Archive pour avril, 2015

LIBERTÀ E CHIESA – COMMENTO A GAL 5, 1-26

http://www.atriodeigentili.it/lectio/1999_00/200004.htm

Lectio Divina – Chiamati a libertà: il Giubileo tempo di Grazia

Stella Morra – 17 aprile 2000

Monastero Cistercense – Fossano

LIBERTÀ E CHIESA – COMMENTO A GAL 5, 1-26

Stiamo avviandoci verso la fine di questo itinerario sul Giubileo come chiamata alla libertà.
Il testo di questa sera è il capitolo 5 della Lettera ai Galati, che riprende dei temi già toccati su cui forse può essere utile fermarci ancora un po’; per altri versi, comunque, può essere un testo innovativo, che aggiunge altre questioni alla riflessione che andiamo facendo.
Vorrei però premettere una piccola riflessione a monte del testo, prima di leggerlo, perché mi sembra un testo in cui la materialità, da sola, rischia di portarci fuori, di farci capire cose che non vuole dire.
La lettera ai Galati è scritta da Paolo sulla spinta di alcune questioni molto concrete, di alcuni problemi delle comunità di Galazia, molto specifici e concreti e, quindi, la lettera ha un tono immediato e anche molto duro e tagliente rispetto a molte questioni, perché, probabilmente, è scritta nel calore della polemica.
Il secondo dato è che questa lettera, scritta nel calore della polemica e proprio per il suo genere letterario, è molto legata ai problemi di fronte a cui Paolo sta (la Lettera ai Romani è la riflessione più calma degli stessi temi della lettera ai Galati, cioè ha lo stesso tema di fondo, ma ragionato con più distanza).
Il problema qui è il rapporto con il giudaismo e l’atteggiamento che i cristiani devono avere rispetto alla tradizione ebraica da cui vengono e rispetto alle sue pratiche, sia le norme che il senso profondo; in particolare, nel testo che leggeremo, la questione è quella della circoncisione.
La questione della circoncisione rischia di essere per noi irrilevante o superata. Ma la domanda che dobbiamo farci è: perché allora questo testo sta dentro al canone della Rivelazione, dentro ad un testo che noi chiamiamo Parola di Dio? La regola degli antichi Padri era che tutto ciò che è nella Bibbia è tutto ciò, e solo ciò, che è necessario per la salvezza: la Bibbia non ci racconta cose che forse potrebbero rispondere a nostre curiosità, ma non servono per la salvezza. La Bibbia ci dice altre cose, che noi tendiamo a rimuovere, perché non sappiamo dove metterle ma, poiché ce le dice, sono rilevanti.
In certi testi del Vangelo viene da chiedersi: che cosa è successo poi? (Vedi l’episodio del giovane ricco; o Nicodemo, in Giovanni).
La Scrittura non dà risposte a questo genere di domande e questo, secondo i Padri, era indicativo del fatto che non ci serve saperlo. Non ci serve sapere quali conclusioni un’altra persona trae dall’incontro con il Signore. C’è un criterio importante per noi: mantenerci su una soglia di discrezione rispetto a ciò che ciascuno di quelli che conosciamo, compresi i fratelli che condividono con noi dei pezzi di strada, traggono come conclusioni dal loro incontro con il Signore.
L’esempio opposto è di quando un testo, come questo, ci dice cose che a noi sembrano assolutamente superate riguardo a problemi che non ci riguardano più e che quindi tendiamo a sottovalutare, a non considerare rilevanti rispetto ad un percorso spirituale.
Ma dobbiamo ricordare che, se stanno nella Scrittura, è perché una direzione, un senso ce l’hanno. Questo è uno dei motivi buoni dei quali si è fatto un uso cattivo. Per esempio nella storia questo testo è stato usato in chiave antisemita, perché si è pensato che se stava lì, ed era così duro contro il giudaismo, quello che insegnava era che bisogna essere duri con gli Ebrei. Il criterio era giusto: la conclusione che se ne traeva, no. Il problema infatti è comprendere correttamente il motivo profondo del testo.
Mi sembra che questo testo debba essere ascoltato, lavorato, perché se sta qui, vuol dire che serve alla nostra salvezza, anche se non ci insegna immediatamente delle cose.
Vorrei fare una piccola notazione di metodo che forse ci può aiutare più in generale: quando si fa una lettura spirituale della Scrittura c’è sempre la tentazione, nella nostra cultura, di entrare nella logica “capire-insegnare”. Che cosa capisco del testo, che cosa il testo mi insegna? Questo non è il parametro giusto per una lettura spirituale della Scrittura.
Il parametro giusto è quello di una “traduzione” secondo lo Spirito, cioè la lettura spirituale si fa dentro un percorso di fede in cui io, abitando la mia fede, dialogo con il testo e lascio che il testo si traduca nella mia vita di fede. Non necessariamente questo significa capire dal punto di vista critico, storico-geografico, di generi letterari, di aspetti culturali, ecc.
A volte il testo si traduce con semplicità, senza passare attraverso la mediazione del capire in senso stretto; non necessariamente significa che il testo ci “insegna” qualcosa: il testo ci fa compagnia. Penso all’atto di una madre che nutre il figlio: non pensiamo ad un atto di insegnamento; la Scrittura sta più dalla parte del nutrimento che della scuola.
Per questo testo dovremmo fare un piccolo sforzo in più, per farlo parlare dentro lo Spirito, perché si traduca dentro la nostra vita di credenti.
Una volta tanto faccio l’operazione opposta di quella che faccio di solito: enuncio un problema iniziando, e poi lavoriamo sul testo, in modo che il problema ci faccia un po’ da guida in questa operazione faticosa, cioè ci aiuti a capirlo.
Il problema che Paolo pone, rispetto alla sua comunità, che è concretamente, storicamente, il problema del rapporto con il giudaismo, con la Legge e la circoncisione, è, tradotto in termini moderni, il problema della auto-salvezza, cioè il tema della possibilità di darsi da sé la salvezza o, in termini quotidiani, di “quanto dipende da noi”, di quanto le cose, la storia, noi stessi e la nostra salvezza, dipendono da noi.
Questo è un problema antico: tutte le realtà e le espressioni religiose hanno questa questione. Dalle espressioni religiose più orientate alla passività a quelle più orientate all’attivismo, ci sono tutta una serie di posizioni in cui il ruolo giocato da chi sta di fronte a un Dio, è un ruolo più o meno importante e più o meno decisivo.
Noi, al di là del fatto che lo sappiamo o no, non stiamo nel vuoto pneumatico rispetto a questo problema, ma stiamo dentro a una storia, una tradizione, dentro alcune abitudini culturali e educative, che ci hanno dato delle precomprensioni su questa questione, e ci stiamo non solo in termini biografici, ma anche dal punto di vista culturale globale: stiamo dentro a una tradizione. Cioè noi siamo nel cristianesimo occidentale alla fine di un lungo periodo (due secoli) di grande razionalizzazione e moralizzazione della fede in cui l’unico modo per dire l’essenza di fede era di dirlo in termini di verità da credere e di azioni da compiere e in cui la relazione tra queste due cose era la responsabilità morale del singolo, quella che si chiama “coerenza”. Non sempre il passaggio era chiaro.
(Ad. esempio: perché, se credo la verità della Trinità, per essere coerente a questo, devo andare a messa la domenica?). Noi usciamo da due secoli nei quali l’idea era: c’è un elenco di verità nelle quali si deve credere, c’è una serie di comportamenti che si devono tenere; il rapporto tra i due è la coerenza.
In genere il disagio su questo l’hanno sempre mostrato gli adolescenti che con più faccia tosta degli adulti dicono, ad esempio: ma perché non posso mangiare carne il venerdì? In genere mettendo gli adulti nella condizione di dire: “perché è così”, senza dare una buona risposta. Questo funzionava in una società in cui la parola di un adulto era ultimativa. Man mano che la società è cambiata e le parole degli adulti sono sempre meno ultimative, la questione viene ributtata indietro e noi ci rendiamo conto di non avere buoni motivi.
In questa situazione culturale è molto difficile liberarci dall’idea più o meno esplicita di un’autosalvazione; ci pare che, alla fine, devono pur contare il nostro comportamento, la nostra coerenza, gli obblighi assunti.
In questo si innesta un dato culturale molto nuovo che è quello che normalmente chiamiamo la cultura new age, cioè un’idea un po’ magica della realtà che nasce da una mentalità opposta: l’insicurezza, l’incapacità di governare la vita, un mondo sempre più complicato, una velocità di cambiamento alla quale non riusciamo a stare dietro. Allora c’è questa diffusa idea che ci sarebbero una serie di cose quasi magiche per cui se uno fa bene tutte quelle cose, alla fine sta meglio.
La mentalità diffusa è che nella fede funzionerebbe come nel corpo: viviamo nella logica per cui, se seguissimo determinate abitudini alimentari non ci ammaleremmo mai. Rischiamo di avere una logica analoga anche nella fede in cui se si è buoni, disponibili, “positivi”, va tutto bene. Questa idea è la versione magica di un’idea di autosalvazione. Questo problema è estremamente attuale. Oggi ha due forme: ascetica (moralismo), magica (una specie di fitness interiore).
Questa è la traduzione moderna del problema che fa da sfondo al nostro testo, e forse ci aiuta a sentire il problema in un altro modo.

