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8 FEBBRAIO 2015 | 5A DOMENICA – T. ORDINARIO B | APPUNTI PER LA LECTIO

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8 FEBBRAIO2015 | 5A DOMENICA – T. ORDINARIO B | APPUNTI PER LA LECTIO

« Andiamocene altrove… perché…
predichi anche là »
Se non vado errato, nel brano di Vangelo odierno Marco tende ad illustrare la precedente affermazione della folla che, piena di stupore davanti al primo annuncio di Cristo e al suo potere su Satana, aveva commentato: « Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono! » (v. 27). Infatti, anche qui abbiamo delle guarigioni, specie di indemoniati, e l’esaltazione della missione « evangelizzatrice » di Cristo, che non si lascia per niente imbrigliare dallo stesso entusiasmo delle folle: « Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto! » (v. 38).

« Guai a me se non predicassi il Vangelo! »
In questo senso vedrei un facile raccordo soprattutto con la seconda lettura, in cui san Paolo ci svela il segreto della sua fremente, quasi furiosa, attività missionaria: a un certo momento egli si è sentito come « afferrare » da Cristo sulla via di Damasco. Da quel momento non poteva non gridare al mondo l’amore di Dio in Cristo, come gesto di gratitudine per l’immensa luce che lo aveva avvolto, per la salvezza che gli era stata offerta: « Fratelli, non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il Vangelo! » (1 Cor 9,16). E poi continua descrivendoci il suo « stile » di annuncio evangelico, che ricalca molto da vicino l’esempio di Cristo: « Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno » (v. 22).
Un annuncio del Vangelo, dunque, fatto con l’offerta della propria vita, più che con il suono, anche melodioso ed affascinante, di grandiose parole!
La prima lettura, che ci descrive il senso amaro della vita, sperimentato nelle proprie carni doloranti dal grande paziente Giobbe (7,1-4.6-7), ci può aiutare a capire meglio quel mondo di dolore e di sofferenza a cui Gesù si avvicina con amore e vibrante partecipazione, « guarendone » più che può: « Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni » (Mc 1,34).

« La suocera di Simone era a letto con la febbre »
Ma cerchiamo adesso di penetrare più a fondo nella fresca ed agile pagina di Marco, che si articola in tre quadretti narrativi molto vivaci, in cui più di un esegeta ha creduto di poter riconoscere le tracce di un testimone oculare, e precisamente di Pietro, che sta un po’ al centro di tutto il racconto.
Il primo quadretto ci descrive la guarigione della suocera di Pietro (vv. 29-31).
È la prima guarigione di malati descrittaci da Marco e fa un po’ come da ponte per le numerose altre guarigioni descritteci immediatamente dopo.
La scena è piena di umanità e di semplicità nello stesso tempo: Gesù viene informato che la donna è ammalata, le si accosta, la « prende per mano » e la « solleva », liberandola dalla febbre. È tutto così spontaneo e naturale che si ha l’impressione che Gesù dispensi vita e salute, non mediandole da forze segrete od occulte, imprigionate magari nel più intimo di se stesso, oppure impetrate dalla divinità, ma come attingendole dalla trasparenza e dalla profondità della sua persona. Più che opere di taumaturgo, i miracoli di Gesù sono come la « partecipazione », direi quasi spontanea, della ricchezza di vita che c’è in lui; più che segno di potenza, perciò, sono segno di « salvezza » e di amore, attestazione che Dio si è fatto presente in mezzo agli uomini per toglierli dalla loro infelicità e far loro sentire che le « forze » del regno stanno già operando nel mondo, anche sul piano meramente fisico.
L’ultima annotazione dell’evangelista: « … ed essa si mise a servirli », non vuol dire soltanto che la donna, quasi in ricambio del beneficio ottenuto, si dette a compiere i normali obblighi dell’ospitalità. Sarebbe stato qualcosa di interessato, sia da parte di Gesù che da parte della donna! Si allude piuttosto al fatto che ogni incontro con Gesù, per essere autentico, si deve trasmutare in una sequela di « servizio ». Il verbo qui adoperato (diakonéin = servire), infatti, è il verbo con cui sia in Marco (15,41) che in Luca (8,3) si esprime la « sequela » di Gesù da parte di non poche donne che mettevano a disposizione di Gesù persino le loro « sostanze ».
Perciò il gesto della suocera di Pietro è un gesto di amore e di generosità, offerto a Gesù e ai suoi discepoli come segno della disponibilità del suo spirito. In questo senso il miracolo acquista tutta la sua dimensione di messaggio del divino che afferra tutto l’uomo nella sua forza di trasformazione, ed è sottratto al gioco della pura emozionalità e della ricerca del « sensazionale ».

