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Lo Spirito Santo

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NEL CONFRONTO TRA FEDE E RAGIONE – IL GENIO DI SAN PAOLO

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NEL CONFRONTO TRA FEDE E RAGIONE – IL GENIO DI SAN PAOLO

DI JUAN MANUEL DE PRADA

La commemorazione di questo Anno paolino dovrebbe servirci da stimolo per riflettere su uno dei tratti più distintivi e geniali di san Paolo, l’impulso di universalismo che presto sarebbe divenuto un elemento costitutivo della fede in Gesù Cristo. Un universalismo che, oltre a dare compimento alla missione che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli, avrebbe definito l’orientamento innovatore del cristianesimo come religione che incorpora nel suo patrimonio culturale la sapienza pagana. Questa assimilazione culturale trasforma il cristianesimo, fin dai suoi inizi, in una religione diversa da qualsiasi altra: poiché mentre le altre religioni stabiliscono che la loro identità si deve costituire negando l’eredità culturale che le precede, il cristianesimo comprese, grazie al genio paolino, che la vocazione universale della nuova fede esigeva di introdursi nelle strutture culturali, amministrative e giuridiche della sua epoca; non per sincretizzarsi con esse ma per trasformarle radicalmente dal di dentro. E questa illuminazione geniale di san Paolo – che senza dubbio fu illuminazione dello Spirito – deve servire da vigorosa ispirazione per noi cattolici di oggi, spesso tentati di arroccarci contro un mondo ostile.
San Paolo, nato a Tarso di Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, fu anche cittadino romano; e questa condizione o status giuridico lo aiutò a comprendere che la vocazione di universalità del cristianesimo si sarebbe realizzata pienamente solo se fosse riuscita a introdursi nelle strutture dell’Impero padrone del mondo. Introdursi per beneficiare della sua vasta eredità culturale; introdursi, anche, per lavare dal di dentro la sua corruzione. Il cristianesimo non sarebbe riuscito a essere quello che in effetti fu se non avesse fatto proprie le lingue di Roma; e se non avesse adottato le sue leggi, per poi umanizzarle, fondando un diritto nuovo, penetrato dalla vertiginosa idea di redenzione personale che apporta il Vangelo. I cristiani avrebbero potuto accontentarsi di rimanere ai margini di Roma, come dei senza patria che celebrano i propri riti nella clandestinità. Addentrandosi nella bocca del lupo, armati solo della fiaccola della fede, rischiarono di perire tra le sue fauci; ma alla fine provocarono un incendio più duraturo dei monumenti di Roma.
Di quale potente lega era fabbricato quell’uomo che sconvolse per sempre il corso della storia? Sappiamo che nella formazione culturale di san Paolo si amalgamavano elementi ebraici e ellenistici. Possedeva una esauriente conoscenza della lingua greca, nutrita dalla Scrittura secondo la versione dei Settanta. Si distingueva però anche per una conoscenza affatto superficiale dei miti greci, come pure dei loro filosofi e poeti: basta leggere il suo discorso nell’Areopago di Atene per renderci conto della sua solida cultura classica. E anche, naturalmente, del modus operandi della sua missione evangelizzatrice: san Paolo inizia il suo discorso apportando riflessioni nelle quali pagani e cristiani potevano convergere, fondandosi anche su citazioni di filosofi; lo conclude però con l’annuncio del Giudizio Finale, pietra dello scandalo per i suoi ascoltatori – fra i quali, a quanto sappiamo, si contavano alcuni filosofi epicurei e stoici – che potevano accettare l’immortalità dell’anima, ma non la resurrezione della carne. Quel gruppo di filosofi probabilmente si sciolse prendendo san Paolo per matto; tuttavia, di ritorno a casa, mentre rimuginavano sulle parole che avevano appena ascoltato, forse riuscirono a scoprire che i principi sui quali si fondava il discorso di san Paolo si potevano cogliere attraverso la ragione. E questi principi assimilabili da un pagano che affiorano nel discorso dell’Areopago sono gli stessi che san Paolo incorpora nelle sue epistole: la possibilità di conoscere Dio attraverso la sua Creazione, la presenza di una legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo, la sottomissione alla volontà di Dio come frutto della nostra filiazione divina. Principi sui quali in seguito san Paolo erigeva il suo portentoso edificio cristologico. Mettiamoci nei panni di quei filosofi pagani che ascoltarono san Paolo. Come non sentirsi interpellati da una predicazione che univa, in un modo così misteriosamente soggiogante, principi che la ragione poteva accettare con tesi che esigevano il concorso di una nuova fede? Come non sentirsi interpellato da questo Mistero che rendeva congruente ciò che ascoltavano e ciò che la mera intelligenza non permetteva loro di penetrare? E, nel cercare di approfondire quel Mistero, come non aprirsi agli orizzonti inediti di libertà e di speranza di cui Cristo era portatore?
Così accadde allora; e il genio paolino ci insegna che può continuare ad accadere ora. A un patrizio romano come Filemone non doveva sembrare più strano concedere la libertà al suo schiavo Onesimo, accogliendolo come un « fratello carissimo » nel Signore, di quanto deve sembrare a un uomo del nostro tempo – ad esempio – aborrire l’aborto. Se il genio paolino riuscì a far sì che un patrizio romano rinunciasse al diritto di proprietà su un altro uomo che le leggi gli riconoscevano, perché noi non possiamo far sì che gli uomini della nostra epoca recuperino il concetto di sacralità della vita umana, per quanto le leggi della nostra epoca sembrino averlo dimenticato? Per farlo, dovremo usare parole che risultino intelligibili agli uomini del nostro tempo; e così riusciremo, come a suo tempo riuscì il genio paolino, a minare dal di dentro una cultura che si è allontanata da Dio, senza arroccarci contro di essa.
Dobbiamo tornare a predicare in questa società neopagana che Dio si è fatto uomo; non per innalzarsi su un trono, ma per partecipare ai limiti umani, per provare le stesse sofferenze degli uomini, per accompagnarli nel loro cammino terreno. E, facendosi uomo, Dio ha fatto sì che la vita umana, ogni vita umana, divenisse sacra. San Paolo riuscì a farsi capire dagli uomini del suo tempo; e così trasformò in realtà la missione insostituibile che noi cristiani abbiamo nel mondo, descritta con parole sublimi nella Lettera a Diogneto: « Come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (…) L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo (…) Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare ».
Arroccarsi contro il mondo equivale ad abbandonare il posto che Dio ci ha assegnato. Il genio paolino ci insegna che possiamo continuare a essere l’anima del mondo, senza rinunciare ai nostri principi e senza rinnegare la nostra essenza.

