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BENEDETTO XVI, SAN PAOLO (11, 2008) LA DECISIVITÀ DELLA RISURREZIONE.

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20081105.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 5 novembre 2008

SAN PAOLO (11).

L’IMPORTANZA DELLA CRISTOLOGIA: LA DECISIVITÀ DELLA RISURREZIONE.

Cari fratelli e sorelle,

“Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede… e voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Cor 15,14.17). Con queste forti parole della prima Lettera ai Corinzi, san Paolo fa capire quale decisiva importanza egli attribuisse alla risurrezione di Gesù. In tale evento infatti sta la soluzione del problema posto dal dramma della Croce. Da sola la Croce non potrebbe spiegare la fede cristiana, anzi rimarrebbe una tragedia, indicazione dell’assurdità dell’essere. Il mistero pasquale consiste nel fatto che quel Crocifisso “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1 Cor 15,4) – così attesta la tradizione protocristiana. Sta qui la chiave di volta della cristologia paolina: tutto ruota attorno a questo centro gravitazionale. L’intero insegnamento dell’apostolo Paolo parte dal e arriva sempre al mistero di Colui che il Padre ha risuscitato da morte. La risurrezione è un dato fondamentale, quasi un assioma previo (cfr 1 Cor 15,12), in base al quale Paolo può formulare il suo annuncio (kerygma) sintetico: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per l’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi.

E’ importante cogliere il legame tra l’annuncio della risurrezione, così come Paolo lo formula, e quello in uso nelle prime comunità cristiane prepaoline. Qui davvero si può vedere l’importanza della tradizione che precede l’Apostolo e che egli, con grande rispetto e attenzione, vuole a sua volta consegnare. Il testo sulla risurrezione, contenuto nel cap. 15,1-11 della prima Lettera ai Corinzi, pone bene in risalto il nesso tra “ricevere” e “trasmettere”. San Paolo attribuisce molta importanza alla formulazione letterale della tradizione; al termine del passo in esame sottolinea: “Sia io che loro così predichiamo” (1 Cor 15,11), mettendo con ciò in luce l’unità del kerigma, dell’annuncio per tutti i credenti e per tutti coloro che annunceranno la risurrezione di Cristo. La tradizione a cui si ricollega è la fonte alla quale attingere. L’originalità della sua cristologia non va mai a discapito della fedeltà alla tradizione. Il kerigma degli Apostoli presiede sempre alla personale rielaborazione di Paolo; ogni sua argomentazione muove dalla tradizione comune, in cui s’esprime la fede condivisa da tutte le Chiese, che sono una sola Chiesa. E così san Paolo offre un modello per tutti i tempi sul come fare teologia e come predicare. Il teologo, il predicatore non crea nuove visioni del mondo e della vita, ma è al servizio della verità trasmessa, al servizio del fatto reale di Cristo, della Croce, della risurrezione. Il suo compito è aiutarci a comprendere oggi, dietro le antiche parole, la realtà del “Dio con noi”, quindi la realtà della vera vita.

E’ qui opportuno precisare: san Paolo, nell’annunciare la risurrezione, non si preoccupa di presentarne un’esposizione dottrinale organica – non vuol scrivere quasi un manuale di teologia – ma affronta il tema rispondendo a dubbi e domande concrete che gli venivano proposte dai fedeli; un discorso occasionale dunque, ma pieno di fede e di teologia vissuta. Vi si riscontra una concentrazione sull’essenziale: noi siamo stati “giustificati”, cioè resi giusti, salvati, dal Cristo morto e risorto per noi. Emerge innanzitutto il fatto della risurrezione, senza il quale la vita cristiana sarebbe semplicemente assurda. In quel mattino di Pasqua avvenne qualcosa di straordinario, di nuovo e, al tempo stesso, di molto concreto, contrassegnato da segni ben precisi, registrati da numerosi testimoni. Anche per Paolo, come per gli altri autori del Nuovo Testamento, la risurrezione è legata alla testimonianza di chi ha fatto un’esperienza diretta del Risorto. Si tratta di vedere e di sentire non solo con gli occhi o con i sensi, ma anche con una luce interiore che spinge a riconoscere ciò che i sensi esterni attestano come dato oggettivo. Paolo dà perciò – come i quattro Vangeli – fondamentale rilevanza al tema delle apparizioni, le quali sono condizione fondamentale per la fede nel Risorto che ha lasciato la tomba vuota. Questi due fatti sono importanti: la tomba è vuota e Gesù è apparso realmente. Si costituisce così quella catena della tradizione che, attraverso la testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà alle generazioni successive, fino a noi. La prima conseguenza, o il primo modo di esprimere questa testimonianza, è di predicare la risurrezione di Cristo come sintesi dell’annuncio evangelico e come punto culminante di un itinerario salvifico. Tutto questo Paolo lo fa in diverse occasioni: si possono consultare le Lettere e gli Atti degli Apostoli dove si vede sempre che il punto essenziale per lui è essere testimone della risurrezione. Vorrei citare solo un testo: Paolo, arrestato a Gerusalemme, sta davanti al Sinedrio come accusato. In questa circostanza nella quale è in gioco per lui la morte o la vita, egli indica quale è il senso e il contenuto di tutta la sua predicazione: “Io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti” (At 23,6). Questo stesso ritornello Paolo ripete continuamente nelle sue Lettere (cfr 1 Ts 1,9s; 4,13-18; 5,10), nelle quali fa appello anche alla sua personale esperienza, al suo personale incontro con Cristo risorto (cfr Gal 1,15-16; 1 Cor 9,1).

Ma possiamo domandarci: qual è, per san Paolo, il senso profondo dell’evento della risurrezione di Gesù? Che cosa dice a noi a distanza di duemila anni? L’affermazione “Cristo è risorto” è attuale anche per noi? Perché la risurrezione è per lui e per noi oggi un tema così determinante? Paolo dà solennemente risposta a questa domanda all’inizio della Lettera ai Romani, ove esordisce riferendosi al “Vangelo di Dio … che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità in virtù della risurrezione dei morti” (Rm 1,3-4). Paolo sa bene e lo dice molte volte che Gesù era Figlio di Dio sempre, dal momento della sua incarnazione. La novità della risurrezione consiste nel fatto che Gesù, elevato dall’umiltà della sua esistenza terrena, viene costituito Figlio di Dio “con potenza”. Il Gesù umiliato fino alla morte di croce può dire adesso agli Undici: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28, 18). E’ realizzato quanto dice il Salmo 2, 8: “Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra”. Perciò con la risurrezione comincia l’annuncio del Vangelo di Cristo a tutti i popoli – comincia il Regno di Cristo, questo nuovo Regno che non conosce altro potere che quello della verità e dell’amore. La risurrezione svela quindi definitivamente qual è l’autentica identità e la straordinaria statura del Crocifisso. Una dignità incomparabile e altissima: Gesù è Dio! Per san Paolo la segreta identità di Gesù, più ancora che nell’incarnazione, si rivela nel mistero della risurrezione. Mentre il titolo di Cristo, cioè di ‘Messia’, ‘Unto’, in san Paolo tende a diventare il nome proprio di Gesù e quello di Signore specifica il suo rapporto personale con i credenti, ora il titolo di Figlio di Dio viene ad illustrare l’intimo rapporto di Gesù con Dio, un rapporto che si rivela pienamente nell’evento pasquale. Si può dire, pertanto, che Gesù è risuscitato per essere il Signore dei morti e dei vivi (cfr Rm 14,9; e 2 Cor 5,15) o, in altri termini, il nostro Salvatore (cfr Rm 4,25).

Tutto questo è gravido di importanti conseguenze per la nostra vita di fede: noi siamo chiamati a partecipare fin nell’intimo del nostro essere a tutta la vicenda della morte e della risurrezione di Cristo. Dice l’Apostolo: siamo “morti con Cristo” e crediamo che “vivremo con lui, sapendo che Cristo risorto dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6,8-9). Ciò si traduce in una condivisione delle sofferenze di Cristo, che prelude a quella piena configurazione con Lui mediante la risurrezione a cui miriamo nella speranza. E’ ciò che è avvenuto anche a san Paolo, la cui personale esperienza è descritta nelle Lettere con toni tanto accorati quanto realistici: “Perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11; cfr 2 Tm 2,8-12). La teologia della Croce non è una teoria – è la realtà della vita cristiana. Vivere nella fede in Gesù Cristo, vivere la verità e l’amore implica rinunce ogni giorno, implica sofferenze. Il cristianesimo non è la via della comodità, è piuttosto una scalata esigente, illuminata però dalla luce di Cristo e dalla grande speranza che nasce da Lui. Sant’Agostino dice: Ai cristiani non è risparmiata la sofferenza, anzi a loro ne tocca un po’ di più, perché vivere la fede esprime il coraggio di affrontare la vita e la storia più in profondità. Tuttavia solo così, sperimentando la sofferenza, conosciamo la vita nella sua profondità, nella sua bellezza, nella grande speranza suscitata da Cristo crocifisso e risorto. Il credente si trova perciò collocato tra due poli: da un lato, la risurrezione che in qualche modo è già presente e operante in noi (cfr Col 3,1-4; Ef 2,6); dall’altro, l’urgenza di inserirsi in quel processo che conduce tutti e tutto verso la pienezza, descritta nella Lettera ai Romani con un’ardita immagine: come tutta la creazione geme e soffre quasi le doglie del parto, così anche noi gemiamo nell’attesa della redenzione del nostro corpo, della nostra redenzione e risurrezione (cfr Rm 8,18-23).
In sintesi, possiamo dire con Paolo che il vero credente ottiene la salvezza professando con la sua bocca che Gesù è il Signore e credendo con il suo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr Rm 10,9). Importante è innanzitutto il cuore che crede in Cristo e nella fede “tocca” il Risorto; ma non basta portare nel cuore la fede, dobbiamo confessarla e testimoniarla con la bocca, con la nostra vita, rendendo così presente la verità della croce e della risurrezione nella nostra storia In questo modo infatti il cristiano si inserisce in quel processo grazie al quale il primo Adamo, terrestre e soggetto alla corruzione e alla morte, va trasformandosi nell’ultimo Adamo, quello celeste e incorruttibile (cfr 1 Cor 15,20-22.42-49). Tale processo è stato avviato con la risurrezione di Cristo, nella quale pertanto si fonda la speranza di potere un giorno entrare anche noi con Cristo nella vera nostra patria che sta nei Cieli. Sorretti da questa speranza proseguiamo con coraggio e con gioia.

SAPIENZA UMANA E DELLA SAPIENZA DIVINA E DELLA RESURREZIONE DEI MORTI NELLA 1COR

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RUBRICHEAUTORI/FrancescoCuccaro/FCsapienzaumanadivina1letteraCorintiPaolo.htm

TEOLOGIA BIBLICA DEL NUOVO TESTAMENTO

LE TEMATICHE DELLA SAPIENZA UMANA E DELLA SAPIENZA DIVINA E DELLA RESURREZIONE DEI MORTI NELLA PRIMA LETTERA AI CORINTI DI PAOLO DI TARSO

