane e nel contempo sul senso delle relazioni tra uomo e donna.
A tale proposito, la Lettera Apostolica non si stanca di tornare, con un senso di meraviglia e di esultanza, al «principio», quale viene descritto nel Libro della Genesi, né di ammirare l’armonia che esiste, nel disegno di Dio, tra l’inizio e la fine, tra la creazione e la redenzione. Sin dall’inizio, Dio ha creato l’uomo e la donna per una relazione di amore, la quale si esprime «mediante un dono sincero di sé» (Gaudium et Spes 24, citato più volte nella Lettera Apostolica). Questo disegno
creatore trova il suo compimento e, allo stesso tempo, il suo superamento nel dono di sé che Cristo, per puro amore, attuò nel mistero pasquale a favore della sua Chiesa, che Egli voleva «farsi comparire davanti tutta gloriosa, senza macchia né ruga né alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5, 27). A sua volta, questo «grande mistero» dell’amore di Cristo e della Chiesa costituisce una rivelazione dell’essere intimo di Dio stesso. Infatti l’amore di Cristo per la
Chiesa, che raggiunge il culmine nel dono dello Spirito Santo (cf. Gv 19, 30; 20, 22), rispecchia la sorgente eterna, dalla quale sgorga, cioè l’amore del Padre e del Figlio nello Spirito Santo (cf. Gv 14, 23-26; 15, 9). Soltanto alla fine di tutta questa contemplazione si rivela fino a che punto è
vero che: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gen 1, 27). Come lo scrive il Santo Padre nel settimo paragrafo della Lettera: «Il fatto che l’uomo, creato come uomo e donna, sia immagine di Dio non significa solo che ciascuno di loro
individualmente è simile a Dio, come essere razionale e libero. Significa anche che l’uomo e la donna, creati come “unità dei due” nella comune umanità, sono chiamati a vivere una comunione di amore e in tal modo a rispecchiare nel mondo la comunione d’amore che è in Dio». Il rapporto di rivelazione è reciproco. Da una parte, l’unione d’amore tra marito e moglie manifesta, come immagine, la vita intima dei Dio-Amore (1 Gv 4, 16) e ci consente di conoscerla per analogia. D’altra parte, la rivelazione dell’amore divino attraverso il dono che Cristo fece di se stesso, negli eventi
tragici della sua passione, manifesta in che senso deve orientarsi l’unione d’amore dell’uomo e della donna, cioè non nel senso sterile di una ricerca della propria soddisfazione, bensì nel senso fecondo di un amore oblativo: «Voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa…» (Ef 5, 25-26). L’uomo non può mai considerare la donna come «oggetto di dominio e di possesso maschile» (Lett. Apost. n. 10). Egli deve combattere questa sua tendenza dominatrice, la quale renderebbe impossibile l’autentica comunione delle persone. Invece di voler «possedere» la moglie come un «oggetto», il marito deve sempre rispettare in lei la dignità di «soggetto», cioè di persona libera, con la quale egli si trova in rapporto di amore e di dono.