(L’Osservatore Romano 13 novembre 2008)

LA BENEDIZIONE DIVINA PER IL DISEGNO DI DIO PADRE (EF. 1, 3 – 14)

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LA BENEDIZIONE DIVINA PER IL DISEGNO DI DIO PADRE (EF. 1, 3 – 14)

MERCOLEDÌ 20 GIUGNO 2012

Nella preghiera «dobbiamo non solo richiedere, ma anche lodare e ringraziare: solo così la nostra preghiera è completa». Lo ha affermato Benedetto XVI nella catechesi di questa mattina, continuando nella «scuola della preghiera» dedicata alle lettere di san Paolo e soffermandosi sul primo capitolo della Lettera agli Efesini, un brano profondamente trinitario e insieme dedicato alla bellezza che brilla nel buio del mondo.
Questo capitolo inizia proprio con una preghiera di ringraziamento, a Dio che in Gesù Cristo ci ha fatto «conoscere il mistero della sua volontà» (Ef 1,9). E «realmente c’è motivo di ringraziare se Dio ci fa conoscere quanto è nascosto: la sua volontà con noi, per noi; “il mistero della sua volontà”». «Mysterion», «Mistero» è un termine che ricorre spesso nella Sacra Scrittura e che nel linguaggio comune «indica quanto non si può conoscere, una realtà che non possiamo afferrare con la nostra propriaintelligenza».
Ma la Lettera agli Efesini ci svela un altro senso della parola. «Per i credenti “mistero” non è tanto l’ignoto, ma piuttosto la volontà misericordiosa di Dio, il suo disegno di amore che in Gesù Cristo si è rivelato pienamente». Ora davvero, afferma san Paolo, possiamo «comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo» (Ef 3,18-19). «Il “mistero ignoto” di Dio è rivelato ed è che Dio ci ama, e ci ama dall’inizio, dall’eternità».
Ne nasce un inno di benedizione: «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Ef 1,3). che «ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo». San Paolo, nota il Papa, qui «usa il verbo euloghein, che generalmente traduce il termine ebraico barak: è il lodare, glorificare, ringraziare Dio Padre come la sorgente dei beni della salvezza».
Ma perché dobbiamo benedire il Signore? Risponde san Paolo che Egli «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (v. 4). Dunque «Dio ci ha chiamati all’esistenza, alla santità. E questa scelta precede persino la creazione del mondo». La nostra vocazione alla santità corrisponde «al disegno eterno di questo Dio, un disegno che si estende nella storia e comprende tutti gli uomini e le donne del mondo, perché è una chiamata universale».
San Paolo continua: Dio ci ha chiamati a essere «figli adottivi, mediante Gesù Cristo». Ma, affinché non ci inorgogliamo, è sempre bene ricordare che «Dio ci sceglie non perché siamo buoni noi, ma perché è buono Lui. E l’antichità aveva sulla bontà una parola: bonum est diffusivum sui; il bene si comunica, fa parte dell’essenza del bene che si comunichi, si estenda. E così poiché Dio è la bontà, è comunicazione di bontà, vuole comunicare; Egli crea perché vuole comunicare la sua bontà a noi e farci buoni e santi».
Per la Lettera agli Efesini al centro della benedizione sta Gesù Cristo: «mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia» (Ef 1,7). Qui ci viene svelato, per così dire, il centro stesso della storia. «Il sacrificio della croce di Cristo è l’evento unico e irripetibile con cui il Padre ha mostrato in modo luminoso il suo amore per noi, non soltanto a parole, ma in modo concreto.
Dio è così concreto e il suo amore è così concreto che entra nella storia, si fa uomo per sentire che cosa è, come è vivere in questo mondo creato, e accetta il cammino di sofferenza della passione, subendo anche la morte. Così concreto è l’amore di Dio, che partecipa non solo al nostro essere, ma al nostro soffrire e morire».
Il Pontefice paragona questo brano con quello famoso della Lettera ai Romani: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?… Io sono infatti persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura, potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,31-32.38-39).
Nella benedizione trinitaria della Lettera agli Efesini, con il Padre e il Figlio è naturalmente ben presente anche lo Spirito Santo: «Egli è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria» (Ef 1,14). Il Papa cita san Giovanni Crisostomo (tra 344 e 354-407), il quale così commenta questo passaggio: «Dio ci ha eletti per la fede ed ha impresso in noi il sigillo per l’eredità della gloria futura» (Omelie sulla Lettera agli Efesini 2,11-14).
La strada della redenzione è «anche un cammino nostro, perché Dio vuole creature libere, che dicano liberamente sì; ma è soprattutto e prima un cammino Suo. Siamo nelle Sue mani e adesso è nostra libertà andare sulla strada aperta da Lui».
Abbiamo dunque nella Lettera agli Efesini tutta la Trinità in azione: «il Padre, che ci ha scelti prima della creazione del mondo, ci ha pensato e creato; il Figlio che ci ha redenti mediante il suo sangue e lo Spirito Santo caparra della nostra redenzione e della gloria futura». Da san Paolo possiamo imparare a scorgere l’impronta della Trinità nel mondo, «la bellezza del Creatore che emerge dalle sue creature».
Citando l’esempio di san Francesco d’Assisi (1182-1226), e tornando sul tema che gli è caro della via pulchritudinis, la via della bellezza, il Papa nota che «importante è essere attenti proprio adesso, anche nel periodo delle vacanze, alla bellezza della creazione e vedere trasparire in questa bellezza il volto di Dio». E naturalmente anche nella bellezza dei santi, «affinché la Santissima Trinità venga ad abitare in noi, illumini, riscaldi, guidi la nostra esistenza». «Sant’Ireneo [130-202] ha detto una volta che nell’Incarnazione lo Spirito Santo si è abituato a essere nell’uomo. Nella preghiera dobbiamo noi abituarci a essere con Dio».
La preghiera ci trasforma, ci aiuta a vedere il mondo e la bellezza con colori nuovi. «La preghiera come modo dell’“abituarsi” all’essere insieme con Dio, genera uomini e donne animati non dall’egoismo, dal desiderio di possedere, dalla sete di potere, ma dalla gratuità, dal desiderio di amare, dalla sete di servire, animati cioè da Dio; e solo così si può portare luce nel buio del mondo».