« Guarì molti che erano afflitti da varie malattie… »
Il che sembra verificarsi proprio nel secondo quadretto narrativo, che segue immediatamente: « Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni; ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano » (vv. 32-34).
Qui effettivamente è il « mito » di Gesù che incomincia a crearsi, ed è la ricerca del « sensazionale », oltre che dell’utile immediato, che prevale su tutto! Si noti quel particolare caratteristico, che è come un colpo di obiettivo che riprende al vivo la scena: « Tutta la città era riunita davanti alla porta », che dovrebbe essere quella dell’abitazione di Pietro. Forse proprio per non far nascere il mito del « guaritore » facile, Gesù non li guarisce « tutti », come dice Matteo (8,16), ma solo « molti », quasi a dire che il miracolo non è un fatto meccanico, ma è legato anche a certe disposizioni d’animo.
Del resto, su questa linea sembra muoversi anche il divieto di « parlare » fatto ai demoni, « perché lo conoscevano » (v. 34). Anche nella precedente guarigione di un ossesso Gesù aveva ordinato a Satana di « tacere » (1,25).
Perché questo strano atteggiamento di Gesù che, pur facendo miracoli e venendo confessato come Messia dai demoni e dagli stessi apostoli, esige che si faccia silenzio attorno a lui? È il problema del cosiddetto « segreto messianico », che è particolarmente accentuato in Marco.
Senza entrare nei dettagli di questo difficile argomento, ritengo che la cosa si debba spiegare proprio come una precisa volontà di Gesù non tanto di rimanere nascosto (il che non era possibile e non era certamente nelle sue intenzioni!), quanto di non affidarsi ai troppo facili entusiasmi delle folle e persino dei discepoli, pronti a lasciarsi suggestionare da certi fatti sensazionali, ma « chiusi » al mistero della sofferenza, della rinuncia a se stessi, della croce. La gente, che adesso lo ricerca freneticamente, sarebbe stata disposta a seguirlo fino alla croce e sulla croce?
« Il mistero di Gesù diverrà veramente palese soltanto sulla croce e solo chi lo segue sulla via della croce può veramente comprenderlo. Perciò anche la più corretta delle proclamazioni fatte dai demoni, dai miracolati, dai discepoli, può solo produrre sventura finché il cammino di Gesù verso la croce non rende possibile la sequela, anzi la esige in maniera incondizionata… ».
« Al mattino si alzò quando ancora era buio… e là pregava »
La terza parte del brano ci trasferisce (però solo apparentemente!) in un altro clima: in realtà, ci dà come la chiave per afferrare il segreto di tutta l’attività di Gesù, ivi inclusi i suoi miracoli! Egli è « aperto » agli altri perché è soprattutto « aperto » a Dio, di cui nella preghiera cerca di interpellare la volontà e di respirarne come la presenza: « Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava » (v. 35).
Si direbbe quasi che Gesù voglia sfuggire all’entusiasmo della folla: allo stesso modo si ritirerà sulla montagna dopo la moltiplicazione dei pani, proprio per bloccare sul nascere un tentativo di acclamazione popolare a « re » d’Israele (Gv 6,15). Tutto questo è importante, perché niente ci sarebbe stato di più pericoloso per la missione di Gesù che essere intesa in chiave politica, o anche semplicemente umanitaria e sociale: è stata la continua « tentazione », che ha accompagnato il Signore dall’inizio della sua vita pubblica fino alla morte di croce!
Ma qui il ritirarsi di Gesù « in un luogo deserto », « di buon mattino », all’insaputa di tutti, per « pregare », ha un significato più profondo ancora. È il bisogno di ritirarsi solo con il Padre per attingere forza e chiedere luce per la sua missione, che è da poco iniziata e che si presenta già con sbocchi e potenzialità diverse: è come un rivedere e un programmare, alla luce di Dio, i piani della sua attività a servizio degli uomini, per non defraudare nessuno della ricchezza di amore che egli porta con sé. È una preghiera, perciò, ordinata a dar senso alla sua vita e alla sua azione: non una preghiera-fuga, ma una preghiera-impegno!
È quanto risulta dalla risposta che egli dà a Simone e agli altri che lo invitano a rimanere a Cafarnao, perché « tutti lo cercano »: « Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto! » (v. 38). Lo spazio della sua missione va ben oltre Cafarnao, dove non può fermarlo neppure la corrente di simpatia che già lo circonda: anche ad altri egli deve « annunciare » il Vangelo della salvezza, anche se questo comporterà per lui maggiori sacrifici e distacchi continui da persone, da luoghi, da cose.
È la missione affidatagli dal Padre, che esige questo: « Per questo infatti sono venuto! ». Il verbo qui adoperato (eksélthon), più che esprimere la sua uscita da Cafarnao (« sono venuto via »), come alcuni intendono, significa la sua « venuta » da parte di Dio per salvare gli uomini. È un’espressione tipicamente giovannea: « Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre » (Gv 16,28), dirà Gesù nel discorso di addio ai suoi discepoli.
Nella sua preghiera « solitaria » Gesù ha dunque come ritrovato se stesso, ha riletto il senso della sua missione nel misterioso ed esclusivo rapporto che lo lega al Padre, ed è pronto per portarla avanti nonostante il parere contrario dei discepoli: è la prima volta che si profila l’incomprensione dei suoi nei riguardi del Maestro.
« E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe »
E la sua missione è soprattutto una missione di annuncio: la salvezza incomincia dall’accettare per fede che in Gesù di Nazaret « il regno di Dio si è avvicinato » (Mc 1,15) agli uomini. I miracoli valgono solo come « segno » che il regno di Dio ha ormai fatto irruzione nel mondo; altrimenti, essi stessi potrebbero diventare un impedimento a credere rettamente! È quanto sembra volerci dire ancora san Marco che, concludendo con un rapido sommario il racconto degli inizi dell’attività di Gesù, di nuovo mette al primo posto l’ »evangelizzazione »: « E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni » (v. 39).
È perciò provvidenziale che anche la Chiesa oggi riscopra la « priorità » dell’evangelizzazione su qualsiasi altra attività, come afferma autorevolmente Paolo VI: « Proclamare di città in città, soprattutto ai più poveri, spesso più disposti, il gioioso annuncio del compimento delle promesse e dell’alleanza proposta da Dio: tale è la missione per la quale Gesù si dichiara inviato dal Padre. E tutti gli aspetti del suo ministero – la stessa incarnazione, i miracoli, l’insegnamento, la chiamata dei discepoli, l’invio dei dodici, la croce e la risurrezione, la permanenza della sua presenza in mezzo ai suoi – sono componenti della sua attività evangelizzatrice » (n. 6).

Da CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche, Anno B,

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 6 février, 2015 |Pas de commentaires »

God the Father by Ludovico Mazzolino (1480 – c. 1528)

God the Father by Ludovico Mazzolino (1480 – c. 1528) dans immagini sacre Ludovico_Mazzolino_-_God_the_Father

http://en.wikipedia.org/wiki/God

Publié dans:immagini sacre |on 5 février, 2015 |Pas de commentaires »

BENEDETTO SIA DIO… Ef.1. 3-10

http://www.adonaj.net/old/preghiera/lectio8.htm

BENEDETTO SIA DIO… Ef.1. 3-10

LECTIO DIVINA 8

Introductio: Preghiamo la Madonna, con l’Ave Maria, perché ci assista nell’accogliere lo Spirito Santo.

“Vieni, Spirito Santo, nei nostri cuori e accendi
In essi il fuoco del tuo amore. Vieni, Spirito Santo,
E donaci per intercessione di Maria che ha saputo
Contemplare, raccogliere gli eventi della vita di
Cristo e farne memoria operosa, la grazia di
Leggere e rileggere le Scritture per farne anche
In noi memoria viva e operosa.
Donaci, Spirito Santo, di lasciarci nutrire da questi
Eventi e di riesprimerli nella nostra vita.
E donaci, Ti preghiamo, una grazia ancora più
Grande; quella di cogliere l’opera di Dio nella
Chiesa visibile e operante nel mondo”: Amen.

Lectio. Leggiamo il testo con attenzione
In Efeso Paolo dimorò più a lungo che in qualsiasi altra città da lui evangelizzata. “Ricordatevi che per un triennio io non ebbi requie né di giorno né di notte, ammonendo fra le lacrime ciascuno di voi” (At. 20,31), dirà più tardi accomiatandosi dagli “anziani” di quella comunità. Vi rimase ininterrottamente dal 54 al 57 circa, facendone la tappa più importante del terzo viaggio missionario (At. 19,1-20,1).
Efeso era soprattutto nota per il culto pagano della dea Artemide (At.19,28. 34-35), il cui tempio (Artemision) era stato ricostruito, dopo un incendio, co0n tanto splendore da essere considerato una delle sette meraviglie del mondo.
In tutto il lungo periodo della sua dimora in Efeso Paolo estese la sua predicazione anche nelle numerose città del retroterra asiatico (Laodicea, Colossi, ecc.), di modo che davvero “tutti gli abitanti dell’Asia poterono ascoltare la parola del Signore, sia Giudei che Greci” (At. 19,10).
Il tema centrale della lettera è quello del disegno di Dio (il mistero) fissato da tutta l’eternità, rimasto velato lungo i secoli, realizzato in Cristo Gesù, rivelato a Paolo, spiegato alla Chiesa.
Chiesa che è celebrata come una realtà universale, terrena e celeste, o meglio, come la realizzazione attuale dell’ opera di Dio, l’opera della nuova creazione. Espressione che parte da Cristo, che ne è il capo, fino alle dimensioni complete previste da Dio, costituisce la vasta prospettiva verso cui il Creatore dirige le sguardo dei credenti. Questo dinamismo si esprime nella lode, nella conoscenza e nell’obbedienza così che i cristiani diventano creature nuove, inseriti col battesimo in quell’unico corpo mistico.

