Archive pour avril, 2015

SAN PAOLO LO «SLAVO», Kirill I patriarca di Mosca e di tutte le Russie

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=125853

SAN PAOLO LO «SLAVO»

Kirill I patriarca di Mosca e di tutte le Russie

Oggi l’annuncio cristiano può essere convincente solo se i cristiani lo incarnano nella propria vita. È proprio questo che ci insegna l’apostolo Paolo, quando scrive nella Lettera ai Galati: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me».

La ricorrenza quest’anno del bimillenario della nascita del santo protoapostolo Paolo spinge i cristiani di tutto il mondo a guardare con particolare venerazione all’apostolo delle genti, grazie al cui instancabile impegno missionario la fede cristiana si diffuse per tutto il mondo civilizzato di allora, l’ecumene, termine con cui si designava essenzialmente l’Impero romano.
Dopo l’incontro con Cristo Risorto lungo la via di Damasco, Saulo, zelante fariseo e persecutore dei cristiani, si trasforma in Paolo, altrettanto zelante apostolo di Cristo, pronto ad arrivare fino agli «estremi confini della terra» (At 1, 8) per annunciare la salvezza in Cristo, che Dio dona a tutto il genere umano.
In tutte le lettere di san Paolo troviamo, come un filo rosso, la convinzione del significato universale del Vangelo nel quale «non c’è più greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti» (Col 3, 11). Fin dai primi anni della propria esistenza, la Chiesa Russa ha sempre venerato nella persona dell’apostolo Paolo il suo grande maestro nella fede.
L’autore della Racconti degli anni passati, prima narrazione della storia russa, fa risalire proprio all’apostolo delle genti la fonte della fede del popolo russo: «Dai moravi venne anche l’apostolo Paolo a predicare; laggiù si trova l’Illiria, dove giunse l’apostolo Paolo; di quegli stessi slavi siamo anche noi, russi, perciò anche per noi, russi, Paolo è nostro maestro».
La predicazione dell’apostolo tra i popoli dell’ecumene ha posto le solide fondamenta dell’unità del mondo cristiano, basata non sulla forza delle armi né sull’arte politica, ma sulla comunione spirituale di coloro che professano l’unico Dio vero «con una sola bocca e un solo cuore» (Liturgia di san Giovanni Crisostomo). Questa unità in Cristo nel corso dei secoli ha aiutato i popoli dell’Europa e delle altre regioni in cui è stato predicato il cristianesimo a superare i conflitti e vivere in pace, scambiandosi i tesori dell’esperienza dell’ascetica cristiana e della santità.
Nella nostra epoca, che alcuni definiscono come « post-cristiana », assistiamo spesso a processi di portata generale o, come si dice oggi, globale. Tuttavia, la globalizzazione odierna non è suscitata da cause interne all’uomo, ma piuttosto esterne: dal progresso tecnico-scientifico, dallo sviluppo del sistema finanziario ed economico mondiale e dei moderni mezzi di comunicazione; perciò essa nella maggioranza dei casi, anziché farle avvicinare, fa scontrare le diverse civiltà, acuisce i problemi internazionali e suscita crisi mondiali di vario genere. Questi processi sono accompagnati da un estremo svuotamento spirituale e morale dell’uomo.
L’uomo dell’era postmoderna, deluso dalle più diverse ideologie e dai più vari sistemi di pensiero, con gran scetticismo chiede oggi assieme a Ponzio Pilato: «Che cos’è la verità?» (Gv 18, 38). Perciò il nostro mondo di oggi, l’ecumene, come un tempo l’Impero romano, ha bisogno dell’annuncio cristiano della fede, della speranza e dell’amore, di un annuncio che possa « dare un’anima » e conferire un senso all’unità esteriore dei popoli cristiani. In un periodo di estrema decadenza morale per l’impero romano l’apostolo Paolo, i suoi discepoli e le comunità ecclesiali da loro fondate, col lieto annuncio di Cristo seppero trasformare la società che attraversava una profonda crisi spirituale.
Ora questa responsabilità ricade su tutti coloro che credono in Cristo e che vogliono portare al mondo il suo annuncio di salvezza. Il giubileo dell’apostolo Paolo che celebriamo ci ricorda con forza il significato della sua esperienza missionaria. San Paolo accordava sempre la sua predicazione con la mentalità e gli usi di coloro ai quali si rivolgeva. «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno», scrive (1 Cor 9, 22).
Seguendo l’esempio dell’apostolo, il cristiano di oggi deve conoscere bene la realtà del mondo che lo circonda, possedere perfettamente il linguaggio di coloro a cui rivolge la propria predicazione. Ma nello stesso tempo il cristiano non deve mai immedesimarsi con « questo mondo », il suo annuncio non può conoscere compromessi quanto alla sua assoluta conformità allo spirito del Vangelo. Non bisogna inoltre dimenticare che l’uomo moderno non si fida più delle parole, per quanto belle possano essere.
Oggi l’annuncio cristiano può essere convincente solo se i cristiani lo incarnano nella propria vita. È proprio questo che ci insegna l’apostolo Paolo, quando scrive nella Lettera ai Galati: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (2, 20) e quando rivolge ai propri discepoli l’esortazione: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1 Cor 11, 1; cfr. 1 Cor 4, 16). Facendosi imitatore dell’apostolo delle genti, il cristiano è chiamato a essere una viva immagine del Signore e aiutare così il mondo moderno ad accogliere con fede e speranza la Parola di Dio.

