« SIATE LIETI NEL SIGNORE »
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« SIATE LIETI NEL SIGNORE »
Filippi, nella Macedonia, è stata la prima città del continente europeo nella quale è giunto il Vangelo.
Questa lettera può essere datata verso il 56/57 e forse fu scritta durante la prigionia di Paolo ad Efeso (vedi 2Cor1,8-9), più che durante quella subita a Roma o a Cesarea (secondo gli studiosi è comunque difficile stabilire il luogo esatto). Il suo contenuto può essere incentrato su alcuni temi fondamentali, che troviamo esposti con una certa frammentarietà lungo tutta la lettera: l’amore di Paolo per questa comunità (capitoli 1 e 4), il riferimento a Cristo come modello di umiltà per il cristiano (capitolo 2, con lo splendido inno liturgico della Chiesa primitiva sull’abbassamento e l’esaltazione di Cristo, Figlio di Dio fatto uomo), il ruolo decisivo di Cristo – e non più quello della legge mosaica – nella vita di Paolo e del cristiano (capitolo 3). Su tutto aleggia il clima sereno della gioia cristiana (vedi 3,1: «State lieti nel Signore»; 4,4: «Rallegratevi nel Signore sempre»), il sentimento della gratitudine per il dono del Vangelo, l’apertura a tutto ciò che di buono Dio ha posto nel nostro mondo (vedi 4,8: «In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri»).
«Vi porto nel mio cuore». La lettera si apre con un intenso e affettuoso saluto ai destinatari, che Paolo assicura di portare sempre nel cuore. Prosegue con il ringraziamento a Dio per aver consolidato questa comunità che l’apostolo ha fondato e per aver reso i membri ottimi cooperatori nella diffusione del Vangelo (1,5), fino a scrivere i loro nomi « nel libro della vita » (4,3). Quello dei collaboratori è un tema ricorrente in questa lettera, che mantiene così una viva attualità anche per il nostro tempo, dove ormai il Cristianesimo si gioca sulla collaborazione di tutti i membri delle comunità di fede, nessuno escluso. Si alternano poi la preghiera per la comunità, l’esortazione a una continua crescita spirituale, l’incoraggiamento ad annunciare il Vangelo anche in mezzo alle sofferenze e a sostenere la stessa lotta che per il Vangelo sostiene Paolo. È chiaro il riferimento alla prigionia (che Paolo chiama qui tre volte con il nome di « catene »), ma anche alla lotta che l’apostolo deve intraprendere contro i giudaizzanti (chiamati in 3,2 « cani, cattivi operai, quelli che si fanno circoncidere », e in 3,18: « nemici della croce di Cristo »), cioè quei predicatori che continuano a presentare la legge mosaica senza collegarla al compimento che esse hanno avuto in Cristo.
È Cristo che va posto al centro, non più la legge, la quale ha già esaurito il ruolo di luce e di vita che le attribuiva l’antico Israele, in attesa del compimento in Cristo Gesù. In forza di questo compimento Paolo può osare alcune sconvolgenti affermazioni: « Per me vivere è Cristo e il morire un guadagno » (1,21). « Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura » (3,7-8). A questo riguardo, nel capitolo 3° Paolo ricorda la propria identità di ebreo osservante della legge e come, preso per mano da Cristo sulla via di Damasco, egli sia stato condotto alla piena comprensione della sua centralità e dell’unicità della salvezza da lui offerta (e non più dalla legge e dalle sue opere). L’uscire dall’ambito della legge e dimenticare la propria identità passata, e l’entrare nell’ambito nuovo di Cristo e della sua salvezza è ciò che Paolo chiama « protendermi verso il futuro » (3,13).
Cristo, modello di umiltà. Il capitolo 2° contiene lo stupendo inno, con il quale le prime comunità paoline cantavano il mistero dell’incarnazione-umiliazione di Cristo e quello della sua risurrezione-esaltazione. In esso convergono le immagini e le parole che il profeta Isaia riferiva al Servo sofferente del Signore ( qui rese con i termini « spogliò se stesso », « umiliò se stesso », riferiti a Cristo), ma anche le parole delle più antiche professioni della fede (racchiuse nei termini « esaltare », « dare un nome », « proclamare che Gesù Cristo è il Signore »). L’esortazione di Paolo è un invito ai Filippesi, e ai cristiani di ogni tempo, a fare della loro comunità il luogo in cui appare in tutta la sua luminosità il mistero della umiliazione.

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