Meditatio.
“Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo ».
La preghiera di Paolo si apre con una benedizione di Dio. Ci può sembrare inconsueto. Ma questo è solo perché la nostra preghiera si nutre troppo spesso di contenuti vaghi o di fini egoistici. La lode gratuita, lo stupore ammirato per la grandezza del Signore, per la sua meravigliosa misericordia, per il mirabile piano di salvezza da lui predisposto per il nostro bene sono troppo assenti dalla nostra esperienza spirituale. Paolo ci introduce in un atteggiamento contemplativo che percorrerà tutta la prima parte della lettera. Il suo intento è quello di avviare il nostro incontro con il Dio di Gesù, con il Padre che svela finalmente nel Figlio incarnato il suo progetto di redenzione. Dio non è un concetto vago e oscuro: egli si manifesta sul volto di Cristo: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv.14,9).
“…che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo”.
Alla benedizione di Paolo indirizzata verso Dio fa riscontro la sovrabbondante benedizione di Dio riversata senza misura su tutta l’umanità. Il Padre è contemplato in questo suo costante atteggiamento benevolo. Egli pensa bene e “dice bene” delle sue creature. La sua benedizione non è un semplice augurio, ma si traduce in efficace operazione di bene sulla vita dei suoi figli: “E Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gn. 1,31). La benedizione viene dal cielo: vale a dire che non si produce per merito della creatura. Inoltre, essa è “in Cristo”: questa formula, che si ripeterà almeno sette volte nel primo capitolo della lettera, racchiude in sé il nucleo di ciò che Paolo intende comunicare: Gesù Cristo è il centro del piano di Dio, la sua “intenzione” per così dire, il senso e lo scopo di tutto ciò che esiste.
“In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nell’amore”.
Il progetto di Dio anticipa e previene la stessa creazione.Infatti ne costituisce il senso e la finalità. Siamo abituati a pensare all’opera di Dio in termini troppo umani, frutto della nostra immaginazione. Ciascuno di noi non è, per lui, un accidente secondario, che si è determinato per caso dopo la sua azione creativa. Da sempre il Padre ci ha pensato: e tutta la creazione è stata realizzata avendo come fine la pienezza della nostra vita, modellata sull’amore di Gesù, vero Dio e vero uomo, intorno al quale e in vista del quale ogni realtà prende senso e trova la propria verità. Ci viene offerta un’immagine riassuntiva e sintetica del significato di tutte le cose: l’intera creazione gira intorno al suo centro, che è la nostra chiamata a raggiungere la perfezione (essere santi e immacolati) attraverso il dono della somiglianza con Gesù, al cospetto di Dio, nell’amore.
“Predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà”
La volontà di Dio è la nostra “predestinazione” a essere suoi figli adottivi nella comunione di vita con suo Figlio Gesù. Questa predestinazione rispetta la libertà con la quale noi siamo chiamati ad accogliere il dono, ma possiamo anche respingerlo. Il dono dell’adozione a figli di Dio precede ogni nostra presunzione di merito. Esso ci è concesso, come abbiamo visto, perfino prima della creazione. Ma il “beneplacito della volontà” del Padre vuole rispettare la libertà di quella creatura che egli ha plasmato a propria immagine e somiglianza, proprio perché la risposta umana al dono di grazia non fosse un cieco destino o una conseguenza fatale della sua iniziativa, ma il frutto di una libera e riconoscente adesione. Per quanto dipende da Dio, siamo da sempre suoi figli. Da noi può solo dipendere la scelta drammatica e mortifera di sottrarci al suo amore paterno.
“E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo figlio diletto”.
Se da un lato il centro del piano divino è la nostra chiamata a essere figli di Dio in Cristo Gesù, Paolo non dimentica che, d’altro lato, la nostra redenzione dal peccato e dalla schiavitù è tutta orientata alla manifestazione piena della gloriosa grazia di Dio. Vale a dire che Dio stesso e il suo amore gratuito per noi sono il vero e ultimo scopo della creazione. Non potrebbe essere altrimenti: creazione e redenzione sono l’opera con cui Dio espande e comunica la sua stessa bontà. La pienezza di vita e l’altissima dignità alle quali siamo chiamati hanno come scopo il dispiegarsi della gloria di Dio.
“In lui abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia”.
La ricchezza della grazia di Dio e la profondità del suo amore si manifestano soprattutto nel fatto che l’umanità non è solo priva di meriti di fronte alla sua gratuita iniziativa, ma è carica di colpe. La salvezza non raggiunge il genere umano semplicemente in attesa del dono, ma diventa redenzione da una condizione disgraziata di peccato e di morte. Per questo motivo è stato necessario il “sangue” di suo Figlio, segno della sua morte cruenta che è seguita alla sua libera decisione di consegnarsi nelle mani dei peccatori, per sconfiggere il potere della morte. Infatti il dono redentivo dell’amore di Dio non poteva evitare di passare attraverso lo scandalo della croce.
“Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza, poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi”.
Dobbiamo imparare a “conoscere il mistero”. Sembra un’espressione contraddittoria: ciò che si conosce non è più un mistero. Eppure la volontà di Dio è così ricca di significato che non può mai essere esaurita dalla nostra conoscenza. Di fronte alla sapienza e all’intelligenza con le quali Dio riversa su di noi la sua sovrabbondante grazia la nostra mente non deve chiudersi come di fronte a un enigma incomprensibile. Come vedremo, più volte Paolo auspica una comprensione sempre più profonda e una conoscenza sempre più viva del “mistero”. La “pienezza dei tempi”, nella quale il Padre ha realizzato il suo piano, è il momento in cui, contemplando il sangue di Cristo sparso per noi, siamo introdotti nella sapienza sempre nuova e sempre più profonda del suo amore.
“…il disegno di ricapitolare in Cristo, tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra”.
Ecco che, finalmente, il progetto di Dio ci viene presentato nei suoi termini essenziali: tutta la realtà e tutta la storia trovano in Cristo il proprio “capo”, cioè il punto di riferimento capace di dare a ogni cosa il suo giusto valore e il suo senso. La verità della nostra vita e dell’intera creazione è “ricapitolata” in Gesù Cristo. Egli è la fonte di ogni libertà, di ogni giustizia, di ogni valore. La fede cristiana consiste fondamentalmente nell’assenso dato a quest’unica e sintetica rivelazione: la volontà di Dio è la conformazione di ogni cosa alla persona di suo Figlio incarnato; a lui deve essere conformata ogni libertà umana, perché la vita di ogni uomo diventi un membro del corpo di cui Gesù è il capo. E attraverso la libertà umana, così redenta dal peccato, anche tutta la creazione assume da capo una forma nuova e viene salvata dalla contraddizione e dalla vanità.

Contemplatio
Anche noi come san Paolo siamo rapiti al pensiero del meraviglioso piano di salvezza architettato da Dio fin dall’eternità e realizzato in Cristo Gesù. Noi accumuliamo parole su parole, concetti su concetti, in forma concitata che non ci lascia neppure il tempo di interrompere, con qualche pausa, questa fremente intuizione dello Spirito che si può dividere in due parti:
-Lode al Padre per averci ricolmati di ogni beneficio e specialmente per averci donato la “filiazione divina”;
-Lode al Padre per averci redenti e avere ricapitolato tutto in Cristo Gesù.
Noi ti lodiamo Padre per avere applicato questi benefici mediante la vocazione alla fede e i doni dello Spirito Santo. Noi ora sappiamo che da te ha origine tutto il piano della salvezza. “Nei cieli” (=luoghi celesti), di cui noi siamo già cittadini. Tu, Signore, distribuisci ogni abbondanza di doni “spirituali” (=sfera del divino). Conosciamo che il tutto viene a noi “in unione a Cristo”, unico intermediario fra Dio Padre e noi. E’ giusto perciò lodare e “benedire” il Padre celeste. Noi siamo consapevoli del bisogno di salvezza e lo esprimiamo nell’impegno di approfondire sempre meglio il mistero del Salvatore, come ci è stato descritto con mirabili parole da san Paolo. Perché ciò significa penetrare il mistero dell’Amore infinito che ne è l’unica spiegazione, come abbiamo visto dalla meditatio.
Noi ora sappiamo, Padre celeste, che tu sei amore: tutto ciò che opera in te e fuori da te è opera di amore. Essendo il Bene infinito, tu non puoi amare nulla fuori di te spinto dal desiderio di aumentare la tua felicità: in te hai tutto. Perciò in te Padre amare, e quindi volere le creature, è puramente espandere al di fuori di te il tuo bene infinito, le tue perfezioni, è partecipare ad altri il tuo essere, la tua felicità.
Così tu ci ami di amore eterno e, amandoci, ci hai chiamati all’esistenza dandoci la vita naturale e la vita soprannaturale. Tu, Padre, non solo hai creato dal nulla gli uomini, ma ci hai creati nella condizione di figli tuoi, destinandoci a partecipare alla tua vita intima, alla tua beatitudine eterna fin da prima della creazione. Questo è il progetto della tua immensa carità verso noi povere e deboli creature; ma quando il peccato è entrato nel mondo facendoci cadere, tu, o Padre, che ci avevi creato in un atto d’amore, hai voluto redimerci in un atto d’amore ancora più grande.
Con la lode di san Paolo, abbiamo compreso il mistero dell’Incarnazione che si è presentata come la suprema manifestazione del grande amore con il quale Tu, o Dio, ci hai amati. “In questo si è manifestato l’amore di Dio verso di noi: che Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non che noi abbiamo amato Dio, ma che lui ha amato noi e ha mandato il suo Figlio quale propiziazione per i nostri peccati” (1 Gv.4,9-10).
Dopo averci donato la vita naturale, dopo averci destinati alla vita soprannaturale, che cosa potevi fare di più per noi che darci te stesso, il tuo Verbo, fatto carne, per liberarci dalla schiavitù del peccato?
Noi sappiamo che sei carità, e non fa quindi meraviglia se la stessa tua azione a favore degli uomini è una storia d’amore, e di amore misericordioso. Il piano della creazione e della redenzione “scaturisce dall’amore nella sua stessa fonte“, cioè dalla carità tua, Padre, che…nella tua immensa e misericordiosa benevolenza ci hai creati ed inoltre gratuitamente ci chiami a partecipare alla tua vita e alla tua gloria ricapitolandoci in Cristo Gesù.

