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SAN PAOLO, SAN BONAVENTURA E JOSEPH RATZINGER

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SAN PAOLO, SAN BONAVENTURA E JOSEPH RATZINGER

25 GIUGNO 2009

DI PIETRO MESSA, OFM*

ROMA, giovedì, 25 giugno 2009 (ZENIT.org).- Nel Prologo dell’Itinerarium mentis in Deum, dopo aver innalzato la preghiera all’eterno Padre della luce affinché ci illumini sulla via della pace, Bonaventura prosegue: «Poiché dunque, seguendo l’esempio del beatissimo padre Francesco, questa pace cercavo con spirito ardente, io peccatore che, benché indegno, sono il settimo suo successore nel governo dell’Ordine, accadde che trentatrè anni dopo la sua morte, mi recai per volere divino sul monte della Verna, come a un quieto rifugio ove cercare la pace dello spirito; e là, mentre meditavo sulle possibilità dell’anima di ascendere a Dio, mi si presentò, tra l’altro, quell’evento mirabile occorso in quel luogo al beato Francesco, cioè alla visione del Serafino alato in forma di Crocifisso. E su ciò stavo meditando, subito mi avvidi che tale visione mi offriva l’estasi contemplativa del medesimo padre Francesco e insieme la via che ad essa conduce».
Certamente i numeri indicati sono in contemporanea dati storici, ma anche dal forte significato teologico; considerando che san Francesco è morto nel 1226 e che Bonaventura sale a la Verna trentatrè anni dopo, si deduce che egli ha scritto l’Itinerarium mentis in Deum nel 1259, ossia due anni dopo la sua elezione a ministro generale ad opera del capitolo di Roma del 1257. Quindi quest’anno ci troviamo nel 750 anniversario della composizione di tale testo. Proprio per tale motivo è stato organizzato un incontro, distinto in due sessioni (Santuario La Verna il 26 settembre e Antonianum di Roma il 27 ottobre 2009), su come quest’opera bonaventuriana è stata recepita da alcuni teologi e filosofi del secolo XX in modo da cogliere la posterità del pensiero di Bonaventura nel secolo che ci ha preceduto. Dei teologi che saranno presi in considerazione certamente quello che desta più interesse è Joseph Ratzinger, sia perché oggi, divenuto papa Benedetto XVI, la comprensione dei suoi studi su Bonaventura è essenziale per comprendere il suo pensiero, ma anche perchè egli ha approfondito la teologia della storia bonaventuriana, un sistema complesso che ha visto la convergenza di più correnti di pensiero, tra cui quella gioacchimita, non sempre facile da decifrare. Joseph Ratzinger nel suo studio sulla teologia della storia in san Bonaventura fa riferimento soprattutto alle Collationes in Hexaëmeron, abbondantemente citate. Tuttavia vi sono rimandi anche ad altre opere bonaventuriane, tra cui anche all’Itinerarium mentis in Deum.
Così, nel capitolo secondo, dedicato a descrivere “Il contenuto della speranza di salvezza in Bonaventura” indica pax e revelatio come i beni salvifici del tempo ultimo. Dopo aver affermato che «il vero contenuto di questo tempo di salvezza viene riassunto nella parola “pace”» egli cerca le fonti di questa convinzione bonaventuriana e tra le altre indica «la posizione dominante che lo stesso Francesco aveva riservato nel suo ordine al saluto e al messaggio di pace». In nota Ratzinger ricorda che «Bonaventura pone un particolare accento su questo tratto fondamentale del messaggio di Francesco» nell’Itinerarium mentis in Deum, riportando un brano del Prologo: «pace che predicò e donò Cristo nostro Signore, di cui fu apostolo il nostro padre Francesco, che l’annunziava al principio e alla fine di ogni discorso, l’augurava in ogni saluto, e in ogni contemplazione sospirava alla pace dell’estasi, quasi concittadino della Gerusalemme perfetta. Di questa pace parla quell’uomo pacifico che si conservava in pace anche con quanti la pace odiavano. Chiedete quanto arreca pace a Gerusalemme. Egli ben sapeva che il trono di Salomone è fondato sulla pace, come è scritto: La sua sede è nella pace, e in Sion è la sua dimora».
Sempre nel capitolo, Ratzinger evidenzia la presenza della teologia di Dionigi l’Areopagita nelle opere bonaventuriane, facendo notare come «la teologia dionisiana di Bonaventura culmini sempre più nel concetto di rivelazione, con il quale originariamente non ha nulla a che fare, che contribuisce infine a crearne l’impronta essenziale». Infatti «per il Dottore Serafico erano sempre esistiti motivi sufficienti per aderire ad una dottrina che, quale sommo vertice dello slancio creaturale verso Dio, insegnasse un contatto con questo Dio in modo completamente non cognitivo e superintellettuale». Continuando afferma: «A questo si aggiunge ancora un altro processo che assicura a quello appena descritto la sua piena portata: dapprima nell’Itinerarium mentis in Deum e poi ancora con nuova enfasi nell’Hexaëmeron questo contatto mistico viene indicato come “rivelazione”». Il rimando in nota è al capitolo conclusivo dell’Itinerarium mentis in Deum: «In questa ascesa, perché sia perfetta, è necessario che si abbandonino tutte le operazioni dell’intelletto, e che l’apice dell’affetto sia segretissimo, che non lo può conoscere chi non lo sperimenta, e non lo riceve se non chi lo desidera, né lo desidera se non colui che il fuoco dello Spirito Santo, che Cristo mandò sulla terra, profondamente infiamma. Per questo l’Apostolo dice che questa sapienza mistica è stata rivelata per mezzo dello Spirito Santo». Bonaventura conclude questo brano rinviando a quanto affermato da san Paolo in 1Cor 2,10ss.
Nel paragrafo conclusivo del capitolo secondo, Ratzinger illustra «la sintesi decisiva a partire dalla quale si costruisce la speranza escatologica della rivelazione in Bonaventura e il concetto di rivelazione che ne costituisce la base». Prima di tutto mostra come Bonaventura ha trasformato in senso storico la concezione cosmica delle gerarchie di Dionigi; successivamente ha mostrato che a questo sviluppo storico-gerarchico «corrisponde anche uno sviluppo della conoscenza di fede fino alla forma suprema di un contatto con Dio super-intellettuale e affettivo-mistico». Secondo Ratzinger «il concetto che sostiene e fonda questa sintesi complessa mi pare essere quello dei Serafini. La visione di San Francesco, al quale Cristo crocifisso apparve nella figura di un Serafino, non ha più abbandonato san Bonaventura dopo il suo ritiro sul monte della Verna. Allo spirito del teologo in meditazione doveva infatti apparire indubitabile che in questa visione si annunciasse l’essenza dell’esperienza piena di mistero: il modo di cogliere Dio si è qui realizzato al supremo livello dell’amore, al livello dei Serafini. Come le stigmate, dunque, attestavano l’identità del Poverello quale “angelus cum signo Dei vivi”, allo stesso modo l’apparizione del Signore nella figura del Serafino, indicava la collocazione gerarchica di Francesco e la sua ora storica; egli doveva coseguentemente appartenere alla Chiesa serafica del tempo ultimo. Nella strana duplice figura di quella visione si cela dunque già la sintesi comprendente il pensiero delle gerarchie, la mistica e la storia, con cui Bonaventura tentava di dominare l’eredità teologica e religiosa del suo tempo».
Nel momento che Ratzinger accenna al ritiro di Bonaventura a la Verna, rimanda in nota al Prologo dell’Itinerarium mentis in Deum. Continuando Bonaventura spiega il perché del forte significato simbolico del Serafino apparso a san Francesco: «Le sei ali del Serafino, infatti, possono ben simboleggiare i sei gradi dell’illuminazione, attraverso i quali l’anima, come per gradini o vie, si dispone a salire al godimento della pace nei rapimenti estatici della sapienza cristiana. Per questa via non si va se non sospinti dall’ardentissimo amore del crocifisso che rapì Paolo al terzo cielo, trasformandolo al punto che esclamò: Con Cristo sono confitto in croce. Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. Questo amore assorbì la mente di Francesco al punto che ciò che era nella mente si manifestò nella carne, portando per due anni impresse nel corpo, fino alla morte, le sacre stimmate della Passione. Dunque, la visione delle sei ali del Serafino suggerisce le sei illuminazioni ascendenti, che partono dalle creature e conducono fino a Dio, nel quale nessuno penetra rettamente se non tramite il Crocifisso».
Come si vede il rimando è a san Paolo, rapito fino al terzo cielo, e trasformato in Cristo, come dice sempre l’Apostolo in un testo che può essere definito come il più grande della mistica cristiana: Christo confixus sum cruci, iam non ego; vivit vero in me Christus. Lo stesso passo paolino Bonaventura lo usa all’inizio del capitolo XIV della Vita beati Francisci in cui narra la morte del santo: «Francesco, ormai confitto nella carne e nello spirito con Cristo alla Croce, non solo ardeva di amore serafico verso Dio, ma era anche assetato, con Cristo crocifisso, della salvezza degli uomini». Tuttavia Bonaventura non è il primo ad applicare Gal 2,19-20 a san Francesco; infatti egli si pone in quella che ormai era diventato un patrimonio dell’agiografia francescana diffusa anche mediante l’iconografia francescana.
Ratzinger nel Prologo dell’Itinerarium si sofferma soltanto sulla figura del Serafino alato in forma di Crocifisso e la sua importanza nel pensiero bonaventuriano, ma tale brano è pienamente comprensibile soltanto se si completa con quello successivo in cui il riferimento è proprio Paolo apostolo. Infatti nella spiegazione dell’evento della Verna, Bonaventura non solo attinge abbondantemente dagli scritti paolini, ma l’esperienza stessa di san Paolo rapito al terzo cielo è presa come riferimento per comprendere ciò che avvenne a san Francesco quando gli apparve il serafino.
Sarà a conclusione dei Miracoli, posti al termine della Vita beati Francisci, che Bonaventura sintetizzerà la sua lettura teologica della vita del Santo d’Assisi con un intreccio di citazioni bibliche – soprattutto paoline – in cui l’Itinerarium mentis in Deum, denominato anche Speculatio pauperis in deserto, fa come da sfondo: «Indubbiamente, questo mistero grande e mirabile della croce, nel quale sono nascosti così profondamente da risultare nascosti ai sapienti e ai prudenti di questo mondo i carismi della grazia, i meriti delle virtù, i tesori della sapienza e della conoscenza, fu svelato in tutta la sua pienezza a questo piccolino di Cristo, tanto tutta la sua vita non fu che seguire sempre e solo le vestigia della croce, gustarne la dolcezza, predicarne la gloria. Perciò egli ha potuto dire veramente con l’Apostolo, all’inizio della sua conversione: “Quanto a me invece non vi sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo”. Con non minor verità ha potuto ripetere, nello svolgimento della sua vita: “E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia”. E con pienezza di verità, nel compimento della sua vita terrena, ha potuto soggiungere: “Io porto le stigmate del Signore Gesù nel mio corpo!”. Ma noi desideriamo sentire ogni giorno da lui anche queste parole: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia col vostro spirito, fratelli. Amen”. Gloriati, dunque, ormai sicuro, nella gloria della croce, o glorioso alfiere di Cristo; tu che, cominciando dalla croce, sei progredito seguendo la regola della croce e nella croce hai portato a compimento la tua opera. Gloriati, dunque ora che prendendo a testimonio la croce, manifesti a tutti i fedeli quanto è grande la tua gloria nel cielo. Ormai ti seguano sicuri coloro che escono dall’Egitto: la forza del legno della croce di Cristo farà dividere davanti a loro il mare ed essi passeranno il deserto, e traghettato il Giordano di questa vita mortale e, sorretti dalla meravigliosa potenza della croce, entreranno nella terra promessa dei viventi. Che qui ci introduca il vero condottiero e salvatore dei popoli, Gesù Cristo crocifisso, per i meriti del suo servo Francesco, a lode e gloria di Dio uno e trino; che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen».