Sull’esempio di Cristo, il marito sarà disposto non soltanto a dare se stesso nelle circostanze ordinarie della vita quotidiana, ma a sacrificare se stesso per sua moglie, quando si tratterà di affrontare eventuali prove. Infatti, la frase dell’apostolo, che torna a tre riprese nelle lettere paoline (Gal 2, 20; Ef 5, 2. 25), non si limita a dire che «Cristo ha amato e ha dato se stesso», ma adopera un verbo più espressivo: «Cristo ha amato e ha consegnato se stesso». All’aspetto
di dono generoso questo verbo aggiunge l’idea di esposizione a gravi pericoli. Nella Bibbia, infatti, questo verbo viene regolarmente adoperato per significare un intervento ostile contro una persona o un popolo: vuol dire «dare in mano» ai nemici perché infliggano una sorte tremenda. Nei testi paolini, lo stesso verbo, usato paradossalmente con il pronome riflessivo, esprime la follia della croce: Gesù «ha consegnato se stesso» a una morte infame, per trasformare la sorte miserabile, meritata dai peccatori, in via regale del più grande amore. «Ci ha amati e ha consegnato se stesso per noi» (Ef 5, 2). Tale è l’ideale d’amore proposto dall’apostolo ai mariti cristiani. Chi lo prende sul serio, trova la forza di affrontare, con la grazia di Cristo, ogni possibile prova nella propria vita coniugale e di farne un’occasione di progresso nell’amore. Può sorprendere il fatto che, nel brano di Ef 5, 21-33, l’esortazione all’amore sia rivolta solo ai mariti e non ugualmente alle mogli. Una prima possibile spiegazione di questa mancanza è che l’uomo, più della donna, ha bisogno di tale
esortazione. Per sua natura, la donna è più attenta alle relazioni tra le persone, più disposta ad amare e a dare se stessa. Invece l’uomo, generalmente, è più interessato a realizzare un’opera, a organizzare il mondo, a dominare. Per questo motivo, è spesso tentato di strumentalizzare le altre persone, considerandole come mezzi, invece di rispettarle come soggetti dotati di dignità uguale alla sua. Tutti sanno che in molti ambienti la moglie è stata tradizionalmente apprezzata con criteri economici! Conveniva quindi che l’esortazione all’amore prendesse dì mira i mariti. Un’altra spiegazione sembra più probabile ancora: l’attenzione dell’apostolo si è fermata ai mariti a causa del mistero che contemplava, cioè il mistero dell’unione di Cristo con la Chiesa. In questo mistero, la parte pienamente rivelata è quella dell’amore di Cristo per la Chiesa. Cristo è andato fino
all’estremo, «ha amato sino alla fine» (Gv 13, 1; cf. 19, 28-30). Invece, la Chiesa, chiamata a «camminare nella carità» (Ef 5, 1) e effettivamente messasi in cammino, non ha ancora amato sino alla fine. Ne risulta che, nell’analogia adoperata in Ef 5, 21-33, un modello perfetto di amore esiste per i mariti, ma non esiste ancora per le donne. Questo fatto, evidentemente, costituisce un limite di quest’analogia. La Lettera Apostolica non manca di osservare che ogni analogia ha sempre i suoi
limiti (n. 25).
***
Lo stesso principio vale ugualmente quando si tratta dell’altra parte dell’esortazione, quella che riguarda la sottomissione della moglie al marito, sull’esempio della sottomissione della Chiesa a Cristo. Abbiamo detto che questo è attualmente il punto che provoca reazioni allergiche. La Lettera Apostolica aiuta molto a ridimensionare il problema (n. 24). Per cominciare, Giovanni Paolo II osserva che il principio della sottomissione della moglie al marito era «profondamente radicato nel costume e nella tradizione religiosa del tempo», il che porta a relativizzarlo, adesso che i tempi sono cambiati. Ma, nota ancora il Santo Padre, l’apostolo stesso introduce già un cambiamento decisivo, poiché mostra che la sottomissione «deve essere intesa e attuata in un modo nuovo: come una sottomissione reciproca nel timore di Cristo» (ivi). Effettivamente, l’esortazione indirizzata alle mogli (Ef 5, 22-24) viene nella Lettera agli Efesini come una esemplificazione dell’atteggiamento