Conclusio.
Mio Dio: fammi degno di conoscere maggiormente il mistero che operò l’ineffabile carità tua infiammante, dispensata dalla stessa Trinità fin dall’inizio dei tempi: il mistero della tua Incarnazione che facesti per me , per noi, per l’umanità intera e fu l’inizio della salvezza degli uomini.
Signore, ti lodo e benedico come san Paolo, ti ringrazio per il tuo amore. Tu mi hai amato tanto che per amor mio ti sei fatto nel tempo, tu che hai fatto i tempi; e nel mondo eri minore di età a molti tuoi servi, tu che sei più antico del mondo; e ti sei incarnato, tu che hai fatto l’uomo; sei stato creatura di madre da te creata, e sei stato portato fra mani da te formate, e hai succhiato a un petto da te ricolmato, e hai vagito quale neonato nella mangiatoia, tu che sei il Verbo, senza del quale è muta l’umana eloquenza.
Gesù, lasciami dire, nell’eccesso della mia riconoscenza, lasciami dire che il tuo amore arriva nella profondità del mio essere…Come vuoi che, dinanzi a questo amore, il mio cuore non si slanci verso di te abbracciandoti? Come potrebbe avere limiti la mia fiducia?

Lode e gloria a te Gesù. Amen.

Publié dans:Lettera agli Efesini |on 5 février, 2015 |Pas de commentaires »

DIO PADRE IN SAN PAOLO

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-06/14-2/DioPadre3.rtf.html

DIO PADRE IN SAN PAOLO

Alberto Piola

Introduzione

Affrontando il messaggio su Dio presente nella teologia di san Paolo, non solo andiamo a conoscere che cosa Gesù ci ha rivelato su Dio, suo e nostro Padre, ma vediamo anche una riflessione cristiana su Dio. Nelle sue lettere Paolo seppur non in modo sistematico visto il loro carattere occasionale spiega ai primi cristiani il nuovo concetto cristiano di Dio, inscindibilmente legato a quanto è successo nell’evento della vita, morte e risurrezione di Gesù.