(Testimoni della Fede) I 12 Apostoli e i 4 Evangelisti – autore: Kirill I patriarca di Mosca e di tutte le Russie

Basilica di San Marco, Venezia, la creazione

Basilica di San  Marco, Venezia, la creazione dans immagini sacre 12%20MOSAIQUE%20COUPOLE%20VENISE%20CREATION%20D

http://www.artbible.net/1T/Gen0114_4Sunmoon_stars/pages/12%20MOSAIQUE%20COUPOLE%20VENISE%20CREATION%20D.htm

Publié dans:immagini sacre |on 18 avril, 2015 |Pas de commentaires »

LA CREAZIONE GEME E SOFFRE COME NELLE DOGLIE DEL PARTO

http://mi-chael.blogspot.it/2013/11/la-creazione-geme-e-soffre-come-nelle.html

LA CREAZIONE GEME E SOFFRE COME NELLE DOGLIE DEL PARTO

19 NOVEMBRE 2013

Da alcuni anni veniamo continuamente colpiti da notizie di sconvolgimenti naturali che avvengono in diverse parti del mondo e che provocano innumerevoli vittime: terremoti, tsunami, cicloni, alluvioni, carestie e altro.
Io credo che la natura sia in sofferenza un po’ per causa nostra ma anche e soprattutto perché è come se contenesse in sé il seme della corruzione.
La morte fa parte della vita e tutti i sistemi, vitali o no, non sono eterni, sono destinati al disfacimento. Dal ‘nulla’ miracolosamente nascono, crescono, arrivano all’apice dello splendore ma poi inevitabilmente decadono, si ammalano, perdono colpi, finché muoiono tornando al ‘nulla’ originario. Così è sia per un fiore che per una Stella.
La Natura, che emerge dal caos a causa dell’intervento divino, ritorna inevitabilmente al caos da cui è nata a causa del fatto che nella materia di cui è composta è insita la corruzione, che come un germe la consuma e rode. Se essa fosse rimasta permeata dall’afflato divino, così come inizialmente era stata concepita, sarebbe durata perfetta per sempre. Ma il Male che è entrato in essa, soprattutto come ribellione, come affermazione superba di autosufficienza, ha fatto sì che essa stessa smarrisse il sostegno del creatore e alla fine fosse destinata alla morte, così come un pallone si sgonfia e raggrinzisce perché perde l’aria che lo teneva in forma.
Ma la Natura non dimentica del suo stato originario, soffre e grida perché ha una immensa nostalgia della perfezione primitiva che la rendeva partecipe della gloria di Dio, perciò a suo modo prega e spera con gemiti sempre più incontenibili che la Grazia divina faccia il suo ritorno e la vivifichi donandole la vera Vita. Per dirla con San Paolo “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Romani 8, 19-23).
E così pure, relativamente all’essere umano, la sua organizzazione sociale sembra al giorno d’oggi sempre più in disfacimento, e questo per un atto di superbia e ribellione, simile al tragico grido ‘Non serviam! Non ti servirò!’ di Lucifero, che ormai è generalizzato e ha portato alla quasi completa scomparsa della Fede e del culto che a Dio è dovuto.
Purtroppo siamo arrivati al punto, di concepire tutte le nostre strutture più per la morte che per la vita. Infatti ciò che aumenta è il soffocamento cosciente e voluto di quelle che sono le vere espressioni superiori, quelle che assicurano il nostro perfetto metabolismo, cioè quelle spirituali. Il Moderno per sua concezione è infatti ateo, relativistico e opposto ad ogni trascendenza, e alla fin fine nichilistico. Ogni eventuale moto residuo di fede o rapporto con l’assoluto viene da esso cancellato, e ciò assicura la perdita dell’orientamento e l’alienazione dell’aiuto divino che conducono la società umana verso il disfacimento finale (1).
E non si può certo accusare l’Altissimo dicendo ‘ma perché Dio ha permesso questo o quest’altro?’ quando invece si rifiuta sdegnosamente il suo aiuto. Il paradosso è che gli alfieri della ribellione per primi dicono ‘Non credo in Dio perché esiste il male’ mentre la risposta sarebbe molto semplice: ‘esiste il male perché si rifiuta Dio’.
E forse per poter risorgere si dovrà giungere alla crisi finale, ad una specie di morte mistica – verso cui d’altronde sembriamo da tempo ben avviati – e che avrà il suo culmine con l’era Anticristica, quella in cui il Mondo sarà come non mai mondo e in cui il Profano si sarà assolutizzato. Ma il Male è per sua natura distruzione, menzogna e morte, per cui il suo regno di cartapesta incollata con il sangue degli innocenti non potrà durare a lungo, anche se si dovrà prima toccare il fondo dell’abisso.
Ma proprio in quella situazione estrema, probabilmente verrà fuori un grido potente dell’anima che pur soffocata, per non morire, non dimentica della sua origine divina, imperiosamente ci farà sentire il bisogno della salvezza, e ci porterà finalmente e in maniera risolutiva ad accettare e cercare Chi la sostiene e la mantiene, Colui che è il solo che può ridarci la vera Vita, cioè il nostro Creatore.
________________________________________________________________________________
Note
(1) In questo post i paragrafi in corsivo sono frasi e concetti da me sintetizzati e tratti dal libro di Giancarlo Marinelli – Il segreto dell’angelo – Fede e apocalisse nel mondo moderno – Edizioni Segno 2002 .

Publié dans:Lettera ai Romani |on 18 avril, 2015 |Pas de commentaires »

Jesus meets the disciples after the resurrection

Jesus meets the disciples after the resurrection dans immagini sacre 46_jesus-appears-to-the-disciples-after-resurrection
http://buckygelo.blogspot.it/2012_04_01_archive.html

Publié dans:immagini sacre |on 17 avril, 2015 |Pas de commentaires »

LA TEOLOGIA DELLA RISURREZIONE IN SAN PAOLO

http://www.ccdc.it/dettaglioDocumento.asp?IdDocumento=259

LA TEOLOGIA DELLA RISURREZIONE IN SAN PAOLO

Autore: Marie-Emilie Boismard,

Intervento del 30/04/1992
Marie-Emile Boismard [1]