cristiano al quale tutti sono invitati: «Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo» (Ef 5, 21). Similmente, nella Lettera ai Galati, dopo aver affermato fortemente la libertà cristiana, Paolo prosegue paradossalmente: «Mediante l’amore fatevi schiavi gli uni degli altri» (Gal 5, 13). Tra cristiani, non può mai esistere una relazione unilaterale di completa dominazione da una parte e di completa sottomissione dall’altra, perché Gesù ha decisamente proibito situazioni del genere: «Per voi non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve» (Lc 22, 26; cf. Mt 20, 24-28; Mc 10, 41-45; Gv 13, 13-15). La relazione cristiana è sempre di servizio reciproco (il che, tuttavia, non significa egualitarismo). Perciò il Santo Padre può sottolineare i limiti dell’analogia: «Mentre nella relazione Cristo-Chiesa la sottomissione è solo della Chiesa, nella relazione marito-moglie la “sottomissione” non è unilaterale, bensì reciproca!» (MD, 24). In questo carattere reciproco della sottomissione, la Lettera Apostolica discerne l’elemento nuovo portato dal messaggio evangelico. Il principio della sottomissione della moglie al marito era tradizionale, «antico» La «novità evangelica» in materia è consistita nel proclamare la sottomissione reciproca. È chiaro che se la preoccupazione dell’apostolo fosse stata di mantenere il principio antico della sottomissione unilaterale della moglie al marito, egli non avrebbe messo all’inizio del brano l’affermazione della sottomissione reciproca e non avrebbe poi esortato i mariti all’amore oblativo; li avrebbe piuttosto incoraggiati ad esercitare la loro autorità con fermezza. L’assenza di correlazione tra l’esortazione rivolta alle mogli e quella rivolta ai mariti non manca di
significato; essa manifesta a modo suo la novità evangelica. Oramai «tutte le ragioni in favore della “sottomissione” della donna all’uomo nel matrimonio debbono essere interpretate nel senso di una “reciproca sottomissione” di ambedue “nel timore di Cristo”» (MD, 24). Non basta però esprimere detta novità perché si traduca subito in realtà effettiva. La Lettera Apostolica lo fa accuratamente notare. «La consapevolezza che nel matrimonio c’è la reciproca “sottomissione dei coniugi nel timore di Cristo”, – e non soltanto quella della moglie al marito -, deve farsi strada nei cuori,
nelle coscienze, nel comportamento, nei costumi». Per trasformare realmente i rapporti tra le persone, su questo punto come su tanti altri, il fermento cristiano ha bisogno, – la storia purtroppo lo dimostra, – di tempi lunghissimi, tanto più che il lavoro è sempre da ricominciare, per ogni nuova generazione. «È questo un appello che non cessa di urgere, da allora, le generazioni che si succedono, un appello che gli uomini devono accogliere sempre di nuovo». In realtà, si tratta di un appello a una non facile conversione, personale e collettiva. Siamo però tanto abili a eludere le esigenze di conversione! Quando il testo di Ef 5, 21-32 viene proclamato in chiesa, quante persone notano l’esortazione iniziale alla «sottomissione reciproca»? Per lo più, gli uomini sono attenti a quanto viene richiesto dalle donne, la sottomissione ai mariti, e le donne sono attente a quanto viene richiesto dai mariti, l’amore generoso per le mogli. Ciascuno sottolinea l’esigenza che s’impone all’altro, a vantaggio suo, ignorando quella che riguarda lui stesso a vantaggio dell’altro. Nessuno, in fondo, accetta di sottomettersi all’altro. Eppure la novità evangelica non elimina
l’esigenza di sottomissione, anche se la trasforma profondamente. In «sottomissione reciproca» c’è ancora «sottomissione». Il vangelo ha valorizzato immensamente la sottomissione volontaria, sbarazzandola da ogni traccia di servilismo e unendola strettamente all’amore. Ci fa capire che chi preferisce la propria volontà a quella della persona amata non sa ancora che cosa sia amare
(cf. Gv 14, 21; 15, 10). Gesù ha manifestato il suo amore nell’obbedienza della croce (cf. Gv 14, 31; Fil 2, 8; Ebr 5, 8). Un cristiano, una cristiana, che accetta per amore una situazione di sottomissione e di servizio si trova più vicino a Cristo e ne dovrebbe provare una gioia profonda. Il «grande mistero» dell’unione di Cristo e della Chiesa, che si rispecchia nel sacramento del matrimonio, comprende questo aspetto realistico. La Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II invita le cristiane e
i cristiani a meditarlo. Di fatto, chi vuole vivere nell’amore autentico ha bisogno anzitutto di aprirsi nella meditazione e nella preghiera al dinamismo di amore «mite e umile» (Mt 11, 29) messo in moto da Cristo.