di Francesco Cuccaro

Premessa
Nel suo secondo viaggio missionario, Paolo si trova a diffondere il messaggio di Cristo in Grecia. A Tessalonica converte numerose persone, servendosi del contributo di Sila e Timoteo.
A quanto si legge dagli Atti, non sembra che il suo brevissimo soggiorno ad Atene sia stato programmato, anche se la capitale dell’Attica diviene una tappa obbligata per svolgere altre peregrinazioni.
In questa città ( siamo più o meno intorno al 49 E.V. ), tuttavia, Paolo dà sfogo al suo dinamismo missionario, ma vi sperimenterà un colossale fallimento. Si trova direttamente di fronte ad interlocutori già professanti l’idolatrìa vera e propria. E neanche tanto facili da superare diffidenze addirittura nei confronti di uno straniero banditore di nuovi culti, di un predicatore barbaro.
Paolo ha il senso del limite e delle proporzioni ma, convinto della ‘potenza della Parola’ ( del ‘Dabàr’ ), della ‘Parola di Dio’, non si lascia scoraggiare. Anzi, entusiasticamente, si rivolge a quelli che possono apparirgli le energìe intellettuali più vivaci di tutta la cittadinanza ateniese.
Questo capitolo degli Atti degli Apostoli ( At. 17, 16-34 ) può essere visto come la documentazione di una sfida della Rivelazione biblica nei confronti dell’Ellenismo più puro, cioé diverso da quello già incontrato nei territori grecofoni del Medio Oriente. Anzi, appare un confronto critico non tanto verso le forze naturali dell’uomo che si esprimono nel genio poetico, letterario, filosofico, artistico-figurativo della civiltà ellenica, quanto nei confronti dell’orientamento razionalistico difeso e custodito dalle migliori menti dell’epoca. Ma un confronto critico non dà adito per forza ad una controversia o polemica. Paolo ricerca con questi intellettuali ateniesi un punto di equilibrio tra le loro posizioni e le esigenze della sua predicazione.
Quale può essere un fertile terreno d’incontro tra due visioni della vita e della religione così differenti tra loro ? Per esempio : la critica all’antropomorfismo della religione e della mitologìa olimpiche. E’ innegabile lo sforzo positivo condotto da alcuni filosofi greci nel concepire Dio come primo principio cosmologico, secondo una tendenziale linea che va, grosso modo, da Senofane di Colofane a Platone, da Aristotele a Plotino. Menzionando un verso poetico di Arato di Soli, ripreso e modificato dallo stoico Cleante di Asso ( At. 17, 28 ), Paolo riconosce questo sforzo, ma anche la sua insufficienza a debellare il politeismo con la conseguente idolatria. Come pure avverte -lui straniero- la difficile coesistenza tra la convinzione in un unico e superiore Dio, come sembra testimoniare la presenza di un’ara dedicata al Dio ignoto ( At. 17,23 ), e la credulità superstiziosa del popolino. Inoltre, deve anche misurarsi con lo scetticismo che pervade il contesto culturale dei ceti medio-alti.
Immaginiamo una scommessa che Paolo fa a se stesso, con il proposito di vincerla, incentrata proprio su quell’altare con la dedica ad una divinità sconosciuta che sembra essere indeterminata, senza volto e senza forma. Luca riporta fedelmente il testo della predica tenuta all’Areòpago ( sede del tribunale, ma anche luogo di discussioni pubbliche ) :
“Allora Paolo, alzatosi in mezzo all’Areòpago, disse ‘Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli déi. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione : Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che é signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo, né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa” ( At. 17,22-25 ).
Fermiamoci un attimo. Il ragionamento che fa il Nostro é abbastanza pertinente per un evoluto spirito greco, fino ad essere ritenuto ovvio e di una sorprendente banalità. Nel senso che l’Apostolo non ha detto nulla di nuovo, considerando Dio come Colui che ha fatto il mondo e tutto ciò che esso contiene. Paolo ha evitato di presentare una dottrina della creazione dal nulla, forse per misura prudenziale. Un discorso come questo lo avrebbe portato lontano dai suoi obiettivi e forse urtato più di tanto la suscettibilità dei suoi ascoltatori che considerano la materia come eterna. Quindi, l’idea di un Dio che ha fatto il cielo e la terra non é estranea alla mentalità di chi sostiene la demiurgica ordinazione del mondo dal caos primigenio. Pertinente può apparire anche il discorso di una derivazione da una sola coppia originaria di tutto il genere umano :
“Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto : ‘Poiché di lui stirpe noi siamo’ ” ( At. 17,26-28 ).
Un discorso che avrebbe tuttavia urtato gli interessi di profittatori senza scrupoli e pronti a strumentalizzare l’ingenua credulità popolare, onde ottenere lauti guadagni, come sarebbe accaduto, di lì a qualche anno, ad Efeso con il celebre tumulto di Demetrio e degli argentieri ( At. 19, 21-41 ).
“Essendo noi stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana” ( At. 17,29-30 ).
C’é un fondo velato di ironia in questa esclamazione. I migliori cervelli arrivano a soprannaturalizzare il divino, ma la base popolare rimane ancora legata a credenze superficiali e ormai superate.
“Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo…..” ( At.17, 30-31 ).
Neanche dopo l’incontro, sulla via di Damasco, con il Signore risorto, Paolo abbandona quello che si potrebbe dire lo zelo integralista del pio israelita riguardo alla giustizia di Jahveh, alla condanna del peccato e dell’idolatrìa, alla punizione universale di tutti gli uomini ( senza l’intervento provvidenziale di un uomo ).
L’ Apostolo delle Genti non ha peli sulla lingua : questo zelo lo esibisce anche, e soprattutto, nei confronti degli idolatri. Onde la necessità di una ‘conversione’ o ‘ravvedimento’ di questi ultimi, cioé un ‘cambiamento di mentalità e di vita’.
Ecco la rivelazione sconcertante :
“…..giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti” ( At 17,31 ).
Ma Dio non sembra premiare subito questo zelo rigorista del suo inviato. Questa comunicazione così rapida e immediata non dà il risultato sperato. Il pubblico non solo non aderisce al messaggio di Paolo, ma lo rende oggetto di scherno e di irrisione.
Beninteso, questa fiducia dell’Apostolo nella ‘potenza della Parola’ non verrà mai meno, né durante né dopo l’apparente sconfitta subita all’Areòpago di Atene. Avvertirà la consapevolezza che essa debba andare adeguata alle aspettative, alle esigenze, agli schemi mentali, ai pregiudizi degli uomini, ai tempi opportuni, secondo una pedagogìa progressiva. Lo smacco di Atene, deplorevole in se stesso, ha avuto il merito di inculcare nel predicatore e in noi il rispetto della dignità e della libertà della persona umana che Dio non violenta. L’integralismo religioso va, pertanto, umiliato.
Non si formerà mai una vera e propria comunità cristiana ad Atene, almeno fino al IV secolo quando il Cristianesimo diverrà la religione ufficiale dell’Impero Romano. Fatta eccezione per un piccolo numero di convertiti, come Dionigi e Damaris durante il soggiorno paolino ( At. 17,34 ), la capitale dell’Attica rimarrà, per lungo tempo, la roccaforte inespugnabile della resistenza dell’Ellenismo pagano al Vangelo.
Questo ci sembra l’orizzonte di minima intelligibilità nel quale situare l’insuccesso del kerygma apostolico ad Atene, sempre che Luca ci garantisca la fedeltà testuale di quello che Paolo ha detto e ha fatto, e che il suo racconto non sia piuttosto un riassunto.
L’immediatezza di una notizia relativa ad un evento storico, quale la resurrezione di un uomo dalla morte, e il vago accenno ad una credenza, diffusa nell’ambiente palestinese, concernente un ritorno dalla morte alla vita per tutti gli uomini in un giorno stabilito da Dio, scandalizzano il pubblico ateniese abituato, da secoli di educazione filosofica e retorica, ad una ricerca di prove ferreamente logiche e ad un consequenziale tessuto di dimostrazioni, per la gioia di Piergiorgio Odifreddi.
Il testo lucano della predica di Paolo offre -potremmo dire- dei chiaroscuri, nel senso che non vengono citati quegli argomenti di carattere biblico che legano la precedente affermazione dell’esistenza di un Dio superiore e nascosto al tema del giudizio universale e a questo insolito discorso sulla resurrezione dei morti.
Se ci mettessimo dalla parte degli interlocutori, pure noi potremmo meravigliarci non solo del senso oscuro delle parole di Paolo, ma soprattutto della mancanza di nesso logico nel passaggio da un tema all’altro.
Ma non che Paolo non sia consapevole di questa inevitabile difficoltà. Dopo lo smacco di Atene e durante la sua permanenza a Corinto, l’Apostolo sarà assillato da questo dilemma : come e a chi presentare il Cristo crocifisso e risorto ?
Questo celebre discorso all’Areopago nasce dall’improvvisazione e dall’entusiasmo, finanche eccessivo e forse anche ingenuo, nell’immediatezza riguardo i copiosi frutti in termini di miracoli, di conversioni, di trasformazioni interiori che una ‘rivelazione soprannaturale’ comporta, omettendo le stesse prove logiche e storiche sulle quali essa, pur tuttavia, si basa ? Oppure il testo lucano sembra suggerire la presa di coscienza, da parte dell’Apostolo, della mancanza, per così dire, di tempi tecnici per preparare un discorso più articolato, stringente e consequenziale ? Come pure Paolo ha tenuto conto della totale mancanza di conoscenza -da parte degli Ateniesi- delle Sacre Scritture ebraiche e degli schemi culturali del popolo eletto. Era opportuno, in quel momento, dire che : Dio ha creato dal nulla la prima coppia umana ? Questa ha peccato contro Dio e ha fatto incorrere il genere umano nella sua “ira”? Occorreva parlare della necessità della redenzione dal peccato e dalle sue conseguenze per opera dello stesso Dio che doveva assumere la natura umana, incarnandosi, diventare un israelita, per poi morire di una morte infamante e, successivamente, risorgere ? Che il popolo ebraico é stato il primo depositario di questa rivelazione di salvezza attraverso i profeti ?
Anche una misura prudenziale può rendere comprensibili tutte queste omissioni, ma é stata assente quando si é parlato apertamente della resurrezione dei morti ( figuriamoci, poi, se Paolo avesse insistito sul Cristo morto in croce ).
Il minimo che gli é capitato é stata la compassione. I suoi connazionali più fanatici gli avrebbero riservato, senza tanti complimenti, il peggio : la lapidazione!
Tutte e tre le ipotesi per cercare di gettare uno spiraglio di luce sul mistero di questo clamoroso fallimento del discorso paolino all’Areòpago sono egualmente valide. Rimane tuttavia una certezza : l’esternazione dell’Apostolo serba i caratteri dell’avventura, del rischio e dell’imprevedibilità che sfugge ad ogni calcolo premeditato.
Questo tema della ‘resurrezione dei morti’ é per giunta estraneo alla mentalità ellenica e non condiviso pienamente da tutta la nazione ebraica ( alcune correnti religiose, come quella dei Sadducei, la contestano addirittura ).
Presso i Greci -e finanche in alcune popolazioni mediorientali- sussiste una sorta di pessimismo circa la sopravvivenza ultraterrena. Si avverte in essi un atteggiamento fatalistico estremo dove domina sovrana l’inesorabile legge della necessità e del determinismo che non permette deroghe di alcun tipo, quale può essere ritenuto il miracolo*. Da secoli l’immaginario collettivo ha sempre insistito sul tema dell’immortalità estendendola agli déi ed agli eroi della mitologìa olimpica e delle religioni misteriche. Immortalità vissuta nel sogno e nel desiderio, difficilmente provata, dal punto di vista filosofico, per quanto concerne la sopravvivenza delle anime umane. E su questo punto le scuole di pensiero dell’epoca si contrappongono l’una all’altra : i Platonici la sostengono in modo deciso e, con gli Orfici, la collegano alla reincarnazione; mentre, al contrario, gli Stoici e gli Epicurei la contestano.
Per non parlare poi del disprezzo unanime verso il corpo e la materia intesi –ontologicamente- come irrilevanti, oltre ad essere corruttibili, anche se viene più che tollerata ed incoraggiata la ricerca dei piaceri della tavola e del sesso. Un tale disprezzo viene portato all’estremo, invece, dai sostenitori di correnti di pensiero dualistiche.
L’argomento della ‘resurrezione dei corpi’, accennato da Paolo nel suo discorso all’Areòpago, non solo appare una sorpresa, ma suscita la totale irrisione da parte degli astanti. Non sarà mai facilmente assimilato dalla coscienza greca, perfino da chi ha accettato il messaggio di salvezza di Cristo, come testimonieranno le stesse lettere paoline ( e, in modo specifico, la prima ai Corinti ).
Con la scomparsa degli Apostoli, la seconda generazione dei credenti vedrà fiorire posizioni –anche se minoritarie ma con un certo peso nel tessuto ecclesiale- che rigetteranno esplicitamente la resurrezione corporea di Gesù Cristo o la intenderanno in un senso morale o allegorico o spirituale, esasperando l’aspetto della partecipazione mistica da parte dei fedeli a questo presunto evento. Posizioni che saranno alla base del pensiero docetico e gnostico, oggetto della letteratura apologistica successiva a quella neotestamentaria.

