RATZINGER E IL MISTERO DEL SABATO SANTO

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RATZINGER E IL MISTERO DEL SABATO SANTO

(L’Osservatore Romano 18 luglio 2012)

In occasione del centenario della nascita di William Congdon è in corso a New Haven, in Connecticut, al Knights of Columbus Museum, la mostra «The Sabbath of History: William Congdon». In esposizione sessantacinque opere che illustrano come il percorso artistico di Congdon sia segnato da una profonda meditazione spirituale che ha trovato, tra l’altro, consonanza con le riflessioni di Joseph Ratzinger proprio sul tema del Sabato santo. La mostra — aperta fino al 16 settembre e curata da Rodolfo Balzarotti e da Daniel Mason — accosta infatti alle opere di Congdon le meditazioni di Ratzinger che risalgono ad alcune lezioni tenute nel 1967 poi raccolte nel 1998 nel libro Il sabato della storia (Jaca Book) scritto insieme a William Congdon. Pubblichiamo stralci di una di quelle meditazioni.

Il nascondimento di Dio in questo mondo costituisce il vero mistero del Sabato santo, mistero accennato già nelle parole enigmatiche secondo cui Gesù «è disceso all’inferno». Nello stesso tempo l’esperienza del nostro tempo ci ha offerto un approccio completamente nuovo al Sabato santo, giacché il nascondimento di Dio nel mondo che gli appartiene e che dovrebbe con mille lingue annunciare il suo nome, l’esperienza dell’impotenza di Dio che è tuttavia l’Onnipotente — questa è l’esperienza e la miseria del nostro tempo.
Ma anche se il Sabato santo in tal modo ci si è avvicinato profondamente, anche noi comprendiamo il Dio del Sabato santo più della manifestazione potente di Dio in mezzo ai tuoni e ai lampi, di cui parla l’antico Testamento, rimane tuttavia insoluta la questione di sapere che cosa si intende veramente quando si dice in maniera misteriosa che Gesù «è disceso nell’inferno».
Diciamolo con tutta chiarezza: nessuno è in grado di spiegarlo veramente. Né diventa più chiaro dicendo che qui inferno è una cattiva traduzione della parola ebraica shêol, che sta a indicare semplicemente tutto il regno dei morti, e quindi la formula vorrebbe originariamente dire soltanto che Gesù è sceso nella profondità della morte, è realmente morto e ha partecipato all’abisso del nostro destino di morte. Infatti sorge allora la domanda: che cos’è realmente la morte e che cosa accade effettivamente quando si scende nelle profondità della morte?
Dobbiamo qui porre attenzione al fatto che la morte non è più la stessa cosa dopo che Cristo l’ha subita, dopo che egli l’ha accettata e penetrata, così come la vita, l’essere umano non sono più la stessa cosa dopo che in Cristo la natura umana poté venire a contatto, e di fatto venne, con l’essere proprio di Dio.
Prima la morte era soltanto morte, separazione dal paese dei viventi e, anche se con diversa profondità, qualcosa come “inferno”, lato notturno dell’esistere, buio impenetrabile. Adesso però la morte è anche vita e quando noi oltrepassiamo la glaciale solitudine della soglia della morte, ci incontriamo sempre nuovamente con colui che è la vita, che è voluto divenire il compagno della nostra solitudine ultima e che, nella solitudine mortale della sua angoscia nell’orto degli ulivi e del suo grido sulla croce «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», è divenuto partecipe delle nostre solitudini.
Se un bambino si dovesse avventurare da solo nella notte buia attraverso un bosco, avrebbe paura anche se gli si dimostrasse centinaia di volte che non ci sarebbe alcun pericolo. Egli non ha paura di qualcosa di determinato, a cui si può dare un nome, ma nel buio sperimenta l’insicurezza, la condizione di orfano, il carattere sinistro dell’esistenza in sé.
Solo una voce umana potrebbe consolarlo; solo la mano di una persona cara potrebbe cacciare via come un brutto sogno l’angoscia. Si dà un’angoscia — quella vera, annidata nelle profondità delle nostre solitudini — che non può essere superata mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona che ci ama.
Quest’angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma è solo l’espressione terribile della nostra solitudine ultima. Chi non ha sentito la sensazione spaventosa di questa condizione di abbandono? Chi non avvertirebbe il miracolo santo e consolatore suscitato in questi frangenti da una parola di affetto? Laddove però si ha una solitudine tale che non può essere più raggiunta dalla parola trasformatrice dell’amore, allora noi parliamo di inferno.
E noi sappiamo che non pochi uomini del nostro tempo, apparentemente così ottimistico, sono dell’avviso che ogni incontro rimane in superficie, che nessun uomo ha accesso all’ultima e vera profondità dell’altro e che quindi nel fondo ultimo di ogni esistenza giace la disperazione, anzi l’inferno.
Jean-Paul Sartre ha espresso questo praticamente in un suo dramma e nello stesso tempo ha esposto il nucleo della sua dottrina sull’uomo. Una cosa è certa: si dà una notte nel cui abbandono buio non penetra alcuna parola di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la porta della morte. Tutta l’angoscia di questo mondo è in ultima analisi l’angoscia provocata da questa solitudine.
Per questo motivo nell’antico Testamento il termine per indicare il regno dei morti era identico a quello con cui si indicava l’inferno: shêol. La morte infatti è solitudine assoluta. Ma quella solitudine che non può essere più illuminata dall’amore. Che è talmente profonda che l’amore non può più accedere a essa. è l’inferno.
«Disceso all’inferno» — questa confessione del Sabato santo sta a significare che Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine, che è disceso nel fondo irraggiungibile e insuperabile della nostra condizione di solitudine. Questo sta a significare però che anche nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, nella quale noi tutti siamo come bambini cacciati via, piangenti, si dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce.
La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa. L’inferno è stato vinto dal momento in cui l’amore è anche entrato nella regione della morte e la terra di nessuno della solitudine è stata abitata da lui.
Nella sua profondità l’uomo non vive di pane, ma nell’autenticità del suo essere egli vive per il fatto che è amato e gli è permesso di amare. A partire dal momento in cui nello spazio della morte si dà la presenza dell’amore, allora nella morte penetra la vita: «Ai tuoi fedeli o Signore la vita non è tolta, ma trasformata» — prega la Chiesa nella liturgia funebre.
Nessuno può misurare in ultima analisi la portata di queste parole: «disceso nell’inferno». Ma se qualche volta ci è dato di avvicinarci nell’ora della nostra solitudine ultima, ci sarà permesso di comprendere qualcosa della grande chiarezza di questo mistero buio. Nella certezza sperante che in quell’ora di estrema solitudine non saremo soli, possiamo adesso già presagire qualcosa di quello che avverrà. E in mezzo alla nostra protesta contro il buio della morte di Dio cominciamo a diventare grati per la luce che viene a noi proprio da questo buio.

(©L’Osservatore Romano 18 luglio 2012)

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