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Here is a map of Ancient Jerusalem

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Publié dans:immagini sacre |on 12 février, 2015 |Pas de commentaires »

IL PROBLEMA DELLA CHIESA COME POPOLO DI DIO E CORPO DI CRISTO (anche Paolo)

http://web.tiscali.it/cattolici/salvezza_sacrificio.htm

(non trovo la firma, ma mi sembra un studio fatto bene)

IL PROBLEMA DELLA CHIESA COME POPOLO DI DIO E CORPO DI CRISTO

La parola « popolo » per indicare il « popolo di Dio », il popolo che appartiene a Dio e che Egli salva, ricorre solo cinque volte nel Nuovo Testamento (Tt 2, 14; Eb 4, 9; 10, 30; 1 Pt 2, 9-10; Ap 18, 4). L’espressione è conservata nell’ecclesiologia patristica, sia per indicare la dignità sacerdotale dei cristiani (Origene), sia per concepire dinamicamente e storicamente la Chiesa pellegrina sulla terra.
Ma è solo nel XX secolo che tale espressione ha avuto un grande sviluppo e una grande affermazione, sia nelle opere di teologi (come Cerfaux, Schmaus, Congar, Colombo, Semeraro tra i cattolici; Schlier, Schnackenburg, Oepke tra i protestanti), sia nei documenti del Magistero.
In un recente libro di ecclesiologia, Casale afferma che « tutto ciò che si può e si deve dire della Chiesa – storicamente e sovrastoricamente – si riferisce al « popolo di Dio » come al suo oggetto ». 1 E più avanti: « Dio raccoglie un’Ekklesia, un popolo, il che avviene già in questa storia ». 2
L’idea di Chiesa come popolo di Dio è privilegiata in due documenti importantissimi del Magistero cattolico: la costituzione dogmatica del concilio Vaticano II Lumen Gentium (1964) e il Catechismo della Chiesa cattolica (1992).
Ma è proprio da un attento esame di questi due documenti che nasce quello che si può chiamare il problema della Chiesa come popolo di Dio. Problema che viene fuori anche dall’esame di alcuni passi di altri importanti documenti della Chiesa, come l’enciclica di Pio XII Mystici Corporis (1943), la dichiarazione conciliare Nostra Aetate (1965) e l’esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii nuntiandi (1975).
Partiamo da due passi della Sacra Scrittura. In At 10, 35 Pietro afferma che « Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto ». Da notare che queste parole escono proprio dalla bocca di Pietro, il Vicario di Cristo, il primo papa. E in Gal 3, 28 Paolo afferma: « Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio né femmina, poiché tutti voi siete una sola persona in Cristo Gesù ». Vi è in essi la chiara attestazione che l’uomo buono, che fa la volontà di Dio, a qualunque popolo appartenga, è in Cristo e Dio lo salva.
E così è chiaro perché il Concilio Vaticano II possa dire che « quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e che tuttavia cercano sinceramente Dio, e coll’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna » (LG n. 16).
La domanda che a questo punto ci si deve porre è questa: se un ebreo, o un musulmano, o un induista, o un buddista, o qualunque uomo ignora il Vangelo di Cristo, oppure è stato chiamato ad entrare nella Chiesa cattolica e non vi è entrato, però compie con le opere la volontà di Dio, costui fa parte o no del popolo di Dio?
Se la Chiesa è definita « popolo di Dio », questa domanda è ineludibile, non si può evitare di dare una risposta.
La stessa domanda sorge se si considera la Chiesa come corpo di Cristo.
La definizione della Chiesa come corpo di Cristo ha un fondamento biblico nel corpus paolino. San Paolo afferma, infatti, che Cristo è un solo corpo che ha molte membra (1 Cor 12, 12), che noi siamo membra del corpo di Cristo (1 Cor 6, 15; 12, 27; Ef 5, 30), che formiamo un solo corpo (Rm 12, 5; 1 Cor 10, 17; 12, 13; Ef 4, 4; Col 3, 15) e che questo corpo di Cristo è la Chiesa (Ef 1, 22-23; Col 1, 18.24).
Anche il Magistero cattolico definisce in diversi documenti la Chiesa come corpo di Cristo: nell’enciclica di Pio XII Mystici Corporis (nn. 13-61); nel decreto conciliare Unitatis Redintegratio al n. 3; nel decreto conciliare Ad Gentes al n. 6; nel Catechismo della Chiesa cattolica al n. 830; nell’esortazione apostolica postsinodale di Giovanni Paolo II Ecclesia in Asia al n. 16.
Poiché i pagani « sono chiamati in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo » (Ef 3, 6), e poiché Cristo è il salvatore di tutti, cristiani e non cristiani, è inevitabile porsi la domanda se i non cristiani fanno parte o no del corpo di Cristo.
Le risposte possibili alle due domande, relative al popolo di Dio e al corpo di Cristo, sono evidentemente solo due: o sì o no.
Facciamo l’ipotesi di rispondere no.
In tal caso ci troviamo di fronte a due possibilità conseguenti. Se quest’uomo, che non fa parte del popolo di Dio, non è salvato, allora occorrerà ammettere che solo gli appartenenti alla Chiesa cattolica, il popolo di Dio e corpo di Cristo, si salvano. Ma ciò è negato dalla stessa Chiesa cattolica, quando afferma nella Lumen Gentium che la persona, non cattolica, di cui stiamo parlando è uno tra quelli che « possono conseguire la salvezza eterna » (n. 16).