(Lettura del testo)

Credo che questo testo, a cominciare dal suono è, da una parte, molto comprensibile e semplice, e dall’altra molto duro: si sente il linguaggio scaldato di Paolo che è in polemica. Il testo ha due parti: la circoncisione e la questione della carne e della Legge, dello Spirito.
Mi sembra che forse, con un po’ di fatica, possiamo far lievitare questo testo rispetto all’attualità reale della nostra vita.
Prima parte: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi”. Solo oggi è una frase scontata. Ma essa presuppone che uno sappia che cosa vuol dire che Cristo ci ha liberati, e questo mi pare già un gran problema. ( perché significherebbe che ciascuno di noi sapesse fare l’elenco di ciò da cui vuole essere liberato o da cui è stato liberato, di ciò che riconosce come suo della propria vita e ciò che vorrebbe che non ci fosse, delle fatiche che ha fatto a separarsi da alcune parti di sé e dagli eventi che gli sono capitati; di quanta fatica ha fatto a lasciar cadere alcune questioni, a lasciarle andare, e riuscisse a pensare che cosa vuol dire che Cristo ci ha liberati: su questo, non in teoria.)
Quando ci viene detto che Cristo ci ha liberati non ci viene detta una cosa generica, astratta: viene detto un dato concreto. Padre Cesare ne parlava l’altra volta: la nostra salvezza in Cristo è che Cristo ci ha rimessi in condizione di figli; ci ha posti di fronte alla possibilità di scegliere di chi essere figlio.
La nostra vita non è cambiata: è quella che è, ma questa vita ci è stata resa, non è più una vita subita o, se volete, possiamo finalmente sapere che noi non siamo solo la nostra vita. Abbiamo la nostra vita e noi possiamo esserci nella nostra vita, ma non siamo incollati alla nostra vita e dunque il bello, il brutto, il faticoso e l’allegro, e tutto ciò che passa nella vita non dice ancora la totalità di noi. Quando i Vangeli ci dicono che Gesù è venuto a portarci la vita eterna (Giovanni usa l’espressione “la vita piena”) dicono qualcosa di questo genere: la vita ci è ridata come qualcosa che abbiamo, non come qualcosa che siamo, cioè ci è ridata nella libertà. (Ad esempio: quando abbiamo un raffreddore noi diciamo che “abbiamo” un raffreddore, quando abbiamo una malattia più seria noi diciamo che “siamo” malati, perché una malattia più seria sposta la possibilità di capire noi stessi).
Secondo natura, come creature, noi siamo la nostra vita. Il Cristo, per grazia, ci ha liberati: noi abbiamo la nostra vita. Cristo ha creato uno spazio in cui non possiamo fare un passo indietro rispetto a ciò che la nostra vita è: nel bene, come nel male, e non essere condannati in qualche modo ad essere incollati sulla nostra esistenza. Qui Paolo fa un passo avanti: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi”. In questa piccola frase Paolo imposta la questione della giustificazione. La giustificazione, la salvezza, viene da Gesù. La nostra parte è restare in questa salvezza (anche Giovanni dice:”restare in Gesù”).
L’operazione che noi dobbiamo compiere, che nessuno può compiere al nostro posto, la nostra collaborazione all’opera della nostra salvezza, non sta in una pretesa coerenza rispetto a delle verità, ma sta nel rimanere in questa libertà, cioè nel non farci risucchiare dalla nostra vita, e io credo che in questo secolo, in questo tempo, è più chiaro che in altri che cosa significa ciò, perché ciascuno ha l’esperienza di quanto la vita ti può risucchiare.
Cristo ci ha liberati perché noi avessimo una distanza dalla vita che ci risucchia, perché noi potessimo essere liberi, non schiavi della nostra esistenza e perché noi rimanessimo liberi. La nostra opera è quella di rimanere arretrati rispetto al vortice, e giustamente nella seconda parte Paolo riprenderà il tema del desiderio, perché ci sono cose che stanno veramente nel nostro desiderio: sono un desiderio vero, profondo.
Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi: che cosa dobbiamo fare rispetto a questa questione? Tutto, o niente? Dipende dalle nostre opere? Oppure Cristo ci ha salvati e non dobbiamo fare nulla?
Cristo ci ha posti in una condizione per cui ci ha liberati dalla schiavitù di una esistenza che ci esauriva totalmente in essa e ci ha dato uno spazio: la nostra parte è mantenere, e possibilmente allargare, questo spazio secondo un desiderio reale. Allora bisogna andare a “pescare” quel desiderio, altrimenti quello spazio non si mantiene, la ricaduta è molto forte.
“State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù”: a questo punto è chiaro. La saldezza è una virtù molto invocata dai Padri dei primi secoli, molto invocata nella Scrittura, il problema è stare ben piantati sulle gambe, cioè è tenere la posizione e non lasciarsi di nuovo imporre il giogo della schiavitù.
“Io, Paolo, vi dico” Qui l’immagine è parlante: usa un dato tipico della vita dei Galati: “Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla”. Cioè: se ciò che voi sapete di voi, della vostra vita, dipende dalla circoncisione (e dunque siamo figli di Abramo, gli eletti, ecc.) allora non c’è la libertà di Cristo che possa agire, perché non c’è spazio tra voi e, per esempio, la vostra definizione religiosa, ciò che di voi sapete rispetto alla religione.
“E dichiaro, ancora una volta, a chiunque si fa circoncidere che è obbligato a osservare tutta quanta la Legge”. Qui Paolo è molto chiaro: ognuno può scegliere, per la sua vita, che è solo la propria vita; se si fa circoncidere, deve assumere tutta la Legge.
Proviamo a tradurre: noi possiamo decidere che siamo solo la nostra vita, che non vogliamo rendere conto a nessuna interiorità, ma allora dobbiamo assumere le regole della vita, che significa, per esempio, che alla domanda: perché mi è successo questo, perché devo soffrire su questo? la risposta è: perché così accade in natura. Anche questa è la logica della vita: a volte si è contenti, a volte no; e non c’è una giustizia distributiva: le cose cattive capitano ai buoni e ai cattivi. Noi qui facciamo un grosso cortocircuito: ci sembra che lo sforzo che Cristo ci chiede, di restare saldi a distanza dalla nostra esistenza, sia un onere troppo pesante (non si ha tempo, non c’è cattiva volontà, ma..,). Salvo che quando la vita incrocia, nella sua dinamica propria, un punto doloroso, allora non stiamo più all’assunzione della nostra vita, ad osservare tutta quanta la legge, ma ci richiamiamo a un referente oltre la vita e diciamo: perché Dio mi ha fatto succedere tutto questo? A quel punto la risposta dovrebbe essere: perché no? Perché non te l’ha fatta succedere fino a oggi? Qual è il diritto in base al quale non doveva già fartela succedere prima?
“Non avete più nulla a che fare con Cristo se cercate la giustificazione della legge”. Ribadisco: qui Paolo è molto duro perché è nel calore della polemica, ma anche perché questa è una questione nel cuore del cristianesimo, una questione centrale. Uno può scegliere di stare da una parte o dall’altra, ma dovunque si metta deve rispettare le regole del gioco, soprattutto non può far finta che la scelta sia irrilevante.
Allora: “Siete decaduti dalla Grazia”, cioè avete reso vana la Croce di Cristo. Se io metto tutto l’investimento di me nell’essere la mia vita, a questo punto siamo fuori dalla dinamica della Grazia (nella nostra libertà di scelta)
“Noi infatti, per virtù dello Spirito attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo”. Qui Paolo attacca un altro pezzo di ragionamento: se voi siete solo la vostra vita, siete fuori da questa logica di liberazione; chi invece accoglie Cristo che lo ha liberato, sta saldo nella fede come virtù forte. (Una delle cose tipiche del modello di fede di cui dicevo prima è quello di pensare che se si hanno dei dubbi, non si ha la fede; invece funziona al contrario: quando uno ha tanti dubbi e non se ne va, vuol dire che ha tanta fede, perché la fede è la virtù di coloro che dubitano, non di coloro che sanno; in Paradiso, quando vedremo Dio faccia a faccia non avremo più bisogno di fede; la fede è la virtù della storia, del tempo in cui i dubbi ci sono e sono tanti; la paura è molta e il problema del cristiano non è quello di non avere paura, ma di avere più coraggio che paura e quindi se la paura è tanta si avrà tanto coraggio, se i dubbi sono tanti, si avrà tanta fede; la questione è rimanere saldi in questo spazio di libertà, per fede).
Paolo riprende la questione: noi, per fede, attendiamo la giustificazione che speriamo. Per fede rimaniamo saldi in questo pezzo di vita in più che non è sempre evidente, che non è sempre immediatamente disponibile, di cui non sappiamo sempre esattamente dov’è, di cui certe volte ci augureremmo di non averlo, perché ci piacerebbe stordirci e non avere uno spazio che guarda la nostra vita dal di fuori perché, per esempio, ne vediamo i limiti e ci tocca farcene carico.
Allora per fede rimanere in questa vita in più a volte è una bella cosa, a volte è abbastanza pesante; rimanere lì, attendendo la giustificazione che speriamo……, ma bisogna sperarla! Anche qui la deformazione in termini di autosalvezza fa sì che noi ragioniamo così: se uno crede le verità e si comporta bene, può anche sperare nella vita eterna.