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OMELIA DI SAN GIOVANNI CRISOSTOMO IN ONORE DI SAN PAOLO.

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OMELIA DI SAN GIOVANNI CRISOSTOMO IN ONORE DI SAN PAOLO.

Hom. VII in laude S. Pauli, 4.6.10-13, in PG 50, 510-514.

San Paolo risalì dalle acque divine del battesimo con un fuoco così ardente che non attese un maestro, non aspettò Pietro, né andò da Giacomo, né da nessun altro; spinto dal suo ardore, infiammò la città di Damasco al punto da scatenare un’aspra guerra contro di lui. Del resto anche quando era giudeo, agiva oltre la sua autorità, arrestando, imprigionando, confiscando.
Così aveva fatto anche Mosè, il quale, senza che nessuno lo incaricasse, si era opposto all’iniquità dei barbari contro i suoi connazionali. Questo comportamento denota un animo nobile e un carattere generoso, che non ammette di tollerare in silenzio i mali altrui, anche se nessuno gliene affida l’incarico. Che Mosè giustamente si sia precipitato a difendere i suoi, lo ha dimostrato Dio, perché in seguito lo elesse; e il Signore ha agito così anche nel caso di Paolo. Che anche questi abbia fatto bene allora a darsi alla predicazione e all’insegnamento, lo ha manifestato Dio innalzandolo rapidamente alla dignità dei maestri.

Paolo, più ardente del fuoco, non rimase nessun giorno inoperoso. Non appena risalì dalla sacra fonte del battesimo, si infiammò grandemente e non pensò ai pericoli, alla derisione e alle ingiurie da parte dei Giudei, al fatto di non trovare credito presso di loro, né a nessun altro elemento di tal genere. Presi invece altri occhi, quelli dell’amore, e un’altra mentalità, si slanciava con grande impeto, come un fiume in piena; travolgendo tutte le argomentazioni dei Giudei, dimostrava mediante le Scritture che Gesù è il Cristo [Cf At 9,22]. Eppure non aveva ancora molti doni della grazia, non era stato ancora ritenuto degno di ricevere lo Spirito così intensamente; tuttavia subito in infiammò. Faceva tutto con un animo che non si curava della morte e agiva in ogni occasione come per giustificarsi del passato.
Aveva maggior fiducia quando era in pericolo; questa situazione lo rendeva più coraggioso, e non solo lui, ma anche i discepoli a causa sua. Se l’avessero visto cedere e diventare più timoroso, forse anch’essi avrebbero ceduto; ma poiché lo videro divenire più coraggioso e, pur maltrattato, impegnarsi maggiormente, proclamavano il Vangelo con franchezza. Per indicare ciò, l’Apostolo diceva: La maggior parte dei fratelli, incoraggiati dalle mie catene, ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore [Fil 1,14].

Vedendolo incatenato e proclamare il vangelo in carcere, flagellato e conquistare alla sua causa i flagellatori, i discepoli ne ricevevano maggior fiducia. Paolo lo dimostra, perché non ha detto semplicemente: Incoraggiati dalle mie catene, ma aggiunge: Ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore [Fil 1,14]; vale a dire, i fratelli parlavano con più franchezza ora piuttosto che quando era libero. E anch’egli aveva un ardore maggiore, perché era più motivato contro i nemici, e l’aumento delle persecuzioni si risolveva in un incremento raddoppiato di sicurezza e di coraggio.
Una volta fu imprigionato e rifulse al punto da scuotere le fondamenta della prigione, aprire le porte, far passare dalla sua parte il carceriere, e far quasi cambiare parere al giudice, tanto che costui disse: Per poco non mi convinci a farmi cristiano! [At 26,28]. Un’altra volta fu preso a sassate e, entrato nella città che l’aveva lapidato, la convertì. Lo citarono in tribunale per giudicarlo ora i Giudei, ora gli Ateniesi; i giudici diventarono discepoli, gli avversari seguaci.
Come un fuoco, abbattendosi su differenti materiali, trova incremento nella materia sottostante, così anche la parola di Paolo faceva passare dalla sua parte quanti incontrava; coloro che gli erano ostili, conquistati dai suoi discorsi, divenivano subito alimento per quel fuoco spirituale e, mediante essi, la Parola prendeva nuovo vigore e passava ad altri. Perciò l’Apostolo diceva: Io soffro fino a portare le catene, ma la parola di Dio non è incatenata [Cf 2 Tm 2,9].

Infuriava la persecuzione, costringendo Paolo alla fuga, ma in realtà essa era l’invio in missione. Quello che avrebbero fatto amici e seguaci, lo facevano i nemici, in quanto non gli permettevano di stabilirsi in un solo luogo, ma facevano girare ovunque quel medico d’anime, mediante i loro complotti e persecuzioni, in modo che tutti ascoltavano la sua parola. Di nuovo lo incatenarono e ne aumentarono lo zelo; scacciarono i suoi discepoli col risultato che inviarono un maestro a quelli che non lo avevano; lo condussero a un tribunale più importante e giovarono a una città più grande.
I Giudei, inquieti a causa di Pietro e Giovanni, si erano chiesti: Che cosa dobbiamo fare a questi uomini? [At 4,16]. Riconoscevano infatti che le loro misure tornavano a vantaggio di quelli. Così anche nel caso della predicazione di Paolo: gli espedienti messi in opera per estirpare la Parola, la fecero crescere e la innalzarono a un’altezza indicibile.
Per tutti questi benefici ringraziamo la potenza di Dio che li ha elargiti e proclamiamo beato Paolo per mezzo del quale essi si sono verificati.