L’altra possibilità è che quest’uomo è salvato da Dio senza che appartenga al popolo di Dio o e salvato da Cristo senza appartenere al corpo di Cristo. Il che è assurdo.
Come è improponibile la possibilità che quest’uomo mentre è in vita non appartiene al popolo di Dio, e subito dopo morto vi apparterrà. Quest’ultima possibilità è contraddetta peraltro dalla stessa Lumen Gentium, quando afferma: « Alcuni dei suoi discepoli sono pellegrini sulla terra, altri, passati da questa vita, stanno purificandosi, e altri godono della gloria contemplando « chiaramente Dio uno e trino, qual è »; tutti però, […] formano una sola Chiesa » (n. 49).
La risposta alla domanda che ci siamo posti non può dunque essere negativa. Occorre ammettere e accettare che l’appartenenza al popolo di Dio e al corpo di Cristo non è limitata agli aderenti alla Chiesa cattolica oggi visibile. Se, come afferma Ratzinger, « appartiene al popolo di Dio chi appartiene a Cristo », 3 se, come attesta il Concilio Vaticano II, Cristo « si è unito in certo modo ad ogni uomo » (GS n. 22) e se, come sostiene Giovanni Paolo II, compito fondamentale della Chiesa è di « far sì che una tale unione possa continuamente attuarsi e rinnovarsi » (RH n. 13), allora occorre anche ammettere che la « Chiesa di Dio » (1 Cor 10, 32; 11, 22; 15, 9; Gal 1, 13; 1 Tm 2, 5) abbraccia l’universale popolo di Dio, nel quale si entra per l’accoglienza dei doni dello Spirito di Cristo donati a tutti, dei quali « più grande è la carità » (1 Cor 13, 13). E ancora, come afferma Füglister, che l’ecclesiologia « tratta dell’unico « corpus Ecclesiae », dell’unico e indiviso popolo di Dio ». 4 Del resto, è lo stesso Magistero cattolico ad attestare, nel decreto conciliare Ad Gentes (1965), che Cristo si è incarnato, è morto ed è risorto perché « tutto il genere umano costituisca un solo popolo di Dio » (AG n. 7).
A questo punto, però, nasce un problema. Se una parte del popolo di Dio è fuori della Chiesa cattolica, questa costituisce solo una parte dell’universale popolo di Dio, e non è, come vogliono la Lumen Gentium (n. 13) e il Catechismo della Chiesa cattolica (nn. 782-783), « il popolo di Dio »; né in essa è presente la Chiesa universale. Si dovrebbe cioè accettare che la Chiesa cattolica è solo un’istituzione, è una Chiesa particolare e non universale; e così ridurre la sua cattolicità o a totalità o a missionarietà.
La cattolicità comprende la totalità nel senso che la Chiesa è cattolica anche perchè costituita dalla totalità delle Chiese locali, che sono essenzialmente identiche in ogni luogo e in ogni tempo, perché hanno tutte lo stesso Dio, la stessa fede, lo stesso Vangelo, gli stessi sacramenti (battesimo, eucaristia). « Soltanto tutte le Chiese sono la Chiesa totale, – scrive Küng – e ciò non in quanto addizionate o associate esternamente, ma in quanto interiormente unite nello stesso Dio, Signore e Spirito, attraverso lo stesso Vangelo, lo stesso battesimo, lo stesso banchetto eucaristico e la stessa fede ». 5
La totalità è sottolineata in alcuni passi del Magistero cattolico: « Cristo istituì questo nuovo patto, cioè la nuova alleanza nel suo sangue (cfr. 1 Cor 11, 25), chiamando gente dai Giudei e dalle nazioni, perché si fondesse in unità non secondo la carne, ma nello Spirito e costituisse il nuovo Popolo di Dio » (LG n. 9); « Il popolo di Dio si raccoglie da diversi popoli » (LG n. 13); « Questa varietà di Chiese locali tendenti all’unità, dimostra con maggiore evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa » (LG n. 23).
Ma la cattolicità non può esaurirsi nella totalità, perché se così fosse tutte le Chiese (ortodosse, luterane, calviniste, ecc.) sarebbero cattoliche, avendo lo stesso Dio, la stessa fede, lo stesso Vangelo e gli stessi sacramenti. La Chiesa cattolica, invece, è tale proprio perché cattolicità è qualcosa in più rispetto a totalità.
Se il presupposto della cattolicità fosse solo l’identità di tutte le Chiese locali, la Chiesa cattolica non sarebbe più pienamente tale, in quanto diversa dalle altre. Ciò è riconosciuto dallo stesso Magistero quando afferma: « Le divisioni dei cristiani impediscono che la Chiesa stessa attui la pienezza della cattolicità » (UR n. 4).
La cattolicità comprende anche la missionarietà della Chiesa, e ciò risulta da diverse affermazioni del Magistero. Leggiamo nella Lumen Gentium che « il popolo di Dio, pur restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli » (LG n. 13); qui è chiaro che l’espressione « si deve estendere » non può intendersi nel senso di « si deve considerare esteso », bensì nel senso di « deve essere esteso ». Anche il decreto Ad Gentes collega, in due passi, cattolicità e missionarietà: « La Chiesa, per le esigenze più profonde della sua cattolicità e obbedendo all’ordine del suo fondatore, si sforza di annunciare il Vangelo a tutti gli uomini » (AG n. 1); « Per quanto riguarda gli uomini, i gruppi e i popoli, solo gradatamente la Chiesa li raggiunge e li penetra, e li assume così nella pienezza cattolica » (AG n. 6). E il Catechismo della Chiesa cattolica sostiene che la Chiesa « è cattolica perché è inviata in missione da Cristo alla totalità del genere umano » (CCC n. 831).