Invece la direzione è contraria: se io spero qualcosa per la mia vita, se spero davvero, allora forse posso rischiare la carta della fede sulla speranza che ho, e forse bisogna sperimentare molte speranze deluse per imparare a sperare nel Signore (perché uno prima prova a sperare in tante cose: nella sua intelligenza, nella sua bravura, e a non sperare più nel Signore e allora uno decide se diventare un cinico o una uomo, una donna di speranza e a quel punto l’appoggia da un’altra parte: in questa vita in più).
Credo che uno dei nostri problemi seri in ambito di fede è che noi, in genere, non speriamo niente, cioè desideriamo molto poco, e quindi siamo dei piccoli credenti. Qual è l’investimento che abbiamo su questa cosa? Solo se abbiamo un grande desiderio, una grande speranza, investiamo. E noi sappiamo bene che nella nostra vita funziona così. Come, ad esempio, quando uno si appassiona ad un lavoro poi ci mette dentro testa, pensieri, tempo, eccetera. Mi sembra che uno dei problemi seri è che la nostra fede è piccola perché noi abbiamo piccoli desideri e piccole speranze, e quindi mettiamo poche energie, e non sempre le migliori.
“Poiché in Cristo non è la circoncisione che conta, ma la fede che opera per mezzo della carità”. E’ interessante perché nella prima parte ci sembra chiaro: in Cristo non è la circoncisione che conta; ma attenzione: nemmeno la non circoncisione conta. Questo è un pezzo del versetto che tendiamo a cancellare. Non è il problema a quale dei pezzi della tua vita ti affidi: il problema è se ti affidi alla tua vita o a quella di Cristo. (Il problema non è se uno è ebreo o cristiano, il problema è la fede che opera per mezzo della carità). Secondo me qui sta una delle espressioni più belle rispetto alla questione della giustificazione: la fede che opera per mezzo della carità.
Noi siamo passati da un tempo, l’800, in cui la questione era la fede, e poi non importava ciò che si faceva, purchè si mettesse la propria firma sotto l’elenco delle verità messe alla rinfusa. Da lì siamo passati all’opposto. Per reazione abbiamo giustamente molto insistito sul tema della carità. Ora stiamo andando verso l’esagerazione opposta, per cui conta un generico senso di giustizia che diventa sempre più annacquato, che alla fine non si sa più cosa vuol dire e che, soprattutto, come la fitness interiore, si squaglia alla prima difficoltà, però sembra che quello sia sufficiente, basta non pestare le formichine e va tutto bene.
Siamo lieti di tutti coloro che si occupano di carità, anche se si dicono non credenti, siamo lieti di fare strada con loro, e di riconoscere la bellezza dello Spirito che opera anche in chi non lo conosce. Ma per un cristiano la questione è la fede che opera per mezzo della carità, dove il soggetto agente è la fede. La fede non è un vago sentimento dell’anima o un’adesione puramente intellettuale, perché è una fede che opera, e opera per mezzo della carità. Questa frase mette bene in ordine la questione.
Padre Cesare accennava, l’altra volta, che questa cosa, nella storia della Chiesa, ha avuto un enorme peso. Il caso più conosciuto è la questione luterana, ma fin dai primi secoli l’oscillazione tra il credere e l’operare è stata costante: è un problema perenne del cristianesimo. Nel cristianesimo, il rapporto tra queste due cose, è delicato.
Come spesso accade, il cristianesimo è un’esperienza di doppi pensieri. D’altra parte noi abbiamo a che fare con due aspetti che non si possono sganciare: un Dio vero Dio e vero uomo. E’ chiaro che per tenere due cose opposte insieme, il rischio di cascare da una parte o dall’altra è sempre in agguato.
Ma qui Paolo dice molto efficacemente la questione: la fede che opera per mezzo della carità. Ed è chiaro che il primato è della fede (e in questo, Lutero aveva ragione), perché è la fede che qualifica le opere e non sono le opere che salvano; è la fede che salva: questo è ormai ben compreso. Il rimanere saldi nella libertà di Cristo ha operato; ma è vero che una fede che non operi per mezzo della carità è una fede muta, che rischia continuamente di diventare un pio atteggiamento dell’anima o un puro atteggiamento razionale.
Per riprendere il tema dell’inizio: Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; per restare liberi la questione è: la fede che opera per mezzo della carità. Non è la circoncisione, né la non circoncisione.
C’è questo sfogo di parole che trovo molto tenero: correvate così bene, chi vi ha tagliato la strada? Perché vi siete persi? L’immagine della corsa di Paolo ritorna spesso: l’esperienza del credere come esperienza di una gara
Trovo interessante, di questo sfogo, la piccola conclusione: “quanto a me, fratelli, se io predico ancora la circoncisione, perché sono tuttora perseguitato? E’ dunque annullato lo scandalo della Croce?”
E’ chiaro che sono domande retoriche quelle che Paolo fa, ma quello che vuole dire è: se non è successo niente, perché sta succedendo tutto questo caos? Perché stare ancora in un rapporto in cui la questione sono la circoncisone e la legge?
Allora anche questo è un dato su cui riflettere. Dopo 2000 anni di cristianesimo c’è la tendenza ad appiattire un po’ la sua novità, ma il cristianesimo ha risposte talmente forti che spesso annullano le domande (abbiamo l’impressione di sapere chi è l’assassino già prima di aver letto il romanzo!). Sappiamo già che Dio ci ama, ci perdona, eccetera, prima ancora di aver cominciato a vivere. Allora il rischio è che rendiamo lo scandalo della Croce un dato “innocuo”, per niente innovativo. Paolo invece dice: c’è uno scandalo, che è la croce. Allora, quando siamo tentati dalla fitness interiore e pensiamo che il criterio della fede sia sentirsi bene, dovremmo ricordarci che Gesù Cristo in croce non si sentiva certo bene. Il culmine dell’esperienza cristiana non può essere una sorta di diritto al benessere interiore. C’è una durezza della novità che il cristianesimo porta che è irriducibile e che non sta in una pretesa di norme e di doveri, ma sta nel fatto che non è tutto uguale a prima, o un semplice aggiustamento, un cambio di contenuti.
Siamo di fronte ad una possibilità di scelta, ma dobbiamo sapere come stanno le cose, cioè la novità che è l’impotenza di Dio sulla croce, la liberazione operata patendo la distanza. Gesù, che è Dio, e dunque la vita, non muore in croce per mostrarsi vittima del sadismo del Padre, ma per farsi carico della distanza tra la pienezza della vita e la vita, e in questo ci ha liberati. La morte in croce di Gesù ci ha liberati dal peccato perché è in quell’atto, che è l’obbedienza totale alla volontà del Padre, che Cristo misura, accoglie la distanza tra la vita che Lui è e la vita che Lui ha e dà. Come leggiamo nella sequenza di Pasqua, il Signore della vita era morto, ora, risorto, vive per sempre.
Non so se ci avete mai pensato, ma “il Signore della vita era morto” è una bella frase illogica. L’operazione che Gesù fa è quella di assumere una distanza (che in Lui, in quanto Dio, non c’è) tra sé e la propria vita, perché noi possiamo avere una distanza tra noi e la nostra vita.
Non è un’operazione di fitness, non è un semplice esercizio ginnico: è una cosa dolorosa.
Paolo riinizia la seconda parte con una specie di titolino, come la prima (Cristo di ha liberati perché restassimo liberi): “ voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà”.
Mettete insieme queste due frasi: noi siamo chiamati ad avere dei desideri sulla nostra vita, ma Dio per primo ha desiderato, e ha desiderato con totale verità, al punto che suo Figlio si è fatto uomo. L’incarnazione è il fatto che Dio prende sul serio il desiderio su di noi, ci ha chiamati a libertà.
Il termine “chiamati” ci è stato spiegato tante volte in termini di vocazione e siccome nella nostra testa questo termine ha un suono un po’ strano, ogni tanto ne tradiamo il senso.
Proviamo a tradurre con una parola più significativa: Dio ci ha chiamati: Dio ha desiderato che.., con tutta la potenza che il desiderio ha. E se ha potenza il desiderio nella vita degli uomini, immaginiamo la potenza che ha il desiderio nella pienezza della vita di Dio!
Dio ha desiderato fin dalla creazione che noi avessimo comunione con Lui, e il suo desiderio è potente. Credo che chiunque abbia mai provato una passione per qualcosa o qualcuno sa quanto è sproporzionato il proprio desiderio rispetto a sé: si sente un’energia che pare debba scoppiare. Il desiderio di Dio ha lo stesso rapporto, ed essendo Dio infinito, onnipotente, il suo desiderio è una “esplosione nucleare”.
Cristo ci ha liberati: è il dato di fatto accaduto perché restassimo liberi; perché questa libertà non diventi un pretesto per vivere secondo la carne, ma “mediante la libertà siate al servizio gli uni degli altri”. Qui Paolo riprende il tema concreto: la chiamata alla libertà, la vita in più; bisogna capire bene da che parte è in più: se è un “in più” di fragilità o se è un “in più” del desiderio profondo. E quando lui dice Spirito, che è lo Spirito di Cristo, dice: dovete desiderare i desideri dello Spirito.