Alla ricerca di Dio
Essere cristiani secondo Paolo non significa essere delle persone che adorano Cristo come l’unico Dio: infatti, il rimando ultimo non è Gesù, ma il Padre; compito di Gesù è proprio quello di metterci in contatto con il Padre: 1 Timoteo 2,5-6 Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti.
Il centro della predicazione di Paolo ha un carattere soteriologico: Dio ha salvato gli uomini per mezzo di Gesù Cristo morto e risorto. Quindi egli guarda innanzi tutto a ciò che Dio ha fatto e non tanto alla sua natura e al suo mistero. Ma da quello che Dio « fa » si può capire ciò che Dio « è ».
Ma chi è questo Dio? È precisamente « il Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (Romani 15,5). Per Paolo questo è il volto specifico della prima persona della Trinità ed è questa paternità che gli permette di annunciare la nuova immagine cristiana di Dio.
Paolo non parte dall’ateismo: per lui è scontata l’esistenza e la presenza di Dio: Romani 11,36 da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Sente Dio come presente e vicino a sé: egli sta « davanti » a Lui, lo loda e lo ringrazia; Romani 1,8 rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. È addirittura « il mio Dio »! e allora può arrivare a dire: 1 Corinzi 8,6 per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Tutto questo è possibile per Paolo perché ha capito di essere inserito in un progetto di Dio: Romani 8,28-30 noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Per Paolo allora « Dio non è soltanto prima dell’uomo, ma è prima nell’amore; ha amato gli uomini prima che essi potessero amarlo: li ha amati dall’eternità. Il Dio vicino è dunque il Dio che chiama e ama l’uomo dalla profondità infinita della sua eternità. Così è un Dio vicino e, nello stesso tempo, un Dio lontano ».
Però, ci dice Paolo, questo Dio non è immediatamente raggiungibile: è necessaria nella vita dell’uomo la ricerca di Dio. Dio è più grande di noi: è uno ed unico; 1 Corinzi 8,4-6 noi sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo e che non c’è che un Dio solo. E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dei sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Il netto rifiuto di altri idoli (cfr. l’ambiente pagano in cui Paolo annuncia il Vangelo) significa che per essere cristiani occorre fare il passaggio dagli idoli sempre possibili della nostra vita alla scelta dell’unico Dio; come hanno fatto i Tessalonicesi: vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero (1Tess 1,9).
Ciononostante, non è facile per Paolo capire chi è questo Dio, i cui giudizi sono imperscrutabili (Romani 11,33 O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!). L’uomo non può capire da solo chi sia Dio: 1 Corinzi 2,10-11 lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ci sono delle strade umane per arrivare a Dio:
la via della creazione: l’osservazione del mondo creato pone degli interrogativi per la sua grandezza e bellezza: Romani 1,20 dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità. Quindi le creature rimandano al Creatore; ma per Paolo questa via è pericolosa: il mistero di Dio rimane comunque inaccessibile e c’è sempre il pericolo di divinizzare il creato. Infatti gli uomini sono caduti nell’idolatria: Romani 1,21-23 sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. L’uomo da solo non è quindi in grado di arrivare dalle creature al Creatore: 1 Corinzi 1,20-21 Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.
le opere buone: sono senza dubbio l’espressione dei nostri sforzi di fedeltà alla legge del Signore e manifestano il nostro desiderio di essere fedeli a Lui. Però Paolo conosce l’orgogliosa consapevolezza che il popolo di Israele aveva del possesso della Legge e invita a non farsi illusioni: la sola osservanza della Legge non salva: Romani 9,30-32 Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Non è quindi possibile giungere a Dio solo con una prestazione morale, perché Dio non si lascia ipotecare dai presunti meriti dell’uomo.
In Paolo risulta così « chiaro che il Dio del Nuovo Testamento, essendo colui che si rivela mediante l’imprevedibile e scandalosa stoltezza della Croce di Cristo (cfr. 1Cor 1,17-25), è per eccellenza il Dio della grazia (Ef 2,8), che preferisce i deboli, i peccatori, gli emarginati dalle religioni, i lontani. Egli è presente attivo là dove non lo si immaginerebbe: nel condannato e suppliziato Gesù di Nazareth. Egli perciò diventa, a sorpresa, oggetto di una scoperta donata: un Dio così non si poteva trovare in base a semplici presupposti umani; un Dio così poteva soltanto rivelarsi di sua propria iniziativa ».
L’azione salvifica di Dio Padre
Quindi il vero punto di partenza è che Dio si è rivelato in Gesù Cristo: il suo nome è proprio quello di essere il Padre di Gesù e in questo suo Figlio ci ha voluto salvare. Che Dio ci salvi è un’affermazione tanto scontata quanto problematica: l’uomo moderno sembra fare benissimo a meno di una salvezza, al limite può riconoscere la sua impotenza di fronte a certe situazioni.
È nella vita, morte e risurrezione di Gesù che Dio si è rivelato come il Dio per noi: Romani 8,31-32 Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?. È proprio in Gesù che abbiamo potuto conoscere un amore insospettato: Romani 8,35-39 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.
Ma che cosa vuol dire per Paolo che Dio è un Padre che ci salva?
tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Romani 3,23): la condizione propria dell’uomo è quella del peccato: infatti tutti quanti commettiamo peccati e siamo all’interno di un mondo che porta con sé il peccato e la sua forza (cfr. i vari condizionamenti che subiamo verso il male). È la condizione dell’umanità in cui nasciamo: Romani 5,12 come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. È una condizione tragica, perché siamo lontani da Dio e siamo dominati dal potere del peccato; se infatti al di là di ingenue illusioni andiamo a vedere che cosa succede in noi quando siamo « abitati » dal peccato, ci rendiamo conto che se il circolo non viene spezzato facilmente siamo schiavi della logica del peccato che ci allontana da Dio rendendoci attraente il bene. Proprio per questa situazione Dio è venuto a salvarci in Gesù: Romani 5,17-19 se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