Nel considerare il tema della resurrezione, come è trattato nelle lettere di san Paolo, in questa sede ci si limiterà a due testi: il capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi e i capitoli 3 e 5 della Seconda Lettera ai Corinzi; vedremo che nel passaggio da uno scritto all’altro Paolo cambia radicalmente il suo modo di esprimersi a proposito di quella che, piuttosto che resurrezione, forse è meglio chiamare la nostra vittoria sulla morte. Per comprendere meglio questi testi paolini, è innanzitutto necessario considerare il problema da un punto di vista antropologico: vedere, in altri termini, come si presentavano le teorie sulla natura dell’essere umano nel mondo semitico e quindi in quello greco ed ellenistico.
L’idea di resurrezione nasce in un contesto di pensiero semitico e in tempi relativamente recenti. Ne abbiamo tracce nel capitolo dodici del Libro di Daniele e nel capitolo settimo del Secondo Libro dei Maccabei, libri composti verso la fine del secondo secolo avanti Cristo, in un tempo di persecuzione. I semiti, come anche i greci ai tempi di Omero, non facevano distinzione tra anima e corpo e, pertanto, consideravano l’uomo nella sua unità psico–somatica; per conseguenza tutta la vita psichica dell’uomo, i suoi sentimenti, il suo volere, il suo sentire, erano un’emanazione del suo essere fisico. In termini più concreti si pensava che sentimenti, volontà e pensiero derivassero o dal cuore o dai reni, secondo la concezione biblica. Pertanto alla morte, quando il corpo umano si dissolve nella terra, questo perde la sua corporeità, il suo cuore, i suoi reni, resta solo uno scheletro e si perde quindi anche la sua attività psichica. Questa idea si esprimeva in termini concreti, dicendo che l’uomo scendeva allo Sheol dove non esisteva vita, gli uomini erano là come ombre inconsistenti, senza sentimenti, senza volontà; erano spogliati di ogni personalità. L’immagine della resurrezione è una ri–creazione dell’elemento fisico dell’uomo, in particolare del suo cuore e dei reni, e questo processo è ben descritto nel capitolo trentasettesimo del Libro di Ezechiele, nel quale si trova la celebre visione delle ossa aride. La resurrezione è immaginata come rifarsi sopra queste ossa aride del corpo, della carne e della pelle, ma soprattutto del cuore e dei reni e, all’ultimo momento, lo spirito di vita viene insufflato negli esseri in modo che possano tornare ad essere viventi. Anche in questa prospettiva non bisogna immaginarsi una ri–vivificazione del cadavere che è stato sepolto nella terra, ma come del resto anche nel Libro di Daniele, una nuova creazione di tutti gli elementi che noi diciamo comporre l’essere fisico.
Il pensiero greco, in particolare quello di Platone, si pone in maniera molto differente: per il filosofo l’uomo è composto di un’anima e di un corpo e questi elementi sono a tal punto distinti che Platone immagina che le anime preesistessero prima di venire in un corpo. Per conseguenza, la nascita terrena dell’uomo è concepita come un decadimento dell’anima, la quale si trova ad essere nel corpo quasi come in una prigione; pertanto il fine dell’uomo è liberarsi dai vincoli della corporeità. Nel pensiero platonico l’uomo in realtà non muore, ma la sua anima continua a vivere anche dopo essersi staccata dal corpo; in questa prospettiva non è assolutamente il caso di parlare di resurrezione, perché ritrovare un corpo sarebbe per l’anima ritrovarsi bloccata in qualcosa che impedisce l’espressione delle sue facoltà.
Per quanto estremamente schematico, quanto detto può essere sufficiente per comprendere il pensiero di Paolo. Prendiamo ora in esame la Prima Lettera ai Corinzi al capitolo 15. In questo capitolo, e particolarmente a partire dal versetto 35, Paolo risponde all’obiezione di quanti pensano che non sia possibile la resurrezione e sviluppa la concezione semitica dell’uomo, come del resto ha fatto nella prima Lettera ai Tessalonicesi al capitolo 4. Cominciamo con il leggere il testo tenendo presente che c’è una difficoltà di interpretazione, in quanto Paolo utilizza il termine greco soma: «Qualcuno dirà come resuscitano i morti, quale soma essi avranno?». La difficoltà sta nella traduzione della parola greca soma, normalmente tradotta con il termine «corpo», ma si può dare un equivoco, perché quando sentiamo parlare di corpo in questo contesto pensiamo immediatamente con mentalità greca alla resurrezione del corpo inteso come opposto all’anima. In realtà in greco la parola soma ha un senso più vasto, un valore più ampio; in particolare poteva designare un qualunque essere, sia vivente che morto. È stato scritto molto a questo proposito: per esempio il termine soma può definire gli schiavi. Per rimanere nell’ambito biblico, leggiamo nel Secondo Libro dei Maccabei che Antioco manda un messaggio lungo la costa perché gli siano inviati dei somata, dei corpi giudei, ed evidentemente non si tratta di cadaveri. Nello stesso libro leggiamo che Gionata fece sgozzare 25 mila corpi ed evidentemente non si trattava di sgozzare corpi inanimati, ma uomini viventi. In tutti i testi che leggeremo ora non va bene tradurre il termine soma unicamente con corpo; pertanto, tra i diversi termini, preferisco utilizzare quello di «essere», senza insistere sul senso dell’esistenza, come quando si parla di esseri umani.
Per spiegare cosa intende per resurrezione, Paolo comincia con due esempi che poi spiegherà. Il primo brano si estende nei versetti 36–38 e inizia così: «Stolto! Ciò che tu semini non prende vita se prima non muore; e quello che semini non è un soma che poi verrà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere. È Dio che dà a ciascun chicco un suo proprio soma secondo la sua volontà e a ciascun seme il proprio soma». Nel testo risulta evidente che non può trattarsi di un corpo come opposto all’anima perché si sta parlando di piante, di esseri vegetali. L’idea fondamentale, che poi Paolo svilupperà, è che esiste una differenza essenziale fra il chicco che viene seminato e la pianta che ne sorgerà; sono due realtà differenti. Nel versetto 36 dice chiaramente che quello che si semina non è quel corpo che poi diventerà pianta, bensì qualcosa che deve morire, marcire e poi sarà Dio a far nascere la pianta. Paolo sottolinea che sarà Dio a dare un corpo a ciò che ormai è completamente scomparso nella terra in maniera differente secondo i vari generi di piante. In questo primo esempio viene costituita una netta differenza tra ciò che si semina e ciò che sorgerà.