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*Padre Pietro Messa è Preside della Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum di Roma

SAN PAOLO AD ATENE (interessante)

http://www.domenicanipistoia.it/sanpaolo-atene.htm

CREDERE CON IL CORPO LA LEZIONE DI PANIKKAR, TEOLOGO DI TRE RELIGIONI

di Armando Torno

SAN PAOLO AD ATENE

Ad Atene Paolo giunse per la prima volta verso l’estate del 50, giusto nella metà esatta del secolo I, a vent’anni dalla morte di Gesù. Egli proveniva dalla Macedonia e aveva già soggiornato in varie città (Filippi, Tessalonica, Berea), suscitandovi piccole comunità cristiane, frutto del suo primo viaggio missionario in Europa. Ma una città come Atene, con il suo glorioso passato politico e culturale, doveva costituire qualcosa di nuovo e affascinante.
Qui Paolo stabilì due punti di attività missionaria: la sinagoga e l’agorà (la «pubblica piazza»). L’Areòpago era fuori dalle sue intenzioni, e l’intervento al suo interno fu occasionale. Egli infatti mirava di preferenza a un contatto non tanto selettivo quanto di tipo generale e per così dire misto, come risulterà soprattutto a Corinto. Nella sinagoga, che offriva un’audience più ristretta, poteva rivolgersi in modo mirato agli Ebrei e ai «pagani credenti in Dio», cioè a coloro che erano idealmente vicini al giudaismo (cf. At 17,17a); qui era in un certo senso a casa propria. Nell’agorà, invece, per natura sua più laica e aperta, poteva parlare con chiunque incontrasse.
Essa infatti è il luogo del libero scambio, dove più evidente appare il gioco della democrazia; non per nulla nelle città dell’antico Vicino Oriente, anteriori all’ellenismo, manca uno spazio del genere «in mezzo alla città», ritenuto inutile o addirittura pericoloso.
Il discorso all’Areòpago (At 17,22- 31) secondo gli Atti degli Apostoli è il pezzo forte dell’intervento di Paolo ad Atene, e si può suddividere in un esordio (vv. 22- 23), nell’annuncio dell’unico Dio con i rischi della sua ricerca (vv. 24- 29) e nel tipico annuncio cristiano (vv. 30- 31). Vogliamo chiederci qui quale sia, in generale, il suo significato per l’incontro tra vangelo e cultura. A questo proposito, possiamo individuare tre aspetti interessanti.
L’intervento di Paolo all’Areòpago è l’unico esempio nel Nuovo Testamento di un discorso ai pagani. Va osservato che Paolo, in base al giudaismo di origine, doveva appunto considerare come «gli altri», cioè distanti e diversi, proprio i «gentili», quelli che oggi qualifichiamo genericamente come pagani. Anche se storicamente l’atteggiamento di Israele verso di loro può aver assunto forme di integrazione a vari livelli, restò sempre un giudizio di fondo, che li bollava come «un nulla» (Is 40,17) o come «peccatori» (Gal 2,15).
Ebbene, l’enorme «operazione culturale» attuata da Paolo è stata appunto quella di aprire il Dio d’Israele anche ai «gentili» e di ammetterli gratuitamente, cioè senza richiedere loro l’osservanza della legge di Mosè, ma proponendo la semplice fede nel sangue di Cristo, alla giustificazione davanti a Dio e in ultima analisi alla salvezza escatologica, sulla base non dei comandamenti formulati dal legislatore Mosè, ma delle libere promesse fatte da Dio al patriarca Abramo. Per questo Paolo si è sempre battuto: per avvicinare i lontani (cf. Ef 2,13), per ammettere e accogliere «gli altri», quelli che erano religiosamente bollati come esclusi, per superare quindi i molti recinti del sacro, della cultura, della razza, e persino del sesso (cf. Gal 3,28), tutte barriere che egli sa ormai irrimediabilmente abbattute in Cristo.
Il suo discorso all’Areòpago rappresenta il momento tipico di questa «politica». È vero che altri Giudei di ambito ellenistico operarono irenicamente nei confronti della cultura pagana: valga per tutti la figura straordinaria del filosofo-mistico Filone Alessandrino. Ma mentre Filone, pur dimostrando una conoscenza molto più ampia e approfondita della tradizione culturale greca, non rinuncia a proporre i benefici della legge mosaica, Paolo prescinde da ogni imposizione legalistica e propone semplicemente Gesù Cristo come l’unica via per giungere alla comunione con la divinità. Il discorso di Paolo all’Areòpago ci propone poi due istanze esemplari molto concrete. La prima riguarda il contatto diretto e anche fisico con «gli altri», cercandoli magari là dove essi sono e vivono, senza temere di incontrare la diversità «altrui» e di starle magari gomito a gomito, nonostante troppe volte si sia tentati dalla chiusura, dall’affermazione soltanto della «propria» diversità. La seconda istanza è un corollario della precedente: «gli altri» si incontrano veramente, non con la pretesa di strapparli alla loro cultura per imporgliene una nuova, magari antitetica, bensì adottando punti di vista della cultura altrui che possono valere come vera e propria praeparatio evangelica. La parola magica in questo senso è «inculturazione», che fa pendant con «incarnazione».
Nonostante tutta la buona volontà ecumenica di Paolo, egli tuttavia all’Areòpago annunziò il messaggio cristiano in alcuni suoi elementi tipici.
Certo, secondo il testo lucano, egli non parlò della croce di Cristo. Ma il suo discorso giunse a proporre la prospettiva del giudizio escatologico e, come suo corollario, il kerygma (o annunzio fondamentale) della risurrezione di Cristo. Ciò già poteva bastare per motivare un rifiuto, come di fatto avvenne.
Si potrebbe perciò discutere sull’eventuale necessità di cominciare il confronto con i lontani non direttamente con lo specifico kerygma cristiano, ma con dei prolegomena («premesse») che preparino alla sua accettazione. Ma resta il fatto che Paolo non premise dibattiti filosofici, se non assumendo irenicamente la palese condivisione di alcuni punti fermi della cultura greca, che sono poi quelli da noi tradizionalmente etichettati come elementi della teologia naturale (un esempio è la citazione del poeta Arato: «Di lui infatti anche noi siamo stirpe», nel v. 28). Ciò che può derivarne per ogni cristiano, al di là di ogni buona volontà di dialogo, è che non si può sfuggire all’esigenza di proporre ciò che più propriamente definisce l’identità della sua fede. Bisogna prima o poi giungere a dire che, oltre ogni nesso che lega il cristiano al ricco patrimonio delle tradizioni culturali umane, c’è qualcosa di irriducibile ad esse, qualcosa che può essere e di fatto viene giudicato «scandalo e stoltezza», di fronte a cui la sapienza del mondo viene messa in scacco (cf. 1Cor 1,17- 25). Certo è che una forte precomprensione religiosa non basta ad accogliere il vangelo. Gli Ateniesi vengono riconosciuti «molto timorati degli dèi» (v. 22), però questo non solo non valse a nulla, ma costituì forse l’ostacolo maggiore alla fede. Il vangelo infatti è sempre anche una critica della religione, cioè delle inveterate categorie, individuali e sociali, secondo le quali sembrerebbe che l’accesso a Dio sia ormai fissato irrevocabilmente in figure, istituzioni e ritualità tradizionali. Il vangelo invece annuncia a sorpresa un comportamento divino che non era stato previsto e che perciò sconvolge questi schemi. Per accoglierlo occorre una disponibilità a superare se stessi, che non è sempre facile e non si può dare per scontata. Il «Dio ignoto» degli Ateniesi (cf. v. 23) può essere metafora di tutto ciò che sta oltre ogni precomprensione e che, sulla base della rivelazione, è compito del cristiano comunicare.
L’ Areòpago di Atene, alla luce dell’esperienza di Paolo, può valere come metafora di tutte le possibili occasioni e di tutti i possibili luoghi di confronto pubblico e qualificato tra il vangelo e la cultura umana. Però, se è vero che all’Areòpago si giunge solo su invito o per un cortese trascinamento, non sempre e non a tutti è possibile accedervi. Le agorà sono invece sempre a disposizione, poiché esse sono di tutti, aperte per definizione. Se l’Areòpago richiama l’idea di un ambito riservato e in definitiva aristocratico, l’agorà propone l’idea di un ambito popolare, democratico, in cui chiunque può incontrare tutti, e al quale nessuno è precluso. Del resto è dall’agorà che si comincia: ciò che fa audience nell’agorà finisce prima o poi per approdare anche in un areòpago. Forse non è senza significato che Paolo, mentre tace il nome di Gesù nel discorso all’Areòpago, lo pronuncia invece apertamente nelle conversazioni dell’agorà (cf. vv. 17b- 18). Sembrerebbe che l’agorà sia più evangelica: essa ha comunque una destinazione universale, è per le folle. In fondo, la Galilea profonda era stata l’agorà di Gesù, e il sinedrio di Gerusalemme il suo areòpago, che l’ha messo a morte. Sembrerebbe perciò di dover riconoscere che il cristianesimo non può appartenere alle élites del potere, non solo di quello politico, ma neanche di quello religioso e neppure di quello culturale. Nel vangelo c’è qualcosa che non solo è irriducibile a queste strutture mondane, ma ne è anche in contrasto.
La menzione finale di Dionigi e Damaris (v. 34), che invece di irridere Paolo ne accolsero il messaggio, ci dice almeno che l’impegno apostolico non è senza un qualche risultato. E questo ottimismo incoraggia il lettore cristiano, il quale sa che l’odierna società così frammentata nelle specializzazioni non manca di offrire nuovi areòpaghi. L’importante è di non fruire privatisticamente della propria fede, ma di esporla pur senza ostentarla, di confrontarla senza prevaricazioni, di aprirla ad apporti altrui al di là di presunzioni autonomistiche, e di offrirla con gioiosa umiltà. Questo compito per il cristiano non è secondario, ma nativo. In fondo, la comparsa di Paolo all’Areòpago era già segnata fin dalla sua vocazione sulla strada di Damasco, quando il Signore disse: «Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,15- 16). Secondarie sono solo le modalità. È per questo che gli Atti degli Apostoli non sono terminati. Essi continuano nella storia personale di ogni battezzato.