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Paolo di Tarso giunge a Corinto e viene ospitato da un giudeo convertito al Cristianesimo, ma proveniente da Roma a seguito di un editto di espulsione emanato dall’imperatore Claudio ( siamo intorno al 50 ) : Aquila. Non solo i due connazionali sono accomunati dalla medesima fede, ma professano il mestiere di fabbricanti di tende ( At. 18, 1-3 ).
L’ Apostolo attende tempi migliori per riprendere l’attività missionaria, soprattutto dopo l’arrivo, nella capitale dell’Acaia, dei suoi discepoli Sila e Timoteo ( At. 18,4 ).
Corinto é una città commerciale e marittima opulenta, situata sull’istmo omonimo che la fa, in un certo senso, da crocevia tra l’Oriente e Roma che, dal 146 prima E.V., la domina direttamente, insediandovi un proconsole di nomina senatoriale (all’epoca del soggiorno paolino é Gallione, probabile fratello del filosofo latino Seneca). La capitale dell’Acaia sembra possedere un volto più pragmatico che speculativo, a differenza di Atene, anche se non vi é assente una classe intellettuale che si diletta di filosofìa e di retorica.
Per il povero Paolo il quadro non si presenta però, di primo acchìto, lusinghiero. Incontra, per la prima volta, una cittadinanza profondamente idolatra e, per di più, dedita al culto di Afrodite, il cui tempio sull’Acrocorinto ospita più di mille prostitute sacre denominate ‘ierodule’, permettendo in tal modo il fiorente malcostume sessuale. “Vivere alla maniera dei Corinzi” significa adottare uno stile di vita disordinato.
A Corinto c’é una cospicua colonia giudaica. Questo dato facilita la predicazione dell’Apostolo che si impegna nella spiegazione delle Sacre Scritture, in giorno di sabato, nelle sinagoghe, cercando di dimostrare che Gesù é il Messìa annunciato dai Profeti e risorto ( At. 18, 5-8 ).
Paolo subisce dai suoi connazionali incomprensioni ed opposizioni anche irriducibili, fino all’ostracismo e alla minaccia alla propria incolumità personale :
“Ma poiché essi gli si opponevano e bestemmiavano, scuotendosi le vesti, disse: ‘Il vostro sangue ricada sul vostro capo: io sono innocente; da ora in poi io andrò dai pagani” ( At. 18,6 )
Non tutti i Giudei, però, si oppongono al messaggio di Cristo. L’arcisinagogo Crispo si converte alla Buona Novella ( At. 18, 8 ).
Fortuna vuole che la religione ebraica abbia fatto, da tempo, sia proseliti che timorati di Dio ( come Tizio Giusto, At. 18,7 ) anche in questa città. E costoro saranno, per Paolo, il trampolino di lancio per l’attività di conversione dei pagani propriamente detti.
N.B. Il nome di Tizio Giusto é latino. I Corinzi del I secolo non sono tutti greci puri da un punto di vista razziale.
All’indomani dell’occupazione romana nel II secolo prima E.V., molti veterani andarono a colonizzare i territori di questo centro marittimo e commerciale, fondendosi con la popolazione locale, “grecizzandosi”. Questo dato ci dice perché molti abitanti della Grecia e dell’Asia Minore portarono nomi latini.
Il successo dell’attività missionaria a Corinto non si spiegherebbe senza il concorso di miracoli, di carismi eccezionali e di mozioni interiori, ma questo discorso esula dalla ricerca storico-critica :
“E una notte in visione il Signore disse a Paolo : ‘Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te, e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città’ ” ( At. 18,9 )
La difesa del Signore nei confronti del suo inviato non manca in una grave circostanza. A causa di una sollevazione giudaica contro l’Apostolo di Tarso, aizzata da un capo della sinagoga di nome Sòstene, il proconsole Gallione fa cessare questa gazzarra, tutelando Paolo e gli altri fedeli ( At. 18,12–17 ).
Paolo rimane a Corinto un anno e mezzo ( At. 18,11 ), coadiuvato da Sila e Timoteo, ma anche da altri predicatori. Dopo di che si imbarca, con Aquila e Priscilla, per Efeso, la città ionica per eccellenza, dove soggiornerà nel terzo viaggio missionario ( più o meno dal 54 al 57 E.V. ).
La comunità cristiana di Corinto cresce numericamente. Un amico di Aquila di nome Apollo, un giudeo di Alessandria, anche lui convertito al Vangelo, versato nelle Sacre Scritture, si impegna con altri predicatori nell’attività catechetica ( At. 18, 24 – 28 ).
Ma, dopo tre anni -e il nostro Paolo si trova ad Efeso- la Chiesa di Corinto comincia a manifestare tensioni e problematiche al suo interno………
Che cos’é dunque successo ?
Diversi predicatori –che si alternano l’uno all’altro- confermano nella fede i neoconvertiti, lavorando su un campo già arato dall’Apostolo delle Genti. Ovviamente, chi ammette il soprannaturalismo sa o almeno ha l’intuizione che in questa comunità agisce lo Spirito Santo con i suoi specifici doni o ‘carismi’, tra i quali il ‘discernimento degli spiriti’, la profezìa’, l’esorcismo e, perfino, alcuni doni preternaturali come la ‘glossolalìa’ ( la disposizione a parlare lingue diverse e a farsi intendere in quelle stesse lingue ).
La consapevolezza della straordinarietà di tali esperienze, da parte dei neofiti, induce molti di essi a sostenere di far parte già del mondo escatologico e delle realtà ultime, svalutando quello che é un loro diretto impegno nella storia, l’esercizio della carità e delle altre virtù, l’osservanza delle principali norme etiche, l’aiuto fraterno verso i sofferenti e i più svantaggiati che, invece, vengono spinti all’emarginazione.
Paolo capisce la drammaticità del momento che si prospetta male in questa chiesa.
Questo ‘enthousiasmos’ non va per niente bene. C’é il rischio di confondere il culto cristiano con i tanti culti misterici disseminati in Grecia e nell’Oriente ellenistico, alimentando lo spirito settario e un più marcato e deciso individualismo nei rapporti tra gruppo e gruppo, tra fratello e fratello. Rafforza queste preoccupazioni dell’Apostolo di Tarso la presenza di alcune correnti che mirano a compromettere l’unità del tessuto ecclesiale. Partiti che si richiamano all’autorità di questo o di quell’apostolo, di questo o di quest’altro predicatore o, addirittura, alla stessa persona di Cristo, o alla vanagloria religiosa o intellettuale ostentata da qualcuno dei missionari.
I ‘carismi’ sono qualità e disposizioni funzionali ad edificare una comunità e non vanno privilegiati come forze superiori di cui si debba disporre per esercitare una egemonia o condizionare l’immaginazione e la debole mente degli altri. Tanto meno vanno intesi come “esplosioni di esaltazione comuni ai misteri di Dioniso” (1). Paolo affronta questo problema nel capitolo 14 della sua Prima Lettera ai Corinzi.
Il fatto stesso di sentirsi dei ‘predestinati’, in forza di questi doni, invece di alimentare la ‘carità’ e la ‘umiltà’, corrobora in alcuni credenti l’orgoglio di esseri superiori, dimenticando la lotta da intraprendere contro il male che si annida nel cuore di ciascuno e che corrode il tessuto della vita civile.
Considerandosi partecipi di un contesto santo e glorioso, essi ritengono ormai superflue e superate le disposizioni etiche, valide solo per i più deboli e gli imperfetti. Si fa avanti, pericolosamente, quella tendenza che, nei secoli futuri, darà luogo al quietismo con la sua dottrina eterodossa dell’impeccabilità delle anime mistiche.
Per cui se possiedo questi carismi e sono soggetto ad estasi incontrollate, é segno che sono benvoluto da Dio che “agisce” in me. Inutile, quindi, che io padroneggi le passioni.
Con la conseguenza della licenziosità sessuale che tanto preoccupa Paolo, soprattutto in una città come Corinto dove il vizio diviene non solo un principio regolativo del proprio agire, ma una vera e propria “struttura” sociale.
E’ illuminante il capitolo 10 sempre della Prima Lettera ai Corinti al riguardo.
Per Paolo il ‘peccato’ é ‘andare contro la propria coscienza’, ‘andare contro le proprie convinzioni’. Non ha importanza se si tratta di una coscienza retta o erronea.
Può peccare quel mio fratello debole che ritiene una grave colpa morale cibarsi delle carni offerte agli idoli dietro il mio esempio.
Io, invece, che so che gli déi non esistono, ho il giusto convincimento che adeguarsi a quel tipo di alimento non costituisce nessuna contaminazione. Ma se, per colpa mia ( e in questo commetto uno scandalo ), induco un fratello debole ad andare contro il suo errato convincimento, anch’io commetto un peccato grave contro la carità. Ne segue la logica conclusione che non mangerò carne in eterno, in pubblico, se con quest’atto rovinerò la salute spirituale di un’anima per la quale Cristo é morto ( 1 Cor. 8, 1-13 ).
Come si può dedurre dalla lettura del capitolo sulle carni immolate agli idoli, la disposizione a peccare appartiene sia ai ‘deboli’ che ai ‘perfetti’.
Le divisioni tra fedeli e tra partiti ( anche nelle assemblee liturgiche ), la mancanza di correzione fraterna, l’indulgenza verso il malcostume sessuale ( si cfr., per esempio, la tolleranza verso l’incestuoso citata in 1 Cor. 5, 1-13 ), la vanagloria o il compiacimento della propria santità, sono indici di egoismo. Non solo pregiudicano finora il lavoro svolto dall’Apostolo, ma corroborano una falsa percezione della salvezza cristiana.
Le realtà escatologiche sono ancora da venire e occorre impegnarsi sulla via del bene perché queste si possano attualizzare.

Le tematiche della sapienza umana e della Sapienza divina ( 1Cor. 1,18 – 3, 1-4 )
La ‘fede’ é indispensabile all’attuazione del processo salvifico. Tutti sono chiamati alla fede, senza distinzione di razza, di ceto e di sesso. La ‘fede’ ( in greco ‘pistis’ ) é un principio attivo di trasformazione del credente ed é alternativa alla ‘conoscenza razionale’, in greco ‘gnosis’, nell’attingimento della verità suprema e della giustificazione. La prima é superiore alla seconda per il suo carattere di ‘dono divino’ e per la concessione di detto dono a tutti gli uomini di buona volontà.
Beninteso, non si afferma ancora lo ‘gnosticismo’ come movimento eterodosso di opinione in seno alla Chiesa primitiva, nelle sue plurime espressioni. Come fenomeno tale movimento appare già nel II secolo. Tuttavìa, i suoi presupposti già si avvertono nel modo come alcuni credenti recepiscono il rapporto tra fede e conoscenza e nella propensione ad attribuire alla resurrezione di Cristo solo un significato morale e allegorico :
“Se Cristo non é risorto, é vana la vostra fede, siete ancora nei vostri peccati; perciò anche quelli che si sono addormentati in Cristo sono perduti. Se durante questa vita solamente abbiamo sperato in Cristo, noi siamo i più infelici di tutti gli uomini” ( 1Cor. 15, 17-19 ).
Paolo fa appello ai miracoli che hanno accompagnato la sua missione e alla testimonianza oggettiva, oltre che degli Undici ( cioé senza Giuda Iscariota ), di numerosi discepoli ( “più di cinquecento fratelli” ) in Palestina e ancora viventi (1Cor. 15, 2-7), che hanno visto e ascoltato il Signore risorto.
Questa ‘fede’ predispone il credente ad una ‘sapienza’ che é stata nascosta in Dio e avvolta nel ‘mistero’ ( 1 Cor. 2,7 ). Il termine greco che l’Apostolo delle Genti utilizza é ‘sophìa’, corrispettivo del latino ‘sapientia’. Con questa parola Paolo non designa una scienza di tipo intellettuale oggetto di predilezione dei Greci, ma una conoscenza profonda e “gustosa” ( “sapere” e “sapore” sono convertibili ) dei misteri di Dio che coinvolge l’essere umano anche nei suoi aspetti emozionali e pragmatici. E’ evidente che Paolo richiama la letteratura sapienziale dell’A.T. ( i Salmi in primo luogo ). Attraverso la ‘fede’ viene comunicata da Dio la ‘sapienza’ con una pedagogìa progressiva. Il cristiano é un pò come un infante che deve crescere e maturare. Il suo é un cammino che tende alla perfezione.
Pertanto, il messaggio evangelico non può mai essere ridotto alla stregua di una dottrina esoterica valida solo per gli iniziati. In Paolo é presente, tuttavia, lo schema del rapporto di implicazione dialettica ‘psichici-spirituali’ ( che può anche diventare opposizione ) che sarà perno delle correnti dualistiche successive. Questo schema, tra l’altro, non é ignorato dalla letteratura religiosa giudaica del suo tempo e viene applicato dall’Apostolo non solo per opporre il ‘Vangelo’ al ‘secolo’ ( o ‘mondo’, categoria tipicamente giovannea ), ma anche per designare i credenti stessi in relazione alla pienezza o meno della fede ricevuta :
“Tra i ‘perfetti’ annunciamo ( anche ) una sapienza : ma non la sapienza di questo mondo, né dei principi di questo mondo che vengono distrutti, bensì annunciamo la sapienza di Dio avvolta nel ‘mistero’, che é stata nascosta, che Iddio predestinò prima dei secoli per la nostra gloria e che nessuno dei principi di questo mondo ha conosciuto : se infatti l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Ma come é stato scritto : ‘quelle cose che occhio non vide e orecchio non udì e in cuore non salirono giammai, queste ha preparato Iddio per quelli che l’amano’” ( 1Cor. 2,6-9 ).
Depositari di questa sapienza non sono coloro che si sono distinti nel linguaggio ornato o nelle massime elucubrazioni del raziocinio umano e, tanto meno, i detentori di un potere politico o culturale o socioeconomico, essendo realtà effimere e transitorie.
“Dove mai il sapiente ? Dove il dotto ? Dove il dialettico di questo secolo ? Non ha forse Iddio reso stolta la sapienza del mondo ?” ( 1 Cor. 1, 20 ). Sono tante le scuole filosofiche che non riescono a rispondere in modo incontrovertibile e definitivo alle domande angoscianti dell’uomo, in primo luogo quelle concernenti le realtà della sofferenza e della morte. Dov’é l’investigatore di questo secolo ? Coloro che hanno inteso scoprire i fondamenti del kosmos si sono contraddetti l’un l’altro.
Ma Dio presenta un’altra ‘sapienza’ alternativa a chi vuole dire l’ultima parola su tutto il creato.
Paolo associa all’espressione ‘Sapienza divina’ il termine ‘mysterion’ che, in greco, designa una ‘realtà nascosta’ in Dio e che corrisponde al ‘mistero di Cristo’, al ‘mistero di Cristo crocifisso’.
La ‘logica della Croce’ é, dunque, la ‘logica del paradosso’, tanto di una perfetta coesistenza di contrari, quanto del rovesciamento di una cosa nel suo opposto. La Divina Maestà viene esaltata, nel Logos incarnato, proprio attraverso l’umiliazione della Vittima offerta, e questo contrasto non può essere facilmente assimilato dalle sole facoltà naturali seppur disciplinate. Solo i ‘perfetti’ nella fede possono “gustare” le infinite ricchezze racchiuse nel ‘mysterium crucis’.
Del resto, Paolo é convinto dell’inadeguatezza dei discorsi umani e delle categorie concettuali ad intendere quelle che sono le verità di fede. Quindi, la ‘scienza teologica’ non va confusa con la ‘sapienza divina’, pur avendo la sua legittimità teorica, in quanto é pur sempre un sapere razionale umano, parziale e limitato, pur essendo illuminato dalla fede.
Lo Spirito Santo aiuta ad aprire non soltanto la mente del fedele, ma anche il ‘cuore’ a quanto Cristo gli ha rivelato, onde permettere una penetrazione interiore del dato evangelico che lo renda forza operante. Ma lo Spirito Santo si serve dell’Apostolo come di colui che si lascia ammaestrare e, con l’illuminazione, riesce a trovare le parole giuste per presentare agli ‘spirituali’ (non agli psichici) il suo messaggio di salvezza, “agli spirituali adattando cose spirituali” ( 1 Cor. 2,13 ). All’uomo psichico -che ritiene la ragione il metro di tutte le cose- si distingue, fino ad opporsi, ‘l’uomo spirituale’, colui che si dispone a pensare e ad agire sotto la mozione dello Spirito Santo.
Se sussiste opposizione tra due categorie di uomini (e, perché no, anche tra due categorie di credenti), ciò non vuol dire, per forza, che debba esserci un’opposizione di principio tra la ‘psiché’ e il ‘pneuma’. Non é che nella mente del ‘perfetto’ venga eliminato, o quanto meno sostituito, l’aspetto psichico dell’uomo : anzi esso viene informato e potenziato dallo Spirito Santo. I grandi studiosi della mistica cristiana hanno insegnato le vie della purificazione dei sensi e dell’intelletto, e su come le facoltà e le potenze mentali devono essere padroneggiate lungo la strada della perfezione cristiana.
E’ pur vero che tra l’uomo psichico e quello spirituale non può darsi proporzione recettiva, in quanto l’inferiore non può scrutare le cose che appartengono ad un ordine superiore e, pertanto, non può comprenderle. Lo spirituale può discernere le cose che gli appartengono e può giudicare l’inferiore (1). Ma può conoscere, solo per ‘rivelazione’, il ‘disegno di salvezza’, finendo per conformarsi al Figlio di Dio. Chi crede con pienezza, ha la possibilità di concepire e di giudicare tutto con la ‘mente di Cristo’ ( il noùs ). “Per conto nostro, noi abbiamo la ‘mente di Cristo’ ” ( 1 Cor. 2,16 )
Ma finché ci si rimane ancora contrassegnati dall’egoismo e dalla volontà di appropriazione, ci si lascia condizionare da una logica carnale dura ad essere superata. Quindi, comunicare a degli immaturi una sapienza elevata é come offrire un cibo solido a dei lattanti ( 1 Cor. 3,1–4 ).