Nel secondo esempio, dal versetto 40, Paolo insiste sulla differenza fra gli esseri: «Vi sono degli esseri celesti e degli esseri terrestri, altro è lo splendore dei celesti, altro lo splendore dei terrestri; altro è lo splendore del sole, altro è quello della luna e altro quello delle stelle poiché una stella differisce nello splendore da un’altra». Paolo sottolinea che tra gli esseri che ci circondano vi sono delle differenze sostanziali, in particolare quella che distingue gli esseri terrestri da quelli celesti. Dati questi due esempi, Paolo svilupperà ora quello che lui pensa circa la resurrezione dei morti. Inizia il versetto 42: «Così è la resurrezione dei morti». A conferma di quanto detto fino ad ora si noti che Paolo non parla della resurrezione dei corpi, ma di quella dei morti; in questo primo stadio usa soprattutto l’immagine della seminagione e solo in sottofondo, ma la svilupperà in seguito, l’immagine della differenza fra gli esseri. Il testo continua: «Si semina il corpo nella corruzione e risorge incorruttibile» e qui abbiamo un verbo ambiguo, che potrebbe significare tanto «si leva», «si alza» ed è l’immagine della pianta che sorge dal terreno o potrebbe significare specificatamente «risorge». «Si semina nell’ignominia e sorge nella gloria, si semina nella debolezza e sorge nella pienezza di forza, si semina un essere animale e sorge un essere pneumatico o spirituale».
Paolo spiega ora in che modo comprenda l’opposizione fra l’essere psichico e quello spirituale e si appoggia al testo di Genesi 2,7 in cui si narra della creazione dell’uomo da parte di Dio: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere dal suolo e soffiò nelle sue narici un soffio vitale e l’uomo divenne così un essere vivente.» Anche qui c’è una difficoltà di traduzione perché Paolo gioca sul testo greco e utilizza la parola psyche zosa, letteralmente un’anima vivente. Il testo greco riporta la parola psyche e ci fa capire che Paolo oppone all’uomo spirituale, l’uomo psichico. Guardiamo ora come il testo di Genesi venga utilizzato da Paolo, che continua dicendo: «Poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo divenne uno spirito vivificante». Si noti nelle integrazioni fatte da Paolo come venga riecheggiato il testo di Genesi, che è citato alla lettera: «Il primo uomo divenne una psyche vivente»; ma nel seguito del versetto – dove si parla di Adamo che divenne spirito datore di vita – evidentemente si fa allusione a quella parte di versetto di Genesi in cui si dice che Dio soffiò un alito di vita nell’uomo. Utilizzando questo vocabolario, Paolo continua nel versetto 46: «Non vi fu prima lo spirituale, ma l’animale e poi lo spirituale». A questo punto Paolo instaura un doppio paragone fra ciò che è fatto di terra e ciò che è del cielo e poi descrive la nostra condizione prima e dopo la parusia del Cristo. Per continuare l’immagine di Genesi, Paolo riprende il tema dell’uomo fatto dal fango e dalla polvere; parlando invece dell’ultimo uomo, dell’ultimo Adamo, egli parla di un individuo che viene dal cielo. I termini della comparazione continuano e Paolo dice: «Qual è l’uomo fatto di terriccio così sono fatti quelli terrosi, ma qual è l’uomo celeste, così anche i celesti e come abbiamo portato l’immagine di quello fatto di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste». La prospettiva è evidentemente escatologica: Paolo parla del ritorno di Cristo, della sua parusia e dopo questa ci sarà un cambiamento di natura negli uomini. Fino al ritorno di Cristo gli uomini saranno fatti solo di terra, mentre dopo saranno fatti ad immagine dell’uomo celeste, di cielo. Si riprende l’immagine del seme che scompare completamente nella terra per dire che l’uomo di terra scompare nella terra e dopo il ritorno di Cristo ci sarà un uomo completamente celeste. A questo punto Paolo si interessa del problema non solo di quanti sono già morti, ma di tutti gli uomini, poiché dobbiamo ricordarci che Paolo è convinto che vi sarà il ritorno di Cristo in un momento prossimo, probabilmente la notte di Pasqua, secondo la tradizione. Continua: «Ecco, vi annunzio un mistero, non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultimo squillo di tromba, i morti sorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati». Così dicendo Paolo parla dei cristiani ed è convinto che saranno trasformati tutti coloro che saranno in vita al momento del ritorno di Cristo. Non si interessa qui della sorte dei pagani, sta parlando con un «noi» a dei cristiani. Gli scrittori dei secoli seguenti, quando ovviamente non si aspettava più un ritorno imminente di Gesù Cristo ed era già passato molto tempo dalla stesura della Prima Lettera ai Corinzi, trovandosi di fronte a questo versetto si sentivano in imbarazzo e pertanto hanno spostato la negazione e abbiamo in alcuni codici la frase: «Tutti, certo, moriremo, ma non tutti saremo trasformati». Lo spostamento della negazione era dovuta la fatto che la morte era considerata un evento comune a tutti gli uomini, ma l’essere trasformati a immagine dell’uomo celeste è comune solo ai credenti. Paolo conclude in maniera trionfale dal versetto 53 in poi: «È necessario infatti che questo qualche cosa di corruttibile si rivesta di incorruttibilità e questo qualcosa di mortale si rivesta di immortalità. Quando poi questo qualche cosa che è corruttibile si sarà vestito di incorruttibilità e questo qualcosa che è mortale di immortalità, si compierà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria, dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Per riassumere, Paolo si tiene ancora all’interno della mentalità semitica e pertanto afferma che, quando il corpo sarà morto, sarà posto nella terra e si dissolverà come il seme che viene seminato e che, in un tempo relativamente prossimo, Dio darà ai credenti un nuovo essere, non più come il precedente fatto di terra, bensì celeste, come è del resto il corpo di Cristo il quale è già celeste.