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Publié dans:immagini sacre |on 26 mai, 2015 |Pas de commentaires »

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – (I PARTE) – DI GIUSEPPE BARBAGLIO

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LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – (I PARTE)

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

VERBANIA PALLANZA, 13-14 GENNAIO 1990

Le domande dell’uomo tra natura e storia e le risposte in Paolo
Il problema essenziale è il rapporto tra noi e il mondo. Il mondo è natura, ma anche storia e gli attori della storia sono gli uomini. Mentre la natura è il regno della necessità, la storia è il regno della libertà.
C’è però anche la cultura che sta tra natura e storia: l’uomo , collocandosi nella natura e nella storia, produce le istituzioni del suo vivere (familiari e sociali), modi di pensare e di essere. Quale senso ha la nostra vita, la nostra storia, la nostra natura, dato che apparteniamo ad entrambe? Gestiamo la storia ma apparteniamo anche alla natura. Mentre gli animali sono totalmente assorbiti nella natura l’uomo, oltre che nella natura, ha una presenza significativa nella storia.
Lo gnosticismo ha posto il problema con tre interrogativi fondamentali: donde veniamo? chi siamo? dove andiamo? E’ un problema ineludibile per l’uomo di ogni generazione che pensa e riflette, a differenza degli animali. La ricerca di risposte rispecchia situazioni specifiche. Noi ci poniamo le stesse domande degli gnostici, ma in situazioni nuove e perciò dobbiamo cercare nuove risposte adeguate alla situazione in cui viviamo. C’è un problema ecologico che riguarda tutti, c’è la novità del dialogo tra le religioni, c’è la presenza di movimenti pacifisti, c’è la crescente disparità di ricchezze nel mondo, c’è una sfrenata ricerca del profitto che mette il silenziatore alle grandi domande di senso.
Cercheremo di trovare delle risposte in Paolo, delle risposte certamente datate. Anche Paolo, come del resto anche Gesù e i profeti, non sfuggiva al criterio della storicità.
Paolo è una voce che, pur essendo datata come Cristo e i profeti, noi riconosciamo come espressiva della fede cristiana. Ci indica un cammino consono alla fede cristiana anche se in una cultura particolare.
1 Corinzi 8,4-6: un solo Dio e Signore
E’ un testo molto significativo che Paolo trae dalla tradizione e lo fa suo, rielaborandolo, per esprimere la fede nei suo tratti essenziali: la fede creazionistica e la fede soteriologica della salvezza. Dice Paolo a proposito delle carni immolate agli dei pagani, che la tradizione giudaica vietava di mangiare non solo nei luoghi di culto dove si sacrificavano gli animali ma anche quando venivano vendute al mercato.
« Quanto poi al cibarsi delle carni immolate agli idoli sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo (l’idolo è una nullità), e non c’è dio se non uno solo. Infatti anche se ci sono dei cosiddetti dei sia in cielo sia in terra, come di fatto ci sono molti dei e signori… » Sembra una contraddizione, m a prosegue: « per noi invece c’è un solo Dio, il Padre,
dal quale tutto (la totalità del mondo) viene e noi esistiamo per lui, e c’è un solo Signore, Gesù Cristo,
mediante il quale tutto è, e noi siamo mediante lui ».
Paolo dice che se vogliamo considerare la situazione concreta guardandoci intorno, vediamo che molti sono gli dei, molti i signori. A quel tempo, ma non solo a quel tempo, c’era uno spreco di dei e signori. L’imperatore era Dio, Cesare Augusto era un titolo divino, Adriano si faceva lodare come il salvatore del mondo, gli dei orientali erano « signori », gli eroi erano i figli di Dio.
Anche il mondo di oggi è pieno di dei e signori, perché è pieno di servi. Se non ci fossero i servi non ci sarebbero i signori. Sono i servi che creano l’altro come signore di se stessi. « ma per noi », per le nostre soggettività, dice Paolo, « non ci sono dei e signori perché c’è un solo Dio, il Padre, e un solo Signore, Gesù Cristo » . E’ un credo costruito su di un motivo creazionale.
Colossesi 1,15-20
E’ un testo straordinariamente bello. E’ da notare che questi testi della chiesa primitiva, giunti a noi attraverso la testimonianza di Paolo e della sua scuola, usano un poco la enfasi, esprimono la lode, sono poetici. Non c’è grande precisazione teologica, e molti termini esprimono l’emozione dei credenti che professano in quel modo la loro fede. Non bisogna insistere molto sui particolari. « Gesù Cristo – dice Colossesi – è l’immagine e l’icona del Dio invisibile ».
Paolo rilegge l’affermazione creazionale dell’uomo a immagine di Dio in senso cristologico, « primogenito di ogni creatura ». C’è un rapporto molto stretto tra Gesù e la creazione in Paolo. « Poiché in lui sono state create tutte le cose, sia quelle che stanno nei cieli che sulla terra, sia quelle visibili che quelle invisibili, sia i troni, sia le signorie, sia i principati, si le potestà ». Si tratta del quadro cosmologico di allora, soprattutto degli ambienti dell’Asia Minore legati ad una pregnosi, in cui tra Dio e l’umanità c’erano esseri intermedi che dominavano la storia, gli eoni. In questa concezione si dice che Cristo ha vinto gli eoni e quindi ogni dominatore è messo fuori gioco. « Tutte le cose sono state create » Si tratta di un perfetto che indica qualcosa che è avvenuto e che perdura, cioè tutto è stato creato dal primo giorno e resta creato.
« Egli è prima di tutte le cose e la totalità delle cose ha consistenza in lui; Lui è la testa del corpo della chiesa, lui che è l’arché, il principio, il prototipo di ogni creazione e di ogni risurrezione, affinché abbia il primato in tutte le cose, poiché in lui piacque a Dio di fare abitare tutta la pienezza e mediante lui riconciliare tutte le cose, facendo pace mediante il sangue della sua croce e mediante lui sia le cose che ci sono sulla terra, come quelle che sono nel cielo ».
Il motivo centrale è la correlazione tra la totalità e l’unità di Gesù. Tutto è mediante lui, verso lui e consistente in lui; le preposizioni « en », « dia », « eis » stanno ad indicare un rapporto molto forte di comunità essenziale tra l’universo e l’unità singolare, che è Gesù. Tutto (ta panta) è stato creato e tutto è stato riconciliato. Il beneficiario della riconciliazione è lo stesso di quella della creazione, la totalità della realtà, noi e il mondo
2Corinzi 5,17 e Galati 6,15
I due testi sono carichi di significati. Dice 2Corinzi 5,17:
« Cosicché se uno è in Cristo è una creatura nuova di zecca ». Si usa l’aggettivo « kainé » che a differenza di « neos » indica novità qualitativa, non ripetitiva.
Il tema della creatura nuova ha una lunga storia alle spalle. E’ presente nel Deuteroisaia e in Isaia: l’escatologia è una proiezione nel futuro della creazione. L’originalità in Paolo sta nel dire che la « creatura nuova » si realizza nella storia se uno è in Cristo. Non c’è « verranno i cieli e terra nuova », ma la « creatura nuova » è già qui.
Paolo, così diverso da Gesù, in questa intuizione profondissima è suo discepolo contro ogni concezione apocalittica.
Due sono i motivi presenti in questi testi: la dimensione cristologica della creazione e la dimensione escatologica della creatura nuova. Tutto, l’uomo e il mondo, è stato creato, è creatura (ktisis) di fronte al creante (ktisas). La Bibbia offre qui una prima fondamentale risposta alle domande su chi siamo, donde veniamo e dove andiamo.
Il rapporto tra la totalità come creatura e il creante è un rapporto strutturale. Non può esistere
creatura senza creante. Non è un rapporto che è stato all’inizio per poi interrompersi, ma persiste. Noi siamo stati, siamo e saremo creatura di fronte al creante. E’ un rapporto costitutivo del nostro essere nei confronti di Dio e di Dio nei nostri confronti. Ci definiamo, gli uni e gli altri, su questa linea della creazione.
sdivinizzazione dell’uomo e del mondo
Questo sta ad indicare che l’uomo (e il mondo) non è un assoluto, non è Dio di se stesso. Fa parte della comprensione essenziale dell’uomo la coscienza della creaturalità propria e del mondo. Quindi fa parte della coscienza umana il processo di sdivinizzazione dell’uomo e del mondo. Non c’è nessun dio e nessun signore a questo mondo perché non ci deve essere nessun servo a questo mondo. Nessuno a questo mondo può essere l’oggetto davanti al quale piegare le ginocchia e levare l’incenso, invocare la clemenza, dipendere schiavisticamente. Non c’è nessun padre da scegliere a questo mondo, perché c’è un solo Dio, il Padre.
L’unica categoria che definisce l’uomo nel suo essere profondo rispetto a Dio è la fraternità, la sorellanza. Non c’è nessun padre nel senso signorile.
Ancora, il nostro essere creatura di fonte al creatore vuol dire che noi e il mondo siamo stati voluti, fatti da Dio creante, che ha comunicato la sua vita, il suo Spirito. I racconti della creazione in Genesi ci dicono che Dio ha soffiato nei viventi il suo Spirito. La categoria del dono libero è essenziale per capire il senso della totalità di fronte a Dio. Dio creatore non ha nessuna gelosia, nessuna competizione, nessuna rivalità nei nostri confronti e quindi nessuna violenza, dato che la violenza nasce dalla rivalità. Dio è gratuitamente comunicativo, comunica il suo Spirito, la sua vita senza la logica commerciale del do ut des. Dio dà perché è così per nativa esigenza del suo comunicare. Quello che è suo viene condiviso. Il problema della creazione è il problema della condivisione da parte di Dio al mondo e a noi. Dio non vuole godere da solo della sua vita, ma vuole condividerla con gli uomini, con gli animali, con il mondo in generale. La dinamica della creazione è la dinamica della condivisione. Non è un dono mosso da calcoli o da condizionamenti.