Ascensione del Signore, Bibbia di Avila – Madrid Biblioteca Nacional – 1150ca

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SAN GREGORIO PALAMAS: OMELIA 21 SULL’ASCENSIONE

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SAN GREGORIO PALAMAS: OMELIA 21 SULL’ASCENSIONE

I giudei festeggiavano la Pasqua della legge, cioè il passaggio dall’Egitto alla terra di Palestina; abbiamo festeggiato anche noi la Pasqua dell’evangelo, cioè il passaggio della nostra natura, innestata in Cristo, dalla morte alla vita, dalla corruzione all’immortalità. Quale discorso potrà dimostrare la superiorità della nostra Pasqua nei confronti delle solennità dell’antica legge e del tema delle antiche feste? Discorso umano non saprebbe esprimere degnamente l’altezza di questa eccellenza; ma la Sapienza consustanziale del Padre, il Verbo di Dio che precede i tempi e le essenze, che nel suo amore si è fatto una cosa sola con noi e con noi ha vissuto, ci ha mostrato oggi il motivo per festeggiare le sue opere, straordinariamente più alto anche di questa altezza.
Oggi infatti noi festeggiamo il passaggio della nostra natura, innestata in lui, non dagli inferi alla terra, ma dalla terra al cielo del cielo, al trono, al di là del cielo, del Signore dell’universo. Oggi, infatti, non solo, dopo la risurrezione, il Signore stette in mezzo ai suoi discepoli, ma anche si separò da essi, e sotto i loro occhi ascese al cielo, salì ed entrò nel vero santo dei santi, e sedette alla destra del Padre; Egli è al di sopra di ogni principato e potenza, al di sopra di ogni nome e di ogni dignità, conosciuta e nominata sia nel tempo presente sia nel tempo a venire. Come, prima della risurrezione del Signore, molte risurrezioni sono avvenute, così avvennero molte ascensioni prima della sua ascensione: lo Spirito elevò al cielo il profeta Geremia, un angelo Abacuc, e, soprattutto, è scritto che Elia fu assunto su un carro di fuoco. Ma neppure Elia oltrepassò la sorte assegnata ai terrestri; l’ascensione di ciascuno di costoro era come un trasferimento, che li innalzava dalla terra, ma non li conduceva fuori dai limiti terrestri.
Nello stesso modo quelli che risuscitarono tornarono di nuovo sulla terra e tutti morirono. Ma da quando Cristo è risuscitato dai morti, la morte non ha più potere su di lui e così, da quando è asceso e siede nell’alto dei cieli, ogni altezza è più bassa di lui, testimonianza per tutti che egli è Dio su tutte le cose. E questo è quello che Isaia chiama il monte luminoso di Dio lo, la dimora di Dio al di sopra di tutti i monti spirituali, il corpo del Signore: infatti non un angelo, non un uomo, ma lo stesso Signore venne attraverso la carne e ci salvò, fatto, per noi, simile a noi, pur rimanendo immutabilmente Dio. Come quando discese non cambiò di sede, ma condiscese, così di nuovo sale al cielo non trasferendosi nella divinità, ma intronizzando, là in alto, la nostra natura che egli assunse. Era veramente necessario che là fosse presentata a Dio la nostra natura, la primogenita dei morti, come la primizia dei primogeniti offerta per tutto il genere umano.
Molte furono le risurrezioni e le ascensioni, ma nessuna noi festeggiamo come la risurrezione e l’ascensione del Signore, poiché delle altre noi non abbiamo né avremo parte. Da esse non abbiamo altro giovamento che di essere spinti alla fede nella risurrezione e nell’ascensione del nostro Salvatore, alla quale tutti quanti partecipiamo e parteciperemo. Questa, infatti, è la risurrezione e l’ascensione della carne dell’uomo e non semplicemente della natura umana, ma anche di coloro che hanno fede in Cristo e che questa fede mostrano nelle loro opere. Infatti ciò che il Signore è divenuto, lo è divenuto per noi, lui che, per la propria natura divina, era ingenerato e increato; e quella vita che visse, la visse per noi, per mostrarci la via che conduce alla vera vita; e la passione che patì nella sua carne, per noi la patì, per guarirci dalle nostre passioni, e per i nostri peccati fu condotto a morte, e per noi risuscitò e ascese al cielo, preparandoci la risurrezione e l’ascensione per l’eternità; e tutti gli eredi di questa vita imitano, per quanto ne sono capaci, la condotta della sua vita sulla terra.
Principio di questa imitazione è per noi il santo battesimo, che è figura della sepoltura e della risurrezione del Signore »; parte centrale è la vita secondo la virtù, e la condotta secondo l’evangelo; compimento è la vittoria sulle passioni ottenuta attraverso le lotte spirituali, vittoria che ci procura la vita esente da dolore e da morte, la vita celeste. Così ci dice anche l’Apostolo: Se vivete secondo la carne, morirete; se invece con la forza dello Spirito, darete morte alle opere del corpo, vivrete. Coloro dunque che vivono secondo Cristo, imitano la sua condotta di vita quando aveva un corpo di carne; muoiono, quando giunge la loro ora, poiché anch’egli è morto nella carne, e nella carne anch’essi, come lui, risorgeranno, gloriosi e immortali, non ora, ma quando il tempo verrà; e poi saranno assunti in cielo, come dice Paolo: Saremo rapiti fra le nubi, incontro al Signore, nel cielo, e così saremo sempre col Signore.
Vedete dunque come ciascuno di noi, purché lo voglia, sarà accomunato nella risurrezione e nell’ascensione del Signore, sarà erede di Dio, coerede di Cristo? Per questo grande è la nostra gioia mentre festeggiamo la risurrezione, l’elevazione, l’insediamento in cielo della nostra natura, primizia della risurrezione e dell’ascensione di ciascuno dei credenti, e mettiamo al centro del nostro pensiero le parole evangeliche di cui oggi si darà lettura, cioè: Il Signore risorto si fermò in mezzo ai suoi discepoli. Perché dunque stette in mezzo ad essi, con essi si accompagnò nel cammino, li condusse fuori, verso Betania, ed, elevate le mani al cielo, li benedisse? Lo fece per mostrarsi tutto quanto salvo e integro, per far vedere i piedi, rinvigoriti e saldi nel camminare, i piedi che pur conservavano le ferite dei chiodi, e le mani trapassate, sulla croce, dai chiodi, il fianco trafitto dalla lancia, i segni incancellabili delle percosse, e per confermare così la fede nella passione salvifica.