Ma questo legame tra cattolicità e missionarietà, che nessuno nega, non esaurisce la cattolicità della Chiesa. La Chiesa, infatti, ha da sempre, fin dalla sua fondazione, concepito se stessa come Chiesa universale, Chiesa di Cristo, Chiesa di Dio. « I cristiani – scrive U. Casale – hanno avuto fin dall’inizio il senso di appartenenza a un corpo unico di estensione universale ». 6
Già Paolo, rivolgendosi ai Corinzi, indica la Chiesa come « Chiesa di Dio che è in Corinto » (2 Cor 1, 2), non come la Chiesa « di Corinto ». E nella Lettera ai Galati parla delle « Chiese della Giudea che sono in Cristo » (Gal 1, 22). Abbiamo già parlato della teologia paolina della Chiesa come corpo di Cristo.
Giovanni, anche se non usa mai il termine « ekklesia », vede nella Chiesa un rapporto di comunione dei credenti fra loro e con il Padre e il Figlio (cfr. 1 Gv 1, 1-3). E nell’Apocalisse l’immagine della « Donna vestita di sole » e coronata « di dodici stelle » (Ap 12, 1) rappresenta la Chiesa come popolo messianico di Dio.
Nell’età subapostolica, Origene vede nella Chiesa « l’universo dell’universo » (In Ioh. 6, 59, 301), e parla di un Adamo spezzato riunito nel Cristo. Secondo la celebre formula di Cipriano, la Chiesa è « un popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo » (De Dom. Orat. 23).
L’età patristica conosce la grandiosa ecclesiologia di Agostino, che applica alla Chiesa l’immagine di « città di Dio », pur considerandola sempre « il corpo di Cristo » (Sermo 45). Si tratta di una visione universalistica, come risulta chiaramente anche dal seguente passaggio: « Tutti siamo insieme membra e corpo di Cristo, non solo quanti ci troviamo in questo luogo, ma quanti siamo sparsi in tutto il mondo; né solamente quelli che esistono oggi, ma addirittura quanti sono esistiti o esisteranno da Abel e sin alla fine del mondo » (Sermo 341). Secondo Agostino, inoltre, « tutti quelli che fin dalle origini furono giusti, hanno per capo Cristo » (Ennar. In Ps., 36, 3, 4).
Nei secoli tra il VI e l’XI non vengono elaborate trattazioni sulla Chiesa che non ripetano l’impostazione agostiniana.
Con la scolastica (secoli XII-XV), insieme all’avvento di un nuovo paradigma culturale, l’aristotelismo, si apre una fase di nuova riflessione teologica. Si fa strada l’idea che la vera Chiesa è la « communio sanctorum », che non coincide con la Chiesa esteriore visibile, il che implica una critica (o autocritica) nei riguardi della Chiesa esistente.
Tommaso d’Aquino, restando nell’ambito del modello ecclesiologico della Chiesa come corpo di Cristo animato e vivificato dallo Spirito, sottolinea l’unità e l’universalità della Chiesa. « Abbracciando tutti i tempi, – egli scrive – Cristo è capo di tutti gli uomini, ma secondo gradi diversi. Prima e principalmente è capo di coloro che sono uniti a lui nella gloria, poi di coloro che gli sono uniti in atto mediante la carità, poi di coloro che gli sono uniti attualmente mediante la fede, poi di coloro che gli sono uniti soltanto in potenza » (Sum. Theol. III, 8, 1). Da notare in questo passo che, secondo l’aquinate, prima sono uniti a Cristo coloro che praticano la carità, e solo dopo coloro che hanno la fede; non solo, ma vi sono alcuni che anche se « in potenza » tuttavia « gli sono uniti ».
Dopo la riforma protestante e l’ecclesiologia luterana, che, partendo dall’oppo-sizione biblica natura/grazia, la identifica sostanzialmente nell’opposizione sensibile/spirituale o esteriore/interiore, e giunge a negare che un organismo sensibile e visibile come la Chiesa possa essere legato, o in relazione, alla grazia, cioè a qualcosa che Dio comunica liberamente e gratuitamente all’uomo, e ad affermare che nella parola di Dio c’è « tutta la vita e la sostanza della Chiesa » (M. Lutero, W. A. 7, 721), concependo l’essenza della Chiesa come comunione dei santi spirituale e invisibile, in cui si entra solo attraverso la fede, il Concilio di Trento (1545-1564) concepisce la Chiesa come « popolo sparso per l’universo » (cfr. D. S. 1544), in cui non si entra solo con la fede, ma anche con la speranza e la carità (cfr. D. S. 1531).
Dopo l’inevitabile chiusura della Chiesa in se stessa (« la cittadella assediata ») seguita alla costituzione dogmatica del Concilio Vaticano I Pastor Aeternus (1870), incentrata sul primato del pontefice e sul suo infallibile Magistero, che garantirebbe l’unità della Chiesa, Pio XII, con l’enciclica Mystici Corporis (1943), dà un importantissimo contributo all’autocomprensione della Chiesa cattolica come corpo mistico di Cristo, organico e unitivo di visibilità e invisibilità. Scrive Pio XII: « La Chiesa non consta soltanto di elementi e argomenti sociali e giuridici. Essa è certamente molto più eccellente di qualunque altra società umana e la supera come la grazia supera la natura e come le cose immortali trascendono tutte le cose caduche » (MC n. 61). E ancora: « Nessuna vera opposizione o ripugnanza può esistere tra la missione invisibile dello Spirito Santo e l’ufficio giuridico che i Pastori e i Dottori hanno ricevuto da Cristo » (MC n. 64).
