Archive pour février, 2015

IL MESSAGGIO DI LOURDES

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IL MESSAGGIO DI LOURDES

Si chiama « Messaggio di Lourdes » i gesti e le parole che si sono scambiati la Vergine e Bernadette alla Grotta di Massabielle, dall’11 febbraio 1858 al 16 luglio 1858, nel corso delle 18 Apparizioni. Per comprendere bene gli eventi che si sono svolti e capire il « Messaggio di Lourdes », bisogna conoscere il contesto in cui Bernadette ha vissuto e in cui le Apparizioni si sono verificate.
Nel 1858, la famiglia Soubirous è in rovina, ridotta a vivere al cachot. L’ 11 febbraio 1858, Bernadette, sua sorella Toinette e una loro amica, Jeanne Abadie, vanno in cerca di legna. Si dirigono verso « il luogo dove il torrente si getta nel Gave ». Arrivano dinanzi alla Grotta di Massabielle. Questa é pocomeno di una discarica, piena di detriti portati dal fiume, di rifiuti dei maiali, ma anche di legna da poter raccogliere. Toinette e Jeanne attraversano l’acqua ghiacciata del torrente per raggiungerla, ma Bernadette, a causa della sua asma cronica, esita a fare altrettanto. E’ in quel momento che “sente un rumore come un colpo di vento », ma « nessun albero si muove ». « Alzando la testa, vede, nella cavità della roccia, una piccola ragazza, avvolta di luce, che la osserva e le sorride ». È la prima Apparizione di Nostra Signora.
Al tempo di Bernadette, la Grotta era un luogo sporco, oscuro, umido e freddo. Veniva chiamata « grotta dei maiali », perché era il luogo dove si conducevano i maiali. È in questo luogo che Maria, tutto biancore, tutta purezza, segno dell’amore di Dio, cioè segno di ciò che Dio vuole fare in ciascuno di noi, ha voluto apparire. C’è un contrasto immenso tra questa Grotta oscura, umida e la presenza di Maria Vergine,  » l’ Immacolata Concezione « . Questo ci ricorda il Vangelo: l’incontro tra la ricchezza di Dio e la povertà dell’uomo. Il Cristo è venuto a cercare ciò che era perduto.
A Lourdes il fatto che Maria sia apparsa in una Grotta sporca ed oscura, in questo luogo che si chiama Massabielle, la vecchia roccia, ci dice che Dio viene a raggiungerci ovunque siamo, nel pieno delle nostre miserie, di tutte le nostre cause perse.
La Grotta non è soltanto il luogo dell’evento, un luogo geografico, è anche un luogo dove Dio ci dà un segno per svelarci il suo cuore ed il nostro cuore. È un posto dove Dio ci lascia un messaggio che non è altro che quello del Vangelo. Dio viene a dirci che ci ama – ecco tutto il contenuto del « Messaggio di Lourdes » -, che ci ama così come siamo, con tutti i nostri successi, ma anche con tutte le nostre ferite, le nostre fragilità, i nostri limiti.

18 FEBBRAIO 1858 : PAROLE STRAORDINARIE
Al tempo della terza Apparizione, il 18 febbraio, la Vergine parla per la prima volta. A Bernadette, che le presenta un pezzo di carta ed una matita perché scriva il Suo nome, « la Signora » risponde: « Quello che ho da dirvi, non è necessario metterlo per iscritto ». È una parola straordinaria. Ciò vuol dire che Maria vuole entrare con Bernadette in una relazione di amore, che si instaura al livello del cuore. Il cuore, nella Bibbia, significa il centro stesso della personalità, di ciò che c’è più di profondo nell’uomo.
Bernadette è sin dall’inizio invitata ad aprire le profondità del suo cuore a questo messaggio d’amore.
La seconda cosa che dice la Vergine è Lourdes : gemmail raffigurando un’apparizione della Madonna a Bernardetta: « potreste avere la gentilezza di venire qui per quindici giorni? », Bernadette è frastornata. È la prima volta che le danno del « voi ». Spiegherà questa parola dicendo: “Lei mi guardava come una persona guarda un’altra persona”. L’ uomo, creato a immagine e a somiglianza di Dio, è una persona. Bernadette, sentendosi così rispettata e amata, fa lei stessa l’esperienza di essere una persona. Abbiamo tutti dignità agli occhi di Dio. Perché ognuno è un amato da Dio.
La terza parola della Vergine : « non vi prometto di rendervi felice in questo mondo, ma nell’altro ». Conosciamo il mondo della violenza, della menzogna, della sensualità, del profitto, della guerra. Ma conosciamo anche il mondo della carità, della solidarietà, della giustizia. Quando Gesù, nel Vangelo, ci invita a scoprire il Regno dei Cieli, ci invita a scoprire, nel mondo così come è, un « altro mondo ». Lì dove c’è l’amore, Dio è presente. Questa realtà non occulta l’orizzonte del messaggio che è il cielo. La Vergine Maria trasmette a Bernadette la certezza di una terra promessa che non potrà essere raggiunta se non al di là della morte. Sulla terra, ci sono i fidanzamenti; le cerimonie nuziali sono per il dopo, per il Cielo.