Publié dans:LECTIO DIVINA, Lettera ai Galati |on 14 avril, 2015 |Pas de commentaires »

IL 13 APRILE DEL 1986 PAPA GIOVANNI PAOLO II SI RECA IN VISITA ALLA SINAGOGA DI ROMA

 IL 13 APRILE DEL 1986 PAPA GIOVANNI PAOLO II SI RECA IN VISITA ALLA SINAGOGA DI ROMA dans immagini varie

http://www.studiarapido.it/il-13-aprile-del-1986-papa-giovanni-paolo-ii-si-reca-in-visita-alla-sinagoga-di-roma/

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L’OMOSESSUALITÀ IN SAN PAOLO E L’AMORE DIMENTICATO

http://www.ildialogo.org/omoses/omsp28082008.htm

CRISTIANESIMO ED OMOSESSUALITÀ

L’OMOSESSUALITÀ IN SAN PAOLO E L’AMORE DIMENTICATO

RIFLESSIONI BIBLICHE DI M.S.

Ci sono tre passi negli scritti di S. Paolo che si è pensato possano riguardare le relazioni omosessuali: Romani 1,26-27, 1 Corinzi 6,9-10, 1 Timoteo 1,9-10. Derivano da essi le maggiori argomentazioni del Nuovo testamento contro l’omosessualità in quanto « intrinsecamente immorale ». Ma siamo sicuri che è questo il loro senso? Scriveva giustamente don Tonino Bello “ci sono tante parole del Vangelo che noi abbiamo addomesticato, le abbiamo ridotte, le abbiamo decurtate, così per ridurle agli spazi della nostra prudenza umana ». Un biblista ci offre alcune riflessioni su questi passi controversi.
“Ci sono tante parole del Vangelo che noi abbiamo addomesticato, le abbiamo ridotte, le abbiamo decurtate, così per ridurle agli spazi della nostra prudenza umana, per cui tanti cristiani sono buoni, onesti, incredibilmente legati alle leggi della Chiesa e dello Stato, irreprensibili, però non hanno scatto, non hanno quella passione in più, non hanno quelle movenze che sanno veramente di audacia, di audacia profetica, che sanno dire con coraggio, davvero, la Parola del Signore e la sanno vivere”.
don Tonino Bello

Carissimi, apro questo mio breve pensiero con le parole di don Tonino Bello, con quest’invito chiaro e forte ad essere testimoni di quell’evento salvifico, trasmessoci dagli apostoli, frutto di una scelta d’amore per la salvezza di tutti gli uomini. Mi chiedete di commentare San Paolo, bene, e lo farò con lo stesso Paolo. D’altronde, come si suol dire, la Scrittura si commenta con la Scrittura…ed io userò questo criterio.
Faccio solo una premessa: in questo mio breve commento non terrò conto dell’autenticità o attribuzione delle epistole. Sarebbe un discorso troppo lungo. D’altronde, fin quando si continuerà a dire: “Dalla lettera di San Paolo apostolo a…” è bello credere, nonostante l’esegesi moderna ci illumina che non è così, che sia tutto opera di Paolo.

Inno all’amore
« Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’amore, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l’amore, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi l’amore, niente mi giova.
L’amore è paziente, è benigno l’amore; non è invidioso l’amore, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’amore non avrà mai fine.
Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.
Quand`ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l`ho abbandonato.
Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch`io sono conosciuto. Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e l’amore; ma di tutte più grande è l’amore », I Corinzi 13,1-13.
Ci sono tre passi negli scritti di S. Paolo che si è pensato possano riguardare le relazioni omosessuali:
Romani 1,26-27: «Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami: le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni verso gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s’addiceva al loro traviamento».
1 Corinti 6,9-10: «[...] Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati (malakoi — Vulg. molles), né sodomiti (arsenokoitai — Vulg. masculorum concubinatores), né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il Regno di Dio».
1 Timoteo 1,9-10: «[...] sono convinto che la legge non è fatta per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli [...] per i pervertiti (arsenokoitai — Vulg. masculorum concubinatores) [...] e per ogni altra cosa che è contraria alla sana dottrina».
Da Rm 1,26-27 deriva la maggiore argomentazione del Nuovo Testamento contro l’omosessualità in quanto intrinsecamente immorale. Come si può notare tutto ciò che San Paolo condanna è tutto quello che viene fatto senza amore.
Il metro di misura della moralità cattolica cristiana è l’AMORE. Amore nel senso più alto del termine, AGAPE, amore gratuito, che spinge a donare la vita per gli altri.
L’amore di Cristo per l’umanità peccatrice; l’amore del Padre, che fa festa per ogni figlio che torna a lui; l’amore dello Spirito, che ci apre alla misericordia sicura nel giudizio finale.
Ci sarebbero intere pagine, ma sarebbero solo parole. Purtroppo, come ci ricorda don Tonino, “sono tante le parole del Vangelo che noi abbiamo addomesticato, decurtato…..dimenticato”. Basterebbe ricordare come, quando e perché nasce la Chiesa.
Come: Durante una cena a cui erano presenti un traditore, un rinnegatore, un incredulo…..e altri otto fuggitivi….nell’ora della prova.
Quando: poche ore prima dell’evento salvifico più grande di tutta la storia….evento che riguarda tutti gli uomini.
Perché: per fa si che tutti, (e non lo dico io!) basterebbe ricordare “Prendete e mangiatene tutti”, senza nessuna esclusione.
Perché, ciò che conta e come si fanno le cose. Per san Paolo è naturale condannare pratiche già condannate nell’Antico Testamento. D’altronde basta non dimenticare le sue origini.
Ma è anche logico, alla luce dell’esperienza Messianica, esaltare l’Amore, quell’amore che dà una luce diversa alle cose, un colore nuovo, un significato pieno… quello dell’evento salvifico operato da Cristo… che fa si che l’AMORE tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