Il Concilio Vaticano II, con la Lumen Gentium, accentra il carattere di universalità della Chiesa cattolica, che si apre alla prospettiva dell’universale popolo di Dio. Leggiamo alcuni passi che evidenziano questa apertura. « Tutti i giusti a partire da Adamo, dal giusto Abele fin all’ultimo eletto, saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale » (n. 2); « La società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, la comunità visibile e quella spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa ormai in possesso dei beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse, ma formano una sola complessa realtà » (n. 8); « Questa unica Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica » (n. 8); « Questo carattere di universalità che adorna e distingue il Popolo di Dio, è dono dello stesso Signore » (n. 13); « Tutti gli uomini sono chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale, e alla quale in vario modo appartengono e sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia, infine, tutti gli uomini, che dalla grazia di Dio sono chiamati alla salvezza » (n. 13).
Secondo l’ecclesiologia conciliare, dunque, l’universalità della Chiesa è sia sincronica che diacronica, ne fonda la cattolicità ed è fondata sull’universale volontà salvifica di Dio.
Successive affermazioni magisteriali dell’universalità della Chiesa si trovano in altri documenti. Nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975) Paolo VI afferma che « la Chiesa è universale per vocazione e per missione » (n. 62). Nel Catechismo della Chiesa cattolica (1992), promulgato da Giovanni Paolo II, si afferma che nella Chiesa cattolica « sussiste la pienezza del Corpo di Cristo » (n. 830). E nell’enciclica dello stesso Giovanni Paolo II Ut Unum Sint (1995) si legge che « questa unità, che il Signore ha donato alla sua Chiesa e nella quale egli vuole abbracciare tutti, non è un accessorio, ma sta al centro stesso della sua opera. […] Appartiene all’essere stesso di questa comunità. Dio vuole la Chiesa, perché egli vuole l’unità. […] Volere la Chiesa significa volere la comunione di grazia che corrisponde al disegno del Padre da tutta l’eternità » (n. 9).
Al termine di questa essenziale rassegna sulla cattolicità della Chiesa come universalità, non si può non notare che essa è stata, nel corso della sua storia, affermata, se si esclude Origene, da apostoli, santi, papi e concili, che costituiscono e rappresentano istituzionalmente alcuni tra i momenti più importanti della storia della Chiesa (Paolo, Giovanni, Cipriano, Agostino, Tommaso d’Aquino, Concilio di Trento, Pio XII, Concilio Vaticano II, Paolo VI, Giovanni Paolo II).
La Chiesa di Cristo è cattolica e universale essenzialmente per due motivi. Perché il corpo di Cristo è uno, come attestano i dati biblici che abbiamo visto. Non c’è un « altro corpo » dove siano altri, ma tutti sono nel « solo » corpo di Cristo. Poiché questo corpo è la Chiesa (lo dicono i dati biblici e le attestazioni magisteriali che abbiamo visto) e poiché in questo corpo sono anche i non cristiani, la Chiesa comprende tutti. L’altro motivo per cui la Chiesa di Cristo è cattolica e universale e la sua cattolicità non si esaurisce nella missionarietà è che Cristo non è solo nei cristiani, ma è in tutti; e ciò perché, come attestano i numerosi dati biblici e magisteriali che abbiamo già visto, lo Spirito Santo donato a tutti gli uomini è lo Spirito di Cristo. Se Cristo è in tutti, anche nei non cristiani, la Chiesa di Cristo comprende tutti.
Abbiamo fin qui visto da un lato che la Chiesa cattolica costituisce di fatto solo una parte dell’universale popolo di Dio, dall’altro che la sua cattolicità non si esaurisce né nella sua totalità-identità, né nella sua missionarietà; e che essa si è da sempre autocompresa come Chiesa di Dio Padre di tutti gli uomini, unica Chiesa di Cristo, Chiesa dell’universale popolo di Dio.
Il problema a questo punto è evidente. Come può un organismo che è legato a una parte di un tutto dire di essere legato al tutto? La Chiesa visibile si autocomprende come popolo di Dio, mentre il popolo di Dio è in gran parte nella Chiesa invisibile. La Chiesa visibile si autocomprende come Chiesa cattolica, ma non può legare la sua cattolicità alla Chiesa invisibile, perché allora la cattolicità sarebbe altrove ed essa riconoscerebbe di fatto di non essere pienamente cattolica. Né il visibile e l’invisibile si possono identificare, perché la libertà di Dio verrebbe legata a quella dell’uomo e quasi delimitata da un’istituzione. Dev’esservi allora una continua tensione del visibile verso l’invisibile, e cioè una permanente capacità e disponibilità delle forme istituzionali visibili a rinnovarsi per l’impulso dello Spirito.
Se Cristo si è incarnato, è morto ed è risorto perché « tutto il genere umano costituisca un solo popolo di Dio » (AG n. 7), come può la Chiesa essere fino in fondo di Cristo e al servizio di Cristo, rimanendo la Chiesa di una parte del genere umano? É un problema che il cattolicesimo non può evitare né nascondere. Esso viene fuori, del resto, come abbiamo visto, dall’esame dei documenti del Magistero stesso. É un problema cruciale che occorre affrontare e tentare di risolvere.