Dio nel suo amore misericordioso giustifica i peccatori: questo Padre che ci è venuto a cercare non ha voluto che noi restassimo in questa condizione di peccato ma ha scelto di trasformarci e di renderci giusti. Tutti gli uomini sono sotto il giudizio e l’ira di Dio (cfr. Romani 1,18): ma ad essere annientato non è l’uomo peccatore, bensì il suo peccato; perché Dio, oltre ad essere giusto, è anche il Dio della tolleranza e della pazienza: Romani 2,1-11 Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia. Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco; gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco, perché presso Dio non c’è parzialità. Quell’uomo che era peccatore è ora reso giusto dall’amore di Dio in Cristo: Romani 5,8 Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. È questa la lieta notizia sul destino dell’uomo: 1 Tessalonicesi 5,9-10 Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Si tratta quindi di un Dio « giusto » e nello stesso tempo « giustificante », che ci rende giusti: Romani 3,24-26 tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù.
Non possiamo giustificarci da soli: la Legge degli Ebrei non serve più, l’unica condizione per essere resi giusti da Dio nostro Padre è la fede nel suo Figlio Gesù. Noi oggi non abbiamo certo più i problemi dei primi cristiani che si sentivano ancora vincolati all’osservanza della Legge giudaica, ma possiamo avere la medesima tentazione di fondo: cavarcela da soli, essere giusti per le nostre forze. È troppo forte per Paolo il rischio di sentirci orgogliosamente salvati da soli; il vero modello del credente è Abramo con la sua fede: Romani 3,28; 4,1-3.18-22 Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato secondo la carne? Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia . Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia.
Dio ci giustifica per mezzo della fede in Gesù Cristo: con il Cristo è cominciato il tempo ultimo della salvezza in cui Dio Padre ci ha detto e dato tutto nel suo Figlio Gesù. Egli è morto sulla croce « per noi », cioè a causa nostra e per i nostri peccati; ed è proprio lì che ci ha salvati, ci ha resi giusti liberandoci dalle colpe. Lui è il Risorto, colui che il Padre ha confermato dopo lo scacco supremo della morte: credere in Lui è ora per il cristiano il mezzo per salvarsi. Credere in Dio Padre si vedrà ora nel nostro rapporto personale di fede con il Figlio, perché tutta la nostra vita sia inserita nel Signore: Romani 14,7-8 Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore.
« In conclusione, il Dio che rivela san Paolo è il Dio Salvatore, cioè il Dio che, nel suo infinito amore per gli uomini peccatori, ha mandato nel mondo il suo Figlio Gesù, nato da donna, perché con la sua morte redimesse gli uomini e con la sua risurrezione desse la vita eterna a coloro che credono in lui e con la fede e la carità vivono in lui e per lui. Per san Paolo, Dio è il Dio di Abramo, di Mosè e dei Profeti; è il Dio della promessa fatta ad Abramo. Tuttavia la rivelazione che Gesù gli ha fatto di sé sulla via di Damasco ha trasformato la sua vita e la sua visione di Dio. Per lui ormai Dio è colui che salva gli uomini in Gesù Cristo. È il Dio per noi (Rm 8,31), il Dio che ci dà speranza, perché il suo amore è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5) ».
Alcuni spunti
Il messaggio di Paolo su Dio Padre ci dà senza dubbio molti altri spunti oltre a quanto abbiamo già trovato nei Vangeli.
Dio Padre è un Dio che va sempre cercato: c’è da preoccuparsi seriamente quando non siamo più capaci a cercare Dio o quando crediamo di saper già tutto di lui Può non esserci molto difficile lasciare aperta la domanda su Dio di fronte alle bellezze del creato o di fronte ai grandi perché della vita; ma l’atteggiamento della ricerca è ancora qualcosa di più: è un dinamismo attivo, è un desiderio. Come è accaduto a Paolo, così ognuno può avere la sua caduta lungo la strada di Damasco: e si scopre di non conoscere ancora il vero volto di Dio.
L’esperienza personale di Paolo ci ha presentato un Dio presente e vicino, che lui chiama il « mio Dio »: è un punto di arrivo del cammino di fede, che deve partire dal riconoscimento della trascendenza di Dio (altrimenti diventa « l’amicone » che non mi mette più in discussione). Il Dio trascendente ed immanente è il Dio che vediamo nel Natale: l’Eterno sotto la figura di un piccolo bambino ma è proprio così che lo comprendiamo come il « Dio per noi », il Dio che sta dalla nostra parte, combatte la nostra stessa battaglia. Altrimenti che ce ne facciamo di un Dio che sta solo accanto a noi o sopra di noi?!
Nel nostro cammino verso Dio Padre ci ha avvertiti Paolo corriamo il rischio di divinizzare il creato: logicamente non fa problema che il passaggio da fare è quello dalle creature al Creatore, ma praticamente è molto più difficile riuscire a dare sempre a tutto il giusto posto. Verificare ogni tanto il nostro rapporto con i beni creati non fa male: dov’è il nostro cuore?
Nemmeno le « opere della Legge » servono per essere in comunione con il Padre: con Dio cioè non vale contrattare in base ai propri meriti. La logica commerciale può essere presente anche nel nostro rapporto con Dio, quando perdiamo la dimensione filiale; ovviamente i problemi nascono quando non siamo ripagati delle nostre prestazioni a Dio. Lasciarci salvare è terribilmente difficile: la passività arriva dopo una serie infinita di sforzi, e forse non ce la faremo mai ad essere totalmente ricettivi nei confronti di Dio. Intendere le nostre attività « solo » come risposta ad un dono richiede moltissima umiltà. Forse impariamo troppo poco dai nostri fallimenti
E per lasciarci salvare occorre riconoscere il peccato che è noi: è un’altra dimensione della medesima realtà. Ma se continueremo a dire che tutto sommato siamo a posto così, che c’è in fondo chi è peggio di noi, molto difficilmente avremo bisogno di invocare Dio salvatore. Al limite potremo pretendere che ci ricompensi dei nostri successi e che nella sua bontà un po’ ingenua chiuda gli occhi sui nostri insuccessi.
Credere in Dio è credere che Lui ci trasforma: può essere il messaggio finale che ci dona san Paolo; lui ha saputo cambiare la sua concezione di Dio e ha saputo lasciarci trasformare da Lui. Tutta la nostra vita cristiana è un cammino per lasciarci trasformare da Dio e per poter giungere a vivere con Lui per sempre.
Allora Giobbe rispose al Signore e disse: Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere (Gb 42,1-3.5-6).