un dono di Dio irrevocabile
Procedendo poi su questo motivo di fondo della totalità che è creatura di fronte a Dio che è creatore, capiamo che noi siamo stati voluti e fatti una volta per tutti senza pentimento. E’ vero che c’è nella bibbia il racconto del pentimento di Dio per avere fatto il mondo e dell’invio del diluvio, ma il mondo è poi salvato, e l’arcobaleno diventa il segno dell’alleanza cosmica con Dio che si impegna a non distruggere mai più la vita. Il dono di Dio, la condivisione di Dio è irrevocabile. Se Dio revocasse questa sua comunicazione e donazione cesserebbe di essere quello che è, il creante (ktisas). Nonostante tutto permane la fedeltà di Dio a questo mondo, l’unico creato e voluto da Dio. Dio non ha alternative: si è definito liberamente ma irrevocabilmente creante (ktisas) di questa creatura (ktisis). L’errore della corrente apocalittica è stato quello di ammettere la possibilità di fare un altro mondo. La dimensione di fondo della apocalittica, espressa nel IV libro (apocrifo) di Esdra, si esprime nella creazione di un secondo mondo, perché il primo è riuscito male. Invece non c’è un’altra umanità, alla quale Dio si è legato liberamente, ma indissolubilmente. L’incarnazione è nella logica della creazione, è pensabile solo all’interno della creazione: se questo mondo non fosse il mondo di Dio, perché Dio avrebbe dovuto venire a questo mondo, avrebbe dovuto prendersene cura, volerne la salvezza? A questa domanda non poteva rispondere Marcione che aveva diviso la creazione dalla salvezza operata da Cristo. E’ il tallone di Achille di Marcione. C’è un mondo solo che Dio ha voluto e che ha fatto e che resta il suo mondo: questo.
alterità Dio mondo
Altra dimensione importante è che Dio creatore è altro da noi creature, è diverso. Il mondo è non Dio, e Dio è non mondo. Questa alterità tra Dio e il mondo è un elemento caratteristico della fede creatrice contro ogni tipo di immanentismo, che attenua i confini tra Dio umanità e mondo. La concezione creazionistica invece traccia una linea assolutamente invalicabile tra Dio e il mondo. Il mondo in quanto « ktisis » di fronte al « ktisas » è altro da Dio e vive nella sua mondanità, nella sua profanità, non è mescolato al divino. Al contrario della mitologia pagana in la mescolanza è dominante. Proprio della visione biblica è la separatezza: il mondo è diverso da Dio e Dio è diverso dal mondo.
Ora la concezione di alterità rende possibile la relazione, perché la relazione esiste tra due diversità, tra due altri. Se c’è mescolanza non c’è relazione, ma confusione. Il concetto di persona rinvia ad una soggettività come individualità assolutamente irripetibile.
E’ molto importante questa visione perché ci sollecita ad assumerci la piena responsabilità delle realtà mondane, senza cercare responsabili divini: Dio non manda e non toglie la malattia, la guerra non è un castigo di Dio o la pace un premio. La procreazione è una realtà puramente mondana, come la realtà sessuale. L’autorità tra gli uomini non viene da Dio, ma è una scelta operata da persone che delegano a qualcuno un potere per alcuni scopi. Così la famiglia, la società, gli eventi storici. Il Dio creatore non è un soggetto storico, mondano, Dio è altro. Potremmo dire che Dio è la fonte della vita ma non agisce come soggetto magari più grande, più potente, come siamo portati ad immaginarlo.
I cristiani a Roma erano tacciati di essere atei perché avevano ripulito il mondo di tutti gli dei, di tutti i signori di cui il mondo politeistico era pieno.
l’uomo interlocutore rischioso di Dio
C’è quindi una autonomia dell’umanità e del mondo da Dio, un’autonomia propria delle creature di fronte al creatore, però la creatura, che é il risultato del movimento di comunicazione, di partecipazione, di condivisione, è interlocutrice libera di Dio; noi siamo soggettività.
La differenza tra l’uomo e la natura è che la natura è determinata, mentre l’uomo è una possibilità di essere, è storia. La natura è dato, ma la storia è da farsi. L’uomo, attraverso le sue scelte, è possibilità di essere, ma anche possibilità di autodistruzione. Dio e noi siamo in dialogo, ma un dialogo altamente rischioso.
Dio ha di fronte una soggettività, che può scegliere liberamente, anche di dire di no. Il Dio creatore è un Dio audace e avventuroso che accetta di avere di fronte a sé uno che ha mille volti, e possibilità. Dio entra in un gioco pericoloso, rischioso. Tutto questo è stato percepito dal salmo 8 in cui si dice: « hai fatto l’uomo di poco inferiore ad un dio ». Nella creazione Dio ha di fronte a sé un altra soggettività, che si definisce nelle scelte sue libere, di fronte alla quale può solo proporsi, non imporsi. Questo Dio avventuroso si autolimita; si è imposto alla natura, ma non all’uomo, che si definisce per conto proprio. Dio rischia sempre di essere messo in scacco nel suo progetto, perché ha un progetto con l’uomo, al quale si limita a proporlo e le cui risposte sono quanto mai avventurose. E’ un Dio che per il suo progetto non minaccia, non terrorizza, non punisce il dialogante.
il Dio bifronte nella Bibbia
Il limite del discorso biblico è proprio quello di avere mantenuto la faccia del Dio punitore, presente negli stereotipi religiosi di tutti i tempi. In un libro del 1920 circa, Rudolf Otto, un filosofo della religione, intitolato « Il sacro », afferma che lo schema abituale di visione del divino negli uomini di tutti i tempi è costruito su una immagine religiosa del « mysterium » di Dio, della realtà nascosta di Dio, che ha due facce. C’è il « mysterium fascinans » – che affascina con la sua bontà, la sua generosità, con l’essere fonte di vita, di perdono, di grazia, di salvezza, un Dio benefico – e c’è l’altra faccia del « mysterium tremendum », del nume tremendo, terribile. L’uomo ha sempre vissuto il
divino – il dio monoteistico e le divinità – con questa griglia interpretativa, come « mysterium tremendum » e come « mysterium fascinans ». Anche nella bibbia questo appare con molta chiarezza (sto scrivendo un un libro su questo Dio come Giano bifronte).
Il Dio della Bibbia paga un alto prezzo a questo stereotipo religioso della duplice faccia. C’è un testo del Deuteroisaia che dice: « io sono colui che dà la vita, io sono colui che dà la morte ». Dio nella sua faccia benefica dà la vita, però ha anche l’altra faccia tremenda della morte. Le due facce sono state unite per cui il Dio che dà la vita poi domanda conto dell’uso che noi abbiamo fatto, e minaccia la punizione nel caso facciamo un uso distorto o cattivo. E’ una faccia violenta.
Siamo in contrasto con la logica creazionistica per la quale Dio partecipa la vita senza merito nostro, per sua nativa spinta. Dio si propone all’uomo indeterminato che ha davanti, a questo dialogante così inafferrabile, senza proclamare minacce, senza spargere terrore, senza comminare punizioni. Non è un Dio violento. Con la nostra risposta negativa siamo noi che ci creiamo la morte con le nostre mani. L’uomo si gioca la vita e la morte. Se dice di no a Dio non è che Dio gli manda la morte; la morte è una realtà mondana, nostra, solo la vita è il dono di Dio. Dio viene escluso o può essere escluso da noi, che siamo un dialogante capriccioso, ma mai Dio può escludere noi che lo escludiamo perché è donazione, comunicazione, soffio di vita: non si riprende per punizione il soffio di vita. Dobbiamo assumere il dato primordiale della fede creazionale come elemento assolutamente caratterizzante e non introdurre elementi religionistici estranei che offuscano, stravolgono la faccia partecipativa. Dio è tutto in questo darsi e non c’è in lui alcun pentimento, alcun riprendersi i doni, perché è sempre « ktisas ».
il mondo è donato da Dio nella sua materialità: oltre il dualismo
Da questi testi paolini si coglie un altro importante elemento: il mondo è « ktisis », donato da Dio, anche nella sua materialità, nella sua naturalità, è da accettare con gioia, con gratitudine, da godere anche, da custodire con cura e rispetto. La fede creazionistica esclude ogni concezione dualistico- spiritualistica. La visione dualistica ha contaminato il mondo del passato ed ammorba ancora oggi le coscienze nella tradizione cattolica. Secondo questa concezione la realtà – « ta panta » – viene suddivisa in realtà spirituale e in realtà materiale. La realtà spirituale, l’uomo nella sua coscienza e nella sua anima immortale, è positiva e tutto il resto è realtà negativa.
Il dualismo spiritualistico, che rifiuta come male tutto ciò che non è spirituale, che non è immateriale, è un fenomeno postbiblico. Nella Bibbia infatti si dice che il Verbo si è incarnato, si è fatto « sarx », (Giovanni). « Sarx » è la materialità, la naturalità. Noi dobbiamo ricuperare le radici bibliche. Se la tradizione cristiana cattolica ha accolto la visione dualistico-spiritualista dell’ambiente circostante è stata infedele alle sue origini. C’è da ricuperare, attraverso la fede creazionistica, questo aspetto gioioso per cui le persone godono di questo mondo che è creatura, è dono, senza per questo negare l’infiltrazione del male, il peccato. E’ strano che nella nostra tradizione cattolica si siano accolti aspetti profondamente infedeli alla visione biblica. Per esempio, la verginità di Maria nella Bibbia non ha una connotazione antisessuale ma è un modo per esprimere la fede nel figlio di Dio, che esiste solo in Matteo e in Luca, ma non in Paolo e in Giovanni. E’ in funzione della figliolanza divina che nasce la credenza nel concepimento verginale di Gesù. In questa maniera si vuole affermare che Gesù è il figlio di Dio, il dono di Dio.