La soluzione a mio avviso c’è. E sarà articolata nelle pagine successive sotto due aspetti: uno relativo all’aderenza alla verità (biblico), l’altro relativo alla fattibilità (storico).

NOTE
Casale U., Il mistero della Chiesa. Saggio di ecclesiologia, Elle Di Ci, Leumann (TO), 1998, pag. 160.
Ibidem, pag. 195.
Ratzinger J., Le Sel de la terre, Flammarion – Éditions du Cerf, Paris, 1997; trad. it., Il sale della terra, ediz. San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pag. 213.
Füglister N., Strutture dell’ecclesiologia veterotestamentaria, in Mysterium Salutis VII, pag. 112.
Küng H., Die Kirche, 1967, trad. it., La Chiesa, Queriniana, Brescia, 1972, pag. 347.
Casale U., cit., pag. 258.

Publié dans:CHIESA (sulla) |on 12 février, 2015 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – (LA PREGHIERA NELLE LETTERE DI PAOLO) [2012]

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2012/documents/hf_ben-xvi_aud_20120516.html

BENEDETTO XVI – (LA PREGHIERA NELLE LETTERE DI PAOLO) [2012]

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 16 maggio 2012

Cari fratelli e sorelle,

nelle ultime catechesi abbiamo riflettuto sulla preghiera negli Atti degli Apostoli, oggi vorrei iniziare a parlare della preghiera nelle Lettere di san Paolo, l’Apostolo delle genti. Anzitutto vorrei notare come non sia un caso che le sue Lettere siano introdotte e si chiudano con espressioni di preghiera: all’inizio ringraziamento e lode, e alla fine augurio affinché la grazia di Dio guidi il cammino delle comunità a cui è indirizzato lo scritto. Tra la formula di apertura: «ringrazio il mio Dio per mezzo di Gesù Cristo» (Rm 1,8), e l’augurio finale: la «grazia del Signore Gesù Cristo sia con tutti voi» (1Cor 16,23), si sviluppano i contenuti delle Lettere dell’Apostolo. Quella di san Paolo è una preghiera che si manifesta in una grande ricchezza di forme che vanno dal ringraziamento alla benedizione, dalla lode alla richiesta e all’intercessione, dall’inno alla supplica: una varietà di espressioni che dimostra come la preghiera coinvolga e penetri tutte le situazioni della vita, sia quelle personali, sia quelle delle comunità a cui si rivolge.
Un primo elemento che l’Apostolo vuole farci comprendere è che la preghiera non deve essere vista come una semplice opera buona compiuta da noi verso Dio, una nostra azione. E’ anzitutto un dono, frutto della presenza viva, vivificante del Padre e di Gesù Cristo in noi. Nella Lettera ai Romani scrive: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza: non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili» (8,26). E sappiamo come è vero quanto dice l’Apostolo: «Non sappiamo come pregare in modo conveniente». Vogliamo pregare, ma Dio è lontano, non abbiamo le parole, il linguaggio, per parlare con Dio, neppure il pensiero. Solo possiamo aprirci, mettere il nostro tempo a disposizione di Dio, aspettare che Lui ci aiuti ad entrare nel vero dialogo. L’Apostolo dice: proprio questa mancanza di parole, questa assenza di parole, eppure questo desiderio di entrare in contatto con Dio, è preghiera che lo Spirito Santo non solo capisce, ma porta, interpreta, presso Dio. Proprio questa nostra debolezza diventa, tramite lo Spirito Santo, vera preghiera, vero contatto con Dio. Lo Spirito Santo è quasi l’interprete che fa capire a noi stessi e a Dio che cosa vogliamo dire.
Nella preghiera noi sperimentiamo, più che in altre dimensioni dell’esistenza, la nostra debolezza, la nostra povertà, il nostro essere creature, poiché siamo posti di fronte all’onnipotenza e alla trascendenza di Dio. E quanto più progrediamo nell’ascolto e nel dialogo con Dio, perché la preghiera diventi il respiro quotidiano della nostra anima, tanto più percepiamo ancheil senso del nostro limite, non solo davanti alle situazioni concrete di ogni giorno, ma anche nello stesso rapporto con il Signore. Cresce allora in noi il bisogno di fidarci, di affidarci sempre più a Lui; comprendiamo che «non sappiamo… come pregare in modo conveniente» (Rm 8,26). Ed è lo Spirito Santo che aiuta la nostra incapacità, illumina la nostra mente e scalda il nostro cuore, guidando il nostro rivolgerci a Dio. Per san Paolo la preghiera è soprattutto operare dello Spirito nella nostra umanità, per farsi carico della nostra debolezza e trasformarci da uomini legati alle realtà materiali in uomini spirituali. Nella Prima Lettera ai Corinti dice: «Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì insegnate dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali» (2,12-13). Con il suo abitare nella nostra fragilità umana, lo Spirito Santo ci cambia, intercede per noi, ci conduce verso le altezze di Dio (cfr Rm 8,26).
Con questa presenza dello Spirito Santo si realizza la nostra unione a Cristo, poiché si tratta dello Spirito del Figlio di Dio, nel quale siamo resi figli. San Paolo parla dello Spirito di Cristo (cfr Rm 8,9), non solo dello Spirito di Dio. E’ ovvio: se Cristo è il Figlio di Dio, il suo Spirito è anche Spirito di Dio e così se lo Spirito di Dio, Spirito di Cristo, divenne già molto vicino a noi nel Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, lo Spirito di Dio diventa anche spirito umano e ci tocca; possiamo entrare nella comunione dello Spirito. E’ come se dicesse che non solamente Dio Padre si è fatto visibile nell’Incarnazione del Figlio, ma anche lo Spirito di Dio si manifesta nella vita e nell’azione di Gesù, di Gesù Cristo, che ha vissuto, è stato crocifisso, è morto e risorto. L’Apostolo ricorda che «nessuno può dire “Gesù è Signore”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1Cor 12,3). Dunque lo Spirito orienta il nostro cuore verso Gesù Cristo, in modo che «non siamo più noi a vivere, ma Cristo vive in noi» (cfr Gal 2,20). Nelle sue Catechesi sui Sacramenti, riflettendo sull’Eucaristia, sant’Ambrogio afferma: «Chi si inebria dello Spirito è radicato in Cristo» (5, 3, 17: PL 16, 450).