A me l’espressione: « Stette in mezzo ai discepoli » sembra dimostrare anche che essi furono confermati nella fede in lui; attraverso tale apparizione e benedizione, infatti, non solo stette in mezzo a tutti loro, ma stette nel centro del cuore di ciascuno e ciascuno confermò nella fede. Così per ciascuno di essi è possibile dire la parola del salmo: Dio è in mezzo ad essa; non potrà vacillare. Da allora gli apostoli del Signore sono divenuti saldi e incrollabili. Stette dunque in mezzo a loro e disse: « Pace a voi « , parola dolce, consueta, a lui usuale. La pace è di due specie: quella che abbiamo con Dio, che è il frutto della fede in lui, e quella che abbiamo gli uni verso gli altri, frutto naturale della parola evangelica; qui, il Signore ce le ha date entrambe con una sola parola di saluto. E come ordinò di fare ai discepoli, la prima volta che li mandò, dicendo: In qualunque casa entrate, dite: « Pace a questa casa” così anch’egli fa: entrato nella casa in cui erano radunati, subito diede loro la pace. E li vide sbigottiti e sconvolti per quella visione inaspettata e straordinaria; credevano infatti di vedere uno spirito, cioè che quello che vedevano fosse un fantasma.
Ed egli, svelando i turbamenti del loro cuore e annunciando di essere colui al quale, prima della passione e della risurrezione, avevano detto: Ora sappiamo che tu sai tutto e non hai bisogno che alcuno ti interroghi, li rassicurò offrendosi alle loro domande e al loro contatto. E come vide che avevano compreso la verità, li rassicurò con quest’altra prova, cioè offrendo loro, sotto i loro occhi, la pace e la comunione del pasto. E poiché ancora non potevano credere ed erano stupiti, non più per l’incertezza, ma per la gioia, disse loro: Avete qui qualcosa da mangiare? Ed essi gli diedero un pezzo di pesce arrostito e un favo di miele; egli li prese e, sotto i loro occhi, mangiò.
Si nutrì, quel corpo senza macchia dopo la risurrezione, non perché avesse bisogno di cibo, ma per confermare la fede nella propria risurrezione e per mostrare che era, anche ora, lo stesso corpo, quello che prima della passione mangiava con loro. Consumò il cibo non secondo i processi naturali dei corpi mortali, ma per mezzo di un’energia divina. Si potrebbe dire che avvenne come per il fuoco che consuma la cera, tranne che il fuoco ha bisogno di materia per bruciare, mentre i corpi immortali non hanno bisogno di alimento per sussistere. Egli mangiò un pezzo di pesce arrostito e un po’ di miele tratto dal favo, simboli anche questi del suo mistero: la nostra natura, infatti, come il pesce, nuota nell’umido elemento dei piaceri e delle passioni e il Verbo di Dio, avendola unita ipostaticamente a se stesso e purificata da ogni comportamento passionale col divino e inaccessibile fuoco della sua divinità, l’ha resa simile a Dio e come infuocata.
Rende simile a Dio non solo l’impasto creaturale che egli ha assunto per noi, ma anche ciascuno di coloro che sono degni della comunione con lui, rendendolo partecipe del fuoco che il Signore è venuto a portare sulla terra . A favo di miele è simile la nostra natura, che racchiude in se stessa, come miele, il tesoro spirituale, o piuttosto, favo di miele è ciascuno di coloro che credono in Cristo; trattiene infatti in se stesso, nell’anima e nel corpo, la grazia, custodita in lui come miele nel favo. Il Signore, dunque, mangia di questi cibi, poiché fa volentieri suo proprio cibo la salvezza di ciascuno di quelli che sono resi partecipi della sua natura; non mangia tutto, mangia da un favo di miele, cioè una parte, poiché non tutti hanno creduto, e non prende con le sue mani quella parte, ma questa gli è offerta dai discepoli; i discepoli infatti gli presentano soltanto coloro che hanno creduto, separandoli dagli infedeli. Così anche attraverso queste azioni, mangiando cioè del pesce e del miele sotto gli occhi dei discepoli, il Signore rammentò loro le parole che aveva detto prima di incamminarsi verso la passione, provando anche così che era veramente lui: come aveva predetto, così infatti avvenne.
Egli aprì la loro mente, perché comprendessero le Scritture e conoscessero che, come era stato scritto, così era avvenuto. Era necessario che, nell’indescrivibile oceano del suo amore per gli uomini, il Figlio unigenito di Dio si facesse uomo per gli uomini, e che dall’alto la voce del Padre e l’apparizione del divino Spirito lo rivelassero e ne dessero testimonianza. Era necessario che fosse creduto e ammirato per l’eccezionalità delle sue opere e delle sue parole, che divenisse oggetto di invidia e fosse tradito da coloro che non cercano la gloria di Dio, ma quella degli uomini; che fosse messo in croce e sepolto e risorgesse dai morti il terzo giorno, e che, nel suo nome, fosse proclamata la conversione e il perdono dei peccati, e che l’annuncio partisse da Gerusalemme. Suoi araldi e testimoni dovevano essere quelli che con i loro occhi avevano visto ed erano diventati suoi servitori; ad essi promise che avrebbe mandato dall’alto ciò che il Padre aveva promesso, cioè lo Spirito santo, e ordinò loro di rimanere a Gerusalemme, finché non fossero stati rivestiti della potenza proveniente dall’alto.