Il tema della ‘resurrezione dei morti’ ( 1 Cor. 15, 1- 58 )
Paolo scrive ai cristiani di Tessalonica ( siamo più o meno intorno al 51 E.V. ), esponendo una escatologia imperniata sul ritorno del Signore Gesù, ma che non va avvertito come imminente, pur raccomandando nei neofiti la perseveranza nella fede e nell’operosità. Questa chiesa non presenta alcuna difficoltà ad assimilare il duplice dato rivelato della Resurrezione corporea di Cristo e di tutti gli uomini nel momento finale della loro storia.
Invece, la comunità di Corinto, proprio su questo articolo di fede, manifesta le sue perplessità.
Paolo deve intervenire per ribadire la storicità e le modalità dell’evento della Resurrezione.
E’ probabile che alcuni neoconvertiti siano indotti ad interpretare questa credenza biblica solo in un senso mistico e figurativo. Non si riesce ad accettare, fino in fondo, una ‘resurrezione dei morti’ nell’ultimo giorno stabilito da Dio :
“Ora, se di Cristo si predica che é risorto dai morti, come mai alcuni fra voi dicono che non c’é la resurrezione dei morti ? Che se la resurrezione dei morti non c’é, neppure Cristo é risorto. Se poi Cristo non é risorto, é dunque vana la nostra predicazione ed é vana anche la vostra fede. Anzi siamo trovati perfino falsi testimoni di Dio, poiché per Iddio testimoniammo che risuscitò Cristo, che egli invece non risuscitò, se davvero i morti non risorgono” ( 1Cor. 15, 12-15 ).
Indubbiamente, in queste persone é forte il pessimismo circa la materia e radicata la convinzione che il corpo sia la prigione dell’anima. Pur ammettendo l’immortalità di quest’ultima come gli Orfici, i Pitagorici e i Platonici, che senso avrebbe tornare di nuovo a vivere con il proprio corpo ? Del resto, é così diffuso nella mentalità ellenica il preconcetto secondo il quale meglio sarebbe non essere mai nati e cercare di morire al più presto, soprattutto quando si é giovani.
L’Apostolo di Tarso si impegna per sostenere, al riguardo, un inedito principio teologico. Se Cristo non é risorto, vana é la nostra predicazione e vana la vostra fede ! ( 1 Cor. 15,14 ). Che senso ha parlare della resurrezione dell’uomo Gesù e negare, nel contempo stesso, quella futura di tutti gli altri uomini ? Il Nostro svolge il proprio ragionamento in due direzioni : a ) ribadire la certezza e la veridicità della resurrezione corporea di Gesù, per poi sottolineare questa come il fondamento teologico e storico di quella futura di tutti gli uomini; b) esporre l’argomento della “reductio ad absurdum”.
Da un lato egli fa appello non solo alla testimonianza personale di un incontro diretto ed immediato con il Risorto sulla via di Damasco :
“….ultimo tra tutti apparve anche a me, come a un abortivo” ( 1Cor. 15, 8 ).
Che é poi una cristofanìa posteriore rispetto alle apparizioni di cui hanno beneficiato gli Undici, compreso Cefa ( 1Cor. 15,5 ). Addirittura il Risorto è apparso “in una volta sola, a più di cinquecento fratelli” ( 1 Cor. 15,6 ), molti dei quali vivono ancora in Palestina all’epoca della stesura delle due Lettere ai Corinzi, potendo essere interrogati circa questo evento della Resurrezione. Tutti soggetti che –a differenza di Paolo- hanno conosciuto e frequentato Gesù durante la sua vita terrena.
A ben leggere la Prima Lettera ai Corinti e riflettere proprio su questa tematica, il Nostro non tanto si sofferma sulla Resurrezione di Cristo, considerandola come premessa storica di quella futura di tutti gli uomini nell’ultimo giorno. L’Apostolo non sembra argomentare dal fatto storico obiettivo, ma intende partire dall’ipotesi della non-resurrezione dei corpi, per dichiarare assurda la posizione di chi ritiene che Cristo sia risorto dai morti. Ipotesi che si scontrerà, però, con un dato storicamente accertato.
Paolo crede, tuttavia, nella forza logica stringente di un ragionamento indimostrato ( come quello formulato in 1 Cor. 15, 13-15 ) e la oppone ai negatori dei suoi articoli di fede. Ed é tanto convinto della validità di questa argomentazione da non sottovalutare il potenziale tragico e distruttivo delle sue conseguenze sul piano morale ed esistenziale :
Se non si dà la resurrezione dei morti, allora Cristo non é risorto. E se non é risorto, allora vane sono la nostra predicazione e la vostra fede. Voi rimanete nei vostri peccati. E i vostri cari estinti che sono morti nel nome di Cristo sono perduti.
Questo ragionamento indimostrato di Paolo, la “reductio ad absurdum”, parte da un’ipotesi di fondo che non é una certezza di tipo matematico. Il rapporto che sussiste tra il conseguente e l’antecedente non solo é di connessione, ma risulta valido e corretto.
Se non si dà la resurrezione dei corpi, neppure Cristo é risorto ( se “non p”, dunque “non q” ). E se Cristo non é risorto da morte, sono vane la nostra predicazione e la vostra fede ( ma “non q”, dunque “non r” ).
Si tratta di un’argomentazione condotta in via ipotetica ( “se….ma….dunque” ) e per giunta attraverso la negazione.
Ma sappiamo che Cristo é risorto. Il contrario del conseguente conclude il contrario dell’antecedente : Cristo é risorto, dunque tutti gli uomini risorgeranno ( se “p”, dunque “q” ).
Questa ri-conversione del ragionamento si regge sulla fede nella “buona novella” della resurrezione corporea di Cristo, attestata dagli Apostoli e da numerosi testimoni oculari.
Se non ci fosse il dato della Resurrezione, il Cristianesimo crollerebbe totalmente. Non varrebbe a salvarlo neanche la riflessione sull’ipotesi dell’immortalità dell’anima, portata avanti da S. Giovanni Crisostomo (3) nel suo commento alla Prima Lettera ai Corinzi :
“Ma che dici, Paolo ? Come speriamo solo in questa vita se i corpi non risorgono, quando resta l’anima immortale ?”.
Ma l’autorevole Padre della Chiesa ignora la constatazione secondo la quale, all’epoca dell’Apostolo dei Gentili, non tutti i Greci ripongono fede in questa credenza ( come, per l’appunto, i filosofi materialisti ), per cui quella nell’immortalità dell’anima rimane una fredda ipotesi che non riesce ad alimentare una speranza in una felice vita ultraterrena. Ha ragione Mons. Cipriani quando sostiene che non si può, al di fuori del Cristo, fondare la speranza sull’esercizio di una qualche virtù o su una presunta “tranquillità della propria coscienza” (4). Gli Stoici, inoltre, considerano la virtù come il bene supremo da ricercare in questa vita terrena, ma non tale da garantire una felicità oltremondana. Senza la Resurrezione di Gesù non c’é né redenzione né riscatto.
Cristo é risorto dalla morte, dunque tutti beneficeranno della Resurrezione, in forza della legge della nostra assimilazione e solidarietà con il Figlio di Dio. Come Adamo ha accomunato tutti i suoi discendenti in un destino di disobbedienza e di morte, così Cristo assimilerà, nel suo trionfo immortale, tutti coloro che sono uniti a lui nell’amore.
Una prima aporia esegetica la si riscontra nell’uso che fa Paolo del termine greco “tò télos”, cioè la ‘fine’.
Occorre capire se l’Apostolo intende la resurrezione corporea in senso universale o solo per alcuni :
“Come infatti in Adamo tutti muoiono, così anche in Cristo tutti saranno vivificati. Ciascuno però nel suo ordine : primizia Cristo; poi coloro che sono di Cristo, al momento della sua Parusìa; quindi la fine, allorquando egli consegnerà il regno al Dio e Padre,…” ( 1 Cor. 15, 22-24 ).
Qualche interprete antico e moderno ( come Teodoreto di Ciro oppure Lietzmann, Loisy e Schweitzer ) ha pensato che, con “fine”, Paolo abbia inteso il “resto dell’umanità”, alludendo ad una terza classe di risorti, cioé gli empi oppure i giusti che hanno ignorato il Vangelo. Come osserva lo stesso Mons. Cipriani, una tale interpretazione si regge su una giustificazione filologica assai debole, dal momento che il termine “télos” ricorre nel discorso escatologico di Gesù riportato dai Sinottici ( Mt. 24,6.13-14; Mt. 28,30; Lc. 21,9; ecc. ) con il significato di cessazione del secolo presente (5).
Non sembrano esserci dubbi sul carattere universale della resurrezione dei morti, dal momento che l’Apostolo stabilisce un’analogìa tra Cristo e Adamo pur con i loro diversi destini. Tutti muoiono in Adamo e tutti saranno vivificati in Cristo, anche se il punto di vista di Paolo sembra rispecchiare solo la condizione dei salvati.
Inoltre, se non si può fondare al di fuori di Cristo alcuna speranza di sopravvivenza ultraterrena, allora appare “ragionevole” la preoccupazione di darsi ai piaceri della carne, e l’Apostolo riporta una citazione di Is. 22,41 :
“Se i morti non risorgono, ‘mangiamo e beviamo : domani infatti moriremo’” ( 1 Cor. 15, 32 ).
Quella che fa il non-redento é un’affermazione grossolana, ma abbastanza plausibile. E addirittura vincente. E Paolo non si contrappone ad essa con l’argomentazione del filosofo che sostiene l’immortalità dell’anima. Per il pio israelita l’individuo umano é un tutt’uno, é un’unità psicofisica che vive o che muore. Che senso ha, per lui, un girovagare dell’anima indipendentemente dal corpo ? Pur nell’ipotesi che sopravvivesse, la sua condizione sarebbe talmente infelice tanto nello Sheol biblico, quanto nei Campi Elisi o nella valle tartarea della religione ellenica, da non essere auspicata proprio per niente. Allora apparirebbe più desiderabile, per quanto ripugnante, una vita superficiale, inoperosa e licenziosa.
Come pure : che senso potrebbe avere la ricerca della virtù per se stessa, come vorrebbero gli Stoici ? Indipendentemente dalla nostra salvezza e dall’amore per Dio ?
Contro coloro che negano la resurrezione dei morti, Paolo offre ai credenti un ammonimento per metterli in guardia contro un contesto che sembra avvelenare, con i suoi preconcetti filosofici oppure con un marcato senso edonistico della vita dei più, la purezza della loro fede assimilata dall’Apostolo. E lo fa menzionando un detto che il drammaturgo Menandro ( 342 – 291 prima dell’E.V. ) riporta nella sua commedia ‘Taide’ :
“Le conversazioni cattive corrompono i buoni costumi” ( 1 Cor. 15, 33 ).
Altre due citazioni desunte dalla cultura greca ( come At. 17,28 che si riferisce ad un detto del poeta Arato di Soli, e Tito 1, 10-11 che registra un verso del filosofo Enesidemo di Cnosso ) non devono, però, indurci a pensare ad una probabile educazione classica dell’Apostolo delle Genti. Piuttosto, vanno intese come “modi di dire” a guisa di proverbio ricorrenti sulla bocca di tutti. Paolo si trova, infatti, a vivere in un mondo ellenistico originariamente non suo e, certamente, recepisce schemi mentali, concetti, luoghi comuni propri di questo ambiente.
L’ammonimento si conclude con queste parole :
“Risvegliatevi dalla crapula come conviene e non vogliate peccare. Taluni, infatti, hanno ignoranza di Dio; ve lo dico per vostra confusione” ( 1 Cor. 15, 34 )
Scrivendo da Efeso, la patria di Eraclito, é probabile che Paolo abbia conosciuto anche il suo pensiero, oltre la sua vita. E il termine “risvegliatevi” -che egli usa per correggere i cristiani di Corinto- così familiare all’Oscuro che criticava costumi e consuetudini dei suoi concittadini, squalificati come “dormienti” in quanto “schiavi dell’opinione dei più”. Il termine ‘crapula’ é metaforico, per cui con esso l’Apostolo non intende tanto i piaceri della tavola, quanto piuttosto l’ottenebramento della mente nell’errore e, conseguentemente, nel peccato.
Tuttavia, tra i neoconvertiti corinzi, non ci sono solo coloro che negano la resurrezione dei morti, ma anche altri che l’accettano, interpretandola però in modo difforme dalla tradizione apostolica. Questo loro insegnamento offre lo spunto a Paolo per un intervento rettificatore. La Resurrezione di Cristo e di tutti gli uomini potrebbe essere intesa anche in un senso figurato o allegorico, o semplicemente morale. E pensare che mancano ancora quarant’anni circa alla comparsa di quella che sarà la dottrina docetica che tanto avrà successo nell’ambito della Chiesa primitiva, contro la quale saranno impegnate, vittoriosamente, le migliori energie dei Padri Apologisti per confutarla e vincerla.
E se gli Apostoli, invece di una visione obiettiva del loro Maestro risorto, avessero avuto una consapevolezza superiore della loro partecipazione al mistero della morte di Cristo e da questa si fossero illusi su un ritorno alla vita di Gesù ? Del resto, la tomba vuota rimane pur sempre un mistero.
Risulta chiaro che a Paolo non basta confutare una tale opinione protognostica con il richiamo all’obiettività e veracità delle cristofanìe “post-resurrectionem”, ma cerca anche di illustrare le modalità di un evento così miracoloso ed eccezionale.
Come avviene la resurrezione corporea ?
E’ pacifico che non risorge il corpo di prima destinato alla corruzione. Non si ha una ricostituzione di organi, di ossa, di giunture, di arti, ecc…..Pur tuttavia l’identità personale rimane la stessa nel corpo mortale e in quello risorto. Per rendere ragionevole un mistero tanto solenne quanto profondo, Paolo si serve di analogìe in relazione all’esperienza quotidiana. Alcune sono attinte dal mondo vegetale.
E’ chiaro che il seme deve morire per produrre o il frumento o il frutto o l’albero. Vale a dire : deve subire delle trasformazioni. Il frumento o l’albero, però, non sono estranei rispetto al seme, dal quale sono derivati.
Altre analogìe sono desunte dalla costituzione fisiologica dei corpi animali. “Non ogni carne é la stessa carne” ( 1Cor. 15, 39 ), in proporzione, qualità e quantità.
Ora, se la Sapienza divina é talmente onnipotente da suscitare una variabilità di forme così insolite e diverse, tanto più sarà in grado di operare una trasformazione da un corpo destinato alla morte ad uno incorruttibile e vivificato, senza che questo passaggio possa compromettere la stessa individualità, soggetto dell’uno e dell’altro corpo.
Che senso avrebbe tornare ad assumere lo stesso corpo animale di prima, cretaceo come lo chiama l’Apostolo ? Tra l’altro perituro e destinato alla sofferenza, alla fatica, alla vecchiaia e alla morte ? La resurrezione dei morti non é e non sarà una semplice rianimazione. Che Gesù, nel suo ministero pubblico, e alcuni Profeti come Elìa ed Eliseo, nella storia millenaria di Israele, abbiano operato casi di rianimazione ( e, quindi, di ritorno alla vita peritura ) -anche a distanza di giorni- é risaputo.
Ma la Resurrezione di Cristo e di tutti gli uomini nell’ultimo giorno é ben altra cosa !
Teniamo conto anche dell’antropologìa biblica di cui Paolo é debitore. L’uomo può essere considerato secondo tre accezioni in relazione alla sua corporeità : anima vivente ( nefésh ), spirito incarnato (ruàh), carne decaduta e finita (basàr).
“Si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale. Se c’é un corpo animale, c’é anche ( un corpo ) spirituale. Così anche é scritto : ‘Il primo uomo, Adamo, diventò anima vivente’ ( Gn. 2,7 ), l’ultimo Adamo ( diventò ) Spirito vivificante. Però il primo non é lo spirituale, ma ciò che é animale; dopo ( viene ) lo spirituale. Il primo uomo é dalla terra, fatto di creta; il secondo uomo é dal cielo. Quale il cretaceo, tali anche i cretacei; e quale il celeste, tali anche i celesti. E come portammo l’immagine del cretaceo, porteremo pure l’immagine del celeste”. ( 1Cor. 15, 44 – 49 ).
Questa trasformazione –che si accompagnerà alla Resurrezione- provvederà ad arricchire il nuovo corpo vivificato di qualità e di doti che lo renderanno diverso rispetto al corpo animale o psichico, pur appartenuto al medesimo soggetto. Si muore nella debolezza, ma si risorge nella forza ( giovanile, possiamo aggiungere noi ). Poi – vale per i redenti- si semina nell’ignominia ma si risorge nella gloria.
Questa riflessione motiva il comandamento di fuggire la fornicazione. Il nostro corpo vivificato assumerà lo splendore di Dio, perché sarà animato dallo Spirito Santo che perfezionerà anche le doti dello psichico e asseconderà tutte le aspirazioni definitive dell’uomo caduco.
Fuggire la fornicazione e l’egoismo significa tracciare anche una linea di condotta per il credente, “presentandogli un ideale di perfettibilità indefinita” (6)
“Stolto che sei !” ( 1 Cor. 15,36 ) : dice Paolo riferendosi a chi ironizza su “un’apparente grossolanità” della predicazione apostolica sul dato della resurrezione dei morti. Quindi, nessuna ricostituzione organica e fisiologica del corpo perituro. Con qual corpo i defunti ritorneranno apparirebbe una questione oziosa, non degna di uno spirito avveduto.
Eppure, a ben riflettere, anche i Greci ( come, al contrario, i popoli semitici, gli Egiziani con il loro mito di Osiride, i Persiani con gli insegnamenti di Zoroastro, ecc. ) potevano giungere ad una minima percezione di questo mistero, proprio ragionando su queste analogìe prese in prestito dalla natura. Con grande meraviglia di Paolo, alcune correnti hanno postulato l’immortalità dell’anima, altre l’hanno decisamente negata, ma nessuna ha espresso dubbi su una vittoria definitiva della morte.
“Se c’é un corpo animale, c’é anche ( un corpo ) spirituale. Così anche é scritto : ‘Il primo uomo, Adamo, diventò anima vivente’ ( Gn. 2,7 ), l’ultimo Adamo (diventò) Spirito vivificante. Però il primo non é lo spirituale, ma ciò che é animale; dopo ( viene ) lo spirituale” ( 1Cor. 15, 44-46 ).
Paolo asserisce l’incontrovertibilità del passaggio da un corpo animale ad un corpo spirituale ( “però il primo non é lo spirituale, ma ciò che é animale; dopo viene lo spirituale ), da un corpo animato dalla ‘psiché zosan’ ad un corpo penetrato dallo ‘Spirito di Dio’, denominato ‘pnéuma’, che in esso agisce mediante il ‘noùs’ ( la mente ), soprannaturalmente elevato e potenziato (7).
La 1 Cor.15, 44-46 può facilmente sconfessare la successiva dottrina docetica, secondo la quale Cristo avrebbe assunto un corpo apparente e in realtà non sarebbe morto sulla croce. Non regge neppure l’esegesi di Joachim Jeremias, al riguardo, che finisce per ravvisare in Cristo un eone celeste o una specie di uomo primordiale che sta all’inizio e preesiste all’uomo terrestre. Paolo ha parlato chiaro : il primo Adamo diventò anima vivente, l’ultimo Adamo diventò Spirito vivificante. E quel ‘diventare’ dice tutto. La glorificazione é un processo ontologico che viene dopo e all’ultimo stadio della storia umana. Ciò non toglie che tale processo si realizza in un senso morale e religioso già in questa vita, mediante la ‘grazia’.
“Ecco che io vi annunzio un mistero : tutti, certo, non ci addormenteremo, ma tutti saremo trasformati in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba : suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati” ( 1 Cor. 15, 51-52 ).
Paolo ci induce a pensare che il mistero secondo il quale non tutti moriremo l’abbia ricevuto in forza di una rivelazione che non é contenuta nella tradizione apostolica, denominata ‘paradosis’.
Eppure il Nostro é convinto di quanto asserisce, non nascondendo un vivo desiderio di voler essere in carne ed ossa presente a questa seconda venuta di Cristo
Del resto, anche il Credo Niceno-Costantinopolitano –che recitiamo durante la Messa e le solennità liturgiche- riporta questa citazione : “siede alla destra del Padre e di nuovo verrà a giudicare i vivi e i morti”. Quasi a riferire che la Parusìa avverrà quando sarà vivente l’ultima generazione umana.
Non si può nascondere un senso di disagio di fronte a questa rivelazione, poiché tutti hanno peccato, tutti discendono da Adamo, anche Cristo è morto, tutti devono morire senza alcuna eccezione.
Mons. Cipriani parla di “quattro lezioni differenti” del versetto 51 (8). La prima é quella già menzionata, rappresentata da antichissimi codici e versioni come la siriana, la copto-saidica, la gotica ed accettata da moltissimi Padri della Chiesa, nonché da Tertulliano e da S. Girolamo. C’é la seconda che riporta il versetto in questo modo : “tutti ci addormenteremo, ma non tutti saremo trasformati” ( lezione dei codici SCFG, 17, della versione armena, di alcuni codici della Vetus latina secondo la testimonianza di S. Girolamo ). La terza cita il versetto : “tutti non ci addormenteremo, ma non tutti saremo trasformati (il solo codice A). Poi c’é la quarta : “tutti risorgeremo, ma non tutti saremo trasformati” ( codice D, moltissimi Padri latini e la Vulgata ).
Le ultime tre lezioni non sono più antiche della prima, risultano essere criticamente insostenibili, pur cercando di correggere la prima. Come la seconda che vuole ammettere la morte di tutti gli uomini precedente la resurrezione universale. La seconda, la terza e la quarta mirano ad escludere gli empi dal processo miracoloso di trasformazione in corpi incorrotti.
Paolo non ritiene imminente la seconda venuta di Cristo. Non possiede la certezza né di essere vivo né di essere morto all’indomani del Grande Evento. Insomma, tutti noi -vivi o morti- saremo trasformati o trasfigurati in corpi spirituali. In lui non assume neanche grande importanza se sussisterà una generazione ancora vivente o meno al momento della Parusìa.
Va subito al nocciolo della questione : tutti saremo trasformati in forza di un atto divino, repentino ed immediato. Questa portentoso miracolo sarà accompagnato da una solenne e spettacolare manifestazione di Dio, dove la “tromba” assume la qualità di un elemento descrittivo dal sapore apocalittico già nell’A.T. per narrare le epifanie di Jahveh.