Giovedì, 28 agosto 2008

ESERCIZI DI PREDICAZIONE LITURGICA PER LE DOMENICHE DI PASQUA. DALL’ARCHIVIO DI BENEDETTO XVI, di Sandro Magister

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2009/documents/hf_ben-xvi_hom_20090503_ordinazioni-sacerdotali.html

OMELIE PASQUALI – II

ESERCIZI DI PREDICAZIONE LITURGICA PER LE DOMENICHE DI PASQUA. DALL’ARCHIVIO DI BENEDETTO XVI

di Sandro Magister

ROMA, 5 aprile 2015 – La presente raccolta di omelie di Benedetto XVI fa seguito alle due antologie già messe in rete per le domeniche di Quaresima e per la Settimana Santa del ciclo B dell’anno liturgico, lo stesso in uso quest’anno nelle chiese di rito romano:

> Omelie di Quaresima
> Omelie pasquali – I

Nelle prime tre domeniche di Pasqua le letture del Vangelo narrano le apparizioni di Gesù risorto. Nella quinta e nella sesta domenica si leggono passi del discorso e della preghiera di Gesù dopo l’ultima cena, dal Vangelo secondo Giovanni. Mentre nella quarta domina la figura del Buon Pastore ed è tradizione che i papi in questa domenica conferiscano gli ordini sacri a nuovi sacerdoti.
In effetti, la quarta domenica di Pasqua è quella in cui Benedetto XVI ha ogni anno celebrato messa e ordinato preti novelli, pronunciando ogni volta omelie particolarmente ricche, come quella qui riportata, relativa all’anno B del lezionario.
Più rare e occasionali, invece, sono state le sue celebrazioni pubbliche nelle altre domeniche del tempo pasquale.
Nel giorno di Pasqua, ad esempio, tradizionalmente occupato dal messaggio e dalla benedizione « urbi et orbi », solo una volta, nel 2009, Benedetto XVI ha pronunciato una vera e propria omelia liturgica, sia pur breve. Ed è quella qui riprodotta.
Una sola, in sette anni di pontificato, è anche l’omelia da lui tenuta nella seconda domenica di Pasqua. È accaduto nel 2007, in coincidenza con il suo ottantesimo compleanno. E non era l’anno B ma l’anno C del lezionario, con il Vangelo dell’incredulità dell’apostolo Tommaso.
Le omelie delle domeniche terza e sesta del ciclo B, qui raccolte, sono invece tributarie del rispettivo contesto celebrativo o geografico, che occupa buona parte delle omelie stesse.
La prima è coincisa con la canonizzazione di cinque beati e la seconda con una visita pastorale alla città di Arezzo.
Per la quinta domenica del ciclo B, invece, al posto dell’omelia che manca nell’archivio della predicazione di Benedetto XVI, è qui richiamato la corrispondente piccola omelia del « Regina cæli », la preghiera che sostituisce l’Angelus nel tempo di Pasqua.
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> OMELIA DELLA DOMENICA DI PASQUA DI RISURREZIONE
12 aprile 2009
Atti 10, 34a.37-43
1 Corinzi 5, 6b-8
Giovanni 20, 1-9
… La Pasqua ebraica, memoriale della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, prevedeva ogni anno il rito dell’immolazione dell’agnello, un agnello per famiglia, secondo la prescrizione mosaica. Nella sua passione e morte, Gesù si rivela come l’Agnello di Dio “immolato” sulla croce per togliere i peccati del mondo. È stato ucciso proprio nell’ora in cui era consuetudine immolare gli agnelli nel tempio di Gerusalemme. Il senso di questo suo sacrificio lo aveva anticipato egli stesso durante l’ultima cena, sostituendosi – sotto i segni del pane e del vino – ai cibi rituali del pasto nella Pasqua ebraica. Così possiamo dire veramente che Gesù ha portato a compimento la tradizione dell’antica Pasqua e l’ha trasformata nella sua Pasqua…
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> OMELIA DELLA II DOMENICA DI PASQUA
15 aprile 2007
Atti 5, 12-16
Apocalisse 1, 9-13.17-19
Giovanni 20, 19-31
… Secondo una vecchia tradizione, l’odierna domenica prende il nome di domenica « in albis ». In questo giorno, i neofiti della veglia pasquale indossavano ancora una volta la loro veste bianca, simbolo della luce che il Signore aveva loro donato nel battesimo. In seguito avrebbero poi deposto la veste bianca, ma la nuova luminosità ad essi comunicata la dovevano introdurre nella loro quotidianità; la fiamma delicata della verità e del bene che il Signore aveva acceso in loro, la dovevano custodire diligentemente per portare così in questo nostro mondo qualcosa della luminosità e della bontà di Dio…
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> OMELIA DELLA III DOMENICA DI PASQUA – ANNO B
26 aprile 2009
Atti 3, 13-15.17-19
1 Giovanni 2, 1-5a
Luca 24, 35-48
… L’evangelista annota che i due discepoli di Emmaus, tornati in fretta a Gerusalemme, raccontarono agli undici come lo avevano riconosciuto “nello spezzare il pane”. E mentre essi stavano narrando la straordinaria esperienza del loro incontro con il Signore, Egli “in persona stette in mezzo a loro”. A causa di questa sua improvvisa apparizione gli apostoli restarono intimoriti e spaventati, al punto che Gesù, per rassicurarli e vincere ogni titubanza e dubbio, chiese loro di toccarlo – non era un fantasma, ma un uomo in carne ed ossa – e domandò poi qualcosa da mangiare. Ancora una volta, come era avvenuto per i due di Emmaus, è a tavola, mentre mangia con i suoi, che il Cristo risorto si manifesta ai discepoli, aiutandoli a comprendere le Scritture e a rileggere gli eventi della salvezza alla luce della Pasqua…
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> OMELIA DELLA IV DOMENICA DI PASQUA – ANNO B
7 maggio 2006
Atti 4, 8-12
1 Giovanni 3, 1-2
Giovanni 10, 11-18
… L’immagine del pastore viene da lontano. Nell’antico Oriente i re solevano designare se stessi come pastori dei loro popoli. Nell’Antico Testamento Mosè e Davide, prima di essere chiamati a diventare capi e pastori del popolo di Dio, erano stati effettivamente pastori di greggi. Nei travagli del periodo dell’esilio, di fronte al fallimento dei pastori d’Israele, cioè delle guide politiche e religiose, Ezechiele aveva tracciato l’immagine di Dio stesso come del pastore del suo popolo. Ora Gesù annunzia che quest’ora è arrivata: Egli stesso è il buon pastore nel quale Dio stesso si prende cura della sua creatura, l’uomo, raccogliendo gli esseri umani e conducendoli al vero pascolo…

Vedi anche quest’altra omelia di tre anni dopo, anch’essa relativa all’anno B del lezionario::
> 3 maggio 2009
http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2009/documents/hf_ben-xvi_hom_20090503_ordinazioni-sacerdotali.html
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> « REGINA CÆLI » DELLA V DOMENICA DI PASQUA – ANNO B
6 maggio 2012
Atti 9, 26-31
1 Giovanni 3, 18-24
Giovanni 15, 1-8
… Nel giorno del nostro battesimo la Chiesa ci innesta come tralci nel mistero pasquale di Gesù, nella sua persona stessa. Da questa radice riceviamo la preziosa linfa per partecipare alla vita divina. Come discepoli, anche noi, con l’aiuto dei pastori della Chiesa, cresciamo nella vigna del Signore vincolati dal suo amore. Se il frutto che dobbiamo portare è l’amore, il suo presupposto è proprio questo “rimanere” che profondamente ha a che fare con quella fede che non lascia il Signore. È indispensabile rimanere sempre uniti a Gesù, dipendere da lui, perché senza di lui non possiamo far nulla…
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> OMELIA DELLA VI DOMENICA DI PASQUA – ANNO B
13 maggio 2012
Atti 10, 25-26.34-35.44-48
1 Giovanni 4, 7-10
Giovanni 15, 9-17
… La prima lettura ci ha presentato un momento importante in cui si manifesta l’universalità del messaggio cristiano e della Chiesa. San Pietro, nella casa di Cornelio, battezzò i primi pagani. Nell’Antico Testamento Dio aveva voluto che la benedizione del popolo ebreo non rimanesse esclusiva, ma fosse estesa a tutte le nazioni. Sin dalla chiamata di Abramo aveva detto: « In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra ». E così Pietro, ispirato dall’alto, capisce che « Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga ». Il gesto compiuto da Pietro diventa immagine della Chiesa aperta all’umanità intera…