DIO È AMORE
Fare esperienza di Dio, non è altro che fare l’ esperienza dell’amore su questa terra. A chi ha saputo scoprire questo Gesù dichiara: « non sei lontano dal Regno di Dio ». Nonostante la sua miseria, la sua malattia, la sua ignoranza, Bernadette è sempre stata profondamente felice. È questo il Regno di Dio, il mondo del vero amore.
Durante le prime sette Apparizioni di Maria, Bernadette ha mostrato un viso raggiante di gioia, di felicità, di luce. Ma, tra l’ottava e la dodicesima apparizione tutto cambia: il viso di Bernardetta diventa teso, triste, preoccupato e soprattutto compie gesti incomprensibili… : camminare sulle ginocchia fino in fondo alla Grotta; baciare la terra di questa Grotta, ancora tutta sporca e ributtante; mangiare delle erbe amare; raspare il suolo e, per tre volte, provare a bere acqua fangosa, sorbirne un pò, poi sputarla; prendere del fango tra le mani e sfregarselo sulla faccia. E quando Bernadette osserva la folla allargando le braccia, tutti dicono: « è pazza ». Per quattro apparizioni Bernadette ripeterà gli stessi gesti. Ma cosa significa tutto questo? Nessuno riesce a capire nulla !
Siamo proprio nel cuore del « Messaggio di Lourdes ».

IL SIGNIFICATO BIBLICO DELLE APPARIZIONI
I gesti che « la Signora » ha chiesto a Bernadette di compiere sono gesti biblici, attraverso essi, Bernadette esprimerà l’Incarnazione, la Passione e la Morte del Cristo.
Andare in ginocchio fino in fondo la Grotta: è il gesto dell’Incarnazione, dell’abbassamento di Dio che si fa uomo. Bernadette bacia la terra per spiegare che quest’abbassamento è giustamente il gesto dell’amore di Dio per gli uomini. Mangiare le erbe amare ricorda la tradizione ebraica che ritroviamo nel Vecchio Testamento. Quando gli ebrei volevano manifestare che Dio aveva preso su di sè tutte le amarezze e tutti i peccati del mondo, uccidevano un agnello, lo svuotavano, lo riempivano di erbe amare e pronunciavano su di esso la preghiera: « ecco l’Agnello di Dio che prende su di sé tutte le disgrazie, che toglie tutte le amarezze, tutti i peccati del mondo ». Questa preghiera è ripetuta nella messa.
Imbrattarsi il viso: il profeta Isaia presenta il Messia, il Cristo, con le caratteristiche del servo sofferente. « Poiché portava su di sé tutti i peccati degli uomini, il suo viso non aveva più figura umana », dice Isaia, e continua dicendo: « era come una pecora condotta al macello e, sul suo passaggio, la gente rideva di lui ». Ecco alla Grotta Bernadette sfigurata dal fango e la folla che grida: « è diventata pazza ».

LA GROTTA NASCONDE UN TESORO IMMENSO, INFINITO
Lourdes : la sorgente che sgorga nella Grotta delle ApparizioniI gesti che Bernadette compie sono gesti di liberazione. La Grotta è liberata dalle sue erbe, dal suo fango. Ma perché bisogna liberare questa Grotta? Perché nasconde un tesoro immenso che occorre assolutamente portare alla luce. Così, alla nona Apparizione ( il 25 febbraio 1858), « la Signora » chiederà a Bernadette di andare a scavare la terra, in fondo a questa « Spelonca per i maiali », dicendole: « andate alla fonte, bevete e lavatevi ». Ed ecco che un po’ d’acqua fangosa inizia a sgorgare, sufficientemente perché Bernadette possa berne. Ed ecco che quest’ acqua diventa, poco a poco, trasparente, pura, limpida.
Con questi gesti ci è rivelato il mistero stesso del cuore del Cristo: « un soldato, con la sua lancia, trapassa il cuore e, immediatamente, scaturisce sangue e acqua ». Ma ci rivelano anche le profondità del mistero del cuore dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio:  » l’acqua che ti darò, diventerà in te sorgente di vita eterna ». Il cuore dell’uomo, ferito dal peccato, è espresso dalle erbe e dal fango. Ma in fondo a questo cuore c’è la vita stessa di Dio, manifestata dalla fonte. Chiedono a Bernadette : « la Signora ti ha detto qualcosa ? » E lei risponde:  » Sì, di tanto in tanto diceva: « Penitenza, penitenza, penitenza. » Pregate per i peccatori « . Per « penitenza », si intede conversione.
Per la Chiesa, la conversione consiste, come ci ha insegnato Cristo, nel rivolgere il proprio cuore verso Dio, verso i propri fratelli. « Pregate per i peccatori ». Pregare fa entrare nello Spirito di Dio. Così possiamo capire che il peccato non fa la felicità dell’uomo. Il peccato è tutto ciò che si oppone a Dio.
In occasione della tredicesima Apparizione, Maria si rivolge a Bernadette: « andate a dire ai sacerdoti che si costruisca qui una cappella e che ci si venga in processione ». « Che si venga in processione » significa camminare, in questa vita, sempre vicino ai nostri fratelli.
« Che si costruisca una cappella », a Lourdes tante cappelle sono state costruite per accogliere la folla dei pellegrini. Ma queste cappelle sono soltanto i segni di questa comunione fondata sulla carità, alla quale tutti sono chiamati. La cappella, è « la Chiesa » che dobbiamo costruire, là dove siamo, nella nostra famiglia, sul nostro luogo di lavoro, nella nostra parrocchia, nella nostra diocesi. Qualsiasi cristiano trascorre la sua vita a costruire la Chiesa, vivendo in comunione con Dio e i suoi fratelli.

LA SIGNORA DICE CHI È : « QUE SOY ERA IMMACULADA COUNCEPTIOU »
Nostra Signora di LourdesIl 25 marzo 1858, giorno della sedicesima Apparizione, Bernadette si reca
alla Grotta dove, per volere di don Peyramale,
parroco di Lourdes chiede « alla Signora » di dire il suo nome. Per tre volte, Bernadette rivolge la
domanda. Alla quarta richiesta, « la Signora » le
risponde in dialetto:
« Que soy era Immaculada Counceptiou »,
« Io sono l’Immacolata Concezione ». Bernadette
non ha capito immediatamente il senso di questa
parola. L’Immacolata Concezione, così come
insegna la Chiesa, è « Maria concepita senza
peccato, gazie ai meriti della croce del Cristo »
(definizione del dogma promulgato nel 1854).
Bernadette si reca immediatamente dal signor
parroco, per trasmettergli il nome « della Signora ». Lui
capirà che è la Madre di Dio che appare alla Grotta di
Massabielle. Più tardi, il vescovo di Tarbes, Mgr.
Laurence, autentificherà questa rivelazione.