NOTE SUL SITO

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Israelites crossing the Red Sea

 Israelites crossing the Red Sea  dans immagini sacre

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NON ASPIRATE ALLE COSE ALTE, MA LASCIATEVI ATTRARRE DALLE UMILI -ROMANI 12:16 b –

http://www.ilritorno.it/studi_bibl/419_non_aspirate_c-alte.htm

NON ASPIRATE ALLE COSE ALTE, MA LASCIATEVI ATTRARRE DALLE UMILI -ROMANI 12:16 b –

(di Renzo Ronca) -

RIFLESSIONI DETTAGLIATE SULLE ESORTAZIONI DELL’APOSTOLO PAOLO IN ROMANI 12:9-21 . N.16

Questa frase che prendiamo adesso: “non aspirate alle cose alte, ma lasciatevi attrarre dalle umili” dice esattamente il contrario di quello che ci viene insegnato oggi.
Pensate ai vari slogan pubblicitari e alla mentalità dei paesi più consumistici: non c’è un punto in cui non si raccomandi di pensare in grande, di cercare di essere il n.1, il migliore, di arrivare alle vette della politica, del commercio, dell’arte, dello sport… Non esiste nessuno che ti dica: “non cercare il successo nel mondo”.
Persino in molte chiese la ricerca degli incarichi di prestigio è motivata dalla vanità. Un servitore umile non cercherebbe infatti incarichi di prestigio (se no sarebbe un servitore di se stesso).
Si tratta allora di essere cristianamente anticonformisti, di andare contro corrente, contro l’andamento di questo sistema. Cosa per niente facile: “Non conformatevi a questo mondo.. dico quindi a ciascuno di voi che non abbia di sé un concetto più alto di quello che deve avere…” (da Rom 12:2-3)
Abbiamo due azioni da tenere presente:
La prima azione è un divieto: “non aspirate alle cose alte”. E questa bene o male si può capire e magari, almeno per obbedienza, si può cercare di metterla in pratica;
La seconda azione invece è una indicazione particolare: “lasciatevi attrarre dalle umili” e, se non ci soffermiamo, si comprende solo superficialmente: non dice infatti “siate umili”, ma “lasciatevi attrarre dalle umili”.
FARE cose umili indica solo un comportamento oggettivo, non il contenuto di un cuore umile e cambiato; teoricamente uno potrebbe fare azioni che agli occhi degli altri potrebbero sembrare umili, pure avendo, ad esempio, un animo orgoglioso. I farisei gli scribi i sacerdoti al tempo di Gesù erano così.(1)
Quel “lasciatevi attrarre…” suggerisce un ammorbidimento interiore, un togliere la scorza dura dell’io, confidando non in se stessi ma in Lui-Dio… allentare certe difese, permettere di essere raggiunti dentro al cuore…
Si ma da cosa? Come può l’umiltà attrarre veramente?
Pensiamo a Gesù: com’era Gesù? Forse da Lui possiamo arrivarci:
« Imparate da me che sono mite ed umile di cuore  » (Mat 11:29)
L’umiltà di Gesù. Non si tratta di comportamenti remissivi striscianti e patetici, ma di un Dio che per amore-umiltà si è incarnato, cioè ha preso un corpo umano, condividendo in tutto, dalla nascita alla morte, la vita nostra. E’ questa la sublime umiltà.
Dunque possiamo dire che Gesù in questo è il massimo dell’umiltà: Egli che era il massimo nel cielo è sceso per diventare il minimo, il più piccolo e disprezzato tra noi.
Ma anche capito questo, resta la frase: “lasciatevi attrarre dalle umili”: Gesù è umile, è il nostro Maestro, ma noi come possiamo farci attrarre dalle cose umili se queste non ci attraggono per niente? Volenti o nolenti nell’uomo rimane sempre l’istinto di primeggiare. E allora?
In effetti quel “fare posto all’attrazione dell’umiltà” di cui parla l’apostolo non si ottiene con un semplice comando della nostra volontà, nono solo almeno, ma soprattutto con un processo di maturazione della fede. Vediamolo da vicino:
“e [Dio] faccia sì che Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, perché, radicati e fondati nell’amore, 18 siate resi capaci di abbracciare con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo 19 e di conoscere questo amore che sorpassa ogni conoscenza, affinché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”. (Efesini 3:17-19)
Abbiamo visto che Gesù è modello di mitezza ed umiltà.
Ora dobbiamo fare in modo che Gesù “abiti” nel nostro cuore. E come si fa se non con la preghiera?
La preghiera è una richiesta al Padre nel nome di Gesù Cristo stesso, che noi oggi possiamo fare, sicuri di essere ascoltati, per i meriti che Gesù si è conquistato in croce. La stessa frase di Efesini che abbiamo preso “non aspirate alle cose alte, ma lasciatevi attrarre dalle umili”, nasce da una preghiera dell’apostolo per i suoi fratelli di fede: “Per questo motivo piego le ginocchia davanti al Padre, 15 dal quale ogni famiglia nei cieli e sulla terra prende nome, 16 affinché egli vi dia, secondo le ricchezze della sua gloria, di essere potentemente fortificati, mediante lo Spirito suo, nell’uomo interiore, 17 e faccia sì che Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, (Efesini 3:14-17)
Dunque Dio, se lo preghiamo, ci dà la possibilità di far ”abitare” Gesù nei nostri cuori. “e [Dio] faccia sì che Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori “ E’ importante che non vi passi soltanto, ma vi ABITI. Abitare, restare a viverci stabilmente. Questo “abitare” di Gesù nel nostro cuore (ottenuto per la preghiera fatta con fede), permette al nostro cuore di avere il Cristo come base per ogni pensiero. Praticamente il cuore ha le radici nell’essenza di Cristo che è appunto l’amore “perché, radicati e fondati nell’amore..”
Questa base di Cristo che risiede nel cuore fa fruttificare il cuore, cioè lo fa sviluppare e crescere e rinnovare secondo la Sua essenza d’amore mitezza umiltà e sapienza. Una espansione verso l’infinità delle grandezze di Dio: “..siate resi capaci di abbracciare con tutti i santi [vale a dire con tutta la Chiesa dei credenti] .. quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo..” Larghezza altezza, lunghezza, profondità.. l’apostolo è come se dicesse “quale siano le dimensioni infinite dell’amore di Cristo”. Essere capaci non solo di abbracciarlo (abitando Gesù dentro al ns cuore è come se il cuore lo abbracciasse), ma anche di conoscerlo; che sarebbe impossibile per l’uomo da solo se non avesse Gesù stesso a rendersi “compatibile” con lui: “..e di conoscere questo amore che sorpassa ogni conoscenza,..” Poterlo conoscere è una possibilità della nostra mente e della nostra coscienza che si può ottenere solo per un miracolo che permette Dio per mezzo della preghiera in nome del Cristo. Solo in questo modo, rinnovati nel cuore e nella mente, potremo essere “ ricolmi di tutta la pienezza di Dio”.
Avendo dunque questa pienezza spirituale del Signore in noi, come possiamo non essere attratti dal Signore Gesù stesso che tutti attira a sé? (Giov 12:32)
E siccome Gesù come abbiamo detto prima è “mite ed umile di cuore », come non potremo essere attratti dall’umiltà?
Come vedete ecco che in questo modo possiamo lasciarci attrarre dalle cose umili.
Tutto questo ci fa riflettere: l’uomo che NON ha conosciuto il Signore quindi, non potrà mai capire e tanto meno essere attratto dalle cose umili.
E’ per questo che nel mondo si predica solo il successo personale, il farsi valere il diventare il migliore: perché non si conosce Dio.
Per poter invece essere attratti dalle cose umili (ripeto non si tratta di un’attrazione intellettuale, ma di una attrazione vera, come cosa desiderata veramente) occorre una sapienza che non è del mondo ma ha superato e vinto il mondo stesso, cioè la presenza del Risorto nel nostro cuore, il quale ha riversato su noi, col suo sangue, tutto l’amore del Padre: “Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3:16). Il massimo esempio di amore ed umiltà. E’ l’umiltà dunque che esprime la grandezza di Dio. Se Dio è in noi è questa grandezza dell’umiltà per amore che ci attirerà.
Concludendo possiamo capire che in fondo essere attratti dalle cose umili non è troppo difficile, perché se rileggete quanto detto sopra ricorderete che tutto nasce dalla preghiera. Piegare le ginocchia davanti al Padre è così difficile?