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – (II PARTE) – DI GIUSEPPE BARBAGLIO

http://www.giuseppebarbaglio.it/Articoli/finesettimana130190.pdf

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – (II PARTE)

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

VERBANIA PALLANZA, 13-14 GENNAIO 1990

LA CREAZIONE IN PROSPETTIVA CRISTOLOGICA

Paolo caratterizza la creazione in senso cristologico, inserendo fin dalle origini Gesù Cristo nel rapporto tra « ktisis » e « ktisas », tra creatura e creante, con diverse formule: in Cristo, mediante Cristo, verso Cristo; sono modi per indicare la mediazione di Gesù Cristo nella creazione. Il rapporto « ktisis »- »ktisas » non è più un rapporto diretto, ma mediato da un terzo, Gesù di Nazareth. Dire che tutta la creazione è avvenuta in Cristo, mediante Cristo ed è finalizzata a Cristo, vuol dire che Gesù costituisce il senso di tutto. Uscendo dalle formule che riecheggiano il discorso della
causalità – la causalità strumentale o efficiente, la causalità formale, finale – potremmo dire che Gesù Cristo è il senso del mondo, di « ta panta », ed è impressionante che sia una persona individuo che dà senso alla totalità. Potremmo dire che Gesù è la chiave di lettura di « ta panta », è il centro aggregante per cui « ta panta » non è un insieme di cose, ma è un’unità unificata da lui. Gesù è la luce rivelante il senso della totalità, è il traguardo verso cui corre la totalità, è la forza traente: sono tutti modi per dire che Gesù di Nazereth, morto e risorto, é il senso del mondo.
Gesù, che è un uomo qualunque, un uomo debole, un uomo impotente, uno degli ultimi, uno dei vinti della storia, è il centro: lui, il crocifisso e il risorto. « Ta panta », il tutto, riflesso nell’uno Gesù di Nazareth. Però l’uno Gesù di Nazareth non è un individuo chiuso in sé, è il prototipo dell’umanità. Paolo questo l’ha visto chiaramente quando nel cap. 5,12 di Romani parla di Cristo come del secondo Adam, il secondo prototipo dell’umanità, oppure in 1 Corinti 15,20-29.45-49. L’uno Gesù non è separato dalla totalità dell’umanità, ma è il primo tipo e immagine nel quale c’è tutta l’umanità. La totalità trae senso dall’uomo qualunque, debole, fragile.
gli ultimi al centro della creazione e della storia
Il « ta panta » é fatto da Dio per gli ultimi, per i crocifissi, per i vinti: questo è il progetto di Dio creatore, un progetto che viene contestato dalla storia che mette in croce Gesù di Nazareth, che mette in croce gli ultimi, i deboli, gli impotenti. Il progetto di Dio viene contestato dagli uomini forti che creano la società dei violenti, dei privilegiati. Gesù di Nazareth crocifisso e risorto è segno di contraddizione nella storia: Dio ha risuscitato, rendendogli giustizia, colui che, rappresentativo degli ultimi, è stato messo in croce. In questo modo Gesù, benché l’umile, il debole, l’ultimo, il vinto, è il centro del creato.
Ecco allora la dialettica drammatica della storia: il progetto di Dio, che Dio può solo proporre e non imporre, di mettere Gesù al centro è rigettato dall’umanità, che rifiuta che gli ultimi siano al centro e li rimette al margine e crea la società dei forti, dei violenti, dei privilegiati; ma Dio risuscitando Gesù ricolloca al centro quelli che sono stati estromessi.
L’interpretazione che dà Paolo di Gesù come centro sconvolge il senso comune che attribuisce il centro ai violenti e ai potenti.
La crocifissione nasce dall’esperienza della violenza coalizzata. I violenti fanno solidarietà fra loro a danno dei deboli. Nei testi della passione si legge che tutti sono coalizzati: le autorità giudaiche di vertice, gli anziani, i sommi sacerdoti, Pilato, la folla stessa: si crea la società dei violenti che violenta l’indifeso che è Gesù. Ma Dio risuscita il debole, il violentato, il crocifisso. Dio ricolloca al centro quelli che sono stati discriminati, contestando la società dei violenti che occupa il centro della storia. Oggi nel dialogo fra le religioni si tende a sottacere che Gesù è il centro, però questo vuol dire non riconoscere che è il figlio di Dio e farlo diventare uno dei tanti profeti. Ma se lo confessiamo figlio di Dio, se per noi è l’unico Signore, come dice Paolo, non dobbiamo avere delle remore, ben sapendo che è al centro come il crocifisso, come il prototipo dei crocifissi. Si ribalta la logica dei forti e dei violenti che si coalizzano per espungere i deboli. Paolo dice che Gesù è l’Adam, ha senso per l’umanità, un senso che noi cogliamo nella fede. Siamo liberi di coglierlo o no, ma se è l’Adam vuol dire che è il prototipo di ogni uomo, sia esso indiano, cinese, africano, occidentale, orientale. Come questo debba essere interpretato secondo le varie culture è un altro discorso, ma non è che avendo delle difficoltà dobbiamo negare i punti di partenza che sono l’oggetto elementare della nostra fede.
Per noi c’è un solo Dio, il Padre, ed un solo Signore, Gesù Cristo. Si può rinunciare a credere in questo, ma è in gioco il centro della fede non un elemento periferico. Gesù è il centro non in quanto Gesù di Nazareth, ma in quanto morto e risorto. Dire il risorto vuol dire esattamente l’universalizzazione del senso che ha Gesù di Nazareth per tutta l’umanità. E’ certo incarnato nella cultura, paga un debito alla cultura, c’è un problema di superamento della cultura, ma proprio per questo diciamo che è al centro in quanto crocifisso e risorto. Se dicessimo infatti che è solo Gesù di Nazareth, il problema sarebbe complicato perché bisognerebbe mettere al centro anche la sua
cultura. Se invece è Gesù morto e risorto, risorto vuol dire la capacità di Gesù di essere il simbolo di tutta l’umanità al centro della storia come essere debole, fragile, secondo il progetto di Dio.
animati dallo Spirito del risorto
Paolo dice inoltre che noi siamo « ktisis kainé » – nuova creatura – se siamo in Cristo, cioè se siamo animati dallo Spirito del risorto, se siamo investiti dalle forze nuove di questo Spirito vivificante. Spirito vivificante non vuol dire qualcosa che è immateriale nei confronti di ciò che è materiale, ma qualcosa che è vita nei confronti di ciò che è morte. L’antitesi è tra vita e morte, non tra immaterialità e materialità. Lo Spirito del risorto, con il suo dinamismo, viene donato a tutti e da questo punto di vista Gesù è simbolo per tutta l’umanità. Lo Spirito non è monopolio di alcuni gruppi o di alcune culture. Su questo ha visto molto bene Giovanni quando dice: « lo Spirito soffia dove vuole », come il vento, giocando sul doppio significato di « pneuma » e « ruah » in ebraico. Lo Spirito non ha confini. Cristo è universalizzabile, è simbolo di tutta l’umanità in quanto dona il suo Spirito a tutti gli uomini. Tutti gli uomini ricevono lo Spirito se sono in Cristo.
Il dinamismo delle scelte allora diventa dinamismo dell’agape, dell’amore oblativo, comunicativo, costruttivo.
Da questo punto di vista (Galati 5,16-25, Romani 8,1-17) la nuova creatura nasce là dove c’è l’uomo « pneumatikos », animato dallo « pneuma », spirituale, non nel senso di uomo dedito alla vita del pensiero, immateriale, ma dedito ad una vita umana condotta secondo il dinamismo dello Spirito che è alternativo al dinamismo della « sarx », all’egocentrismo che induce a costruirsi un mondo chiuso in se stesso, un microcosmo senza porte e senza finestre, autosufficiente. La creazione nuova, dice Paolo, è già presente dove l’uomo si lascia animare dal dinamismo dello Spirito che è donato a tutti. L’uomo può rifiutare lo Spirito, contrastandolo, facendosi guidare dall’altro dinamismo che è dentro di noi, il dinamismo della « sarx ». La nuova creazione a livello personale vuol dire l’uomo che vive eticamente non guidato da leggi esterne, da norme, da comandamenti – questa è la grande rivoluzione di Paolo – ma guidato dallo Spirito che è dentro di noi, dal dinamismo dell’agape. Docilità al dinamismo dello Spirito: questa è la spiritualità. In Matteo la spiritualità non ha questo senso, è semplicemente una vita condotta nell’obbedienza alla legge di Dio che è manifestata attraverso Cristo. Paolo ha sostituito ad una guida esterna dell’uomo – le leggi, le norme, le autorità, le parole – il dinamismo interno donato dallo Spirito di Cristo.
« Vi dico però, – scrive Paolo Galati 5,l6 – camminate (agite) nello Spirito e in questo modo voi non porterete a compimento le cupidigia della carne ». La « sarx » per Paolo è l’uomo che vive nella cupidigia (epitsumìa) delle cose, del possedere per sé, nello strappare agli altri, nelle gelosie, nelle invidie. Già nella tradizione biblica e giudaica del tempo c’era l’equiparazione tra peccato e cupidigia. « La « sarx » nelle sue cupidigie si oppone allo Spirito e lo Spirito ha impulsi contrari alla carne. Queste cose sono antitetiche le une alle altre, affinché voi non facciate quello che desiderate fare nella cupidigia. Se voi vi lasciate condurre dallo Spirito non siete sotto la legge ».