Tutti siamo chiamati a diventare immacolati
La  » firma » del messaggio avviene dopo 3 settimane di Apparizioni e 3 settimane di silenzio (dal 4 al 25 marzo). Il 25 marzo è il giorno dell’Annunciazione, del concepimento » di Gesù nel ventre di Maria. La Signora della Grotta dice quale è la Sua missione: Lei è la Madre di Gesù, tutto il suo essere è quello di concepire il Figlio di Dio, Lei è tutta per Lui. Per questo è Immacolata, abitata da Dio. Così, la Chiesa e tutti i cristiani devono lasciarsi abitare da Dio per diventare immacolati, radicalmente perdonati e in modo tale da essere, anche loro, testimoni di Dio. Sarà la vocazione di Bernadette. Il 7 aprile, durante la penultima Apparizione, la fiamma della candela passerà tra le sue dita senza bruciarla: diventa trasparente di luce, può anche lei comunicare la luce di Dio. Maria ci dice che lei è ciò che dobbiamo diventare. Il giorno della sua 1^ Comunione (3 giugno 1858), Bernadette prolunga quest’esperienza unendosi al dono di Dio.

PAPA BENEDETTO: OMELIA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO (2009)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2009/documents/hf_ben-xvi_hom_20090629_pallio.html

SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

SANTA MESSA E IMPOSIZIONE DEL PALLIO AI NUOVI METROPOLITI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana
Lunedì, 29 giugno 2009

Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Cari fratelli e sorelle!