Il Signore rivolgeva dunque ai suoi discepoli queste parole di salvezza; li fece poi uscire di casa e li condusse a Betania. Dopo che li ebbe benedetti, si separò da loro, ed ecco, era trasportato in cielo, e il suo carro era una nube di luce. Ascese dunque nella gloria ed entrò nel santo dei santi, non fatto da mano d’uomo, sedette nei cieli alla destra della Maestà, rendendo il nostro impasto di creature mortali partecipe del trono e della divinità. Gli apostoli non cessavano di fissare il cielo, quando, per l’autorità degli angeli, appresero che il Signore discenderà di nuovo dal cielo, e tutti lo vedranno. Così anche lo stesso Signore aveva predetto, e Daniele aveva previsto. Dice: Io vidi uno, simile a un Figlio di uomo avanzare sulle nubi del cielo; e il Signore: Tutte le tribù della terra vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo. Allora i discepoli adorarono, dal monte degli Ulivi da dove era asceso, il loro sovraceleste Signore, che era disceso dall’alto e aveva fatto della terra un cielo e che di nuovo era salito di dove era disceso; egli aveva congiunto quanto stava in basso a ciò che stava in alto; celeste e a un tempo terrestre aveva costituito la sua chiesa a gloria del suo amore per gli uomini.
Pieni di gioia, gli apostoli ritornarono a Gerusalemme, e stavano sempre nel tempio; la loro mente era in cielo, ed essi lodavano e benedicevano Dio, preparandosi ad accogliere la preannunciata venuta dello Spirito divino. Questo è, in sintesi, o fratelli, il modo di vivere di coloro che sono chiamati da Cristo: perseverare nelle suppliche e nelle preghiere, e, imitando gli angeli, tenere l’occhio della mente fisso verso il Signore, che sta al di sopra dei cieli, lodarlo e benedirlo con una vita irreprensibile, e così accogliere la sua mistica venuta, secondo le parole di colui che disse: Comporrò salmi e comprenderò su di una via senza biasimo, quando verrai da me. Anche il grande Paolo spiegò questo quando disse: La nostra patria è nei cieli, dove Gesù è entrato aprendo per noi la strada.
E anche il capo degli apostoli, Pietro, a questo ci conduce, quando dice: Cingetevi i fianchi della mente, vivete in perfetta sobrietà e sperate nella grazia che vi viene offerta nella rivelazione di Gesù Cristo che voi amate, pur non vedendolo. Questo disse, se pure in enigma, anche il Signore, quando dice: Siano cinti i vostri fianchi e siano accese le lucerne, e voi siate simili a uomini che aspettano il ritorno del loro Signore. In questo modo egli non abolì il sabato, ma lo portò a compimento, dimostrando che il sabato è veramente giorno benedetto, giorno il cui le fatiche del corpo hanno una sosta per un fine superiore. Per questo spetta al sabato l’eredità della benedizione, quando, liberi dalle opere di questa terra, opere che tra non molto perderanno la loro efficacia, noi ci eleviamo a Dio, cercando, con speranza che non teme vergogna, i beni celesti e incontaminati.
Nell’antica legge il primo dei giorni della settimana era il sabato; perciò agli stolti giudei sembrò che il Signore avesse abolito il sabato della legge, ma lo stesso Signore disse: Non sono venuto per abolire la legge, ma per portarla a compimento. Perché non abolì i sabato, ma gli diede compimento e, attraverso di questo, diede compimento alla legge? Egli promise che avrebbe dato lo Spirito santo a coloro che notte e giorno glielo chiedono, e ordinò di essere sempre svegli e vigilanti, dicendo: Siate pronti, poiché nell’ora in cui non pensate, il Figlio dell’uomo verrà. Egli ha reso tutti i giorni come un sabato benedetto per coloro che hanno scelto di dargli perfetta obbedienza, e così non ha abolito, ma anche in questo modo ha dato compimento alla legge. Ma voi, che siete implicati nelle opere di questo mondo, se vi asterrete dall’avidità, dall’odio che vi oppone gli uni agli altri, e se cercate la verità e la castità, anche voi potrete fare di tutti i giorni un sabato, poiché non fate il male.
E quando si presenta il giorno più degli altri salutare, bisogna astenersi da tutti i lavori e le parole anche non biasimevoli, e sostare a lungo nella chiesa di Dio, porgere orecchio e mente alla lettura e all’insegnamento, attendere con contrizione alla supplica e alle preghiere, ed elevare inni a Dio. Darete così anche voi compimento al sabato vivendo secondo l’evangelo dell’amore di Dio, elevando gli occhi della vostra mente a Cristo, che con il Padre e lo Spirito siede al di sopra dei cieli, che ci ha reso figli di Dio non semplicemente adottandoci con un nome, ma nella comunione dello Spirito divino, attraverso la sua carne e il suo sangue, rendendoci familiari di Dio e gli uni degli altri.
Custodiamo dunque attraverso un amore indissolubile questa unità fra di noi; eleviamo sempre in alto il nostro sguardo, verso colui che ci ha generati. Non siamo più, infatti, uomini di terra, come il primo uomo, ma siamo come il secondo uomo, il Signore del cielo. Come il primo uomo terrestre, terrestri erano gli uomini; quale l’uomo celeste, tali sono anche gli uomini celesti. Come dunque noi portammo l’immagine dell’uomo di terra, cerchiamo di portare anche l’immagine dell’uomo celeste, e, levando in alto il nostro cuore verso di lui, contempliamo questa grandiosa visione, la nostra natura, che perennemente dimora col fuoco immateriale della divinità e, deponendo le vesti di pelle, che dal tempo della trasgressione abbiamo indossato, teniamo fermo il nostro passo sulla terra santa, dimostrando che terra santa è la nostra virtù e il cammino senza deviazioni verso Dio.
Avremo così perfetta fiducia, perché Dio abita nel fuoco; accorrendo verso di lui, saremo illuminati e, uniti a lui, vivremo nella luce, nella gloria della chiarità altissima, dello splendore di quel triplice e unico sole. Ad esso ogni gloria, potenza, onore e adorazione, ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen.