La nuova creatura, resa possibile dal dono del risorto e che si realizza alla condizione di lasciarsi guidare dallo Spirito, manifesta la presenza dell’escatologia. Non c’è da una lato la vecchia creazione vigente e dall’altro la nuova creazione che verrà, ma già esiste la « kainé ktisis ». E’ la nuova e originale concezione che Cristo e poi Paolo hanno portato: la fine è dentro la storia, il traguardo è già dentro il cammino, l’oggi è pieno delle forze vivificanti del mondo ultimo, futuro. Sullo sfondo c’è la concezione del mondo creato che si è alienato negando la propria creaturalità, seguendo i percorsi della « sarx ». Il mondo creato alienato è ora in via di riscatto. La nuova « ktisis », creazione, è condizionata: si rende presente se e nella misura in cui siete in Cristo, in cui vi lasciate guidare dallo Spirito, in cui contrastate il dinamismo della carne. Il riscatto è soltanto incominciato, la sua realizzazione piena è oggetto di speranza; ma ciò che noi attendiamo per il futuro già lo possiamo anticipare e vivere nell’oggi se siamo in Cristo. La svolta è già avvenuta nel dono dello Spirito che dà il principio del nuovo mondo. Importante è che questo principio attivo e creativo abbia spazio, non sia contrastato, negato, soffocato. Il futuro, la nuova creazione, è una possibilità
aperta che possiamo realizzare attraverso la solidarietà con Cristo risorto, sia pure incoativamente e precariamente perché permane il peso di quell’altro dinamismo.
L’AT era approdato, attraverso il filone profetico che inventa l’escatologia – il salto di qualità nella storia – alla soluzione apocalittica: Dio ha fatto due mondi perché questo mondo si è corrotto a tal punto da essere irrecuperabile e quindi destinato alla distruzione. Alla fine sarà sostituito, verrà gettato come una zavorra e scenderà dal cielo un nuovo mondo bello e fatto. In queste nuova scialuppa che verrà data all’umanità entreranno quelli che sono fedeli alla legge mentre gli altri saranno estromessi una volta per sempre. Gesù e Paolo non hanno accolto questa visione apocalittica, perché non ammettono il principio dei due mondi creati. Questo mondo è l’oggetto di tutte le loro speranze però non rimandate al futuro: la svolta ha inizio nella risurrezione di Cristo in cui è dato il principio del nuovo mondo. Questa situazione dialettica di storia ed escatologia, di presente e futuro ultimo, di fine e cammino, è la soluzione cristiana. Il rapporto tra creazione ed escatologia si colloca dentro questa concezione: non sono due realtà separate, ma l’escatologia è dentro la creazione.
E’ l’escatologia di questo mondo, di questa storia, e non di un altro mondo, di un’altra storia. Questa è la risposta fornita da Paolo alle domande iniziali su chi siamo? donde veniamo? dove andiamo?
1 Tessalonicesi 4,13-18: una vita nella speranza
In 1Tessalonicesi 4,13-18 Paolo dice che la vita cristiana è una vita nella speranza e in essa non deve aver spazio la tristezza di fronte alla morte, l’ombra sinistra della morte che aleggia sulla vita come ultima parola sull’esistenza. Il fondamento della speranza è la risurrezione di Cristo, una speranza che poggia sulla fede.
Paolo fa una distinzione tra quei credenti che sono vivi alla venuta di Cristo (riteneva prossima la fine del mondo) che non passeranno attraverso la morte, ma entreranno nel mondo nuovo per rapimento sull’immagine di Elia o del patriarca Enoch che sono stati rapiti da Dio, e i credenti che sono già morti, che saranno risuscitati. Però sia i rapiti che i risuscitati andranno incontro a Cristo, per essere sempre con lui. Il traguardo della speranza, il traguardo finale dell’esistenza cristiana, già iniziato, consiste nella comunione indefettibile con il Signore Gesù oltre la morte o la fine dell’uomo.
1 Corinzi 7,29-31: il tempo si è contratto
C’è un altro testo caratteristico in 1 Corinzi 7,29-31 in cui Paolo fa una raccomandazione: « Questo vi dico fratelli: il tempo si è fatto conciso, dunque quelli che hanno mogli siano come se non le avessero, e quelli che piangono come se non piangessero, e quelli che godono come se non godessero, e quelli che acquistano come se non possedessero, e quelli che usufruiscono del mondo come se non ne usassero appieno; perché sta passando la figura di questo mondo ».
E’ da rimarcare questa concezione del tempo: « il tempo si è fatto conciso ». Nel mondo greco il tempo era considerato come un fiume che fluisce lentamente e indefinitamente, che va e ritorna. Per Paolo invece il tempo si è rattrappito, si è fatto una breve linea segnata dal passare di questo mondo sulla scena. Paolo pensa ancora alla fine imminente del mondo, la cui caducità viene vissuta in modo altamente drammatico e anche illusorio. In questa precarietà il nostro esistere, le nostre esperienze fondamentali non devono essere assolutizzate: bisogna viverle « os me », « come se ». Non sono cose indifferenti, ma sono esperienze da relativizzare. Gli stoici proclamavano l’epateia, l’essere emotivamente indifferenti di fronte alla realtà. Paolo dice che le esperienze umane non sono il tutto, non sono un assoluto. Questo mondo non è qualcosa di permanente ed eterno e pertanto le esperienze umane di questo mondo risentono della transitorietà. Sullo sfondo di questa visione c’è una certa escatologia e una conseguente etica.
1 Corinzi 15: Cristo primizia e risuscitatore
E’ la trattazione più completa e più profonda della escatologia in Paolo. Paolo parte dalla risurrezione di Cristo per fondare la speranza nella risurrezione nostra. Dice: se Cristo è risuscitato vuol dire che anche noi risusciteremo. In 1 Tessalonicesi si limitava a dire che se Cristo è risuscitato anche noi risusciteremo, senza approfondire le motivazioni. Nella prima lettera ai Corinzi invece Paolo riesce a trovare la spiegazione profonda. Cristo non è risuscitato come caso unico, ma come « aparché », come primizia. E’ un termine che ha una tradizione alle spalle: « aparché » erano i primi covoni raccolti che dovevano essere offerti al tempio come riconoscimento del dono di Dio.
Inoltre Paolo aggiunge un’altra formula: Cristo è risuscitato come nuovo Adam, come prototipo di una nuova umanità di risorti. Come il primo Adamo era il prototipo della prima umanità, Cristo è il prototipo, principio attivo della nuova umanità. E’ risuscitato come risuscitatore di altri. Paolo dice alla fine del cap. 8 « è il figlio in mezzo a tanti fratelli ». Questo è il disegno di Dio: Cristo centro della storia con tanti fratelli intorno, che siamo noi.
La seconda cosa da notare in questo testo è la risurrezione dei corpi su cui Paolo insiste molto. A Corinto dicevano che noi siamo già risuscitati nella nostra anima, erano degli spiritualisti; Paolo invece dice che la risurrezione riguarda i corpi. Per corpo Paolo intende non la parte materiale, ma la struttura basica dell’uomo, per cui se c’è il corpo c’è l’uomo e se non c’è il corpo non c’è l’uomo. Questa struttura basica è una struttura relazionale, è la relazionalità verso Dio, verso gli altri e verso il mondo; se togliamo una di queste relazionalità non c’è l’uomo. La risurrezione coglie l’uomo in questa sua triplice relazionalità. Questa relazionalità ontologica, dice Paolo, noi la possiamo vivere esistenzialmente in termini negativi o in termini positivi. Posso viverla in termini negativi negando la mia creaturalità, considerando gli altri i miei schiavetti o assumendo un atteggiamento idolatrico o rapace nei confronti del mondo. In questo modo, vivendo in modo egocentrico la triplice relazionalità, per Paolo divento carnale (negando che Dio sia il nostro Dio, che gli altri siano i nostri fratelli, negando che il mondo sia l’habitat dell’uomo).
Per Paolo la risurrezione dei corpi è la trasformazione piena di questa triplice relazionalità vissuta in modo positivo, secondo il dinamismo dello Spirito per cui l’uomo accoglie Dio come il Padre suo, gli altri come suoi fratelli ed il mondo come l’habitat suo e di tutta la famiglia umana. Questa triplice relazionalità vissuta positivamente fa sì che il corpo sia pneumatico, spirituale, animato totalmente dallo Spirito, secondo il dinamismo dell’agape. Questa spiritualizzazione già è cominciata, dice Paolo: se voi vi fate condurre dallo Spirito non vivete più secondo la carne, siete i figli di Dio, vivete in Cristo. La speranza non riguarda qualcosa di totalmente nuovo, non si riferisce ad una realtà assolutamente assente dalla storia, ma tende alla pienezza di una realtà già iniziata nella storia. La pneumatizzazione della triplice realtà, che é al presente ancora precaria perché il dinamismo della carne continua ad agire e c’è un ritorno del passato dentro di noi, sarà piena con la risurrezione.
La spiritualizzazione del soma umano è data dallo Spirito vivificante di Cristo, a immagine di Cristo, l’uomo pienamente trasformato dallo Spirito. Cristo è il primo risuscitato, che ci risuscita a sua immagine.
Filippesi 3, 20-21: a immagine del suo corpo glorioso
Dice: « La nostra cittadinanza (politeuma) è nei cieli da cui aspettiamo che venga il Salvatore nostro Gesù Cristo », ‘cieli’ è il simbolo del mondo trasfigurato pienamente dallo Spirito « il quale trasfigurerà il nostro misero corpo a immagine del suo corpo glorioso ». La nostra triplice relazionalità che già é stata investita dalle forze dello Spirito sarà totalmente investita dallo Spirito