E vorrei adesso evidenziare tre conseguenze nella nostra vita cristiana quando lasciamo operare in noi non lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Cristo come principio interiore di tutto il nostro agire.
Anzitutto con la preghiera animata dallo Spirito siamo messi in condizione di abbandonare e superare ogni forma di paura o di schiavitù, vivendo l’autentica libertà dei figli di Dio. Senza la preghiera che alimenta ogni giorno il nostro essere in Cristo, in una intimità che cresce progressivamente, ci troviamo nella condizione descritta da san Paolo nella Lettera ai Romani: non facciamo il bene che vogliamo, bensì il male che non vogliamo (cfr Rm 7,19). E questa è l’espressione dell’alienazione dell’essere umano, della distruzione della nostra libertà, per le circostanze del nostro essere per il peccato originale: vogliamo il bene che non facciamo e facciamo ciò che non vogliamo, il male. L’Apostolo vuole far capire che non è anzitutto la nostra volontà a liberarci da queste condizioni e neppure la Legge, bensì lo Spirito Santo. E poiché «dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2Cor 3,17), con la preghiera sperimentiamo la libertà donata dallo Spirito: una libertà autentica, che è libertà dal male e dal peccato per il bene e per la vita, per Dio. La libertà dello Spirito, continua san Paolo, non s’identifica mai né con il libertinaggio, né con la possibilità di fare la scelta del male, bensì con il «frutto dello Spirito che è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza e dominio di sé» (Gal 5,22). Questa è la vera libertà: poter realmente seguire il desiderio del bene, della vera gioia, della comunione con Dio e non essere oppresso dalle circostanze che ci chiedono altre direzioni.
Una seconda conseguenza che si verifica nella nostra vita quando lasciamo operare in noi lo Spirito di Cristo è che il rapporto stesso con Dio diventa talmente profondo da non essere intaccato da alcuna realtà o situazione. Comprendiamo allora che con la preghiera non siamo liberati dalle prove o dalle sofferenze, ma possiamo viverle in unione con Cristo, con le sue sofferenze, nella prospettiva di partecipare anche della sua gloria (cfr Rm 8,17). Molte volte, nella nostra preghiera, chiediamo a Dio di essere liberati dal male fisico e spirituale, e lo facciamo con grande fiducia. Tuttavia spesso abbiamo l’impressione di non essere ascoltati e allora rischiamo di scoraggiarci e di non perseverare. In realtà non c’è grido umano che non sia ascoltato da Dio e proprio nella preghiera costante e fedele comprendiamo con san Paolo che «le sofferenze del tempo presente non ostacolano la gloria futura che sarà rivelata in noi» (Rm 8,18). La preghiera non ci esenta dalla prova e dalle sofferenze, anzi – dice san Paolo – noi «gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8, 26); egli dice che la preghiera non ci esenta dalla sofferenza ma la preghiera ci permette di viverla e affrontarla con una forza nuova, con la stessa fiducia di Gesù, il quale – secondo la Lettera agli Ebrei – «nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo dalla morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (5,7). La risposta di Dio Padre al Figlio, alle sue forti grida e lacrime, non è stata la liberazione dalle sofferenze, dalla croce, dalla morte, ma è stata un esaudimento molto più grande, una risposta molto più profonda; attraverso la croce e la morte Dio ha risposto con la risurrezione del Figlio, con la nuova vita. La preghiera animata dallo Spirito Santo porta anche noi a vivere ogni giorno il cammino della vita con le sue prove e sofferenze, nella piena speranza, nella fiducia in Dio che risponde come ha risposto al Figlio.
E, terzo, la preghiera del credente si apre anche alle dimensioni dell’umanità e dell’intero creato, facendosi carico dell’«ardente aspettativa della creazione, protesa verso la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8,19). Questo significa che la preghiera, sostenuta dallo Spirito di Cristo che parla nell’intimo di noi stessi, non rimane mai chiusa in se stessa, non è mai solo preghiera per me, ma si apre alla condivisione delle sofferenze del nostro tempo, degli altri. Diventa intercessione per gli altri, e così liberazione da me, canale di speranza per tutta la creazione, espressione di quell’amore di Dio che è riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato (cfr Rm 5,5). E proprio questo è un segno di una vera preghiera, che non finisce in noi stessi, ma si apre per gli altri e così mi libera, così aiuta per la redenzione del mondo.
Cari fratelli e sorelle, san Paolo ci insegna che nella nostra preghiera dobbiamo aprirci alla presenza dello Spirito Santo, il quale prega in noi con gemiti inesprimibili, per portarci ad aderire a Dio con tutto il nostro cuore e con tutto il nostro essere. Lo Spirito di Cristo diventa la forza della nostra preghiera «debole», la luce della nostra preghiera «spenta», il fuoco della nostra preghiera «arida», donandoci la vera libertà interiore, insegnandoci a vivere affrontando le prove dell’esistenza, nella certezza di non essere soli, aprendoci agli orizzonti dell’umanità e della creazione «che geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22). Grazie.