 

ASCENSIONE DEL SIGNORE: « DETTE QUESTE COSE, FU ELEVATO IN ALTO SOTTO I LORO OCCHI »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/7-Pasqua/7a-Domenica-Ascensione-B.2015/12-07a-Domenica-Ascensione-B-2015-SC.htm

17 MAGGIO 2015 | 7A DOMENICA: ASCENSIONE – ANNO B | APPUNTI PER LA LECTIO

« DETTE QUESTE COSE, FU ELEVATO IN ALTO SOTTO I LORO OCCHI »

In fin dei conti, la festa di oggi dovrebbe essere più espressione di tristezza che di gioia: è Gesù che si allontana definitivamente dai suoi, fino a che non gli piacerà di « ritornare » per l’incontro ultimo con gli uomini.
E sembra che in questo senso abbiano percepito il fatto i suoi apostoli, i quali rimangono non solo interdetti, ma anche rattristati quando lo vedono svanire davanti ai loro occhi, se è vero che due esseri angelici « in bianche vesti » dovettero rassicurarli dicendo loro: « Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo » (At 1,11).
Solo il preannuncio del suo « ritorno » poteva compensare l’amarezza e il senso di vuoto che provarono in quel momento gli apostoli.

« Cantate inni al nostro re, cantate inni »
Come va allora che la Liturgia odierna è tutta piena di giubilo, quasi più che la stessa festa di Pasqua?
Basti leggere il salmo responsoriale, che descrive l’ascesa trionfale di Jahvè al tempio in mezzo alle acclamazioni rituali e che qui viene applicato a Cristo che sale al cielo: « Applaudite, popoli tutti, / acclamate Dio con voci di gioia; / perché terribile è il Signore, l’Altissimo, / re grande su tutta la terra… / Cantate inni a Dio, cantate inni; / cantate inni al nostro re, cantate inni » (Sal 46,2-3.7).
Il salmo responsoriale stesso dà in parte risposta al nostro interrogativo: se l’Ascensione è un distacco, è però anche l’ingresso di Cristo nella gloria, la sua « intronizzazione » come « re » universale presso il Padre. È giusto perciò che la Chiesa gioisca oggi di questo grande evento, che non è solo commemorazione di un fatto passato, ma contemplazione di ciò che Cristo è nella sua realtà attuale: il Cristo, « asceso » nella gloria, è il Cristo che è presente in mezzo a noi e che opera nella storia. Non una « presenza » allontanata, dunque, ma una presenza « ravvicinata »!

« Con il Cristo siamo penetrati nell’altezza dei cieli »
Oltre a questo, però, c’è un altro motivo di gioia che fa sussultare di commozione il cuore della Chiesa: ed è il fatto che, con Cristo, è ascesa nella gloria quella « umanità » che egli ha preso in prestito da noi.
È quanto esprimeva mirabilmente già a suo tempo san Leone Magno: « L’Ascensione di Cristo significa anche elevazione per noi, e là dove è giunta in anticipo la gloria del capo, è come un invito alla speranza per il corpo: per questo dobbiamo giustamente esultare, e piamente ringraziando rallegrarci. Oggi non solo abbiamo ricevuto la conferma di possedere il paradiso, ma siamo penetrati con il Cristo nell’altezza dei cieli ».
È quanto troviamo mirabilmente espresso anche nella colletta: « Esulti di santa gioia la tua Chiesa, Signore, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché in Cristo asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere il nostro capo nella gloria ». Pensiero analogo troviamo nella preghiera dopo la comunione.
Più mirabile ancora è il prefazio: « Il Signore Gesù, re della gloria, vincitore del peccato e della morte, oggi è salito al di sopra dei cieli tra il coro festoso degli angeli. Mediatore tra Dio e gli uomini, giudice del mondo e Signore dell’universo, non ci ha abbandonati nella povertà della nostra condizione umana, ma ci ha preceduti nella dimora eterna, per darci la serena fiducia che dove è lui, capo e primogenito, saremo anche noi, sue membra, uniti nella stessa gloria ».
Salendo al cielo Cristo non solo non ci ha abbandonati, ma addirittura ci ha indicato la « strada » per raggiungerlo nella gloria. Una festa di gioia e di grande attesa, dunque, quella che celebriamo oggi, più che di rimpianto e di rammarico. Proprio come egli aveva detto ai suoi apostoli: « È bene per voi che io me ne vada » (Gv 16,7).

« Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi »
Le letture bibliche ci aiutano a penetrare meglio il mistero dell’Ascensione nella molteplicità e nell’intreccio di questi diversi motivi.
Ad esempio, la prima lettura, ripresa dalla introduzione del libro degli Atti e che sembra sottolineare più un senso di velata nostalgia che di festa, in realtà è anch’essa aperta al futuro della speranza, in quanto preannuncia la venuta dello Spirito, che darà agli apostoli la forza di « testimoniare » davanti al mondo la sovrana « signoria » di Cristo.
« Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre, « quella, disse, che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni… Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra »" (At 1,4-5.7-8).
È interessante questo esplicito riferimento allo Spirito Santo, come « dono » del Cristo vittorioso, che prende finalmente possesso della sua gloria.
Molti studiosi hanno definito il libro degli Atti come il « Vangelo dello Spirito », perché di fatti lo Spirito ne è il protagonista, e non solo nell’evento di Pentecoste che viene descritto subito dopo (cap. 2), ma anche in tutta la storia successiva. La Pentecoste è il « contrassegno » della Chiesa, in quanto essa deve vivere continuamente sotto il fuoco dello Spirito.
Non si deve però dimenticare che è precisamente Cristo asceso al cielo che ci manda lo Spirito. Vorrei dire che l’Ascensione « spiritualizza » lo stesso Cristo e ci permette di comunicare con lui più direttamente e intensamente: non c’è più fra noi e lui la « distanzialità » che la materia pone fra gli esseri, ma la capacità di « interiorizzarlo » in forza della « spiritualizzazione » che è avvenuta in lui e, in parte, avviene anche in noi.
Anche il simbolismo della « nube », che lo avvolge, si muove in questo senso: « Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo » (v. 9). La « nube », infatti, è una caratteristica delle teofanie bibliche. Cristo si muove ormai nel mondo del divino, dove l’esperienza umana non può penetrare: solo il suo Spirito può farci da intermediario.