A tutti rivolgo il mio saluto cordiale con le parole dell’Apostolo accanto alla cui tomba ci troviamo: “A voi grazia e pace in abbondanza” (1Pt 1, 2). Saluto, in particolare, i Membri della Delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e i numerosi Metropoliti che oggi ricevono il Pallio. Nella colletta di questa giornata solenne chiediamo al Signore “che la Chiesa segua sempre l’insegnamento degli Apostoli dai quali ha ricevuto il primo annunzio della fede”. La richiesta che rivolgiamo a Dio interpella al contempo noi stessi: seguiamo noi l’insegnamenti dei grandi Apostoli fondatori? Li conosciamo veramente? Nell’Anno Paolino che si è ieri concluso abbiamo cercato di ascoltare in modo nuovo lui, il “maestro delle genti”, e di apprendere così nuovamente l’alfabeto della fede. Abbiamo cercato di riconoscere con Paolo e mediante Paolo il Cristo e di trovare così la via per la retta vita cristiana. Nel Canone del Nuovo Testamento, oltre alle Lettere di san Paolo, ci sono anche due Lettere sotto il nome di san Pietro. La prima di esse si conclude esplicitamente con un saluto da Roma, che però appare sotto l’apocalittico nome di copertura di Babilonia: “Vi saluta la co-eletta che vive in Babilonia…” (5, 13). Chiamando la Chiesa di Roma la “co-eletta”, la colloca nella grande comunità di tutte le Chiese locali – nella comunità di tutti coloro che Dio ha adunato, affinché nella “Babilonia” del tempo di questo mondo costruiscano il suo Popolo e facciano entrare Dio nella storia. La Prima Lettera di san Pietro è un saluto rivolto da Roma all’intera cristianità di tutti i tempi. Essa ci invita ad ascoltare “l’insegnamento degli Apostoli”, che ci indica la via verso la vita.
Questa Lettera è un testo ricchissimo, che proviene dal cuore e tocca il cuore. Il suo centro è – come potrebbe essere diversamente? – la figura di Cristo, che viene illustrato come Colui che soffre e che ama, come Crocifisso e Risorto: “Insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta … Dalle sue piaghe siete stati guariti” (1Pt 2, 23s). Partendo dal centro che è Cristo, la Lettera costituisce poi anche un’introduzione ai fondamentali Sacramenti cristiani del Battesimo e dell’Eucaristia e un discorso rivolto ai sacerdoti, nel quale Pietro si qualifica come co-presbitero con loro. Egli parla ai Pastori di tutte le generazioni come colui che personalmente è stato incaricato dal Signore di pascere le sue pecorelle e così ha ricevuto in modo particolare un mandato sacerdotale. Che cosa, dunque, ci dice san Pietro – proprio nell’Anno sacerdotale – circa il compito del sacerdote? Innanzitutto, egli comprende il ministero sacerdotale totalmente a partire da Cristo. Chiama Cristo il “pastore e custode delle … anime” (2, 25). Dove la traduzione italiana parla di “custode”, il testo greco ha la parola epíscopos (vescovo). Un po’ più avanti, Cristo viene qualificato come il Pastore supremo: archipoimen (5, 4). Sorprende che Pietro chiami Cristo stesso vescovo – vescovo delle anime. Che cosa intende dire con ciò? Nella parola greca “episcopos” è contenuto il verbo “vedere”; per questo è stata tradotta con “custode” ossia “sorvegliante”. Ma certamente non s’intende una sorveglianza esterna, come s’addice forse ad una guardia carceraria. S’intende piuttosto un vedere dall’alto – un vedere a partire dall’elevatezza di Dio. Un vedere nella prospettiva di Dio è un vedere dell’amore che vuole servire l’altro, vuole aiutarlo a diventare veramente se stesso. Cristo è il “vescovo delle anime”, ci dice Pietro. Ciò significa: Egli ci vede nella prospettiva di Dio. Guardando a partire da Dio, si ha una visione d’insieme, si vedono i pericoli come anche le speranze e le possibilità. Nella prospettiva di Dio si vede l’essenza, si vede l’uomo interiore. Se Cristo è il vescovo delle anime, l’obiettivo è quello di evitare che l’anima nell’uomo s’immiserisca, è di far sì che l’uomo non perda la sua essenza, la capacità per la verità e per l’amore. Far sì che egli venga a conoscere Dio; che non si smarrisca in vicoli ciechi; che non si perda nell’isolamento, ma rimanga aperto per l’insieme. Gesù, il “vescovo delle anime”, è il prototipo di ogni ministero episcopale e sacerdotale. Essere vescovo, essere sacerdote significa in questa prospettiva: assumere la posizione di Cristo. Pensare, vedere ed agire a partire dalla sua posizione elevata. A partire da Lui essere a disposizione degli uomini, affinché trovino la vita.
Così la parola “vescovo” s’avvicina molto al termine “pastore”, anzi, i due concetti diventano interscambiabili. È compito del pastore pascolare e custodire il gregge e condurlo ai pascoli giusti. Pascolare il gregge vuol dire aver cura che le pecore trovino il nutrimento giusto, sia saziata la loro fame e spenta la loro sete. Fuori di metafora, questo significa: la parola di Dio è il nutrimento di cui l’uomo ha bisogno. Rendere sempre di nuovo presente la parola di Dio e dare così nutrimento agli uomini è il compito del retto Pastore. Ed egli deve anche saper resistere ai nemici, ai lupi. Deve precedere, indicare la via, conservare l’unità del gregge. Pietro, nel suo discorso ai presbiteri, evidenzia ancora una cosa molto importante. Non basta parlare. I Pastori devono farsi “modelli del gregge” (5, 3). La parola di Dio viene portata dal passato nel presente, quando è vissuta. È meraviglioso vedere come nei santi la parola di Dio diventi una parola rivolta al nostro tempo. In figure come Francesco e poi di nuovo come Padre Pio e molti altri, Cristo è diventato veramente contemporaneo della loro generazione, è uscito dal passato ed entrato nel presente. Questo significa essere Pastore – modello del gregge: vivere la Parola ora, nella grande comunità della santa Chiesa.
Molto brevemente vorrei ancora richiamare l’attenzione su due altre affermazioni della Prima Lettera di san Pietro, che riguardano in modo speciale noi, in questo nostro tempo. C’è innanzitutto la frase oggi nuovamente scoperta, in base alla quale i teologi medievali compresero il loro compito, il compito del teologo: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (3, 15). La fede cristiana è speranza. Apre la via verso il futuro. Ed è una speranza che possiede ragionevolezza; una speranza la cui ragione possiamo e dobbiamo esporre. La fede proviene dalla Ragione eterna che è entrata nel nostro mondo e ci ha mostrato il vero Dio. Va al di là della capacità propria della nostra ragione, così come l’amore vede più della semplice intelligenza. Ma la fede parla alla ragione e nel confronto dialettico può tener testa alla ragione. Non la contraddice, ma va di pari passo con essa e, al contempo, conduce al di là di essa – introduce nella Ragione più grande di Dio. Come Pastori del nostro tempo abbiamo il compito di comprendere noi per primi la ragione della fede. Il compito di non lasciarla rimanere semplicemente una tradizione, ma di riconoscerla come risposta alle nostre domande. La fede esige la nostra partecipazione razionale, che si approfondisce e si purifica in una condivisione d’amore. Fa parte dei nostri doveri come Pastori di penetrare la fede col pensiero per essere in grado di mostrare la ragione della nostra speranza nella disputa del nostro tempo. Tuttavia, il pensare – pur così necessario – da solo non basta. Così come parlare, da solo, non basta. Nella sua catechesi battesimale ed eucaristica nel secondo capitolo della sua Lettera, Pietro allude al Salmo usato nella Chiesa antica nel contesto della comunione, e cioè al versetto che dice: “Gustate e vedete com’è buono il Signore” (Ps 34 [33], 9; 1 Pt 2, 3). Solo il gustare conduce al vedere. Pensiamo ai discepoli di Emmaus: solo nella comunione conviviale con Gesù, solo nella frazione del pane si aprono i loro occhi. Solo nella comunione col Signore veramente sperimentata essi diventano vedenti. Ciò vale per tutti noi: al di là del pensare e del parlare, abbiamo bisogno dell’esperienza della fede; del rapporto vitale con Gesù Cristo. La fede non deve rimanere teoria: deve essere vita. Se nel Sacramento incontriamo il Signore; se nella preghiera parliamo con Lui; se nelle decisioni del quotidiano aderiamo a Cristo – allora “vediamo” sempre di più quanto Egli è buono. Allora sperimentiamo che è cosa buona stare con Lui. Da una tale certezza vissuta deriva poi la capacità di comunicare la fede agli altri in modo credibile. Il Curato d’Ars non era un grande pensatore. Ma egli “gustava” il Signore. Viveva con Lui fin nelle minuzie del quotidiano oltre che nelle grandi esigenze del ministero pastorale. In questo modo divenne “uno che vede”. Aveva gustato, e per questo sapeva che il Signore è buono. Preghiamo il Signore, affinché ci doni questo gustare e possiamo così diventare testimoni credibili della speranza che è in noi.
Alla fine vorrei far notare ancora una piccola, ma importante parola di san Pietro. Subito all’inizio della Lettera egli ci dice che la mèta della nostra fede è la salvezza delle anime (cfr 1, 9). Nel mondo del linguaggio e del pensiero dell’attuale cristianità questa è un’affermazione strana, per alcuni forse addirittura scandalosa. La parola “anima” è caduta in discredito. Si dice che questo porterebbe ad una divisione dell’uomo in spirito e fisico, in anima e corpo, mentre in realtà egli sarebbe un’unità indivisibile. Inoltre “la salvezza delle anime” come mèta della fede sembra indicare un cristianesimo individualistico, una perdita di responsabilità per il mondo nel suo insieme, nella sua corporeità e nella sua materialità. Ma di tutto questo non si trova nulla nella Lettera di san Pietro. Lo zelo per la testimonianza in favore della speranza, la responsabilità per gli altri caratterizzano l’intero testo. Per comprendere la parola sulla salvezza delle anime come mèta della fede dobbiamo partire da un altro lato. Resta vero che l’incuria per le anime, l’immiserirsi dell’uomo interiore non distrugge soltanto il singolo, ma minaccia il destino dell’umanità nel suo insieme. Senza risanamento delle anime, senza risanamento dell’uomo dal di dentro, non può esserci una salvezza per l’umanità. La vera malattia delle anime san Pietro, alla nostra sorpresa, la qualifica come ignoranza – cioè come non conoscenza di Dio. Chi non conosce Dio, chi almeno non lo cerca sinceramente, resta fuori della vera vita (cfr 1 Pt 1, 14). Ancora un’altra parola della Lettera può esserci utile per capire meglio la formula “salvezza delle anime”: “Purificate le vostre anime con l’obbedienza alla verità” (cfr 1, 22). È l’obbedienza alla verità che rende pura l’anima. Ed è il convivere con la menzogna che la inquina. L’obbedienza alla verità comincia con le piccole verità del quotidiano, che spesso possono essere faticose e dolorose. Questa obbedienza si estende poi fino all’obbedienza senza riserve di fronte alla Verità stessa che è Cristo. Tale obbedienza ci rende non solo puri, ma soprattutto anche liberi per il servizio a Cristo e così alla salvezza del mondo, che pur sempre prende inizio dalla purificazione obbediente della propria anima mediante la verità. Possiamo indicare la via verso la verità solo se noi stessi – in obbedienza e pazienza – ci lasciamo purificare dalla verità.
E ora mi rivolgo a voi, cari Confratelli nell’episcopato, che in quest’ora riceverete dalla mia mano il Pallio. È stato intessuto con la lana di agnelli che il Papa benedice nella festa di sant’Agnese. In questo modo esso ricorda gli agnelli e le pecore di Cristo, che il Signore risorto ha affidato a Pietro con il compito di pascerli (cfr Gv 21, 15-18). Ricorda il gregge di Gesù Cristo, che voi, cari Fratelli, dovete pascere in comunione con Pietro. Ci ricorda Cristo stesso, che come Buon Pastore ha preso sulle sue spalle la pecorella smarrita, l’umanità, per riportarla a casa. Ci ricorda il fatto che Egli, il Pastore supremo, ha voluto farsi Lui stesso Agnello, per farsi carico dal di dentro del destino di tutti noi; per portarci e risanarci dall’interno. Vogliamo pregare il Signore, affinché ci doni di essere sulle sue orme Pastori giusti, “non perché costretti, ma volentieri, come piace a Dio … con animo generoso … modelli del gregge” (1 Pt 5, 2s). Amen.