NOTE
(1) “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché pagate la decima della menta, dell’aneto e del comino, e trascurate le cose più importanti della legge: il giudizio, la misericordia, e la fede. Queste sono le cose che bisognava fare, senza tralasciare le altre. 24 Guide cieche, che filtrate il moscerino e inghiottite il cammello. 25 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, mentre dentro sono pieni di rapina e d’intemperanza. 26 Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere e del piatto, affinché anche l’esterno diventi pulito. 27 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché siete simili a sepolcri imbiancati, che appaiono belli di fuori, ma dentro sono pieni d’ossa di morti e d’ogni immondizia.” (Matt 23:23-27)

Publié dans:Lettera ai Romani |on 15 avril, 2015 |Pas de commentaires »

ROMANO PENNA RILEGGE LA TEOLOGIA PAOLINA

http://www.fattipiuinla.it/Scout/Documenti%20vari/San%20Paolo_La%20teologia%20paolina%20-%20Romano%20Penna.doc.

ROMANO PENNA RILEGGE LA TEOLOGIA PAOLINA

ROMA, giovedì, 4 giugno 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito l’intervista al prof. Romano Penna apparsa sul dodicesimo numero di Paulus (giugno 2009), dedicato al tema “Paolo il teologo”.
Anche una volta concluso l’Anno paolino, la rivista continuerà nel suo servizio di approfondimento biblico, culturale e pastorale, aprendosi all’Anno sacerdotale in prospettiva paolina.

* * *

di Paolo Pegoraro

«Una parola ha detto Dio, due ne ho udite» (Sal 61,12): viene alla mente questo versetto guardando alla storia dell’esegesi e all’inarrestabile fiorire di studi e pubblicazioni attorno alla Bibbia. Basti pensare ai sedici capitoli della Lettera ai Romani e al monumentale commento – tre volumi, per oltre 1.200 pagine – che gli ha dedicato Romano Penna: il più completo e disponibile nella nostra lingua e tra i più ampi mai realizzati. Ed è a lui che ci rivolgiamo per uno sguardo d’insieme sulla teologia paolina.
Professore, possiamo parlare di un “vangelo secondo Paolo”?
«Almeno un paio di volte nelle Lettere di Paolo constatiamo che egli parla di un suo proprio vangelo, ma ciò avviene in contesti argomentativi piuttosto circoscritti, i quali non spiegano in che cosa mai esso consista. Non è quindi su questo sintagma che bisogna insistere per conoscere la tipicità del suo annuncio. Molto più significative sono semmai altre locuzioni, che troviamo là dove egli accenna a “il vangelo che vi ho annunciato” (Gal 1,11), “il vangelo che proclamo” (Gal 2,1), “il nostro vangelo” (2Cor 4,3; 1Ts 1,5), per non dire dei passi dove l’Apostolo offre addirittura una definizione formale del vangelo stesso (cfr. Rm 1,16-17; 1Cor 1,18-25) o lo presenta come una necessità a cui non può sottrarsi (cfr. 1Cor 9,16.23). Qui i contesti sono molto più istruttivi, poiché ci illuminano più da vicino su quale sia il suo contenuto. In ogni caso, è dall’insieme delle Lettere che possiamo cogliere quale sia, non tanto la formula specifica della predicazione di Paolo, come se bastasse una semplice battuta per qualificarla, bensì l’intera sua ermeneutica evangelica, che è complessa e articolata. Una cosa è certa: egli si staglia sullo sfondo del cristianesimo delle origini per le sicure note di originalità».
Dove si forma la teologia paolina?
«La teologia di Paolo non è spuntata come un fungo all’interno del cristianesimo delle origini, né è rimasta confinata in uno splendido isolamento. Da una parte, infatti, i debiti di Paolo nei confronti della Chiesa primitiva sono innegabili. Dall’altra, Paolo ebbe già in vita tutta una serie di collaboratori che condivisero il suo pensiero, prima che la sua sorte apostolica. E originò poi una successiva tradizione teologica attestata sia dalle sei cosiddette lettere deuteropaoline, sia da alcuni autori posteriori, come Ignazio di Antiochia, Giustino, Ireneo di Lione».
E rispetto al giudaismo, dove si colloca la sua riflessione sulla fede?
«Paolo non rinnegò la sua matrice giudaica. Certo non si professa mai “cristiano”, anche perché il termine è sicuramente posteriore. E non solo si dichiara “stirpe di Abramo” (2Cor 11,22), ma giunge persino ad augurarsi di essere “anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne” (Rm 9,3). Egli perciò avrebbe sicuramente continuato a definirsi un “Giudeo”, anche se un giudeo “in Cristo”. Resta il fatto che Paolo fu a sua volta incompreso e fortemente contrastato. Ciò si verificò già da parte degli ebrei di fede giudaica, da cui fu ripetutamente flagellato e in vari luoghi fu variamente oggetto di violenza. Ma l’opposizione fu messa in atto sorprendentemente anche da quegli ebrei, che per aver aderito a Gesù Cristo condividevano la stessa fede cristiana, sostenendo però un’altra ermeneutica dell’evangelo. È il complesso problema storico e teologico del cosiddetto “giudeo-cristianesimo”».
Qual è, allora, la sorgente e il cuore della teologia paolina?
«Mentre la tesi luterana classica sostiene la centralità della giustificazione per fede (R. Bultmann, E. Käsemann, H. Hübner), altri all’interno dello stesso protestantesimo puntano piuttosto sulla decisività dell’unione mistica con Cristo (W. Wrede, A. Schweitzer, E.P. Sanders). Altri ancora sottolineano il valore della teologia della croce (U. Wilckens, J. Becker) o la dimensione apocalittica della rivelazione di Dio in Cristo (J.C. Beker) o la costante tensione verso orizzonti universalistici (K. Stendahl, F. Watson, J.D.G. Dunn). Alcuni, infine, evidenziano Cristo stesso come fattore oggettivo e scatenante di tutta la teologia del Paolo cristiano (L. Cerfaux, R. Schnackenburg). Quest’ultima scelta merita la nostra attenzione, poiché per Paolo è appunto la scoperta della figura di Cristo e della sua valenza soteriologica a costituire la causa, l’origine, la fonte del suo sfaccettato discorso sulla fede, sulla giustificazione, sulla partecipazione mistica, sull’evento croce-risurrezione, e sulla destinazione universale dell’evangelo».
Avrebbe quindi ragione chi vuole Paolo fondatore del cristianesimo, trasformatore del Gesù storico nel Cristo Redentore della fede?
«Questa posizione cozza inevitabilmente contro due fatti inoppugnabili. Il primo: già prima di san Paolo Gesù veniva confessato come “morto per i nostri peccati” (1Cor 15,3). Secondo: egli non definisce mai Gesù né come Redentore né come Salvatore, mentre la formulazione astratta e d’impronta cultuale circa la morte “per i peccati” acquista in Paolo un accento personalistico con la dizione “per tutti, per voi, per noi, per me, per gli empi”. L’Apostolo condivide con il cristianesimo primitivo, a lui anteriore, la fede scandalosa di definire Messia (Christòs) e persino Signore (Kyrios) non un sovrano potente e glorioso, ma un oscuro galileo miserevolmente condannato all’ignominia della croce, la cui gloria in termini paradossali si ritiene che gli provenga soltanto dal fatto di avere dato la vita per gli altri e di essere stato, proprio “per questo motivo” – così nell’inno pre-paolino di Fil 2,9 – inopinatamente risuscitato dai morti da Dio stesso. Di suo, in più, Paolo ritiene che questo Gesù, il Cristo e il Signore, sia l’iniziatore di una nuova stagione della storia e di una nuova identità antropologica dalle ricadute universalistiche. Una figura non paragonabile a un re come Davide né a un profeta come Isaia o a un grande legislatore come Mosè, bensì soltanto a chi è anteriore a tutti costoro e per di più non appartenente al popolo storico d’Israele, cioè ad Adamo, progenitore dell’intera umanità (cfr. 1Cor 15,21-22.45-47; Rm 5,12-21). Sicché, con il Cristo ha luogo nell’uomo credente una “nuova creazione” (2Cor 5,17; Gal 6,15). Certamente Paolo non ha un’idea gnostica di Gesù, quasi fosse un rivelatore angelico che non ha nulla da spartire con questo mondo caduco e con i chiaroscuri della storia. Al contrario, egli sa bene che Gesù è discendente di Abramo (cfr. Gal 3,16), poiché è precisamente il popolo israelitico ad avere prodotto “il Cristo secondo la carne” (Rm 9,4)».
Il nuovo Adamo, Gesù, amplia gli orizzonti sull’intero creato. Quali conseguenze ha l’universalismo del giudeo Paolo?
«A lui interessa ogni uomo come tale, a prescindere da qualunque distinzione o, peggio, contrapposizione culturale e religiosa. Lo confessa ai Romani: “Io sono in debito tanto verso i Greci quanto verso i Barbari, tanto verso i sapienti quanto verso gli ignoranti” (1,14). Anzi, se ha una preferenza, essa è per i Gentili, cioè per coloro che erano tradizionalmente tagliati fuori dalla tipica coscienza di Israele circa la propria elezione distintiva. Agli occhi di Paolo, potremmo dire che il Cristo rappresenta il superamento della disuguaglianza tra Giudei e Gentili: non nel senso della eliminazione della peculiarità di Israele, ma nel senso di una equiparazione dei secondi con i primi. Tutta l’attività missionaria di Paolo consistette proprio in questo: nell’eliminare la distanza che separava i Gentili dai Giudei, ritenuti comunque il popolo dell’alleanza con Dio, al fine di includervi anche gli “altri” lontani. Secondo lui, l’uomo può ormai essere ritenuto “giusto” – cioè santo – agli occhi di Dio, non più in base a ciò che l’uomo stesso possa fare di moralmente giusto in conformità alla legge, ma in base alla semplice accettazione per fede di quell’evento di morte e risurrezione in quanto valido per tutti gli uomini e per ogni singolo individuo. E se la legge mosaica non è più il criterio distintivo della rivelazione di Dio e dell’identità religiosa dell’uomo, allora l’accesso a Dio – al Dio d’Israele! – non è più riservato ai Giudei, ma è aperto anche a tutti i Gentili. Così quella di Paolo diventa una battaglia in favore dell’inclusivismo».
Con Israele, oltre Israele? Due atteggiamenti apparentemente inconciliabili…
«È il paradosso fondamentale del suo pensiero. Da un lato, san Paolo continua a considerarsi personalmente parte di Israele. Dall’altro, egli ritiene che sia ormai Cristo e non più la Torah a configurare la nuova comunità degli eletti di Dio. In questo egli si distingue da altri settori del cristianesimo primitivo, la cui parte maggiore, soprattutto a Gerusalemme, riteneva che Cristo e la Torah fossero mutuamente compatibili. Egli invece considerò i due poli sostanzialmente in antitesi e perciò inconciliabili. Il fatto che, nonostante tutto, egli non sia venuto meno alle proprie convinzioni, non solo denota la forza dell’impatto che la figura di Gesù Cristo esercitò sul suo animo (cfr. Gal 1,8), ma rappresentò la conferma che era iniziata una nuova ermeneutica dell’annuncio cristiano».
Tipicamente paolina è anche l’ecclesiologia, cioè il modo d’intendere la comunità credente.
«Essa è una conseguenza dell’originalità della posizione di Paolo in materia di cristologia e di soteriologia. I credenti non vengono mai chiamati da Paolo né discepoli né cristiani, ma soltanto “fratelli” (112 volte nelle sue Lettere autentiche) o semmai “santi” (25 volte). Sono due appellativi che mettono in rilievo rispettivamente la dimensione familiare della nuova comunità (rapporti interni) e quella sacrale della sua distinzione dal mondo (rapporti con l’esterno). Una dimensione che non è solo di sociologia religiosa, ma ancor più di ontologia personale. Proprio il concetto di santità, infatti, contraddistingue il cristiano rispetto a ogni altra concezione di tipo morale. Ed è sempre sorprendente notare che, scrivendo ai Corinzi e nonostante che essi secondo i nostri canoni non fossero davvero degli “stinchi di santi” – vedi le loro divisioni, la pratica della prostituzione, le irregolarità matrimoniali, i conflitti tra coscienze forti e deboli, le tensioni fra carismi –, Paolo li denomina comunque “santi per chiamata” (lCor 1,2; 6,11) o semplicemente “santi” (2Cor 1,1). Il motivo è che i battezzati non si dànno da soli la propria santità, costruendola con i propri sforzi morali, ma sono dei “santificati” (1Cor 1,2) per grazia di Dio: essi, cioè, sono dei giustificati, dei perdonati, dei redenti, dei riscattati, dei liberati, dei riconciliati… per un puro dono divino. È solo su questa base che si comprendono le esortazioni anche insistenti alla santità o comunque le sollecitazioni a una vita moralmente pura: esse tendono a impegnare i destinatari non a “farsi santi”, ma a mantenere un livello di irreprensibilità morale che sia consono e omogeneo a quella dimensione di santità già presente in loro per pura grazia di Dio».
Un altro tratto peculiare della teologia paolina è l’escatologia, cioè l’attesa della fine del mondo con il ritorno di Cristo.
«Quest’attesa unisce tutte le Lettere autentiche di Paolo: dalla prima (1Ts 4,15) fino all’ultima (Rm 13,11). D’altra parte, al contrario dell’escatologia giudaica che era ed è esclusivamente orientata
verso il futuro, quella cristiana sostiene sorprendentemente il paradosso che l’éschaton è già cominciato. Nelle Lettere paoline è chiaro che i due momenti dell’“essere con Cristo”, sia subito dopo la morte (Fil 1,21) sia alla fine dei tempi (1Ts 4,17), coesistono senza alcun contrasto».
Dunque quest’attesa del ritorno imminente del Signore non è mai venuta meno in Paolo? Non c’è stata una “rinuncia” alla parusìa?
«La tesi di uno slittamento di prospettiva, cioè di una sempre più acuta ellenizzazione secondo le vecchie teorie di A. Loisy e di A. von Harnack, si scontra con la testimonianza opposta di molti testi letterari. Infatti, si può constatare che l’interesse per l’escatologia futuristica e persino per il linguaggio apocalittico, almeno in alcuni settori della Chiesa, è ancor più alto dopo Paolo. Lo provano con sufficiente chiarezza l’Apocalisse di Giovanni, le Lettere di Pietro e di Giuda, e le successive apocalissi apocrife cristiane. Persino la postpaolina Lettera di Giacomo sa che “la parusìa del Signore è ormai vicina” (Gc 5,8). Il fenomeno è parallelo alla ripresa dell’apocalittica in campo giudaico tra la fine del I e l’inizio del II secolo, come testimoniano gli apocrifi 4Esdra, 2Baruc o l’Apocalisse di Abramo. Quindi il giudizio su di un cambiamento d’interesse dovrebbe essere comunque, molto più circospetto di quanto spesso avviene».