 

Passiamo ora alla Seconda Lettera ai Corinzi, in cui noteremo che la prospettiva di Paolo, pur rimanendo in parte simile a quella che abbiamo esaminato nella Prima Lettera, subisce una notevole trasformazione. Leggiamo innanzitutto nel terzo capitolo i versetti 17 e 18; il testo è abbastanza difficile, ma senza scendere in dettagli che peraltro non hanno grande importanza, darò la traduzione ammessa da molti commentatori. Il contesto ci propone l’episodio narrato nel capitolo 34 dell’Esodo laddove si dice che quando Mosé saliva sul monte a parlare con Dio, il suo volto diventava talmente splendente che alla sua discesa dal monte doveva velarlo con un panno perché lo splendore della gloria di Dio riflesso sul volto del patriarca non risultasse dannoso e accecante per quanti lo vedevano. Togliamo la seconda parte del versetto 17 che, a detta di molti, è una glossa: «Dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà». Prestiamo ora attenzione invece alla prima parte del versetto 17 e al versetto 18: «Ora il Signore è lo Spirito e noi tutti a viso scoperto, riflettendo come degli specchi la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella stessa immagine di gloria in gloria come dal Signore che è lo Spirito.» In questo testo troviamo alcuni dei termini utilizzati nella Prima Corinzi ma, come vedremo, ci sono cambiamenti altamente significativi. Innanzitutto l’affermazione che il Signore Cristo è lo Spirito va letta alla luce del versetto 6 che la precede di poco, in cui si parla dello Spirito che vivifica. Sotto l’azione dello Spirito che dà vita, noi tutti siamo trasformati di gloria in gloria, come a dire che noi riflettiamo come degli specchi la gloria del Signore. Si ritrova lo stesso tema della Prima Corinzi in cui si affermava che: «Quando il Signore verrà noi saremo trasformati ad immagine della gloria» che si può intendere sia come gloria che come splendore del Cristo. La differenza essenziale è che nella Prima Corinzi questa trasformazione ad opera del Signore che è Spirito vivificante si compirà in un futuro, mentre nella Seconda Corinzi questa trasformazione è nel presente ad opera soprattutto del battesimo, per mezzo di cui, come Paolo afferma altrove, noi ci rivestiamo del Signore che è Spirito; pertanto già ora siamo rivestiti di questa gloria in attesa di una trasformazione definitiva. Si introduce qui un tema come conseguenza necessaria: se noi adesso siamo trasformati in gloria per opera dello Spirito che dà vita, noi non possiamo morire, perché già il battesimo ci ha dato lo Spirito vivificante. Quindi una parte di noi, al di là della morte, deve rimanere viva e si sente che Paolo sta abbandonando l’immagine semitica dell’unità dell’essere umano per adottare i termini greci che portano nella direzione dell’immortalità di un qualche cosa dell’uomo che non può morire. Questo si rende estremamente chiaro nel capitolo 5. Vediamo innanzitutto i versetti da 6 a 8; notiamo che in questo testo Paolo adotta volontariamente la terminologia filosofica greca, non semplicemente il linguaggio greco, ma specificamente i termini filosofici. I versetti così recitano: «Dunque siamo pieni di fiducia ben sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo come in esilio lontani dal Signore, infatti camminiamo nella fede e non ancora nella visione, siamo pieni di fiducia e riteniamo meglio andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore».
Abbiamo qui un linguaggio che si trova in Platone e nei suoi discepoli, in particolare in Filone d’Alessandria. Il fondamento della nostra sicurezza davanti alla morte, seguendo il Fedone, è la convinzione che l’anima è immateriale e quindi incorruttibile. Dice Platone nel Fedone: «Colui che ha tutto ciò dalla filosofia, avrà piena fiducia di fronte alla morte». Il tema è ripreso da Filone nel De agricoltura: «In verità ogni anima di saggio ha ricevuto il cielo come patria e la terra come esilio. Essa stima sua la dimora della saggezza e straniera quella del corpo nella quale ella crede di vivere come una straniera». Nel testo di Paolo è ora necessario prendere la parola corpo non nel senso di essere, ma nel senso filosofico di corpo opposto all’anima. È evidente è che qui non si trova più traccia della mentalità semitica secondo la quale l’essere, quando muore, scompare totalmente nello Sheol e non ha una sua vita personale. La resurrezione è ora il passaggio mediante la morte ad una vita presso Dio, evidentemente con tutta la personalità e con tutta la propria ricchezza umana. Pertanto nella Seconda Corinzi, Paolo ha abbandonato la prospettiva semitica e ha accolto una mentalità di tipo platonico.