 

Day 7, Shabbat, the rest of God and man

 Day 7, Shabbat, the rest of God and man    dans immagini sacre 16%20LUKAS%20CRANACH%20SCHOPFUNGSBILD%20DER%20LUTHERBIBEL

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Publié dans:immagini sacre |on 9 février, 2015 |Pas de commentaires »

IL BELLO DELLA BIBBIA: UNO STILE CHE È SOSTANZA – (PAOLO)

http://web.tiscali.it/pulchritudo/page174/page211/page211.html

IL BELLO DELLA BIBBIA

UNO STILE CHE È SOSTANZA – (PAOLO)

San Girolamo ha definito lo stile di Paolo con una battuta:
«Egli non si preoccupava più di tanto delle parole quando aveva messo al sicuro il significato».
L’Apostolo, allora, non dovrebbe avere spazio all’interno della nostra rubrica che è dedicata al « bello della Bibbia ».
In realtà c’è una bellezza che non è necessariamente formale, cioè estrinseca, espressa nell’aspetto stilistico di un testo, ma che sboccia nella sostanza del messaggio.
Inoltre oggi si è inclini, più di quanto suggerisse il celebre traduttore della Bibbia in latino, cioè Girolamo, ad apprezzare lo stile originale paolino.
La sua originalità appare soprattutto nel modo con cui manipola il vocabolario greco attribuendo a termini collaudati significati del tutto nuovi, rivelando così una creatività sorprendente.
È il caso di tre parole che appaiono nella lettera ai Romani che, come ricorderete, vogliamo proporre durante questa Quaresima.
Esse scandiscono soprattutto la prima parte della lettera, cioè i capitoli 1-5, aperti da quella celebre tesi che Paolo modella su una libera citazione del profeta Abacuc (2,4); «Il giusto mediante la fede vivrà» (Romani 1,17).
Queste parole sono negative, simili a tre stelle nere: con la loro tenebra accecante trafiggono l’orizzonte della storia umana.
La prima è sarx, « carne ». L’evangelista Giovanili usava questo vocabolo nel suo valore normale, per indicare l’esistenza fragile dell’uomo ed è per questo che affermava:
«Il Verbo (Cristo) si è fatto carne» (1,14).
Per Paolo, invece, sarx è un principio negativo deleterio che si annida nel nostro cuore. Immaginiamo la zizzania che pervade il terreno seminato a grano, come narrava Gesù nella famosa parabola (Matteo 13,24-30).
La sarx è, dunque, il terreno della vita e della coscienza devastato da una forza maligna.
E a questo punto che entra in scena la seconda parola, hamartìa, cioè il ‘peccato ».
Il terreno della sarx alimenta e fa crescere la zizzania, cioè quella forza maligna che si manifesta nel grappolo delle azioni cattive da noi compiute.
Eccoci, allora, alla terza parola, nómos, « legge ».
Di per sé la legge è santa ed è stata donata da Dio ma è l’uso perverso che ne fa l’uomo a portare alla sua degenerazione.
Ritorniamo ancora all’immagine del terreno: è come se, capitati su una distesa di sabbie mobili, tentassimo da soli – alzando le braccia – di venirne fuori.
Tentativo spontaneo ma vano; quanto più ti agiti per estrarti, tanto più affondi.
Questo è il destino di chi si illude di vincere la sarx-carne e l’hamartìa-peccato compiendo le opere del nómos-legge, cioè cercando di salvarsi con le sue forze e le sue azioni.
Per estrarlo da quel gorgo di melma è necessario che una mano sicura lo afferri e lo liberi.
Ed è proprio qui che dovremmo passare ad altre parole paoline, questa volta positive.
È ciò che faremo la settimana prossima.