Signorelli, The Doubting Of Thomas, Loreto

Signorelli, The Doubting Of Thomas, Loreto  dans immagini sacre 15%20SIGNORELLI%20THE%20DOUBTING%20OF%20THOMAS%20LORETO%20C

http://www.artbible.net/3JC/-Joh-20,19_Vision_Doubt_Apparition_Doute/slides/15%20SIGNORELLI%20THE%20DOUBTING%20OF%20THOMAS%20LORETO%20C.html

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LA MISERICORDIA DI DIO SPERIMENTATA E PROCLAMATA DA SAN PAOLO (RM 9, 22-23) (DA UN TESINA)

http://www.collevalenza.it/Riviste/2007/Riv1007/Riv1007_05.htm

« DA VASI DI IRA A VASI DI MISERICORDIA » (RM 9, 22-23)

Estratto dalla Tesina di Licenza presso la Pontificia Università Gregoriana Istituto di spiritualità
Roma 2006/2007

III CAPITOLO

LA MISERICORDIA DI DIO SPERIMENTATA E PROCLAMATA DA SAN PAOLO

« Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione,
il quale ci consola in ogni nostra tribolazione » (2Cor 1,3-4)

3.1.5 – 1° Lettera a Timoteo 1,12-13
In 1Tim 1,12-13, Paolo ci fa interpretare moralmente la sua conversione:
« Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al ministero: io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna » (1Tim 1,12-16)
Paolo ricorda a se stesso e a Timoteo la sua conversione, nella quale sovrabbondò veramente la grazia di Dio che, in un istante fece di un persecutore e bestemmiatore un Apostolo. Per questo Paolo sente il bisogno di ringraziare il Signore Gesù che gli apparve sulla via di Damasco: pur avendo delle attenuanti, quali l’ignoranza e la mancanza di fede, si riconosce come peccatore, anzi il primo dei peccatori, oggetto in quanto tale della misericordia di Dio.
Paolo presenta l’apostolato come un servizio o ministero talmente importante che non si può realizzare senza una speciale forza che venga da Dio: perciò egli ringrazia Cristo non solo di averlo scelto per il ministero, ma di averlo anche fortificato.
All’origine della sua conversione sta una sovrabbondanza di grazia e di amore da parte di Dio che lo rinnovò interiormente, facendo fiorire nel suo cuore il prodigio della nuova fede e della nuova carità, che non solo terminano nel Cristo, ma da lui hanno principio e alimentazione: « dove aveva abbondato il peccato, sovrabbondò la grazia » (Rm 5,20).
Paolo inserisce la sua conversione nel quadro più generico della condotta di Dio verso i peccatori che Cristo è venuto a salvare. Essendo l’Apostolo il primo e più grande dei peccatori, può ben servire da esempio per tutti gli altri ad avere fiducia nella misericordia e longanimità di Cristo per ottenere la vita eterna.
Paolo sperimenta la misericordia di Dio e la augura a tutte le comunità da lui fondate e a tutti i suoi figli: « grazia, misericordia e pace » (1Tim 1,2). Si tratta dell’amore gratuito e salvante di Dio rivelatosi e comunicato in Cristo che dà un contenuto nuovo al kaire (sta bene, sii felice), greco-pagano. L’amore che accoglie e perdona, cioè la misericordia, è di sapore biblico. La pace rimanda ancora a quella tradizione biblica che attende per il tempo finale il shalom messianico, cioè la felicità piena e duratura. Dio « nostro salvatore » si fa incontro ai credenti cristiani nei doni salvifici che la fede in Gesù fa pregustare come pegno e anticipo della speranza19.

3.1.6 – 2° Lettera ai Corinti 12, 1-10
Paolo scrivendo alla comunità di Corinto a proposito della sua chiamata permette di penetrare profondamente nella sua anima, ricordando ai Corinti, in questa lettera, « dalle molte lacrime » (2,4), la grazia straordinaria che « un uomo »20 ha ricevuto quattordici anni prima.
« Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo21.
Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto. « Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza ». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio delle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole e allora che sono forte » (2 Cor 12, 1-2.7-10).
Nel prosequio del racconto Paolo sottolinea come Dio abbia provveduto al rimedio ed all’antidoto al pericolo di cadere in superbia, che questa esperienza di rivelazione poteva causare: « Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia » (v.9) .
Paolo si immerge allora, immediatamente, nella preghiera, che, anche se appare semplicemente come richiesta di allontanamento della spina nella carne, mi piace considerarla come esperienza di incontro con il Signore per discernere le proprie mozioni interiori. Emerge gradualmente, così, nel profondo del suo essere attraverso questa preghiera, l’intuizione e l’ispirazione da parte del suo Dio, che lo porta a sperimentare ciò che evidenzia e rivela, in modo evidente, con la frase: « A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse da me ed egli mi ha detto. « Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza » (2 Cor 12, 8-9).
Questa «asqene¢ia» fa certo e sicuro Paolo solo della fiducia del suo Signore, ed in questo slancio d’amore formula tutto il programma del suo apostolato. Così può guardare alle sue «debolezze» in relazione esistenziale con la forza di Dio e giungere ad una certezza operativa: « Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo…: quando sono debole è allora che sono forte » (2 Cor 12, 9b-10b) .
In Galati 6, 14 Paolo dice:
« non c’è altro vanto per me che nella croce del Signore Gesù Cristo per mezzo della quale io sono stato crocifisso al mondo e il mondo è stato crocifisso a me ».
Paolo si chiede: volete che io mi vanti? Io mi vanto della croce di Gesù che vive in me, che è croce di morte e di risurrezione, e nessuno mi dia più fastidio perché io porto le stigmate, i segni di questa presenza crocifissa e risorta di Gesù che vive in me (cfr. Gal 6,17). Anzi, io porto a compimento, a favore della Chiesa, i patimenti di Cristo, a favore di questa Chiesa, della mia Chiesa! (cfr. Col 1,24).
Questa è la mistica apostolica di Paolo. Paolo non è un visionario, quella di Paolo non è la mistica delle grazie infuse destinate a pochi. La mistica di Paolo è la mistica di un uomo contemplativo nell’azione. Paolo parla della sua esperienza mistica, di lui, di questo uomo si vanterà, di se stesso invece non si vanta, se non nelle sue debolezze. Lui si vanterà della grazia di Dio che lo ha trasfigurato e lo ha fatto tempio della sua gloria. Non può vantarsi se non nella sua infermità, perché nella su infermità, nella sua incapacità di arrivare lì dove è chiamato ad essere, la grazia di Dio sovrabbonda e lo trasfigura.
C’è l’invito forte a guardare i luoghi delle « proprie prigioni ». Contemplare « la spina nella carne », che è l’invito a morire a se stesso, accettando la propria debolezza e quella degli altri: « perché si estenda su di me la potenza di Cristo ». La propria « debolezza kenotica » permette alla potenza di Cristo di fare i miracoli dell’amore, e di un apostolato e di un annuncio di vita fecondo, trasfigurante e provocante.
È una spirale progressiva. Paolo invita, come ha fatto lui, a penetrare nella gradualità della debolezza della propria crescita umana e spirituale in ogni qui ed ora, che si attua nel trovare il « dettaglio specifico » della volontà del Padre per me, non generico, ma legato direttamente e proporzionalmente alla propria debolezza, alla propria infermità e alla forza del Cristo, che così – e solo così -, cresce fino alla piena maturità, che è la maturità del Cristo che vive in me, ed allora si diventa il buon profumo di Cristo per gli altri e per il mondo (cfr. 2 Cor 2,16).
Tre volte Paolo chiede al Signore di togliergli il pungolo nella carne. Qui Paolo è perfettamente in comunione con la preghiera di Gesù nel Getsemani. Gesù per tre volte chiede come Paolo che il Padre gli tolga quel pungolo nella carne che è la volontà del Padre, quel calice da bere. Questa volta Paolo non è accontentato come in At 16,26. Paolo è conformato totalmente alla richiesta di Gesù. È chiamato a sudare sangue per essere trovato nel Figlio dal Padre ed essere oggetto del compiacimento del Padre (cfr. Lc 22,39-46): « Ti basta la mia grazia ». Ecco la risposta del Padre nel Cristo che vive in lui.
L’evento di Damasco ha segnato per Paolo una svolta reale, ma non lo ha cambiato immediatamente, anzi ha proteso verso « una direzione opposta tutto il suo intatto temperamento fatto di intelligenza, generosità, ardore e tenerezza » (cfr. 1 Cor 4, 19-21; Fil 3, 2;1 Ts 2, 7-9 ; Gal 4,18-19). Paolo, nel suo cammino di formazione al discernimento della volontà di Dio, « di ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » (Rom 12,2b), prende coscienza, per prima cosa, che la sua esperienza umana e cristiana deve essere permanentemente in stato di conversione, in quanto stato di perenne chiamata di Dio a trascendersi ed a trasformarsi in quel livello di perfezione, che è tipico ed originale per ciascuna persona per giungere alla « piena maturità di Cristo » ( Ef 4,13) nello stato di « uomo nuovo, creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità vera » (Ef 4, 24). Per questo non cessa di « ringraziare con gioia il Padre, che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce; è lui, infatti, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto » (Col 1, 12-13).
È ben evidente da tutti i racconti dell’incontro con Cristo sulla via di Damasco come la conversione sia legata indissolubilmente alla libera iniziativa di Dio, non un Dio garante del patrimonio asettico e normativo della Torah, Dio geloso e vendicatore, ma in una presenza continua di un Gesù, che dall’inizio della storia con Paolo, si presenta per quello che è: « Io sono Gesù, che tu perseguiti » ( At 26, 15b).
La chiamata è soprattutto per Paolo, allora, conversione ( = «meta¢noia» ) verso il « nou~V » di Cristo, per discernere e scegliere « e¢n Cristw~ » i sentieri e gli orizzonti di questa sequela personale ed istaurare un rapporto di amicizia, che si fonda e si radica nella risposta e costituisce la stessa logica della sequela cristica paolina al cui servizio è posta ogni esperienza di discernimento: « Non sono più io che vivo ma lui vive in me… Chi mi separerà dall’amore di Cristo… » (cfr. Gal 2, 20a; Rom 8,35 a).
Paolo, almeno secondo il racconto lucano degli Atti, è oggetto-soggetto, non solo di una « Cristofania », ma anche di una « Staurofania » (stauros=croce): Gesù gli si presenta come colui che ha nella sua Croce il suo punto di vista decisivo. Essere trovato in Lui (cfr. Fil 3,9), vivere di Lui e per Lui (cfr. Rom 14,8) significa, da subito, per Paolo penetrare nel mistero-realtà dell’essere con-crocifisso con Lui, con-sepolto con Lui, con-risuscitato con Lui (cfr. Rom 6, 3-8).
(segue)
19 Cfr. R. FABRIS, Le lettere di Paolo, Borla, Roma 1980, III, 345-346.
20 La menzione di se stesso in terza persona a proposito di questa rivelazione, può essere un indizio di umiltà ma anche un’eco dello straniamento che l’estasi gli aveva fatto sentire nei confronti della vita presente. Cfr. AA.VV., Le lettere di San Paolo, Paoline, Roma 1978, 221-222.
21 Le speculazioni rabbiniche conoscevano due, tre e perfino sette cieli: San Paolo adotta qui la cosmografia dei tre cieli: il primo, dell’atmosfera; il secondo, degli astri; il terzo, del cielo, dimora di Dio e dei beati, quindi paradiso.