A questo punto si innesta un problema: il corpo cosa diventa? Paolo opera una specie di sintesi fra le nuove idee di tipo platonico e il pensiero semitico, nel senso che quest’anima che ha abbandonato il corpo mortale non rimane un’anima nuda ma ben presto avrà modo di rivestire un altro corpo. Paolo dice questo all’inizio del quinto capitolo, versetto 1: «Sappiamo infatti che quando questa nostra dimora fatta di terra, la tenda del nostro corpo, si sarà disfatta, riceveremo un’abitazione da Dio eterna, nei cieli, non costruita da mani d’uomo». Troviamo anche qui l’opposizione tra quello che è fatto di terra, come abbiamo nella Prima Lettera ai Corinzi, e ciò che è celeste. Per quanto Paolo non parli esplicitamente di un corpo celeste, tuttavia dobbiamo ammettere un’opposizione fra il corpo terreno o terroso, che è la nostra abitazione sulla terra, e la nuova dimora celeste che noi riceveremo. È evidente che non è certo quel corpo, fatto di terra e destinato a sparire, che viene ri–vivificato nella resurrezione, ma è una nuova realtà celeste quella che noi riceveremo dopo la morte. Per affermare l’idea che subito dopo la morte l’uomo ottiene una nuova dimora, Paolo non crea assolutamente i suoi concetti, ma li prende da alcuni scritti del giudaismo tardivo. In realtà nella prospettiva della Seconda Corinzi non si può più utilizzare il termine resurrezione; Paolo lo utilizza ancora in senso spiritualizzante, come abbiamo letto nel capitolo 3, dove si dice che siamo rivestiti di Cristo che è Spirito datore di vita. In questo senso si può parlare di resurrezione, ma in una prospettiva maggiormente spiritualizzata e lo si vede chiaramente, anche se in maniera non ancora precisissima, nella Lettera ai Colossesi, dove Paolo dice: «Noi siamo risorti in Cristo». L’espressione semitica di «resurrezione» in questo contesto non tiene più nel senso materiale che le dava la tradizione, perché evidentemente il corpo si dissolve e non è certo quello che riprende vita. Questo si evidenzia anche col fatto che Paolo nella Seconda Corinzi, mentre continua a parlare di resurrezione a proposito di Cristo, non ne parla più a proposito dei credenti. Vorrei che venga fatta estrema attenzione alle parole: non si tratta di negare la vittoria sulla morte, ma di ribadire che, da un certo punto della sua produzione in poi, Paolo non pensa più alla resurrezione nel senso stretto del cadavere che riprende vita, ossia nel concetto materiale semitico.
Leggiamo un altro brano ancora dalla Seconda Lettera ai Corinzi in cui Paolo esprime benissimo e con grande vivacità anche il suo spessore umano, i versetti 2 – 4 del capitolo quinto: «Perciò noi sospiriamo per questo fatto, che desideriamo rivestirci di quel nostro corpo fatto di cielo, se pur saremo trovati già vestiti del nostro corpo e non già spogliati alla venuta di Cristo. In realtà in questa tenda noi sospiriamo sotto un peso non volendo essere spogliati, ma sopra–vestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita». Non dimentichiamo che anche quando scrive la Seconda Corinzi, Paolo attende come prossima la venuta di Cristo, ma come tutti gli uomini egli, per quanto speri di essere trasformato ad immagine di Cristo, teme di essere morto a quel momento perché la morte è comunque uno strappo, un qualcosa che dilania l’uomo e pertanto egli ne ha paura. Nel versetto 3 Paolo si augura di essere trovato al momento dell’avvenimento escatologico, al ritorno di Cristo, ancora vestito e non nudo perché nei termini filosofici che ha finora impiegato, significa precisamente ancora vivente e non spogliato del corpo. Questo per poter evitare il passaggio doloroso della sua morte personale e per potersi vestire del Cristo al di sopra di quel vestito che è già il suo corpo. In altri termini spera, molto umanamente, di non dover passare attraverso quello strappo che è la morte, ma di accogliere il Cristo ancora durante la sua vita. Pertanto quando qualcuno rimprovera i cristiani perché, pur avendo fede nella vittoria di Cristo sulla morte, si trovano ad averne paura, siamo autorizzati a dire che anche Paolo, che pure aveva una decente certezza di incontrare il Cristo al di là della morte, la temeva e sperava di non doverla sperimentare.

[1] Marie Emile Boismard, domenicano, professore di esegesi del Nuovo Testamento all’Ecole Biblique di Gerusalemme (1948–1950), poi all’Università di Friburgo (1950–1953) e di nuovo all’Ecole Biblique di Gerusalemme. Il testo della conversazione non è rivisto dall’Autore.

OMELIA 3A DOMENICA DI PASQUA: « BISOGNA CHE SI COMPIANO TUTTE LE COSE SCRITTE SU DI ME »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/7-Pasqua/3a-Domenica-di-Pasqua-B-2015/12-03a-Domenica-B-2015-SC.htm

19 APRILE 2015 | 3A DOMENICA DI PASQUA – ANNO B | APPUNTI PER LA LECTIO

« BISOGNA CHE SI COMPIANO TUTTE LE COSE SCRITTE SU DI ME »

Le letture bibliche di questa terza Domenica di Pasqua, come del resto quelle delle Domeniche successive, vogliono aiutarci a penetrare sempre di più nel mistero pasquale.
E il « mistero » pasquale è tale non solo per la grandezza incommensurata di amore e di potenza dimostrata da Cristo sia nel donarsi alla morte per noi sia nel risorgere, per virtù dello Spirito, dai morti, ma anche per altri risvolti sorprendenti di questa quasi incredibile storia.
Ad esempio, questo: com’è possibile che un crimine, religioso e politico nello stesso tempo, una sopraffazione violenta e spietata come di fatto è stata la morte di Cristo, abbia potuto diventare un gesto di salvezza? Ed accanto a questo se ne profila subito un altro: in che senso tutto questo può rientrare nel « disegno » di Dio?
Sono degli interrogativi che rendono più denso il « mistero » ed a cui hanno tentato di rispondere, più che con uno sforzo di ricerca teologica, con il desiderio di penetrare e di gustare più in profondità il « dono di Dio », già i primi annunciatori del Vangelo. Le letture bibliche della presente Domenica mi sembra che si muovano, almeno in parte, su questa linea.

« Dio ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete ucciso »
La prima lettura (At 3,13-15.17-19) ci riporta parte del discorso di Pietro, pronunciato in occasione della guarigione dello storpio davanti alla porta « bella » del tempio.
Per allontanare da sé e da Giovanni il fanatismo della folla, egli rivela loro che è la « potenza » del Cristo risorto che ha operato il prodigio, di cui essi sono stati spettatori. In tal modo Dio « ha glorificato il suo servo Gesù, che vi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo… Ma Dio l’ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni » (At 3,13-15).
Si noti la contrapposizione violenta che san Pietro fa tra i Giudei che lo stanno ascoltando (« voi avete rinnegato… e ucciso l’autore della vita ») e Dio, che dà un esito completamente diverso all’assassinio da quelli così freddamente premeditato (« …ma Dio l’ha risuscitato dai morti »).
Ci sono in gioco come due volontà che tendono ad elidersi a vicenda: una volontà di odio, quella dei Giudei, che tende alla distruzione; una volontà di amore, quella di Dio, che tende non solo alla riparazione del male, ma addirittura alla « glorificazione » dell’oppresso mediante la risurrezione e la manifestazione della sua potenza attraverso il miracolo adesso operato dagli apostoli. Il che significa che Dio, pur non annullando la cattiva volontà degli uomini, la fa servire per il suo superiore disegno di amore e di salvezza. È quanto Pietro proclama solennemente al termine della presente lettura: « Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, così come i vostri capi; Dio però ha adempiuto così ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo sarebbe morto » (vv. 17-18).
Tutto questo, come abbiamo sopra accennato, rende più « denso » il mistero pasquale, ma lo rende anche più luminoso ed affascinante: l’amore di Dio, invece che essere scoraggiato dalla malvagità umana, ne viene come stimolato e provocato a manifestazioni sempre più radiose!

« Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? »
Il brano di Vangelo, che praticamente è la parte conclusiva dell’intero Vangelo di Luca (24,35-48), riprende alcune di queste idee situandole in una prospettiva anche più larga.
Se si pensa che il presente brano viene subito dopo il racconto dell’apparizione ai discepoli di Emmaus, come ricorda espressamente il versetto iniziale (v. 35), e che proprio a loro, che ritornano a Gerusalemme, gli undici annunziano: « Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone » (v. 34), si rimane piuttosto sorpresi nel vederli in preda alla paura e al dubbio, proprio mentre Gesù appare a loro tutti insieme per la prima volta. « Stupiti e spaventati, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: « Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho ». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi » (24,37-40).
Come si spiega tutto questo? Inabilità narrativa di Luca che non avrebbe disposto nel debito ordine i fatti? O non piuttosto una precisa situazione « obiettiva », che dimostra come non era facile neppure per gli apostoli accettare sia il fatto, sia le modalità della risurrezione? Crediamo senz’altro che per uno scrittore così raffinato come Luca sia ammissibile solo la seconda ipotesi.
Nel raccontare le diverse « cristofanie » egli ha delle precise finalità teologiche da raggiungere, per proporle alla riflessione dei suoi lettori che provengono dal mondo ellenistico. Così, ad esempio, per dei cristiani che vivevano in ambiente greco, dove le diverse filosofie insegnavano che l’anima vive separata dal corpo, dopo la morte, era importante affermare che il Cristo risorto non era uno « spirito » immortale senza corpo: si noti che il termine che noi abbiamo tradotto per « fantasma » di fatto nel testo originale è pnèuma, cioè « spirito ». Perciò san Luca vuol prima di tutto dire ai suoi lettori che Gesù è « veramente » risorto, perché adesso vive di nuovo con il « suo » corpo, quel « corpo » che era stato dato alla morte sulla croce: « Toccatemi e guardate: un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho » (v. 39).
Tanto è « vero » il suo corpo, che egli può addirittura mangiare del cibo come tutti noi! È l’ultima sfida che lancia ai suoi apostoli, ancora stupefatti e disorientati: «  »Avete qui qualche cosa da mangiare? ». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro » (vv. 41-43).
Proprio per questo, anche nel libro degli Atti san Luca ritornerà sul tema degli apostoli che « hanno mangiato e bevuto con lui », dopo che il Cristo era risorto dai morti.

« Sono proprio io! Toccatemi e guardate »
D’altra parte, tutto questo dimostra non solo la « realtà » del suo « corpo », ma anche la « identità » del corpo risorto con quello che essi avevano veduto martoriato sulla croce: « Guardate le mie mani e i miei piedi. Sono proprio io! Toccatemi e guardate » (v. 39). Con queste parole Gesù intende certamente alludere alle sue mani e ai suoi piedi « perforati » dai chiodi, proprio come aveva chiesto Tommaso secondo il racconto del quarto Vangelo: « Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi…, non crederò » (Gv 20,25). Era questo il « segno » della sua « identità »! La « gloria » del Cristo risorto sta tutta nel gesto della sua donazione alla morte: la risurrezione è precisamente l’esaltazione della sua morte di croce, le cui « stigmate » doloranti permangono ancora nel suo corpo glorioso.
Perciò non è tanto e solo il problema della « identità » del Cristo prepasquale e di quello pasquale che l’evangelista intende affermare, insistendo su questi particolari, ma anche la « continuità » dell’unico e identico evento redentivo che, passando per la croce, si consuma nella risurrezione, come scrive meravigliosamente san Paolo: « Gesù Cristo è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione » (Rm 4,15). La risurrezione è come il frutto della sua morte!
Tutto questo, ovviamente, ha un significato vitale anche per noi, che per il battesimo veniamo trascinati nella medesima esperienza di morte e di vita del Cristo: « Se infatti siamo connaturati con lui per una morte simile alla sua, lo saremo pure per una somigliante risurrezione » (Rm 6,5).

« Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me »
La scena evangelica però non si ferma qui. Ci sono ancora altri due elementi da prendere in considerazione e che ci aiutano a comprendere il senso ultimo della risurrezione del Cristo.
Il primo è che essa rappresenta come il punto di arrivo di tutto il disegno salvifico di Dio. È quanto Gesù afferma subito dopo, per aiutare i suoi apostoli a rileggere in questa luce tutto quello che egli aveva fatto e aveva detto quando era ancora con loro: « Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi » (v. 44).
La Scrittura diventa così la chiave interpretativa per entrare nel mistero del Cristo. Non sono gli uomini che hanno comandato e determinato lo svolgersi degli ultimi fatti drammatici della vita del Signore, come erano stati tentati di credere gli stessi apostoli vedendo in ciò quasi un segno di fallimento della sua missione: « Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele », commentano addolorati e ormai sfiduciati i discepoli di Emmaus (Lc 24,21).
Al di sopra degli uomini e per mezzo degli uomini, invece, Dio ha realizzato il suo disegno di salvezza, creando in tal modo le condizioni nelle quali Cristo avrebbe espresso il massimo della sua capacità di « amare » e di « obbedire ». Si ricordino qui solo due espressioni bibliche, che commentano quanto veniamo dicendo. La prima è ripresa dal Vangelo di Giovanni, all’inizio della storia della passione: « Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino al segno supremo » (Gv 13,1). Il « segno supremo » dell’amore è la sua morte di croce, che egli già « sa » da sempre perché l’ha letta nelle Scritture e nel misterioso scambio di « conoscenza » che c’è fra il Padre e il Figlio. La seconda è ripresa da Paolo, là dove egli dice che Cristo « umiliò » se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce » (Fil 2,8): proprio perché Cristo « conosce » la volontà del Padre, il suo donarsi alla morte è un gesto di generosità e di « obbedienza ». Egli vive e muore non per sé, ma « per gli altri »!
Nella prospettiva delle Scritture, lette e interpretate in chiave « cristologica », anche lo « scandalo » della croce diventa luminoso, direi quasi « ragionevole », di quella ragionevolezza però che coincide con la « sapienza di Dio nascosta nel mistero » (cf 1 Cor 2,7) e che scardina tutti i nostri normali modi di ragionare.
Proprio per questo anche noi abbiamo bisogno che Cristo stesso, come fece in quella occasione con i suoi apostoli, ci « apra la mente all’intelligenza delle Scritture » (v. 45); e allora tutto quello che si è verificato in lui ci apparirà nello splendore di un ricamo finissimo, intrecciato con pazienza ed amore infiniti dalla benevolenza del Padre che in Cristo ha amato ed abbracciato anche noi.
« Nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati »
Ed è questo il secondo elemento che ci fa comprendere meglio il senso della risurrezione: « Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni » (vv. 46-48).
Queste ultime parole del Cristo risorto contengono la « missione » che egli affida ai suoi apostoli e sono l’equivalente del mandato anche più noto che leggiamo in Matteo 28,19: « Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ». È interessante però in san Luca questo intimo collegamento fra la « missione » degli apostoli e il mistero pasquale: il che significa che è il mistero della morte e risurrezione del Signore che essi debbono annunciare e « testimoniare » per portare salvezza agli uomini.
La salvezza però, in concreto, passa per la « conversione » e il « perdono dei peccati », come dicono le parole del Signore.
Che significa tutto questo? È un invito a inserirci anche noi nella dinamica del mistero pasquale, che Dio ha realizzato nel Figlio, ma in lui ha voluto estendere a tutti gli uomini. La mia « conversione » (metànoia), ad esempio, davanti alla contemplazione del Cristo risorto può e deve significare un processo lento di rinascita spirituale, di liberazione mia e dei miei fratelli da quella situazione quasi di morte che ci paralizza davanti alla crisi di disorientamento religioso, morale e sociale che attanaglia oggi molti membri della Chiesa e della società civile. Non c’è proprio nulla da fare, o bisogna rassegnarsi fatalisticamente al peggio? Se siamo già « figli della risurrezione », come si dice nel Vangelo di Luca (20,36), dobbiamo essere i testimoni della « speranza » in un mondo che vogliamo costruire come mondo « migliore ».

Non « secolarizzare » la risurrezione!
E se noi saremo i « testimoni » fiduciosi di una « risurrezione » che Dio solo può operare e che trasforma la totalità dell’uomo, « convertendolo » dal di dentro per inserirlo in pieno nel progetto della salvezza universale, riscatteremo lo stesso termine di « risurrezione » dal tentativo, che perfino alcuni cristiani stanno facendo, di una sua interpretazione riduttiva e « secolarizzata ».
È quanto ammoniva accoratamente Paolo VI quando invitava a « sciogliere l’equivoco di una parola magica, che incanta e spesso illude chi ne fa uso ristretto ai limiti della fenomenologia temporale… quando per risurrezione s’intende l’impiego di metodi e di forze che non trascendono l’ordine temporale. Nessuno più di chi ama, per le ragioni superiori del Vangelo, gli uomini e la faticosa elaborazione della loro società per un vero progresso della loro convivenza e del loro giusto benessere può godere che di risurrezione si parli per favorire lo sforzo e per conseguire l’esito di una risurrezione, cioè di un miglioramento economico, culturale e sociale, a conforto e a rimedio d’ogni umana sofferenza: ma sarebbe illusione sperare di raggiungere la risurrezione effettiva e trascendente, a cui profondamente ed essenzialmente aspira la vita dell’uomo, se questa fosse privata della « speranza che non delude »; e non fosse edotta dell’inevitabile pericolo che dalla cieca avidità della esclusiva prosperità temporale possa derivare all’uomo una maggiore infelicità generata dalla stessa dilatazione della sua capacità di più desiderare e dalla sua possibilità di più godere ».

« Egli è vittima per i nostri peccati »
In questa linea di « liberazione » totale, che parte però dal cuore dell’uomo, si muove anche la seconda lettura, in cui san Giovanni ci esorta a vincere il « peccato » che sempre riaffiora nella nostra vita, senza sfiduciarci: Cristo, « nostra Pasqua » (1 Cor 5,7), è sempre pronto a « risuscitarci » dal male!
« Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo » (1 Gv 2,1-2).

Da CIPRIANI S., Convocati dalla Parola.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 17 avril, 2015 |Pas de commentaires »

Oggi è il compleanno di Papa Benedetto, 88 anni, auguri caro Papa e caro Padre

Oggi è il compleanno di Papa Benedetto, 88 anni, auguri caro Papa e caro Padre dans IMMAGINI DI PAPA BENEDETTO Benedict+XVI+Pope+John+Paul+II+Pope+John+XXIII+0C8aU_Lil3Ul

Pope Emeritus Benedict XVI arrives at the Canonisation Mass in which John Paul II and John XXIII are to be declared saints on April 27, 2014 in Vatican City, Vatican.

http://www.zimbio.com/pictures/dqDCRNQ5bbV/Pope+John+Paul+II+Pope+John+XXIII+Declared/0C8aU_Lil3U/Benedict+XVI

Publié dans:IMMAGINI DI PAPA BENEDETTO |on 16 avril, 2015 |Pas de commentaires »
1...34567...11

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01