PAOLO FILOSOFO NASCOSTO – DI GIANFRANCO RAVASI

http://www.giuseppebarbaglio.it/articoli/Ravasi_Paolo.pdf

Un saggio sul pensiero dell’ Apostolo: per capirlo non resta che affidarsi alle sue «Lettere»: più che sistematicità si scoprirà una coerenza nella interpretazione del Vangelo

PAOLO FILOSOFO NASCOSTO

Gramsci l’aveva sbrigativamente definito «il Lenin del cristianesimo» e Nietzsche un «disevangelista». Nel suo discorso emerge la prospettiva di un cambio di mentalità

DI GIANFRANCO RAVASI

Chi prende in mano il volume di Giuseppe Barbaglio può forse credere di essere davantiall’ennesimo profilo della teologia di Paolo sul modello, per esempio, del sostanzioso e importante saggio dell’inglese James D. G. Dunn, La teologia dell’apostolo Paolo, tradotto da Paideia nel 1999.
Il titolo e il programma dell’opera subito ci fanno capire che c’è qualcosa di diverso, anche perché lo stesso esegeta aveva già pubblicato una Teologia di Paolo, riedita dalle Dehoniane nel 2001. Il suo progetto non è quello di identificare a livello sincronico il piano teologico dell’Apostolo, isolandone il fulcro portante (Cristologia? Giustificazione per la fede? Mistica? Mistero pasquale? Tensione apocalittica verso il trionfo finale divino?…), ma di inseguire il suo « pensare » elaborato attraverso un processo molto fluido, diacronico, non costretto nello stampo freddo di un sistema né confezionato in un atélier teologico asettico ma sollecitato dalle urgenze e dalle istanze del ministero missionario e pastorale.
La « vulgata » inconsciamente prevalente anche in molti cristiani è, infatti, quella di un Paolo freddo ideologo, «padre del sottile Agostino, dell’arido Tommaso d’Aquino, del tetro calvinista, del bisbetico giansenista», del tutto alieno da quel Gesù che è «padre di tutti coloro che cercano nei sogni dell’ideale il riposo delle anime loro», come scriveva enfaticamente Ernest Renan nel suo Saint Paul (1869). Nietzsche l’aveva poi bollato come un « disangelista », ossia l’antitesi di un « evangelista », Albert Schweitzer (sì, il famoso dottor Schweitzer era un teologo prima di essere un filantropo) lo esaltava come «il santo patrono di coloro che pensano» e Gramsci l’aveva sbrigativamente denominato «il Lenin del cristianesimo»! In realtà, Paolo era stato innanzitutto un pastore, un annunziatore e un testimone, anche se spesso i suoi testi erano rimasti quasi esclusivo appannaggio di teologi. Ebbene, Barbaglio vorrebbe cercare di individuare la vera qualità di questo particolare pensatore. È indubbio che quello paolino sia un pensiero teologico che ha un apriori che lo precede e una fonte che lo alimenta: la sua è una razionalità tutta interna alla stanza della fede cristiana, spesso ribadita da quel « sappiamo » che connota la tradizione della fede ancorata alla rivelazione divina. Ma quel pensiero, che pure è nutrito dell’eredità biblica e della stessa cultura grecoromana, secondo Barbaglio non è formulato attraverso un disegno previo e una trattazione conseguente bensì fiorisce attraverso un genere di sua natura « occasionale » come quello epistolare. Si ha, così, un pensare provocato dagli interlocutori (emblematici sono i capitoli 6 e 8 della Prima Lettera ai Corinzi) che diventa provocatorio nei loro confronti, interagendo con le loro istanze ma rappresentando anche quelle dell’Apostolo stesso. Egli, infatti, «intende suscitare in loro un cambiamento di mente e di vita e lo fa con la pienezza della sua autorità di apostolo e di padre della comunità, ma anche
affidandosi alle risorse dell’argomentazione e alla funzione illuminante della ragione». Alle spalle di Paolo non c’è, dunque, un progetto antecedente e coerente. Su questa convinzione Barbaglio è radicale e indubbiamente solleciterà reazioni da parte di molti colleghi che coi loro saggi hanno spesso asserito il contrario (ritrovando, per esempio, sotteso alla Lettera ai Romani il nucleo preliminare dell’ideologia paolina). «La teologia di Paolo – scrive, invece, Barbaglio – è la teologia delle sue lettere. Un pensiero teologico dell’apostolo altro da quello presente nelle sue lettere è pura congettura soggettiva, in ogni modo per noi zona oscura e inattingibile». È così che il procedimento adottato dalla riflessione paolina e dalla relativa analisi di Barbaglio non si àncora a un disegno predeterminato ma a una prospettiva ermeneutica: «Il fattore di unità della riflessione di Paolo è piuttosto formale: consiste nel suo metodo di far teologia, nel processo di pensare Dio e Cristo; egli rilegge e ridefinisce i punti nodali della credenza primitiva cristiana, il vangelo nelle sue diverse valenze… Il suo è sempre unitariamente un pensare ermeneutico, teso a comprendere la ricchezze nascoste nel credo protocristiano… La coerenza del pensatore Paolo è di carattere ermeneutico: egli fa emergere le implicazioni dell’eschaton che si è fatto storia in Gesù morto e risorto». Con questa scelta metodologica Barbaglio procede all’identificazione del diagramma teologico in divenire dell’Apostolo, affidandosi obbligatoriamente a due traiettorie estrinseche ormai codificate, anche se non prive di qualche esitazione in sede storico-critica, quelle della selezione delle lettere direttamente paoline (escludendo quelle di « scuola ») e della loro sequenza cronologica. È ovviamente questa la sezione più sostanziosa dell’opera, articolata in dieci tappe che partono dal «vangelo della gratuita elezione divina» (1 Tessalonicesi 1-3) e avanzano attraverso le varie fasi in cui quel vangelo si ramifica e si anima: la croce di Cristo (1 Corinzi 1-4), la libertà dei gentili (Galati), la rivelazione della giustizia divina, la giustificazione e la vita nuova, la fedeltà di Dio a Israele (Romani), la morte e risurrezione di Cristo come primizia (1 Corinzi 15), la vita nello Spirito per approdare alla figura stessa dell’apostolo delineata in relazione al vangelo (2 Corinzi). La lettura di questa pagine, sempre costruite su un’esegesi fine e spesso originale del testo paolino, rivelano in modo inequivocabile la lunga e amorosa assuefazione dell’autore all’epistolario paolino, confermata per altro dalla sua bibliografia. Si ha, così, la possibilità di inseguire un pensiero
affascinante nonostante i sentieri di altura che propone e le non poche asprezze e asperità. Naturalmente su alcune opzioni interpretative o sulla ricostruzione evolutiva del pensiero paolino potrà accendersi la discussione tra gli esegeti. Alla fine l’impressione che si ricava è piuttosto paradossale: pur scegliendo di essere un teologo occasionale, epistolare, pastorale, Paolo si rivela un pensatore coerente e capace di delineare un quadro teologico armonico. Certo, decisiva è stata la roccia su cui si è fondato, quella del vangelo di Cristo che lo precede, come consequenziale e cruciale è stata la prospettiva ermeneutica da lui adottata. Tuttavia si ha anche la sensazione di essere in presenza di un pensatore che sapeva tenere ben stretto il filo del suo pensiero, senza
perdere di vista da dove era salpato e la meta verso la quale sarebbe approdato. L’opera di Barbaglio segna, comunque, con la sua tesi originale (e tutt’altro che peregrina) e col suo meticoloso vaglio testuale una tappa importante e per certi versi imprescindibile negli studi paolini contemporanei. 

