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PAPA FRANCESCO: CELEBRAZIONE DEI VESPRI NELLA SOLENNITÀ DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO APOSTOLO (2014)

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CELEBRAZIONE DEI VESPRI NELLA SOLENNITÀ DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO APOSTOLO (2014)

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica di San Paolo fuori le Mura

Sabato, 25 gennaio 2014

«E’ forse diviso il Cristo?» (1 Cor 1,13). Il forte richiamo che san Paolo pone all’inizio della sua Prima Lettera ai Corinzi, e che è risuonato nella liturgia di questa sera, è stato scelto da un gruppo di fratelli cristiani del Canada come traccia per la nostra meditazione durante la Settimana di Preghiera di quest’anno.
L’Apostolo ha appreso con grande tristezza che i cristiani di Corinto sono divisi in diverse fazioni. C’è chi afferma: “Io sono di Paolo”; un altro dice: “Io invece sono di Apollo”; un altro: “Io invece di Cefa”; e infine c’è anche chi sostiene: “E io di Cristo” (cfr v. 12). Neppure coloro che intendono rifarsi a Cristo possono essere elogiati da Paolo, perché usano il nome dell’unico Salvatore per prendere le distanze da altri fratelli all’interno della comunità. In altre parole, l’esperienza particolare di ciascuno, il riferimento ad alcune persone significative della comunità, diventano il metro di giudizio della fede degli altri.
In questa situazione di divisione, Paolo esorta i cristiani di Corinto, «per il nome del Signore Nostro Gesù Cristo», ad essere tutti unanimi nel parlare, perché tra di loro non vi siano divisioni, bensì perfetta unione di pensiero e di sentire (cfr v. 10). La comunione che l’Apostolo invoca, però, non potrà essere frutto di strategie umane. La perfetta unione tra i fratelli, infatti, è possibile solo in riferimento al pensiero e ai sentimenti di Cristo (cfr Fil 2,5). Questa sera, mentre siamo qui riuniti in preghiera, avvertiamo che Cristo, che non può essere diviso, vuole attirarci a sé, verso i sentimenti del suo cuore, verso il suo totale e confidente abbandono nelle mani del Padre, verso il suo radicale svuotarsi per amore dell’umanità. Solo Lui può essere il principio, la causa, il motore della nostra unità.
Mentre ci troviamo alla sua presenza, diventiamo ancora più consapevoli che non possiamo considerare le divisioni nella Chiesa come un fenomeno in qualche modo naturale, inevitabile per ogni forma di vita associativa. Le nostre divisioni feriscono il suo corpo, feriscono la testimonianza che siamo chiamati a rendergli nel mondo. Il Decreto del Vaticano II sull’ecumenismo, richiamando il testo di san Paolo che abbiamo meditato, significativamente afferma: «Da Cristo Signore la Chiesa è stata fondata una e unica, eppure molte comunioni cristiane propongono se stesse agli uomini come la vera eredità di Gesù Cristo. Tutti invero asseriscono di essere discepoli del Signore, ma hanno opinioni diverse e camminano per vie diverse, come se Cristo stesso fosse diviso». E, quindi, aggiunge: «Tale divisione non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura» (Unitatis redintegratio, 1). Tutti noi siamo stati danneggiati dalle divisioni. Tutti noi non vogliamo diventare uno scandalo. E per questo tutti noi camminiamo insieme, fraternamente, sulla strada verso l’unità, facendo unità anche nel camminare, quell’unità che viene dallo Spirito Santo e che ci porta una singolarità speciale, che soltanto lo Spirito Santo può fare: la diversità riconciliata. Il Signore ci aspetta tutti, ci accompagna tutti, è con tutti noi in questo cammino dell’unità.
Cari amici, Cristo non può essere diviso! Questa certezza deve incoraggiarci e sostenerci a proseguire con umiltà e con fiducia nel cammino verso il ristabilimento della piena unità visibile tra tutti i credenti in Cristo. Mi piace pensare in questo momento all’opera del beato Giovanni XXIII e del beato Giovanni Paolo II. Entrambi maturarono lungo il proprio percorso di vita la consapevolezza di quanto fosse urgente la causa dell’unità e, una volta eletti Vescovi di Roma, hanno guidato con decisione l’intero gregge cattolico sulle strade del cammino ecumenico: Papa Giovanni aprendo vie nuove e prima quasi impensate, Papa Giovanni Paolo proponendo il dialogo ecumenico come dimensione ordinaria ed imprescindibile della vita di ogni Chiesa particolare. Ad essi associo anche Papa Paolo VI, altro grande protagonista del dialogo, di cui ricordiamo proprio in questi giorni il cinquantesimo anniversario dello storico abbraccio a Gerusalemme con il Patriarca di Costantinopoli Atenagora.
L’opera di questi Pontefici ha fatto sì che la dimensione del dialogo ecumenico sia diventata un aspetto essenziale del ministero del Vescovo di Roma, tanto che oggi non si comprenderebbe pienamente il servizio petrino senza includervi questa apertura al dialogo con tutti i credenti in Cristo. Possiamo dire anche che il cammino ecumenico ha permesso di approfondire la comprensione del ministero del Successore di Pietro e dobbiamo avere fiducia che continuerà ad agire in tal senso anche per il futuro. Mentre guardiamo con gratitudine ai passi che il Signore ci ha concesso di compiere, e senza nasconderci le difficoltà che oggi il dialogo ecumenico attraversa, chiediamo di poter essere tutti rivestiti dei sentimenti di Cristo, per poter camminare verso l’unità da lui voluta. E camminare insieme è già fare unità!
In questo clima di preghiera per il dono dell’unità, vorrei rivolgere i miei cordiali e fraterni saluti a Sua Eminenza il Metropolita Gennadios, rappresentante del Patriarcato ecumenico, a Sua Grazia David Moxon, rappresentante a Roma dell’Arcivescovo di Canterbury, e a tutti i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, qui convenuti questa sera. Con questi due fratelli, in rappresentanza di tutti, abbiamo pregato nel Sepolcro di Paolo e abbiamo detto fra noi: “Preghiamo perché lui ci aiuti in questa strada, in questa strada dell’unità, dell’amore, facendo strada di unità”. L’unità non verrà come un miracolo alla fine: l’unità viene nel cammino, la fa lo Spirito Santo nel cammino. Se noi non camminiamo insieme, se noi non preghiamo gli uni per gli altri, se noi non collaboriamo in tante cose che possiamo fare in questo mondo per il Popolo di Dio, l’unità non verrà! Essa si fa in questo cammino, in ogni passo, e non la facciamo noi: la fa lo Spirito Santo, che vede la nostra buona volontà.
Cari fratelli e sorelle, preghiamo il Signore Gesù, che ci ha reso membra vive del suo Corpo, affinché ci mantenga profondamente uniti a Lui, ci aiuti a superare i nostri conflitti, le nostre divisioni, i nostri egoismi; e ricordiamo che l’unità è sempre superiore al conflitto! E ci aiuti ad essere uniti gli uni agli altri da un’unica forza, quella dell’amore, che lo Spirito Santo riversa nei nostri cuori (cfr Rm 5,5). Amen.