di Cristo il quale ci trasfigurerà, opererà la metamorfosi piena in modo che il nostro corpo sia glorioso, investito dello splendore divino dei risorti ad immagine sua.
Romani 8,12-25: anche la natura partecipa della risurrezione
Il testo più nuovo da questo punto di vista è Romani 8,18-25. Già parlando della risurrezione dei corpi Paolo introduce anche la natura, il mondo, dentro il processo di trasformazione perché una delle tre relazioni è verso il mondo. Però in questo testo  »ktisis » (creazione) è solo il mondo creato naturale, a differenza del mondo umano. Dice: quello che è avvenuto avviene e avverrà di noi, passato presente e futuro, è avvenuto avviene e avverrà per la natura. Paolo mette in parallelismo la nostra vicenda di soggetti storici con la natura. E’ interessante la solidarietà tra il mondo umano ed il mondo inanimato ed animale.
Al presente, dice Paolo, noi gemiamo e viviamo una esperienza dolorosa e drammatica, viviamo la durezza del cammino umano nella storia; anche il mondo inanimato geme nella sofferenza. Noi gemiamo ed il mondo geme. Nel futuro noi aspettiamo il riscatto dei figli di Dio, la risurrezione, la pneumatizzazione piena o anche la glorificazione (nei testi biblici, gloria – « doxa » in greco e « kabòd » in ebraico – non è mai l’onore, come per noi, ma esprime lo splendore della presenza di Dio). Similmente la natura dovrà essere glorificata e liberata per partecipare della libertà dei figli di Dio. Nel passato condividiamo il peccato, la corruzione nostra e del mondo. La creazione segue il destino dell’uomo. La storia della salvezza coglie direttamente l’uomo e coglie la natura per partecipazione all’uomo.
dalla fede sgorga la speranza nella trasformazione dell’umanità e del mondo
Primo punto importante di questi testi è la connessione tra speranza e fede, la speranza nasce dalla fede nella risurrezione di Cristo e noi risorgeremo per influsso suo e ad immagine sua.
Secondo: la speranza riguarda la sorte di questa umanità e di questo mondo, non ci sarà sostituzione ma trasfigurazione, assumerà una nuova forma restando se stessa. I cieli nuovi e la terra nuova di cui parla Isaia sono questi cieli, questa terra, ma in una nuova forma; il futuro riguarda i nostri corpi attuali, non corpi nuovi creati ad hoc. Questo è importante perché la speranza non ci fa uscire da questo mondo, ma si tratta di essere attivi nella trasformazione di questo mondo.
Terzo: il futuro finale già è iniziato; la comunione indefettibile è già nella comunione non ancora salda con Cristo. Il riscatto futuro già è iniziato.
Il mondo sta partorendo nei dolori, nei contrasti, nelle contraddizioni della storia, nella crocifissione dell’esistenza. I dolori ci sono, ma sono i dolori di una nuova vita. La nuova nascita è già iniziata perché sono iniziate le doglie. La storia e l’escatologia sono mescolate, le forze del nuovo mondo sono già presenti, ma sono ancora in lotta con le forze del vecchio mondo, con la « sarx ». La nuova nascita avviene nella minaccia di impedire l’uscita del nuovo: non si tratta di un pacifico possesso. Questo nostro presente ha già in parte la configurazione del futuro; nel deserto sono già germinate le nuove pianticelle, in attesa della piena fioritura.
un mondo da non adorare
Questo è importante anche per i rapporti tra storia ed escatologia, e non solo tra creazione ed escatologia. Paolo, anche se non aveva i nostri problemi, è interessato alla natura. Nel mondo di allora era molto presente una tendenza alla divinizzazione della natura e delle sue forze. Le religioni immanentistiche divinizzano la natura, le sue forze vitalistiche, oppure le forze astrali. L’imperatore Amenofi IV in Egitto aveva sostituito la religione ufficiale del dio Amon con quella del dio Aton, il
disco solare. Invece la concezione creazionistica della Bibbia e di Paolo è contro la divinizzazione della natura che non è la grande madre da adorare. Chi ha una concezione divinizzata della natura, ritiene che la natura non possa essere violata. Sarebbe empio trasformare la natura, intervenire nei suoi sacri meccanismi.
Chi divinizza la natura ha un atteggiamento idolatrico nei suoi confronti ed adora le cose, divenendone schiavo. Invece, chi ha una concezione creazionistica si serve delle cose. Paolo dice: « tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio ».
un mondo di cui godere con gratitudine
La concezione creazionistica è anche contro il disprezzo spiritualistico-dualistico della natura e delle cose. Lo spiritualismo era presente oltre che nella filosofia greca, in tutto lo gnosticismo. Nello gnosticismo l’uomo era visto come una scintilla divina, che per un caso drammatico è caduta dagli altissimi cieli in questo mondo. L’uomo è quindi una scintilla divina rivestita della corazza materiale, che nell’assumere la mondanità non ricorda più la sua origine divina e si ritiene una cosa del mondo. Non ha più coscienza di sé, è totalmente alienata, si ritiene parte di questo mondo opaco. Ma ecco che viene, dagli spazi celesti, il logos, anch’esso scintilla divina, che assume il corpo come un vestito puramente esterno, per non dar troppo nell’occhio. Viene a ricordare alle scintille smemorate ed alienate la loro origine divina. Esse riacquistano la coscienza di sé e si liberano dalle corazze materiali con la « gnosi ». Questa coscienza di sé provoca un grande desiderio della morte come liberazione non solo interiore ma anche esteriore, al fine di potersi ricongiungere al grande fuoco divino. In questa concezione il mondo è visto come un carcere, che rende abietto e alienato l’uomo.
La concezione creazionistica invece è contro ogni visione dualistica e quindi la natura è « ktisis », è creatura, è dono, è grazia da accogliere, da godere, da usare con gratitudine dice Paolo nella 1 Corinzi 10,25-26 o in Romani 14,6. Questo uso deve essere fatto senza assolutizzazioni, con un distacco interiore, come se non ne usassimo. Da questo punto di vista si può inserire il discorso dell’uso corretto della natura, delle forze, delle energie, senza abusarne.
un mondo da condividere
Una terza considerazione: questo uso della natura, secondo la visione biblica e paolina, non solo deve avvenire all’insegna della parsimonia, ma soprattutto secondo la logica della condivisione. La preoccupazione dominante della visione biblica è la giustizia. A questo proposito Paolo si esprime in 1 Corinzi 11. Nella comunità si riunivano per la cena del Signore, al termine della quale si celebrava l’eucarestia. L’eucarestia era il punto terminale di un pranzo comune che era segno della commensalità, della solidarietà fra i credenti. Ci si riuniva intorno ad una tavola imbandita da chi aveva cibi e bevande. A Corinto la maggioranza erano schiavi, nullatenenti, oltre a scaricatori di porto, e a artigiani. Succedeva che i più ricchi, giunti con le loro provviste, mangiavano tra loro, bevevano e si ubriacavano, mentre i poveracci, impegnati nel lavoro, giungevano alla fine. Tutti insieme quindi celebravano l’eucarestia. Paolo dice che alcuni erano rimpinzati ed ubriachi e gli altri non avevano niente, ma questo afferma « non è celebrare il pranzo del Signore perché non fate il pranzo comune, anzi la vostra celebrazione è una condanna per voi ». Paolo dice che l’eucarestia è espressione della commensalità, dell’essere insieme alla stessa tavola sia con quelli che la imbandiscono perché hanno da portare cibi e bevande, sia con quelli che non hanno niente da portare se non lo stomaco da riempire. Questo è l’aspetto maggiormente sottolineato in tutta la Bibbia, tutta pervasa dalla sete di giustizia e quindi dalla logica della condivisione.
Il movimento ecologista dovrebbe essere molto attento oltre che ad un uso corretto, non rapace dei beni, ad un uso condiviso, perché ancor prima dell’uso rapace c’è il problema dell’uso ingiusto e discriminante. Oltre l’uso opulento dei saccheggiatori c’è la rapacità solo per sé sulla pelle degli
altri. Paolo sottolinea il tema della commensalità, della partecipazione, come aveva fatto Gesù con i suoi discepoli alla vigilia della morte nel segno della commensalità umana.
una natura coinvolta nella storia della salvezza
Un quarto filone di riflessione riguarda la natura in quanto coinvolta nella storia dell’uomo nel bene e nel male, perché la natura è una dimensione essenziale dell’uomo. L’essere dell’uomo al mondo caratterizza la storia della salvezza. Il mondo senza l’uomo non è immaginabile come non è immaginabile nella concezione creazionistica l’uomo senza il mondo. La natura non è soggetto della storia della salvezza, dato che l’unico soggetto è l’uomo, ma se l’uomo ha una dimensione mondana, la natura viene coinvolta in questa storia, sia nel bene che nel male. E’ coinvolta nel male quando la relazione uomo natura si concretizza in un atteggiamento di idolatria o di disprezzo o di rapina o di possesso esclusivo del mondo. E’ coinvolta nel bene quando la relazione uomo natura avviene nella logia del rispetto e della condivisione.