« Ascendendo in cielo… ha distribuito doni agli uomini »
La seconda lettura, ripresa dalla lettera agli Efesini, contiene una accorata esortazione all’ »unità » della comunità, per mezzo dell’amore. E questo proprio sul modello della Trinità Santissima che, pur distinta nelle persone e nelle relative operazioni salvifiche, è « una » per la comune natura divina: « Un solo corpo, un solo Spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti » (Ef 4,4-6).
È evidente il rimando « trinitario » nei versetti appena citati, proprio per esortare quei cristiani all’unità di fede e di reciproco amore: si incomincia dallo « Spirito », che è già operante nella comunità, si passa per il « Signore » Gesù; si arriva finalmente al « Dio Padre di tutti », fonte e origine di tutto.
L’ »unità », che deve fare di tutti i cristiani un « corpo solo » (v. 4), non esclude però la « molteplicità » dei doni e dei ministeri in seno alla Chiesa, che ha bisogno di tutti i suoi figli per realizzarsi e « costruirsi » come autentico « corpo di Cristo » (v. 12). Anzi, questa molteplicità di « doni » è proprio il Cristo risorto e « asceso » al cielo (vv. 7-10) che la distribuisce alla Chiesa quasi come segno del suo trionfo definitivo, adesso che si asside di nuovo « alla destra del Padre » con la sua propria umanità che lo ha accomunato a ciascuno di noi.
È quanto si dice a conclusione di questo densissimo brano paolino: « È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo » (4,11-14).
Con l’Ascensione Cristo non si distacca dunque dalla sua Chiesa; anzi le diventa più intimo e può disporre per lei di tutte le sue ricchezze di amore e di grazia e della sua « signoria » universale.
« Signoria » che si realizza proprio attraverso quei « doni » che qui vengono elencati e che di fatto tendono ad espandere la « conoscenza » di Gesù come « Figlio di Dio » (« apostoli », ecc.). La « piena maturità di Cristo » (v. 13) di cui qui si parla, infatti, non è solo la crescita di ognuno di noi, nella penetrazione del suo mistero, ma è soprattutto la sempre più dilatata « edificazione del suo corpo » (v. 12), che si otterrà attraverso la più ampia « conoscenza » di Cristo ad opera di coloro che hanno il particolare compito di « annunciarlo » al mondo, quali sono appunto « gli apostoli, i profeti, gli evangelisti, i pastori, i maestri », sopra ricordati (v. 11).
In fin dei conti, è la tensione « missionaria » della Chiesa che è chiamata in causa dall’Ascensione del Signore nostro Gesù Cristo.

« Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura »
È quello che emerge anche più chiaramente dalla finale del Vangelo di Marco, che sembra essere un’aggiunta posteriore (16,9-20), di altro autore; questo, comunque, non ha alcuna rilevanza per quanto riguarda la canonicità del brano. Vi si descrive l’ultima apparizione del Risorto agli apostoli, tutta concentrata nel « mandato » missionario: l’Ascensione vi fa solo da sfondo ed appare come l’elemento che lo giustifica, lo stimola e addirittura lo rende efficace. Sembra strano, ma non lo è: proprio il Cristo, che si allontana dai suoi, rende più efficace la loro azione missionaria!
« Alla fine, Gesù apparve agli undici… e disse loro: « Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno ». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano » (Mc 16,15-20).
Pur avendo notevoli punti di contatto con l’analoga finale di Matteo (28,16-20), il testo di Marco è più ricco, e anche più significativo.
Ad esempio, è del tutto singolare il riferimento a certi fatti carismatici (cacciare demoni, ecc.) come « segni » della « fede », che appare qui come una forza che sconvolge l’ordine stesso delle cose: indubbiamente s’intende dire che con l’accettazione del Vangelo interviene qualcosa di totalmente « nuovo », che non solo cambia i cuori degli uomini, ma introduce rapporti nuovi nella compagine stessa della creazione. È la « signoria », di cui Cristo ha preso possesso, che già si manifesta nella nostra storia!
A condizione però che il Vangelo sia davvero predicato « ad ogni creatura » (v. 15). Di qui la responsabilità della Chiesa, che in questo suo servizio diventa quasi arbitra della salvezza degli uomini. Davanti al suo annunzio, infatti, e in conseguenza del suo annunzio, avviene come un « giudizio » di vita o di morte: « Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato » (v. 16).
È il rimando al dovere della « testimonianza », sia della dottrina sia della vita, che ci ricordava all’inizio il libro degli Atti: « Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra » (At 1,8).

« Il Signore operava insieme con loro »
Particolarmente significativo, poi, l’ultimo versetto che afferma sia l’obbedienza degli apostoli al mandato di Cristo, sia la sua fedeltà alla promessa di assisterli sempre con la forza della sua grazia: « Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano » (v. 20). I « segni », di cui egli aveva prima parlato, si verificano puntualmente come espressione dell’assoluta « sovranità » del Cristo risorto e asceso al cielo, che qui viene presentato appunto come il « Signore » (K´yrios).
« Quest’aggiunta è molto importante, non solo perché ci permette di gettare uno sguardo in un momento della storia della comunità nel quale si attribuiva un grande valore ai miracoli e ai doni carismatici, ma soprattutto perché si afferma che il vero scopo della risurrezione di Gesù consiste nella proclamazione del Vangelo in tutto il mondo. E questo avviene proprio ad opera dei discepoli riassunti in servizio dal Risorto: lui solo può superare la loro incredulità. In questo si manifestano la potenza, la signoria e la vittoria del Risorto ».
La festa dell’Ascensione, perciò, non è solo la festa della « signoria » di Cristo, ma anche di quella della Chiesa, che « vince » soprattutto con l’annunzio del Vangelo, che di fatto è un « portare in trionfo » Cristo per il mondo.

Da CIPRIANI S., Convocati dalla Parola

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