Christ in the Wilderness – Driven by the spirit

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Publié dans:immagini sacre |on 11 février, 2015 |Pas de commentaires »

DESERTO (E.BIANCHI)

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DESERTO (E.BIANCHI)

ENZO BIANCHI, LE PAROLE DI SPIRITUALITÀ. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 47-51

«L’esperienza del deserto è stata per me dominante. Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non si consuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo ascolto» (Edmond Jabès). Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il deserto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia così importante. Certo, esso è anzitutto un luogo, e un luogo che nell’ebraico biblico ha diversi nomi: aravah, luogo arido e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chorbah, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine dimenticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, senza piste, senz’acqua; ma soprattutto midbar, luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi. Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’erosione del vento, dell’azione dell’acqua dovuta alle piogge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte.
Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Numeri 20,5), il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attraverso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio. È in sostanza luogo di rinascita. E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi 2,4b5) diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’opera creazionale (Genesi 2,815). E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fiorirà come fiore di narciso» (Isaia 35,12). Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia. Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa sentire come medabber (colui che parla). È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve la rivelazione del Nome (Esodo 3,114); è nel deserto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 1924); è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’acqua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è nel deserto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa Israele dopo il tradimento di quest’ultima (Osea 2,16) per rinnovare l’alleanza nuziale…
Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semantica del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino. Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra promessa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino faticoso, duro, tra un’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il deserto dell’esodo! La spazialità arida, monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come tentazione. Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimanere in Egitto? Che salvezza è mai quella in cui si patiscono la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo desertico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Deuteronomio 8,2). Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé, e forse il viaggio intrapreso dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all’invito di Dio «Va’ verso te stesso!» (Genesi 12,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto. Il deserto è il luogo delle ribellioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,1112; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5). Anche Gesù vivrà il deserto come noviziato essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11). Fortificato dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico!
Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si traversa. Quaranta anni; quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù. Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà. Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino. Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria. Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversione, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3). Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce.
Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il deserto biblico, e, così esso diviene cifra dell’ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del credente, della stessa contraddittoria esperienza di Dio. Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio

PAPA FRANCESCO : SANTA PAZIENZA

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2014/documents/papa-francesco-cotidie_20140217_santa-pazienza.html

PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

SANTA PAZIENZA

Lunedì, 17 febbraio 2014

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.039, Mart. 18/02/2014)