The Apostles Peter and Paul, detail of cupola fresco by Correggio

The Apostles Peter and Paul, detail of cupola fresco by Correggio dans IMMAGINI (DI SAN PAOLO, DEI VIAGGI, ALTRE SUL TEMA) Correggio_-_The_Apostles_Peter_and_Paul%2C_detail_of_cupola_fresco_-_WGA05317

http://en.wikipedia.org/wiki/Saint_Peter

GERUSALEMME: STORIA, MISTERO E PROFEZIA – Card. Carlo Maria Martini

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/TERRASANTA/gerusalemmestoriamisteroprofezia.htm

GERUSALEMME : STORIA , MISTERO E PROFEZIA

Card. Carlo Maria Martini

A Gerusalemme salgono le moltitudini del Signore
C’è una domanda preliminare: come si può parlare di Gerusalemme? « Gerusalemme, » per citare Chateaubriand nell’Itinerario da Parigi a Gerusalemme, « il cui nome evoca tanti misteri, colpisce l’immaginazione, sembra che tutto debba essere straordinario, in questa straordinaria città »?
Credo che una prima premessa sia questa: non si può parlare di Gerusalemme senza amarla. Amarla di quell’amore con cui l’ha amata Davide, nell’interpretazione moderna di Carlo Coccioli, che gli fa dire:
 » Ah! se avevo amato Gerusalemme, se l’avevo amata contemplandola dall’esterno, ne impazzii letteralmente, pazzia d’amore, valutando dall’interno la sua bellezza indescrivibile. Certo non vi era al mondo altrettanto desiderabile città, eco inebriante di una dimensione spirituale dello spazio, dove il cielo si chinava sulla terra e la sposava. Come non invidiare Sion, l’incomparabile? ».
Oppure, per esprimersi con la parola di un midrash: « Dieci porzioni di bellezza sono state accordate al mondo dal Creatore, e Gerusalemme ne ha ricevute nove. Dieci porzioni di scienza sono state accordate al mondo dal Creatore, e Gerusalemme ne ha ricevute nove. Dieci porzioni di sofferenza sono state accordate al mondo dal Creatore e Gerusalemme ne ha ricevute nove ».
Tra le domande che qualificano l’esistenza storica e problematica di ogni uomo e donna del nostro tempo, insieme ad altre domande drammatiche che riguardano la guerra, l’amore, il perdono, la fame e via dicendo, c’è certamente, anche questa domanda: tu, che dici di Gerusalemme? In che rapporto ti senti con Gerusalemme?
Il « dossier » gerosolimitano è immenso: biblico, rabbinico, filosofico, teologico, letterario. Da David a Dante Alighieri a Hegel ai nostri giorni: è un dossier senza fine.
Vorrei fare una presentazione quasi in stile rapsodico, attraverso una trama di citazioni. Indicare piste, domande, luoghi di ricerca, temi possibili di approfondimento, per rispondere alla domanda fondamentale: tu, che dici di Gerusalemme? Cerchiamo di ordinare la tematica attorno alle tre linee indicate: Gerusalemme, storia, mistero e profezia, anche se, evidentemente. non è possibile una divisione rigida di questi tre momenti.

LA STORIA
Sotto questa tematica intendiamo tutto ciò che costituisce la storia viva della città. Una storia carica di significati, una storia caratteristica, unica al mondo.
I luoghi della presenza
È interessante notare come, anche a livello archeologico, la ricerca si concentri oggi su due poli: l’identificazione delle mura, con la loro complessa storia e le diverse successioni dei recinti politici della città, e il luogo del tempio. Una ricerca condotta secondo moduli spaziali, secondo i recinti della presenza politica, del popolo, cioè le mura, e della presenza religiosa, di Jahvè, cioè il tempio. E già qui siamo di fronte a una di quelle dualità, o bipolarità, che emergono da tanti aspetti della storia di Gerusalemme, e che potrebbero essere visualizzate con un riferimento biblico: « Tu mi vuoi edificare una casa, io edificherò a te un casato » (2Sam 7, 5.11). Alla casa spaziale si contrappone il casato dinastico, temporale. Heschel direbbe:  » Al tempio Dio preferisce il tempo » in cui anche l’uomo abita con lui. Questa linea di dualità, in cui il tempo viene poi qualificato moralmente come impegno per la giustizia, è la linea che riappare di frequente nel kerygma (annuncio) profetico con la tensione tra culto e obbedienza. « Obbedire è meglio del sacrificio » (1Sam 15, 22); « Detesto i sacrifici fatti nel tempio; ricercate la giustizia » (Is 1, 11.17; cfr. Mic 6,7-8; Os 6,6; Sal 50): il sacrificio richiesto è quello del cuore, anche se alla fine riappaiono i sacrifici e le mura ricostruite.
Questa dialettica è continuamente presente nella storia della città. n primato temporale, esistenziale, la presenza di Dio con l’uomo e l’uomo che cammina con Dio nella giustizia e nella santità, non elide ma illumina la presenza spaziale, quella per cui la gloria di Dio si manifesta nel tempio e abita dentro le mura della città. Fondamentale si potrebbe ritenere, al proposito, la riflessione fatta da Salomone: « Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ti ho costruita! ». Ma poco prima Salomone dice: « Il Signore ha deciso di abitare sulla nube. lo ti ho costruita una casa potente, un luogo per la tua dimora perenne » (1Re 8,27.12-13).
Infinità, trascendenza di Dio, immanenza gerosolimitana di Dio.
I rapporti tra i due aspetti si chiariranno nel Nuovo Testamento, ma senza giungere mai, almeno nello spazio temporale dell’esperienza umana, a elidersi a vicenda. Da una parte Gesù accetta il tempio, nella sua funzione di « casa di preghiera » (Mc 11, 11; 15, 17), dall’altra ne prevede la fine (Mc 13).
Anche Paolo (At 21, 26; 24, 6.12.18; 26, 21), anche la comunità primitiva (At 2,46 e 3, 1) frequentano il tempio; ma è in esso che più tardi Paolo sarà catturato, e da questo momento in poi sembra che negli Atti degli Apostoli il tempio sia ormai perso di vista, decaduto come luogo della presenza, o anche soltanto come luogo della preghiera: è divenuto anzi il luogo nel quale Paolo è stato proditoriamente preso. Giovanni vede nel Cristo incarnato (Gv 1, 14) la nuova tenda della Shekinah (eskenosen), in cui contempliamo la gloria del Dio Emmanuele (Emmanuele, uno dei nomi di Gerusalemme, ora viene dato a Gesù; cfr. Mt 1,23).
La stessa idea del corpo del Cristo come tempio è ripresa in chiave pasquale (Gv 2, 19-22 e anche probabilmente Gv 19, 37, dove il lato destro può fare allusione a Zc 12, 10, all’acqua che sgorga dal lato destro del tempio), è il tempio che Marco (14, 58) definisce « non fatto da mano d’uomo ». Qui si può richiamare tutta la polemica sul tempio di At 7. n tema è anche suggerito dalla metafora della porta in Gv 10, 7-9: Gesù è la mediazione per la comunione con Dio, è il santuario in cui questa comunione si attua. Porta e tempio antichi sono ora spezzati, come il velo del tempio (Mc 15, 38) perché il Cristo, nuova via (Gv 14,6), è il centro del culto ed è superiore al tempio stesso (Mt 12,6).
Vi è quindi una nuova Gerusalemme, senza tempio. « Non vidi alcun tempio in essa; perché il Signore Dio, l’Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio » (Ap 21, 22).
A livello storico queste varie dualità si affrontano, questa bipolarità oppositiva o sintetica si esprime in vari modi nella predicazione profetica e anche nel Nuovo Testamento: da una parte la città della pace, città della giustizia e dall’altra Dio fedele, Dio presente; oppure: Dio trascendente, Dio assente e Dio giudice, Dio vendicatore, con tutte le varianti possibili di questa dualità, che segna le drammatiche vicende dei luoghi della presenza del popolo e di Jahvè.

La città contesa
Il destino di Gerusalemme come città contesa, comincia verso l’anno 1000 a.C., quando forse non contava più di duemila abitanti. La sua esistenza come capitale pacifica, pure in mezzo ad avvenimenti travagliati, dura quattrocento anni. Tutto il resto della storia è un susseguirsi di invasioni e di conquiste: egiziani, babilonesi, persiani, tolomei, seleucidi, romani, arabi, cristiani d’occidente, sultani egiziani, turchi, sino agli eventi più recenti.
È pensando a questa storia che André Chouraqui, nel suo libro Vivre pour Jerusalem ha scritto: « È Babel la mostruosa trionfatrice della storia, Babel dalle legioni devastatrici, Babel del saccheggio e delle violazioni, Babel dell’assassinio, Babel di tutte le morti. Babel trionfa in tutte le nostre polluzioni, esulta nei depositi dove si ammassano le armi atomiche, che domani devasteranno la mirabile liturgia della creazione. Ai trionfi di Babel, » egli dice, « Gerusalemme è presente incatenata, cieca, ma viva e presente. Durante tutta la sua storia Gerusalemme è la città martire, la grande crocifissa ». Tuttavia, pur attraverso queste vicende drammatiche di ogni tempo, Gerusalemme è stata, è, ed è destinata a essere la terra dell’incontro.
Continua Chouraqui: « Gerusalemme è centrale per Israele, centrale per la chiesa universale, per la casa dell’lslam e perché essa si erge all’incrocio in cui l’Asia incontra l’Africa e si volge all’Occidente ». Di qui, evidentemente, nasce la speranza che vive ciascuno di noi tutte le volte che va pellegrino a Gerusalemme, la speranza che sia proprio in questa città che possiamo riconoscere in ogni uomo il nostro fratello, così come ci fa intuire il Salmo 87 (vv. 5 e 7).
Scrive Jacquet: « Ogni nazione nella misura in cui riconoscerà la supremazia del Dio d’lsraele riceverà da lui, in virtù di un atto della sua liberalità, il suo brevetto di cittadinanza gerosolimitana. Ai suoi membri è offerta un’iscrizione sul registro dei cittadini della città. Tolta ogni barriera, essi possono d’ora innanzi considerarsi a casa loro con gli israeliti; entro le mura della città. ‘Non hospites et advenae, sed cives sanctorum et domestici Dei’ (Ef2, 19) beneficiando anch’essi delle risorse spirituali dello jahvismo (Is 12,3) ».
Alla stessa idealità di Gerusalemme, città dell’incontro, patria universale, s’ispira un loghion extracanonico di Maometto: « O Gerusalemme, terra eletta da Dio e patria dei suoi servi, è dalle tue mura che il mondo è diventato mondo. O Gerusalemme, la rugiada che cade su di te guarisce ogni male, perché essa discende dai giardini del paradiso ».
Ma ecco affacciarsi il tragico dilemma; riemerge la bipolarità storica, il dualismo: città dell’incontro o semplicemente città della coesistenza? Città in cui tante persone e situazioni si passano vicino, ma non si compenetrano?
Anche qui la realtà può avere un testimone. Davide Shahar in una conversazione racconta le sue esperienze di ragazzo nato a Gerusalemme e di uomo vissuto a Gerusalemme. Egli dice , (ed è un’esperienza che tutti abbiamo fatto): « Gerusalemme è un mondo di coesistenza, non di simbiosi. Voi siete là, per esempio, alla porta di Sichem e potete vedere, gli uni accanto agli altri, un rabbino che va a pregare al Muro, una ragazzina in minigonna che viene da un kibbutz, un musulmano sul suo asino e poi un monaco greco. Non c’è, direi, alcuna interpenetrazione. Ciascuno vive nel suo mondo; non c’è niente di comune tra il mondo del rabbino e quello del monaco greco: sono mondi differenti che coesistono, l’uno a fianco dell’altro. Questo ci dà una città di tensioni terribilmente forti. lo personalmente le sento in tutti gli ambiti della vita. Non parlo soltanto della guerra tra noi e i nostri vicini. lo sono un uomo molto pacifico e, tuttavia, sono passato per cinque guerre. Parlo anche della comunità giudaica, nella quale c’è coesistenza ma non interpenetrazione. È una tensione continua. Tensione tra i praticanti e i non praticanti; tensione tra comunità differenti. È una tensione che, vibra sempre in questa città, e che è sempre piena di guerra. Questa città unica e universale ».