Publié dans:Paolo - la fede, Paolo: studi |on 5 février, 2015 |Pas de commentaires »

The Saint Augustine Taken to School by Saint Monica. » by Niccolò di Pietro 1413-15

The Saint Augustine Taken to School by Saint Monica.

http://en.wikipedia.org/wiki/Augustine_of_Hippo

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CONVERSIONE DI SAN PAOLO [1] – DOM PROSPER GUERANGER

http://www.unavoce-ve.it/pg-25gen.htm

CONVERSIONE DI SAN PAOLO [1] – DOM PROSPER GUERANGER

Abbiamo visto la Gentilità, rappresentata ai piedi dell’Emmanuele dai Re Magi, offrire i suoi mistici doni e ricevere in cambio i doni preziosi della fede, della speranza e della carità. La messe dei popoli è ormai matura; è tempo che il mietitore vi ponga la falce. Ma chi sarà questo operaio di Dio? Gli Apostoli di Cristo non hanno ancora lasciata la Giudea. Tutti hanno la missione di annunciare la salvezza fino agli estremi confini del mondo, ma nessuno fra loro ha ancora ricevuto il carattere speciale di Apostolo dei Gentili. Pietro, l’Apostolo della Circoncisione, è destinato particolarmente, al pari di Cristo, alle pecore smarrite della casa d’Israele (Mt 15,24). Tuttavia siccome è il capo e il fondamento, spetta a lui aprire la porta della Chiesa ai Gentili, e lo fa solennemente, conferendo il Battesimo al centurione romano Cornelio.
Intanto la Chiesa si prepara: il sangue del Martire Stefano e la sua ultima preghiera otterranno un nuovo Apostolo: l’Apostolo delle Genti. Saulo, cittadino di Tarso, non ha visto Cristo nella sua vita mortale e soltanto Cristo può fare un Apostolo. Dall’alto dei cieli dove regna impassibile e glorificato, Gesù chiamerà Saulo alla sua scuola, come chiamò negli anni della sua predicazione a seguire i suoi passi e ad ascoltare la sua dottrina i pescatori del lago di Genezareth. Il Figlio di Dio rapirà Paolo fino al terzo cielo, e gli rivelerà tutti i suoi misteri; e quando Saulo avrà avuto modo, come egli narra, di vedere Pietro (Gal 1,18) e di paragonare con il suo il proprio Vangelo, potrà dire: « Io non sono meno apostolo degli altri Apostoli ».
È appunto nel giorno della Conversione di Saulo che ha ini­zio questa grande opera. È oggi che risuona quella voce che spezza i cedri del Libano (Sal 28,5), e la cui immensa forza fa del Giudeo persecutore innanzitutto un cristiano, nell’attesa di farne un Apostolo. Questa meravigliosa trasformazione era stata vaticinata da Giacobbe allorché sul letto di morte svelava l’avvenire di ciascuno dei suoi figli, nelle tribù che dovevano uscire da essi. Giuda ebbe i più alti onori: dalla sua stirpe regale doveva nascere il Redentore, l’atteso delle genti. Beniamino fu annunciato a sua volta sotto caratteristiche più umili, ma pure gloriose: sarà l’avo di Paolo, e Paolo l’Apostolo delle genti.
Il santo vegliardo aveva detto: « Beniamino è un lupo rapace: al mattino si prende la preda; ma alla sera distribuisce il bottino » (Gen 49,27). Colui che nell’ardore della sua adolescenza si scaglia come un lupo spirante minaccia e strage all’inseguimento delle pecore di Cristo, non è forse – come dice sant’Agostino (Disc. 278) – Saulo sulla via di Damasco, portatore ed esecutore degli ordini dei pontefici del Tempio e tutto ricoperto del sangue di Stefano che egli ha lapidato con le mani di coloro ai quali custodiva le vesti? Colui che, alla sera, non rapisce più le spoglie del giusto, ma con mano caritatevole e pacifica distribuisce agli affamati il cibo vivificante, non è forse Paolo, Apostolo di Gesù Cristo, bruciante d’amore per i suoi fratelli, e che si fa tutto a tutti, fino a desiderare di essere anatema per essi?
Questa è la forza vittoriosa dell’Emmanuele, forza sempre crescente e alla quale nulla può resistere. Se egli vuole come primo omaggio la visita dei pastori, li fa chiamare dai suoi angeli le cui dolci note sono bastate per condurre quei cuori semplici alla mangiatoia dove giace sotto poveri panni la speranza d’Israele. Se desidera l’omaggio dei principi della Gentilità, fa spuntare in cielo una stella simbolica, la cui apparizione, aiutata dall’intimo moto dello Spirito Santo, fa decidere quegli uomini a venire dal lontano Oriente a deporre ai piedi d’un bambino i loro doni e i loro cuori. Quando è giunto il momento di formare il Collegio Apostolico, cammina sulle rive del mar di Tiberiade, e basta la sola parola: Seguitemi, per legare a lui gli uomini che ha scelti. In mezzo alle umiliazioni della sua Passione, un suo sguardo cambia il cuore del discepolo infedele. Oggi, dall’alto dei Cieli, compiuti tutti i misteri, volendo mostrare che egli solo è maestro dell’Apostolato e che la sua alleanza con i Gentili è consumata, si manifesta a quel Fariseo che vorrebbe distruggere la Chiesa; spezza quel cuore di Giudeo e crea con la sua grazia un nuovo cuore d’Apostolo, un vaso di elezione, quel Paolo che dirà d’ora in poi: « Vivo, ma non son già io, bensì Cristo che vive in me » (Gal 11,20).
Ma era giusto che la commemorazione di quel grande evento venisse a porsi non lontano dal giorno in cui la Chiesa celebra il trionfò del Protomartire. Paolo è la conquista di Stefano. Se l’anniversario del suo martirio s’incontra in un altro periodo dell’anno (29 giugno), non poteva fare a meno di apparire accanto alla culla dell’Emmanuele, come il più splendido trofeo del Protomartire; i Magi esigevano anche il conquistatore della Gentilità di cui formavano le primizie.
Infine, per completare la corte del nostro grande Re, era giusto che si elevassero ai lati della mangiatoia le due potenti colonne della Chiesa, l’Apostolo dei Giudei e l’Apostolo dei Gentili: Pietro con le chiavi e Paolo con la spada. Betlemme ci sembra allora ancor più l’immagine della Chiesa, e le ricchezze della liturgia in questa stagione ci appaiono più belle che mai.
Noi ti rendiamo grazie, o Gesù, perché hai oggi abbattuto il tuo nemico con la tua potenza, e l’hai risollevato con la tua misericordia. Tu sei veramente il Dio forte, e meriti che ogni creatura celebri le tue vittorie. Come son meravigliosi i tuoi piani per la salvezza del mondo! Tu associ gli uomini all’opera della predicazione della tua parola e alla dispensa dei tuoi misteri; e per rendere Paolo degno di tale onore, usi tutte le risorse della grazia. Ti compiaci di fare dell’assassino di Stefano un Apostolo, perché il tuo potere si mostri a t’urti gli occhi, il tuo amore per le anime appaia nella sua più gratuita generosità, e sovrabbondi la grazia dove abbondò il peccato. Visitaci spesso, o Emmanuele, con questa grazia che cambia i cuori, perché noi desideriamo la vita in larga misura, ma sentiamo che il suo principio è così spesso sul punto di sfuggirci. Convertici come hai convertito l’Apostolo e assistici quindi, poiché senza di te noi non possiamo far nulla. Previenici, seguici, accompagnaci, non lasciarci mai, e come ci hai dato il principio, così assicuraci la perseveranza sino alla fine. Concedici di riconoscere, con timore ed amore, quel dono della grazia che nessuna creatura potrebbe meritare, e al quale tuttavia una volontà creata può fare ostacolo. Noi siamo prigionieri: solo tu possiedi lo strumento con l’aiuto del quale possiamo infrangere le nostre catene. Tu lo poni nelle nostre mani, dicendoci di usarlo: sicché la nostra liberazione è opera tua e non nostra, e la nostra prigionia, se continua, si deve attribuire soltanto alla nostra negligenza e alla nostra viltà. Dacci, o Signore, questa grazia; e degnati di ricevere la promessa di associarvi umilmente la nostra cooperazione.
Aiutaci, o san Paolo, a corrispondere ai disegni della misericordia di Dio su di noi; fa’ che siamo soggiogati dalla dolcezza di Gesù. Non udiamo la sua voce, la sua luce non colpisce i nostri occhi, ma leva il suo lamento perché troppo spesso lo perseguitiamo. Ispira ai nostri cuori la tua preghiera: « Signore, che vuoi che io faccia? ». Ci risponderà di essere semplici e bambini come lui, di riconoscere il suo amore, di finirla con il peccato, di combattere le cattive inclinazioni, di progredire nella santità seguendo i suoi esempi. Tu hai detto, o Apostolo: « Chi non ama nostro Signore Gesù Cristo sia anatema! ». Faccelo conoscere sempre più, perché lo amiamo, e questi dolci misteri non diventino, per la nostra ingratitudine, la causa della nostra riprovazione.
Vaso di elezione, converti i peccatori che non pensano a Dio. Sulla terra tu ti sei prodigato interamente per la salvezza delle anime; nel cielo dove ora regni, continua il tuo ministero, e chiedi al Signore, per coloro che perseguitano Gesù nelle sue membra quelle grazie che vincono i più ribelli. Apostolo dei Gentili, volgi gli occhi su tanti popoli che giacciono ancora nell’ombra della morte. Un giorno tu eri combattuto fra due ardenti desideri: quello di essere con Gesù Cristo, e quello di restare sulla terra per lavorare alla salvezza dei popoli. Ora, tu sei per sempre con il Salvatore che hai predicato: non dimenticare quelli che ancora non lo conoscono. Suscita uomini apostolici per continuare la tua opera. Rendi fecondi i loro sudori e il loro sangue. Veglia sulla Sede di Pietro, tuo fratello e tuo capo; sostieni l’autorità della Chiesa di Roma che ha ereditato i tuoi poteri, e che ti considera come la sua seconda colonna. Rivendicala dovunque è misconosciuta; distruggi gli scismi e le eresie; riempi tutti i pastori del tuo spirito, affinché sul tuo esempio non cerchino se stessi, ma unicamente e sempre gli interessi di Gesù Cristo.
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[1] Il martirologio geronimiano menziona, alla data del 25 gennaio, una Translatio S. Pauli Apostoli. « A poco a poco, tuttavia l’orientazione storica si spostò, e al concetto di una traslazione materiale delle Reliquie di san Paolo, sostituendosi quello d’una traslazione o mutamento psicologico e spirituale avvenuto nelo stesso Apostolo sulla via di Damasco, dalla translatio fisica, si passò così alla mistica Conversio del medesimo » (Liber Sacram. vol. VI, p. 185). Sembra che la festa abbia avuto origine nelle chiese della Gallia e sia passata poi progressivamente, a partire dall’VIII secolo, nei libri romani. I testi dell’Ufficio e della Messa sorpassano l’oggetto storico e preciso della festa. Si tratta non solo della Conversione di san Paolo, ma anche di tutte le sue conseguenze, lo zelo e le tribolazioni dell’Apostolo. 