Saint Bede the Venerable (c. 673 – 735): Benedictine monk, priest, historian, Doctor of the Church.

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Publié dans:immagini sacre |on 25 mai, 2015 |Pas de commentaires »

S. BEDA VENERABILE (672-735) – 25 MAGGIO

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S. BEDA VENERABILE (672-735) – 25 MAGGIO

Argomento: Vite di Santi, Beati, Venerabili…
Trascorse tutta la sua vita nel monastero di Jarrow in Inghilterra, dedicandosi solo alla preghiera, allo studio e all’insegnamento. Della sua vasta produzione letteraria restano opere esegetiche, ascetiche, scientifiche e storiche. Tra queste c’è l’Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum, un’opera letteraria universalmente riconosciuta da cui emerge la Romanità (o meglio l’universalità) della Chiesa.

Questo « padre dell’erudizione inglese » (Burke) è nato a Jarrow, nel Northumberland, sulle terre dell’abbazia di Wearmouth, fondata nel 674 da S. Benedetto Biscop OSB. Rimasto orfano, a sette anni fu affidato dai parenti al suddetto sapiente abate il quale, tre anni dopo, lo commise al suo coadiutore S. Ceolfrido (+716) che con qualche religioso andava a fondare il monastero di Jarrow all’imboccatura del Tyne. Fu là che Beda si iniziò alla vita benedettina, fu là che a diciannove anni ricevette il diaconato e a trenta il sacerdozio dalle mani di S. Giovanni di Beverley OSB., vescovo di Hexham. In seguito non ebbe mai altra dignità.
Beda trascorse tutta la sua vita a Jarrow, non lasciandolo che per visitare Lindisfarne e York. Lo afferma egli stesso nella sua opera principale in cinque libri intitolata Storia Ecclesiastica degli Angeli: « In questo monastero ho passato tutta la mia vita, consacrandomi interamente alla meditazione delle Scritture, e tra l’osservanza della disciplina regolare e la cura quotidiana di cantare l’ufficio in chiesa, ebbi sempre carissimo lo studio, l’insegnare, lo scrivere » (Ivi, 5, 24). Monaco pacifico e metodico, si era proposto come fine di raccogliere dai suoi predecessori tutte le conoscenze, umane o divine, che potevano essere utili a coloro che doveva istruire con la parola o con la penna. Il suo ideale e la sua fede sono espressi nella preghiera che conclude l’opera citata: « Vi supplico, o dolce Gesù, che come mi avete graziosamente accordato di bere con delizia le parole della vostra sapienza, mi concediate pure, nella vostra misericordia, di giungere un giorno a Voi, sorgente di ogni scienza e di comparire per sempre dinanzi al vostro cospetto ».
Con questo ideale avente per scopo di fondere insieme la scienza e la pietà, Beda rafforzò in Inghilterra la tradizione di Aurelio Cassiodoro (+583) che a Vivarium, presso Squillace in Calabria, aveva insegnato ai suo monaci a valorizzare la scienza del passato e a trasmetterla alle generazioni future. Quando egli apparve, gli anglo-sassoni terminavano di entrare in seno alla Chiesa. L’opera missionaria iniziata nel 597 da S. Agostino di Canterbury era stata vigorosamente sviluppata dai monaci S. Teodoro e S. Adriano, che papa S. Vitaliano (+672) aveva inviato ai britannici affinchè li ammaestrassero nel greco e nel latino, nella rettorica, l’astronomia, la matematica e la musica. Beda fu il principale assimilatore e dispensatore di quella cultura, messa da lui soprattutto a servizio della S. Scrittura.
Insieme con S. Isidoro di Siviglia egli è la maggior figura di erudito dell’alto medioevo, e divenne uno dei padri di tutta la cultura posteriore. Conosceva oltre l’anglosassone, il greco e il latino, anche un po’ di ebraico. Aveva familiari i poeti cristiani, ma non gli erano sconosciuti Aristotele e Ippocrate e soprattutto i classici romani le cui opere riteneva praticamente utili per coloro che devono studiare materie sacre.
S. Beda studiò specialmente di continuo i Padri e gli scrittori ecclesiastici raccogliendo, fin da giovane, larghissima copia di estratti dalle loro opere. Le sue trattazioni sacre sono quasi totalmente composte con questi materiali. Parte per gusto personale, parte per i bisogni della scuola e l’indole dei tempi, egli fu un temperamento enciclopedico e quindi un poligrafo. Si può dire che possedeva tutte le scienze coltivate ai suoi tempi e in grado tale da esserne considerato maestro eccezionale. Lo studio gli fu agevolato dai numerosi e preziosi manoscritti che i suoi abati gli portavano dai loro frequenti viaggi sul continente e a Roma: di essi si fece egli stesso copista, collatore e correttore.
L’insegnamento, la fama della dottrina e degli scritti gli procurarono molte illustri amicizie, come quella dei discepoli e poi abati del suo monastero, Vetberto e S.Cuthberto, Notelmo, arcivescovo di Canterbury, S. Acca vescovo di Hexham, i quali lo spronavano a comporre molte opere fornendogli magari il materiale storico e che furono poi ad essi dedicate. Fu pure in intima relazione con Ceovulfo, re della Northumbria, Albino, primo abate anglosassone del monastero di S. Agostino di Canterbury, Egberto, arcivescovo di York e maestro di Alcuino, il grande artefice della « rinascita carolingia ». Nel 734 Beda era andato a far visita a quel suo antico scolaro, ma ne era ritornato colpito da una malattia da cui non si riprese più. A letto continuò a dettare brani scelti delle opere di S. Isidoro per uso dei suoi confratelli e la versione anglosassone del Vangelo di S. Giovanni.
Secondo il suo discepolo, S. Cuthberto, malgrado la crescente debolezza, continuava a passare senza interruzione dalla preghiera liturgica allo studio e viceversa. Morì il 25-5-735 in concetto di santità mentre, inginocchiato sul pavimento della cella, cantava il Gloria Patri. Il concilio di Aquisgrana dell’836 lo chiamò « venerabile e ammirabile dottore dei tempi moderni » e Leone XIII il 13-11-1899 gli decretò il titolo di Dottore della Chiesa Universale. Le sue reliquie, trasportare a Durham accanto a quelle di S. Cuthberto, furono profanate sotto Enrico VIII. Rapito dalla sua figura di monaco umile e discreto « dall’anima di cristallo », il Newmann disse di lui: « Beda è il tipo del benedettino, come S. Tommaso è il tipo del domenicano ». Dante lo ha posto tra i saggi del cielo del sole (Par. 10, 131).
Beda fu maestro di monaci, teologo e predicatore di professione, ma si preoccupò pure di tutte le scienze del tempo non esclusa la versificazione.
Per questo Manitius Max (+1933), filologo e storico tedesco, lo definì  » il più grande erudito del medioevo » e Martino Grabmann (+1949), studioso di teologia medioevale, « il primo teologo a carattere scientifico del medioevo, aperto anche alle scienze profane, che ha esercitato il suo influsso sulla teologia e storiografia della sua epoca. Lasciò numerosissime opere. La più importante è la Storia Ecclesiastica degli Angli, di cui narra le gesta fino al 731 prendendo per primo, come punto di riferimento, l’anno dell’Incarnazione del Signore.
Lasciò circa 60 libri di commento a quasi tutta la Bibbia seguendo le orme dei dottori latini. Fu il primo a proporre la teoria del senso storico, morale, allegorico e mistico della Scrittura, divenuta poi familiare agli scolastici. Notevole è pure il De ratione temporum contenente la continuazione, fino al 1063, dei calcoli del ciclo pasquale iniziati da Dionigi il Piccolo; tale calendario fece testo in tutta l’Europa. Opere teologiche in senso proprio non ne compose. L’aliquot quaestionum liber però lo colloca tra i precursori della Scolastica.
___________________
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 5, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 295-297

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