IL MISTERO
Con le frasi e le domande di Shahar entriamo nel mistero di questa città. Che cosa significano tutte queste realtà storiche che verifichiamo e non possiamo negare, di cui siamo in parte i testimoni, di cui ci rallegriamo quando gli aspetti negativi sono soverchiati da quelli positivi, rattristandoci quando avviene il contrario? Che significa tutto ciò in relazione al mistero di pace, prosperità, gioia, giustizia, fraternità che Gerusalemme annunzia col suo nome?
In altre parole potremmo dirci, partendo da un punto di vista specificamente cristiano: il fatto che gli eventi decisivi della salvezza, morte e risurrezione di Gesù (e, nella visione lucana, anche la pentecoste) si siano compiuti a Gerusalemme, permette qualche conclusione sul significato teologico permanente della città, e sull’impatto che le situazioni dolorose della sua storia possono avere sulla storia del mondo?
Il Nuovo Testamento ha cercato in vari modi di penetrare questo mistero di Gerusalemme. È particolarmente ricca in proposito la visione lucana della salvezza, salvezza annunziata in Gerusalemme a Zaccaria, svelata a Gerusalemme con Gesù al tempio, consumata a Gerusalemme: « Ecco, saliamo a Gerusalemme, là si compiranno le cose dette sul figlio dell’uomo » (Lc 18,31). Irradiato da Gerusalemme (Lc 24, 47), l’evangelo comincia da Gerusalemme (At 1,8) e da Gerusalemme in avanti, verso i confini della terra. Gerusalemme è il nuovo Sinai della nuova Legge dello spirito (At 2) e, almeno per un certo tempo, la predicazione primitiva a Gerusalemme ritorna in periodici confronti (At 15 e, a suo modo, GaI 2). Tuttavia, a partire da un certo punto, si ha l’impressione che, per la chiesa antica, la missione della Gerusalemme storica si insabbi, non emerga e non perseveri se non forse in forme minori, come quella del pellegrinaggio. In fondo c’è anche oggi un costante ritorno a Gerusalemme, ed è interessante notare come l’attrattiva di questa città per il cristiano cresca. Anche il cristiano si sente di dire: « l’anno prossimo a Gerusalemme ».
E questo perché? È soltanto una moda, una nostalgia? O c’è qualcosa di più?
A questo riguardo ci si è chiesto, ancora recentemente, che significato teologico può avere la ripresa a Gerusalemme di una comunità di ebrei cristiani, circoncisi, che si dichiara erede del gruppo primitivo di Giacomo; collegata direttamente alle radici sante della nostra fede.
Tutto ciò ci fa riflettere e apre interrogativi cui non è facile dare risposta. E proprio a partire da questa misteriosa permanenza di Gerusalemme, della Gerusalemme storica e teatro degli eventi di salvezza, nasce, continuando la simbologia dell’ Antico Testamento, una lussureggiante simbologia gerosolimitana che si potrebbe definire simbologia della Gerusalemme vissuta e della Gerusalemme sognata, già presente nell’Antico Testamento e ripresa nella letteratura rabbinica e in quella cristiana.
Per brevità ci potremmo riferire a Misrahi per dare una semplice indicazione dei simboli evocati: pietra, acqua, luce, montagna, forza, gioia, sposa, elementi che sono variamente ripresi dalla letteratura successiva su Gerusalemme, dando a ciascuno di essi un significato speciale. Pietra non soltanto perché su colline rocciose, per l’architettura di sassi propria di Gerusalemme, ma anche perché « pietra » sono i tre centri della città: la pietra del Muro del Pianto, la pietra della Cupola, la pietra ribaltata del Sepolcro. È di qui che si avanza verso il simbolismo teologico della roccia, pietra del Signore, roccia e rocca. Così Gerusalemme diviene espressione della fede, della stabilità, della solidità. Come scrive un autore ebraico, il premio Nobel Shemuel Agnon, nei suoi Racconti di Gerusalemme: « Gli doleva il cuore a lasciare Gerusalemme, città santa, per uscirne, come per precipitare nella Geenna. Diceva in cuor suo: sono venuto fin qui e già me ne devo andare, mi pare di essere un uccello in volo, vola e la sua ombra lo accompagna ». Insieme col simbolismo della solidità, del luogo dove si sta al sicuro, c’è il simbolismo dell’acqua. Ecco il Salmo 56, 4-5:

Fremano, si gonfino le sue acque
tremino i monti per i suoi flutti.
Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio
la santa dimora dell’Altissimo.

Si tratta dei yeudim meshiym (giudeo-messianici), ebrei che affermano di aver trovato il messia e credono che sia proprio Jeshuah figlio di Miriam di Nazaret. Credono in lui come messia e Signore (Adon), credono nella sua resurrezione e nel suo Vangelo, ma non professano alcuna appartenenza ecclesiale ne intendono rinunciare all’ebraismo.(1)
E dall’esigente enfasi di questa ricchezza d’acqua (che non c’è in realtà a Gerusalemme) si passa alla simbologia di Jahvè, sorgente d’acqua viva in Gerusalemme. Già Filone sottolineava nel De somniis: « Qual è mai questa città dato che la città santa dove si trova il tempio è costruita lontano dal mare e dai fiumi? ». Il senso è evidentemente metaforico. Continua Filone: « In realtà l’onda del Verbo divino, fluendo con continuità, potenza e misura si spande attraverso l’universo e raggiunge ogni cosa ».
Ricordiamo anche il tema della luce, fondamentale in Isaia come quello della montagna. Gerusalemme appare non soltanto come pietra ma anche come montagna: « Il suo monte santo, altura stupenda, è la gioia di tutta la terra » (Sal 48, 3). Montagna, cime e insieme fondamento: « le sue fondamenta sono sui monti santi » (Sal 46, 3-4). Fondamento e culmine proprio in relazione col Salmo 18: « Dio, mia roccia, mia rupe, mio riparo ». Misrahi, perciò, parla addirittura di Dio come simbolo di Gerusalemme, e dice che « se Gerusalemme ha un tale irraggiamento è perché essa è simbolo di Dio. Se Dio è talmente legato a Israele, è perché egli è il simbolo di Gerusalemme ».
Un altro simbolo sfruttato è quello della « porta », « porta della speranza », che, in relazione ai temi precedenti indica una dinamica, un passaggio, una progressione, un entrare e un uscire, anche una fragilità, la fuga e l’esilio e persino la stessa trasgressione.
« Entrare in Gerusalemme, » scrive Misrahi, « è entrare nel combattimento per la giustizia, è assumere la responsabilità della lotta. »
Questa entrata avrà perciò uno sbocco, un’uscita: « da Gerusalemme uscirà la Legge ». Diversi sono gli usi che vengono fatti di queste metafore, a seconda delle situazioni; ma tutti si riferiscono alla potenzialità quasi senza fine di Gerusalemme di rappresentare i diversi aspetti del cammino dell’uomo e dell’esprimersi dell’uomo con Dio.
C’è infine la simbolica della « gioia »: « la Gerusalemme, altopiano roccioso, è ove si danza l’allegria dell’essere, il giardino del re, il giardino dell’essere. L’Eden non è a est, ma al centro, e il centro (riferendoci anche al Cantico dei Cantici e ai salmi) è la simbologia della sposa ».
La Gerusalemme del mistero, bagnata dalla presenza salvifica di Dio, assume significati che possono essere letti in tutti gli aspetti della vita e possono riferirsi a mille realtà della ricerca che Dio fa dell’uomo e del cammino dell’uomo verso Dio.

LA PROFEZIA
Cosa significa interrogarsi su Gerusalemme come profezia, cosa significa interrogarsi sull’influsso che la salvezza finale, rappresentata con immagini gerosolimitane, ha sul momento presente della salvezza e sul cammino della salvezza? Qui andrebbe evocato tutto quanto è detto nel Nuovo Testamento, nell’Apocalisse in particolare, sulla Gerusalemme nuova, sulla città che viene da Dio, la quintessenza di tutte le attese umane, la città in cui non c’è più né pianto, né lutto, dolore; il luogo della perfetta giustizia e della perfetta liberta, Il luogo nel quale si esprime la libertà dei credenti (GaI 4, 26-31). È interessante indicare, con qualche citazione, come questi temi si prolunghino, sia nella riflessione rabbinica, sia in quella cristiana.
Già la speculazione rabbinica sull’apparente duale Jerusalayim passava a riflettere sulla città duale nello spazio e nel tempo: Gerusalemme celeste, Gerusalemme terrestre; Gerusalemme di adesso, Gerusalemme di poi. E cercava di definire i vari rapporti tra le due Gerusalemme: quella di quaggiù, quella di ora; quella di lassù e quella di poi, con diverse armonie e tensioni tra il prima e il dopo. Il cammino dell’uomo non doveva essere allora una semplice ricerca del tempo perduto o un giro a vuoto su se stesso nel cerchio dell’esistenza, ma un passaggio da un prima a un poi, da un quassù a un lassù che dà significato a ogni momento dell’esistenza storica dell’uomo.
Dal punto di vista cristiano i termini sono, evidentemente, molti. Gerusalemme può essere termine del cammino, punto di arrivo, come scrive il Crisostomo commentando il Salmo 47 (48): « Teniamo nel nostro spirito la città di Gerusalemme: contempliamola senza sosta avendo sempre davanti agli occhi le sue bellezze. È la capitale del Re dei secoli, ove tutto è immutabile, ove nulla passa, ove tutte le bellezze sono incorruttibili. Contempliamola per divenire ogni giorno più affettuosi coi nostri fratelli e così ereditare il regno dei cieli ».
Quest’immagine della Gerusalemme terminale, da cui derivano numerose anticipazioni della sua vita nel cammino del popolo di Dio, è espressa variamente dalla teologia medievale.
Abbiamo la tipica triplice distinzione, secondo i tre sensi della scrittura. Sion significa specula o contemplatio, scrive Rabano Mauro, e « designa la chiesa dell’anima credente o la patria celeste. Secondo la storia designa la nazione dei giudei o Gerusalemme, secondo l’allegoria è la santa chiesa, secondo l’analogia è la patria celeste ».
Diverso è lo schema duplice che presenta Tommaso d’Aquino nel commento al Salmo 45: « Duplice è la città di Dio, l’una terrena, cioè la Gerusalemme terrestre, l’altra spirituale, cioè la Gerusalemme celeste. Per l’ Antico Testamento gli uomini erano fatti cittadini della città terrestre, per il Nuovo Testamento della città celeste ». Qui il discorso diventa più complesso e più difficile: già prima di san Tommaso, sant’ Agostino aveva tentato di adattare il discorso alla complessità della storia, dove città terrestre e città celeste si scontrano in una sorta di escatologia realizzata. Allora si affermano nomi diversi per le due città: Gerusalemme e Babilonia. E questa presentazione duale è la stessa che troviamo nel libro dell’ Apocalisse.
Sant’Agostino, nel De Civitate Dei, parlando dei Salmi delle ascensioni (i salmi dal 120 al 134) vedrà Gerusalemme come il punto terminale dell’intera esistenza dell’uomo: « Voi sapete, fratelli miei, che un cantico delle ascensioni non è che un cantico della nostra ascensione, e che questa ascensione non si fa con i nostri piedi, ma con gli slanci del cuore. Corriamo dunque, fratelli miei, corriamo. Noi andremo alla casa del Signore. Corriamo, non stanchiamoci, perché noi arriveremo là, dove non c’è più stanchezza ». E di qua, da questa attrattiva perenne che Gerusalemme esercita sull’uomo come punto di arrivo, come stimolo per il cammino, come chiave per l’interpretazione degli enigmi della storia, delle complessità delle tensioni storiche che agitano gli uomini nasce un’ultima riflessione: Gerusalemme intesa come compito o come sfida.
La domanda posta all’inizio di questa terza riflessione sulla profezia, cioè quale sia l’influsso che ha sul presente della salvezza e sul cammino dell’uomo la salvezza finale rappresentata con immagini gerosolimitane, può anche essere rovesciata. C’è una funzione della Gerusalemme storica rispetto alla Gerusalemme profetica? In che maniera il realismo della Gerusalemme storica e la sua ricchezza molteplice, misteriosa e simbolica, è vissuto nella Gerusalemme profetica che si va costruendo, nel popolo di Dio in cammino? Non potrebbe una maggiore attenzione alla Gerusalemme storica e al suo destino, alle sue ricchezze e alla sua corporeità, assicurare più vigorosamente anche al popolo di Dio una completezza e un’armonia di valori, che ne facciano davvero un corpo di Cristo immerso nella storia? Il richiamo a Gerusalemme non può essere un richiamo a un modo più completo di essere uomo e di essere chiesa?
In questo senso qualcuno ha parlato di ferite iniziali nella primitiva cristianità ancora da risanare, perché il cristianesimo ritrovi nel suo cammino nel tempo, sempre maggiormente, la ricchezza delle sue potenzialità.
E tuttavia la domanda su Gerusalemme come sfida rimane presente e drammatica, anche soltanto riferendoci alla Gerusalemme storica.
Padre Dubois che, come cittadino di Gerusalemme, vive intimamente questa realtà, questa sofferenza e questi desideri, nel suo libro Vigiles à Jerusalem si domanda: « Come situare in rapporto reciproco il valore di segno e il valore di realtà, come accordare la dimensione storica e temporale con la dimensione di eternità? Più precisamente, poi che Gerusalemme esiste e non è soltanto nei cieli, come esserci, dimorarvi, occuparla, possederla; come essere presso di essa a casa propria e contemporaneamente aprirla al mondo, a tutti gli uomini, come patria spirituale e universale? ». Riemerge allora la domanda, propria di ogni uomo: « Tu, che pensi di Gerusalemme? ».

_____________________
1. Cfr. Francesco Rossi de Gasperis, Un nuovo giudeocristianesimo e la sua possibile rilevanza ecclesiale, in Cominciando da Gerusalemme, Piemme, Milano 1997, pp. 140-183.

[Tratto da: Atti della XXVI settimana biblica, Roma, 15-19 settembre 1980, Paideia Brescia 1982]

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