SANT’AGOSTINO, L’AM0RE DELLA VERITA’ E IL DOVERE DELL’AMORE

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/07-Luglio/7-Sant_Agostino.html

SANT’AGOSTINO, L’AM0RE DELLA VERITA’ E IL DOVERE DELL’AMORE

Oggi nei mass media in genere e nella pubblicità in particolare gli aggettivi superlativi si sprecano: tutti sono grandissimi, bravissimi, famosissimi (vedi giocatori, cantanti, attori et similia). Io ci andrei piano nel decretare il superlativo ad un personaggio ancora vivente. Semplicemente perché non ha ancora vinto l’usura del tempo, che divora con molta facilità miti e personaggi effimeri, che durano un anno o addirittura una sola stagione se non pochi mesi.
Sul santo di questo mese, sant’Agostino, gli aggettivi superlativi possiamo usarli tranquillamente: li merita tutti. Anche perché ha sfidato il tempo, che tutto consuma e molto dimentica. Agostino non è stato mai dimenticato anzi… da 1600 anni il suo nome risuona solenne, sia nelle chiese, dove è spesso citato, sia nelle aule universitarie (è stato un filosofo) sia nelle scuole di teologia (è stato un teologo). Ancora oggi ricordato, citato, ammirato, studiato, confrontato, pregato. Diciamolo tranquillamente: è un “grandissimo” dell’umanità.
Giovanni Paolo II lo ha definito: “il padre comune dell’Europa cristiana… Un uomo incomparabile, di cui un po’ tutti nella Chiesa e in Occidente ci sentiamo discepoli e figli”. Anche gli ultimi Papi lo hanno sempre posto tra i “sommi maestri” della Chiesa. Agostino è sì un padre e un dottore della Chiesa, ma la sua influenza va al di là della sfera semplicemente ecclesiale. È su tutta la cultura occidentale che Agostino ha esercitato una influenza profonda, duratura e continua. Un parere autorevole del filosofo Karl Jaspers: “Agostino è la figura più originale del pensiero cristiano e l’influenza esercitata sul pensiero occidentale è la più vasta di tutte”.
Ha vinto brillantemente il test del tempo. Perché? Perché ha saputo parlare all’uomo eterno che c’è in tutti noi, a tutte le sue componenti: è stato il contemporaneo di tutti. “Con una intensità riscontrabile in pochi casi, in Agostino la dimensione esistenziale e quella affettiva si intrecciano inestricabilmente con quella religiosa e con quella filosofica: fede e ragione, ricerca della verità e conquista di essa, invocazione e riflessione, lettura e dialogo, scrittura polemica e preghiera appassionata, amore e amicizia, spirito e carne si incontrano e si scontrano nella vita di Agostino, entrano in conflitto, si compenetrano, si attraggono, si respingono, fino a trovare una sintesi suprema nella pace interiore raggiunta… (M. Schoepflin).
Un lungo cammino di ricerca della verità
Questo autentico genio dell’umanità nacque nel 354 a Tagaste, nell’attuale Algeria del nord, da Monica, una donna cristiana e molto pia, e dal padre Patrizio, che non era né l’uno né l’altro.
Le grandi verità della fede cristiana fu solamente la madre Monica a instillarle in Agostino, e bisogna dire che erano così ben radicate che riemersero alla fine del lungo travaglio spirituale ed esistenziale, culminato nella conversione dell’anno 387 a Milano, quando ricevette il battesimo dalle mani del grande vescovo Ambrogio.
Alcune date principali della sua vita. Nel 371 faceva la prima tappa a Cartagine, con l’aiuto dell’amico Romaniano, per gli studi di retorica, mentre nello stesso anno cominciava a convivere con una donna (qualcuno dirà che è moderno anche in questo!). Non la sposerà mai, anche se gli darà un figlio, Adeodato. Nel 374 tornò a Tagaste come professore di retorica ma sua madre non lo accettò più in casa, per via della convivenza con la donna e anche perché nel frattempo aveva aderito all’eresia manichea. Nel 375 aprì una scuola di eloquenza a Cartagine. Aveva grandi speranze, ma non ebbe vita facile: gli allievi erano dei veri “eversores” oggi diremmo molto indisciplinati o, se preferite, “casinisti” (qualche professore di oggi dirà “niente di nuovo”).
Finalmente nel 383, il giovane Aurelio Agostino, cittadino romano di famiglia africana, fece il grande salto: Roma, la grande capitale, in cerca di un posto… fisso, come professore di retorica. Non ebbe molta fortuna: lavori saltuari, un po’ di precariato, e, anche qui, studenti non proprio modello (disciplinati sì un po’ di più, ma non pagavano). Oltre queste difficoltà dovette affrontare anche una grave malattia.
Intanto continuava a frequentare i manichei. Poi, nel 384, la svolta decisiva: è inviato dal prefetto di Roma, Simmaco, a Milano come professore di eloquenza. Qui lo raggiunse anche la madre Monica, che non lo perdeva mai di vista, ed ebbe la fortuna di conoscere, in un incontro provvidenziale e decisivo, il grande vescovo della città: Ambrogio.
L’anno 386 è quello decisivo, con le importanti letture dei filosofi platonici e delle lettere di San Paolo che saranno la scintilla ultima della conversione.
Un giorno mentre era nel giardino… sentì la voce di un bambino che gli ripeteva: “Tolle, lege, tolle, lege”. Prendi il libro e leggi. Aprì San Paolo dove dice: “Comportiamoci onestamente… non nelle ubriachezze e nell’impurità… Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo…” (Rm 13,13).
Agostino venne come folgorato da quella Parola, come San Paolo sulla via di Damasco. Aveva trovato o forse meglio ri-trovato (e questa volta accettato pienamente) Gesù Cristo come il proprio Maestro, guida, mediatore, Redentore, Salvatore, Vita e… amico.
Per Agostino questa era la verità, la Verità ultima, e per lui Cristo solo era l’unica Via per arrivare a Dio (che è il sospiro e il desiderio finale di ogni cuore umano: “Ci hai fatti per Te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”).
Era diventato di nuovo, dopo la lunga ricerca della verità, cristiano cattolico. Era la vittoria della grazia di Dio, delle incessanti preghiere e delle molte lacrime della madre Monica. Ha scritto il padre Agostino Trapè, studioso di Agostino: “Il punto centrale, il più importante e il più illuminante, della vita di Agostino è la sua conversione; da essa dipende tutto il resto della vita, dipende perfino il taglio del suo pensiero.
Quella sua implacabile insistenza contro lo scetticismo, il materialismo, il razionalismo, quel ritorno così frequente sui temi di ragione e fede, Dio e l’uomo, libertà e grazia, Cristo e Chiesa, carità e vita spirituale sono frutto della conversione, dove questi grandi temi erano stati presenti e avevano trovato una soluzione embrionale nell’atto di fede. Studiare pertanto la conversione di Agostino significa studiare il lungo, tortuoso, doloroso cammino di un grande pensatore che fa e disfà i suoi pensieri finché non ha trovato ciò che cercava. Le forze che lo sospingevano erano due: l’amore per la verità e la verità dell’amore o, più brevemente, l’amore per la verità amata e cercata con tutta l’anima” (Il Maestro Interiore, pag. 17).
Grande vescovo e grande scrittore
Questa conversione portò una cesura totale con la vita precedente. Addio alla carriera di professore, addio alle prospettive di matrimonio (la donna che gli era stata sempre vicino tornò in Africa). Lasciò Milano per tornare in Africa. Ad Ostia, Agostino e Monica ebbero un’estasi, forse una visione del Paradiso.
La madre morì prima di imbarcarsi.
Tornato a Tagaste, vendette parte dei suoi beni dando il ricavato ai poveri, e si ritirò col figlio Adeodato e alcuni amici a vita monastica. Nel 391 fu ordinato sacerdote, e poi nel 396 vescovo di Ippona. Incominciava così una prodigiosa attività pastorale (in difesa della fede cattolica contro le varie eresie) e di scrittore infaticabile (ricordiamo i numerosissimi Sermoni, Sulla Trinità, Il Maestro, i Soliloqui, La Città di Dio, le celeberrime Confessioni, e numerose altre opere).
L’attualità di Agostino è indiscutibile. Parla all’uomo d’oggi e si fa ascoltare. Con la sua profondissima intelligenza ha gettato fasci di luce ancora oggi positiva su coppie di termini apparentemente opposti.
Il primo: rapporto tra ragione e fede. Agostino esalta i due primati, l’uomo ha bisogno di queste due ali se vuole andare lontano. Nella filosofia recente si è proclamato la Morte di Dio… in nome dell’uomo. Per Agostino bisogna scegliere tutte e due, non c’è alcuna dicotomia. Anzi in Dio l’uomo riconosce la verità più profonda di se stesso (“Ci hai fatti per Te”). Per Agostino l’uomo profondo non solo è capace di Dio ma è anche bisognoso di Lui. Nei decenni passati era in voga lo slogan: “Cristo sì, Chiesa no”. Niente di nuovo: anche Agostino l’aveva proclamato e vissuto secoli prima. Ma poi si era accorto che non si potevano scindere le due realtà, assolutamente legate, come il capo è legato al resto del corpo. Sul binomio libertà e grazia Agostino afferma che la prima è indice della grandezza dell’uomo, in quanto capace di autodeterminazione, la seconda gli ricorda la sua fragilità (il peccato) e il bisogno di Dio per la propria salvezza.
L’ultimo binomio, di attualità bruciante: scegliere tra amore privato e amore pubblico. Oggi la nostra cultura propende e raccomanda in mille modi il proprio interesse, il proprio tornaconto, i propri diritti, molto spesso il tutto visto in modo egoistico a scapito del bene comune, dei diritti degli altri, dell’interesse pubblico. Agostino ha scritto che ci sono due amori che sono alla base di due città (che necessariamente convivono).
Scrive: “Due amori hanno dunque fondato due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio ha generato la città terrena, l’amore di Dio fino al disprezzo di sé ha generato la città celeste… Due amori… uno sociale e l’altro privato, uno sollecito nel servire all’utilità comune in vista della città superna, e l’altro pronto a subordinare anche il bene comune al proprio potere in vista di un’arrogante dominazione… uno che vuole al prossimo ciò che vuole a se stesso, e l’altro che vuole sottomettere il prossimo a se stesso, uno che governa il prossimo per l’utilità del prossimo e l’altro che governa per la propria utilità…”.
Due amori e due forme di mentalità e di comportamento che sperimentiamo ogni giorno in noi stessi e attorno a noi.
E gran parte del male che si verifica nelle nostre società è prodotto dalla preponderanza di questo amore privato che vuole schiacciare tutto il resto. Esaltazione del proprio io a scapito di Dio e della sua legge che ci dice di rispettare (e amare) il prossimo almeno come noi stessi.
È questa, penso, la lezione sempre attuale che Agostino lascia all’uomo moderno o post moderno, troppo ripiegato su se stesso, super esperto e pronto a difendere i propri interessi e i diritti (dimenticando i doveri verso se stesso e gli altri).
Ecco il messaggio attualissimo: “Ciascuno è tale quale l’amore che ha. Ami la terra? Sarai terra”. Essere “terra” significa coltivare l’amore egoistico di se stessi. L’invito di Agostino è di amare Dio, perché così si ameranno anche gli altri e si costruirà la città di Dio, dove tutti sono amati e rispettati.

MARIO SCUDU SDB

 

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