OMELIA 12 APRILE 2015 | 2A DOMENICA DI PASQUA: « SE NON VEDO… NON CREDERÒ »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/7-Pasqua/2a-Domenica-di-Pasqua-B-2015/12-02a-Domenica-B-2015-SC.htm

12 APRILE 2015 | 2A DOMENICA DI PASQUA – ANNO B | APPUNTI PER LA LECTIO

« SE NON VEDO… NON CREDERÒ »

Tentando una lettura d’insieme dei brani liturgici di questa seconda Domenica di Pasqua, ho l’impressione che essi vogliano metterci sott’occhio alcuni di quelli che io chiamerei i « frutti » o i « doni » del Cristo risorto, che ormai è costituito nella « pienezza » definitiva della sua gloria e della sua potenza.
Questo è evidente nel brano di Vangelo: basti pensare al « dono » dello Spirito che il Risorto fa agli apostoli, oppure al « dono » della pace che egli non solo augura, ma realizza e compie in loro. Ma è evidente anche nelle prime due letture, che pur sembrerebbero piuttosto lontane da questa tematica del « dono ».
« La moltitudine dei credenti aveva un cuore solo e un’anima sola »
Si prenda, ad esempio, la prima lettura che ci riporta il secondo di quei caratteristici « sommari », che san Luca adopera nel libro degli Atti per creare un quadro, o un « clima » di vita, sia pure « idealizzato », che egli intende proporre ai suoi lettori per provocarli ad una realizzazione piena del messaggio cristiano, anche nelle sue conseguenze sociali. « La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune… Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano… » (vv. 32.34-35).
Tutto questo, però, è presentato come frutto della « fede » nel Cristo risorto: infatti, aderendo a lui, il cristiano non solo viene a trovarsi « in comunione » con tutti i fratelli, ma scopre in se stesso le forze come di una vita « nuova », quella appunto che è adombrata e realizzata dalla risurrezione del Signore, la quale gli consente di avviarsi ad una esperienza di amore e di fraternità, che il normale gioco degli egoismi umani non riuscirà mai né a stimolare né a favorire. È per questo che il brano si apre con quella bellissima espressione: « La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola » (v. 32).
È dunque la « fede » che fonde insieme i cristiani, fin quasi a farne una unica persona o, come si dice anche più efficacemente, « un cuore solo e un’anima sola » (v. 32). E la « fede » nasce e si alimenta soprattutto attorno alla risurrezione del Signore, come si dice esplicitamente a metà del brano: « Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù » (v. 33).

« Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio »
Nella seconda lettura (1 Gv 5,1-6) direi che abbiamo, in forma diversa, la stessa tematica della prima: e cioè il dovere di « amare » in forma concreta il nostro prossimo, come fondamentale esigenza della nostra fede nel Cristo risorto. La « comunione » (= koinonía), che la fede ci fa instaurare con Cristo, deve coinvolgere anche i nostri rapporti con i fratelli: « Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio; e chi ama colui che ha generato (cioè Dio), ama anche chi da lui è stato generato (cioè i fratelli) » (5,1). La frase è particolarmente forte, perché ci fa vedere come identico sia l’amore che dobbiamo portare a Dio e ai « figli di Dio »: l’amore che portiamo al nostro prossimo è come un « amore di famiglia »!
La frase conclusiva, poi, ci riporta in pieno clima « pasquale »: il riferimento a Cristo, che « è venuto con acqua e sangue » (5,6), allude quasi certamente all’acqua e al sangue che fluirono dal costato di Gesù, quando fu aperto dalla lancia del centurione romano, e che ora operano salvezza nei sacramenti del battesimo (acqua) e dell’eucaristia (sangue) come frutto del Cristo ritornato a vita nuova nella risurrezione.