 

Healing Peter’s mother-in-law by John Bridges, 19th century.

Healing Peter's mother-in-law by John Bridges, 19th century. dans immagini sacre Christ_Healing_the_Mother_of_Simon_Peter%E2%80%99s_Wife_by_John_Bridges

http://en.wikipedia.org/wiki/Healing_the_mother_of_Peter’s_wife#mediaviewer/File:Christ_Healing_the_Mother_of_Simon_Peter%E2%80%99s_Wife_by_John_Bridges.jpg

Publié dans:immagini sacre |on 6 février, 2015 |Pas de commentaires »

COMMENTAIRES DE MARIE NOËLLE THABUT, 8 FÉVRIER: HAI RICEVUTO GRATIS, DAI GRATUITAMENTE

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(traduzione Google da francese, come sempre non è perfetta, ma vale la pena leggerla ugualmente)

Appare in diverse lettere di San Paolo che è un’opera gloriosa delle sue mani per non essere finanziariamente dipendente della comunità cristiana. Sembra che nella Chiesa di Corinto, alcuni dei suoi avversari hanno trovato in questo comportamento un argomento contro di lui:
poiché Paolo non usa il suo diritto di essere pagato è che vuole uscire di controllo. È veramente l’apostolo dice di essere?
Paolo presenta qui le ragioni del suo comportamento. Se egli si mostra disinteressato punto è che noi sappiamo bene che « non tira per lui »; non considera l’annuncio della Buona Novella, come l’esercizio di una professione che avrebbe potuto trarre qualche beneficio di sorta, ma il compimento della missione a lui affidata. E ‘ »business governo » ed è questo che lo rende libero.
« Io predico il Vangelo, è una necessità che si impone su di me »: Paolo non ha scelto di annunciare il Vangelo, è ben noto; non era previsto nel programma, si potrebbe dire! Era un Ebreo devoto, colto, un fariseo: così fervente che iniziò perseguitando la nuova setta di cristiani. E la sua conversione imprevedibile cambiato tutto; Ora, ha messo il suo temperamento passionale per servire il Vangelo. Per lui, la predicazione è una funzione che è stato imposto nel corso della sua vocazione se, a suo parere, non poteva essere cristiani senza essere apostolo. Egli sa che se fosse stato chiamato da Dio è per il servizio degli altri.
(Ciò che egli chiama « pagano », dice nella lettera ai Galati: « … Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, ha pensato bene di rivelare il suo Figlio in me in modo che io possa lui predicare tra i pagani … « Gal 1, 15).
Come non pensare alla vocazione di alcuni profeti; Amos, per esempio: « Non era un profeta, non ero il figlio di un profeta, ero mandriano, ho trattato i sicomori; ma il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi disse: Va ‘, profetizza al mio popolo Israele. « (Am 7, 14). Oppure Geremia: « La parola del Signore mi parlò: Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo; prima di andare fuori dalla sua pancia, ti avevo consacrato; Io sto facendo un profeta delle nazioni. (Ger 1: 4-5).
Un profeta, per ipotesi, è sempre un uomo per gli altri. Nel Vangelo di Marco, si legge nella stessa liturgia, Gesù disse che è per la buona notizia come è arrivata.
Questo senso di responsabilità ha detto Paul molto forte frase che può sorprendere noi, « Guai a me se non predicassi il Vangelo! « Questo non significa che ha paura di qualsiasi punizione o si sente una minaccia esterna nel caso in cui non adempie la sua missione; ma qualcosa come « se non predicassi il Vangelo, sarei il più miserabile degli uomini »: questa nuova passione per il Vangelo è diventata una seconda natura. Perché questa scoperta ha fatto brucia condividerlo.
E ‘la sua gioia e la sua ricompensa: è sufficiente sapere che egli ha compiuto la sua missione. Paolo non è un predicatore itinerante che vende i suoi talenti oratorie facendo conferenze pagate qua e là; è di turno: « E ‘una necessità che si impone su di me … io non lo faccio io, io sto eseguendo l’accusa che Dio mi ha affidato. »
Quest’ultima espressione è che abbiamo impiegato per gli schiavi; così che potremmo riassumere i versi 17-18: se avessi scelto questa professione me, avrei pagato come qualsiasi altra attività; ma in realtà, sono diventato lo schiavo di Dio, e uno schiavo non viene pagato, come tutti sanno!
Ma ancora la mia ricompensa è grande, perché è un grande onore e un grande piacere di annunciare il Vangelo: Traduci « Non ricevere alcun salario, che è il mio stipendio »; questo apparente paradosso è la meravigliosa esperienza quotidiana di tutti i servitori del Vangelo. Perché libera è l’unico piano che è coerente con il discorso sul libero amore di Dio. Naturalmente, si deve vivere e fare una vita; Ma Paolo disse forte qui che la predicazione del Vangelo è un carico, una missione, una vocazione, non una professione. Eseguendo con tutto il cuore il compito imposto su di lui, l’apostolo è stato premiato con la gioia di donare: in questo è simile a quello che ha annunciato.