Ci sono persone che sanno soffrire con il sorriso e che conservano «la gioia della fede» nonostante prove e malattie. Sono queste persone a «portare avanti la Chiesa con la loro santità di ogni giorno», fino a divenire autentici punti di riferimento «nelle nostre parrocchie, nelle nostre istituzioni». Nella riflessione di Papa Francesco sulla «pazienza esemplare del popolo di Dio», proposta lunedì 17 febbraio durante la messa nella Cappella della Casa Santa Marta, ci sono dunque gli echi degli incontri di domenica pomeriggio con la comunità parrocchiale della periferia romana dell’Infernetto.
«Quando andiamo nelle parrocchie — ha detto infatti il vescovo di Roma — troviamo persone che soffrono, che hanno problemi, che hanno un figlio disabile o hanno una malattia, ma portano avanti con pazienza la vita». Sono persone che non chiedono «un miracolo» ma vivono con «la pazienza di Dio» leggendo «i segni dei tempi». E proprio di questo santo popolo di Dio «è indegno il mondo» ha affermato il Papa citando espressamente il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei e affermando che anche «di questa gente del nostro popolo — gente che soffre, che soffre tante, tante cose ma non perde il sorriso della fede, che hanno la gioia della fede — possiamo dire che di loro non è degno il mondo: è indegno! Lo spirito del mondo è indegno di questa gente!».
La riflessione del Pontefice sul valore della pazienza ha preso le mosse, come di consueto, dalla liturgia odierna: il passo della Lettera di Giacomo (1, 1-11) e il brano del Vangelo di Marco (8, 11-13).
«Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove»: commentando queste parole tratte dalla prima lettura, il Papa ha notato che «sembra un po’ strano quello che ci dice l’apostolo Giacomo». Pare quasi — ha osservato — «un invito a fare il fachiro». Infatti, si è chiesto, «subire una prova come ci può dare letizia?». Il Pontefice ha proseguito la lettura del passo di san Giacomo: «Sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla».
Il suggerimento, ha spiegato, è «portare la vita in questo ritmo di pazienza». Ma «la pazienza — ha avvertito — non è rassegnazione, è un’altra cosa». Pazienza vuol dire infatti «sopportare sulle spalle le cose della vita, le cose che non sono buone, le cose brutte, le cose che noi non vogliamo. E sarà proprio questa pazienza che farà matura la nostra vita». Chi invece non ha pazienza «vuole tutto subito, tutto di fretta». E «chi non conosce questa saggezza della pazienza è una persona capricciosa», che finisce per comportarsi proprio «come i bambini capricciosi», i quali dicono: «io voglio questo, voglio quello, questo non mi piace», e non si accontentano mai di niente.
«Perché questa generazione chiede un segno?» domanda il Signore nel brano evangelico di Marco rispondendo alla richiesta dei farisei. E così intendeva dire, ha affermato il Papa, che «questa generazione è come i bambini che se sentono musica di gioia non ballano e se sentono musica di lutto non piangono. Nessuna cosa va bene!». Infatti, ha proseguito il Papa, «la persona che non ha pazienza è una persona che non cresce, che rimane nei capricci dei bambini, che non sa prendere la vita come viene», e sa dire solo: «o questo o niente!».
Quando non c’è la pazienza, «questa è una delle tentazioni: diventare capricciosi» come bambini. E un’altra tentazione di coloro «che non hanno pazienza è l’onnipotenza», racchiusa nella pretesa: «Io voglio subito le cose!». Proprio a questo si riferisce il Signore quando i farisei gli chiedono «un segno dal cielo». In realtà, ha sottolineato il Pontefice, «cosa volevano? Volevano uno spettacolo, un miracolo». È in fin dei conti la stessa tentazione che il diavolo propone a Gesù nel deserto, domandandogli di fare qualcosa — così tutti crediamo e questa pietra diventa pane — o di buttarsi giù dal tempio per mostrare la sua potenza.
Nel chiedere a Gesù un segno, però, i farisei «confondono il modo di agire di Dio con il modo di agire di uno stregone». Ma, ha precisato il Santo Padre, «Dio non agisce come uno stregone. Dio ha il suo modo di andare avanti: la pazienza di Dio». E noi «ogni volta che andiamo al sacramento della riconciliazione cantiamo un inno alla pazienza di Dio. Il Signore come ci porta sulle sue spalle, con quanta pazienza!».
«La vita cristiana — è il suggerimento del Papa — deve svolgersi su questa musica della pazienza, perché è stata proprio la musica dei nostri padri: il popolo di Dio». La musica di «quelli che hanno creduto alla parola di Dio, che hanno seguito il comandamento che il Signore aveva dato al nostro padre Abramo: cammina davanti a me e sii irreprensibile!».
Il popolo di Dio, ha proseguito citando ancora il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei, «ha sofferto tanto: sono stati perseguitati, ammazzati, dovevano nascondersi nelle spelonche, nelle caverne. E hanno avuto la gioia, la letizia — come dice l’apostolo Giacomo — di salutare da lontano le promesse». È proprio questa «la pazienza che noi dobbiamo avere nelle prove». È «la pazienza di una persona adulta; la pazienza di Dio che ci porta, ci supporta sulle sue spalle; e la pazienza del nostro popolo» ha fatto notare il Pontefice esclamando: «Quanto è paziente il nostro popolo ancora adesso!».
Il vescovo di Roma ha quindi ricordato che sono tante le persone sofferenti capaci di portare «avanti con pazienza la vita. Non chiedono un segno», come i farisei, «ma sanno leggere i segni dei tempi». Così «sanno che quando germoglia il fico viene la primavera». Invece le persone «impazienti» presentate nel Vangelo «volevano un segno» ma «non sapevano leggere i segni dei tempi. Per questo non hanno riconosciuto Gesù».
La Lettera agli Ebrei, ha detto il Papa, dice chiaramente che «il mondo era indegno del popolo di Dio». Ma oggi «possiamo dire lo stesso di questa gente del nostro popolo: gente che soffre, che soffre tante, tante cose, ma non perde il sorriso della fede, che ha la gioia della fede». Sì, anche di tutti loro «non è degno il mondo!». È proprio «questa gente, il nostro popolo, nelle nostre parrocchie, nelle nostre istituzioni», che porta «avanti la Chiesa con la sua santità di tutti i giorni, di ogni giorno».
In conclusione il Papa ha riletto il passo di san Giacomo riproposto anche all’inizio dell’omelia. E ha chiesto al Signore di dare «a tutti noi la pazienza: la pazienza gioiosa, la pazienza del lavoro, della pace», donandoci «la pazienza di Dio» e «la pazienza del nostro popolo fedele che è tanto esemplare».

Our Lady of Lourdes, from the official Lourdes website

Our Lady of Lourdes, from the official Lourdes website dans immagini sacre Our-Lady-of-Lourdes1

http://www.discerninghearts.com/?page_id=3298

Publié dans:immagini sacre |on 10 février, 2015 |Pas de commentaires »
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