« Mostrò loro le mani e il costato »
Ma è soprattutto nel brano del Vangelo che i « frutti » della risurrezione sono anche meglio messi in evidenza: la stessa incredulità di Tommaso, che a prima vista sembrerebbe un gesto di rifiuto del dono, risulta, in ultima analisi, essa pure, un « dono » offerto alla fragilità della nostra fede e un invito a cercare al di fuori della « verificabilità » materiale la saldezza del nostro credere: « Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno » (v. 29).
Strutturalmente il brano si divide in quattro parti, tra loro intimamente connesse: 1) apparizione di Gesù il giorno stesso di Pasqua agli apostoli e conferimento del potere di « rimettere » i peccati nella potenza dello Spirito (Gv 20,19-23); 2) incredulità di Tommaso al racconto dell’apparizione di Gesù, fatto dagli altri apostoli: « Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi… non crederò » (vv. 24-25); 3) nuova apparizione di Gesù dopo otto giorni e confessione di fede di Tommaso: « Mio Signore e mio Dio! » (vv. 26-29); 4) conclusione del Vangelo di Giovanni e scopo del suo scritto: « Perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome » (vv. 30-31).
Tenendo presente questa inquadratura del brano, cerchiamo di afferrarne il significato fondamentale in collegamento con quanto precedentemente accennato.
E, prima di tutto, vorrei far notare come in tutta la sequenza narrativa l’evangelista sia interessato a mettere in evidenza l’ »identità » del Cristo risorto con il Gesù pre-pasquale, come oggi si dice. Tutto questo è affermato al v. 20: « Detto questo, mostrò loro le mani e il costato ». Nell’apparizione a Tommaso, che esigeva, per credere, la verifica del « vedere » e del « toccare » (v. 25), ritorna lo stesso tema: « Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani: stendi la tua mano, e mettila nel mio costato » (v. 27). Tutto questo provoca, per un verso, la « gioia » degli apostoli (v. 20) e, per un altro, la fede di Tommaso.
D’altra parte, l’evangelista tiene anche a sottolineare la « diversità » del corpo del Cristo risorto: egli, infatti, entra « a porte chiuse » nel cenacolo (vv. 19-26). La risurrezione perciò deve aver conferito a Gesù « un nuovo » modo di essere e di operare, collocandolo nella pienezza della sua vita nuova e dei suoi « poteri ».
Questo offrirsi ai suoi apostoli, da parte di Gesù, come « identico » e « diverso » nello stesso tempo, mi sembra il « dono » fondamentale che egli fa a loro e, in loro, a tutti gli uomini.
Ciò significa che non è annullata o interrotta l’esperienza di amore e di amicizia che gli apostoli avevano fatto di lui per tutto il periodo che avevano vissuto insieme in terra di Palestina: adesso, però, quella esperienza si dilata e si interiorizza, penetra il profondo dell’anima, afferra tutto l’uomo e gli dà sicurezza e gioia imperturbabile. Gesù è il « Signore » che ha vinto definitivamente Satana e anche la morte: i suoi apostoli non hanno che da affidarsi all’Amico e al Maestro di sempre, che però adesso è costituito nella pienezza della sua « potenza », per essere loro stessi « vittoriosi » in tutte le situazioni della vita.
È questo che dà un senso nuovo alla loro fede e ai loro rapporti con Gesù, perché di fatti il Risorto non tiene estranei i suoi discepoli dalla nuova situazione in cui la « potenza » del Padre lo ha posto, ma ve li associa in pieno.

« Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi »
Ecco allora il senso della « missione » che affida loro proprio in questa prima apparizione di Pasqua: « Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi » (v. 21). Non si precisa dove e a chi gli apostoli siano « mandati », come avviene invece in Matteo (28,18) e in Marco (16,15). Ma l’indeterminatezza è già di per sé eloquente: l’apertura della missione è senza confini!
Quello che importa è che tale « missione » si radica in quella stessa del Figlio: « Come il Padre ha mandato me… ». L’avverbio kathós (= come) ricorre frequentemente in san Giovanni, ed esprime similitudine e causalità nello stesso tempo. Nel contesto, perciò, si vuol dire allora che nella « missione » degli apostoli continua la stessa missione salvifica di Cristo: per l’opera degli apostoli la salvezza arriverà a tutti gli uomini! Al tempo di Cristo succederà il « tempo della Chiesa », che vive anch’essa ed opera nella luce e nella potenza della risurrezione.
Un esempio concreto di questa capacità di salvezza, che da Cristo passa alla sua Chiesa, l’abbiamo nel « potere » che egli conferisce agli apostoli di « rimettere » o di « ritenere » i peccati: « A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi » (v. 23).
Che senso ha questa espressione? Possiamo intenderla del semplice mandato di « predicare » la remissione dei peccati, come dicono i protestanti, oppure contiene qualcosa di diverso e di più profondo?

« Ricevete lo Spirito Santo »
Noi pensiamo che da tutto il contesto si esiga un autentico « potere » di « assolvere » dai peccati, o di « non assolvere », e perciò di reintrodurre, o meno, chiunque abbia peccato nella pienezza di vita della Chiesa. Altrimenti, avremmo un doppione con la « missione » precedente, che certamente già include il mandato della « predicazione » salvifica; e soprattutto non ci spiegheremmo il gesto solenne compiuto da Cristo prima di pronunciare le parole sulla « remissione » dei peccati: « Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse… » (v. 22).
Il gesto di « alitare » è un gesto simbolico ben conosciuto nell’Antico Testamento, ed esprime l’idea di una « creazione » rinnovata. Viene usato per la formazione di Adamo (Gn 2,7) e nella grande visione del capitolo 37 di Ezechiele: « Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano… » (Ez 37,9).
Collegato con il gesto del « soffiare », come già emerge dal testo di Ezechiele, è il riferimento al dono dello « Spirito », che Gesù subito dopo annuncia come frutto della sua risurrezione: « Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi… » (vv. 22-23). Lo Spirito Santo viene dunque dal « soffio » del Cristo morto e risorto (in ebraico lo stesso termine, rùach, esprime « spirito » e « soffio »): quel « soffio » che Gesù esalò sulla croce e che gli esegeti tendono a identificare con lo Spirito Santo. Essi, infatti, si orientano sempre più a tradurre Giovanni 19,30 nel modo seguente: « Ed egli, chinato il capo, rese (cioè donò) lo Spirito ».
Proprio perché « dono » della morte e risurrezione del Signore, lo Spirito abilita gli apostoli a « rimettere » i « peccati » che, in quanto frutto di morte e del « signore della morte » che è Satana, ci estraniano dalla partecipazione al mistero della redenzione operata dal Cristo morto e risorto per noi. È evidente in questo senso la dimensione « pasquale » del sacramento della riconciliazione: esso è per ognuno di noi, in forza dello Spirito che Cristo ha comunicato alla sua Chiesa, come un « risorgere dai morti » con la volontà di camminare ormai « in novità di vita » (Rm 6,4).

« Mio Signore e mio Dio! »
La scena successiva, che ci descrive l’incredulità di Tommaso davanti alla testimonianza degli altri apostoli, è molto significativa sul piano dell’itinerario di fede: « Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò » (v. 25).
Tommaso pretende di costatare di persona: per lui il « credere » coincide con il « vedere » materialmente inteso! È qui tutto il suo equivoco: il « credere », invece, trascende il materiale « vedere », perché è un vedere « in profondità », là dove l’aiuto dei sensi o della stessa intelligenza, anche la più acuta, non serve a nulla. Solo chi si affida alla « luce » che viene da Dio, è capace di « vedere » quello che gli occhi materiali non riusciranno mai a vedere!
È quello che Tommaso finalmente riuscirà ad intendere quando Cristo, prendendolo in parola, gli apparirà otto giorni dopo, insieme agli altri, e gli mostrerà le mani e il costato: « Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente » (v. 27). Allora egli esclamerà: « Mio Signore e mio Dio! » (v. 28), facendo in tal modo la più perfetta professione di fede in Gesù, che probabilmente riproduce un’antica acclamazione di fede in uso nella Liturgia primitiva.
Però la confessione di Tommaso, pur essendo altissima, non ha tutto il merito che avrebbe potuto avere se fosse stata più « arrischiata », cioè non legata alla « prova ». Per questo Gesù gli dice, in senso di rimprovero: « Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno » (v. 29).

« Queste cose sono state scritte perché crediate »
In questa condizione più fortunata, cioè quella di « credere » senza aver veduto, si trovavano i lettori del Vangelo di Giovanni e ci troviamo anche noi, ai quali egli dice ora lo scopo per cui ha scritto il suo libro: « Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome » (vv. 30-31).
Pur essendo la conclusione di tutto il Vangelo, questi ultimi versetti sono intimamente legati al racconto dell’apparizione del Risorto a Tommaso e alla « beatitudine » di coloro che « credono » anche « senza aver visto ». Con il suo scritto Giovanni ha inteso offrirci la sua « testimonianza » apostolica, fidandoci della quale, a differenza di Tommaso, noi possiamo e dobbiamo « credere ».

Da CIPRIANI S., Convocati dalla Parola.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 11 avril, 2015 |Pas de commentaires »
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