LE ESIGENZE DELLA VITA FRATERNA
Questa predicazione è non solo parole, ma anche un comportamento: « ho condiviso la debolezza dei deboli, per guadagnare i deboli »; che tipo di debolezza sta parlando? Lasciatemi spiegare questa frase riflette il contesto in cui Paolo scrisse ai membri della comunità di Corinto non hanno avuto tutti lo stesso percorso, come si suol dire. Alcuni sono ex ebrei divennero cristiani, come Paul; ma gli altri sono ex non ebrei; Non erano, però, pagano, in senso stretto; hanno avuto una religione, divinità, riti … Il loro battesimo e l’ingresso nella comunità cristiana hanno imposto i loro cambiamenti a volte radicali nelle abitudini. Ad esempio, nella loro vecchia religione, hanno offerto sacrifici ai loro idoli e poi mangiato la carne degli animali sacrificati, in una sorta di pasto sacro. Aderendo alla fede cristiana, ovviamente abbandonato la pratica: è noto che l’ingresso nel catecumenato imposto requisiti molto rigorosi.
Ma può succedere a loro di essere invitato da parenti o amici dei pagani.
Ad esempio, uno trovato inviti a un ricevimento in un tempio a Corinto, in cui si afferma: « Anthony, figlio di Tolomeo, vi invita a cenare con lui al tavolo del Signore Serapide (uno dei molte divinità di Corinto), nei locali della Sarapeion Claude … « dopo il giorno e l’ora.
Quando uno è un corso della sua fede cristiana (Paolo dice « forte ») non c’era nessun caso di coscienza per accettare tali inviti: Poiché non esistono gli idoli, si può ben sacrificare loro tutti gli animali che noi, questi sacrifici sono prive di significato e così questi pasti non sono una bestemmia contro il Dio dei cristiani. Un corso della sua fede cristiana è abbastanza libero di farlo. E preferisce non fare del male alla sua famiglia e gli amici rifiutando un invito.
Ma ci sono meno sicuri di loro cristiani, che Paolo chiama i deboli: sanno, inoltre, che gli idoli sono niente … ma il problema ancora * disturbo; dovrebbe né offendere né incoraggiarli a rientrare nelle loro vecchie pratiche. La massima sarà quindi sempre attenti a rispettare i più deboli. Questo è l’ABC della vera vita fraterna.
—————-
nota
Da un lato, essi possono essere scioccato nel vedere alcuni cristiani frequentano questi banchetti. D’altra parte, se seguono questo esempio, possono poi vivere in una tremenda colpa. Paolo poi raccomanda prudenza a coloro che non hanno di questi scrupoli: «Guardate che questa libertà, che è tuo diventa un inciampo per i deboli. Infatti, se vediamo te, che hai conoscenza, seduto in un tempio idolo, questo spettacolo potrebbe spingere uno la cui coscienza è debole di mangiare carne sacrificata a lui come … « (1 Cor 8: 9-10 ). E conclude: « Se un alimento deve scendere mio fratello, io rinuncio per sempre a mangiare carne, piuttosto che cadere mio fratello » (1 Cor 8: 13). Qui dice la stessa cosa in altre parole: « ho condiviso la debolezza dei più bassi per quanto vincere i deboli. »

complemento
Nei capitoli 14 e 15 della lettera ai Romani, Paolo prende lo stesso tema: « Il regno di Dio non è cibo o bevande; ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo … Vediamo quindi perseguire ciò che è diritto alla pace e alla reciproca edificazione … Tutto è puro, vero, ma è sbagliato mangiare qualcosa quando si è inciampare bene … e ‘un dovere per noi, forte, indossare la debolezza dei deboli e non cercare di piacere a noi stessi « (Rm 14: 17-20; 15: 1).

Publié dans:Lettera ai Corinti - prima |on 6 février, 2015 |Pas de commentaires »
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