 

Publié dans:FESTE DI SAN PAOLO, PAPA FRANCESCO |on 17 février, 2015 |Pas de commentaires »

Gethsemane’s Garden

Gethsemane's Garden dans immagini sacre 09_christ_in_gethsemane_b

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Publié dans:immagini sacre |on 16 février, 2015 |Pas de commentaires »

COME SCOPRIRE NELL’EDIFICIO SACRO IL VOLTO DELL’ETERNO (O.R. e Sandro Magister)

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/190141

COME SCOPRIRE NELL’EDIFICIO SACRO IL VOLTO DELL’ETERNO

(da un articolo di Sandro Magister)

Da « L’Osservatore Romano » del 4-5 febbraio 2008

di Enrico Maria Radaelli

Alzare lo sguardo e trovarmi come in paradiso fu un tutt’uno: santi e sante, angeli, potenti arcangeli, cherubini, serafini giocosi, rosei, veloci; una festa radiosa, schiere lontane e vicine; tra le nubi papi eccelsi, giovani martiri, severi dottori, estatiche vergini, austeri eremiti; tutti lì, uomini e angeli innumerevoli, sparsi nell’aere dei cieli fino a salire ai cerchi più alti: ecco i patriarchi antichi, il Battista, la Maddalena, gli Apostoli, lo splendore della Vergine, e, al centro, il cuore abbagliante della vita: l’eterna Trinità.
Non ero « fuori di me », ma sotto la volta della cupola della chiesa del Gesù a Roma, a rimirare il grande affresco del Baciccia a nome appunto « La visione del Cielo », uno tra i più belli e ricchi tra tutti quelli disseminati nella Città dei Papi.
Non ero in mistico rapimento dunque, ma in quella mirabile estasi di massa alla quale accedono adoranti i fedeli da duemila anni, allorché, durante i divini misteri, un Dio davvero discende e – come dice Romano Amerio – quel Dio davvero si prende. Da mille e mille anni, siano catacombe o cattedrali, la liturgia trinitaria che si svolge nei cieli discende tra le sue greggi sotto le forme delle sacre Specie. Discende la liturgia e si sostanzia il Cristo, liturgo e vittima. E la Chiesa, con la saggezza di sposa sua e di madre dei chiamati ai sacrosanti misteri, procura di rendere queste greggi sempre edotte della cosa: non solo ammaestrandole con la più veritiera dottrina, ma anche conducendo i loro sensi quasi a toccare la realtà procurata, a metterle, come diceva suor Elisabetta della Trinità, « faccia a faccia pur nelle tenebre » con la Gloria di Dio.
È per tale intima e religiosa necessità, infatti, che ben presto le pareti e le volte delle sacre stanze destinate all’Eucaristia — a partire da quelle nascoste nelle catacombe, poi dei templi pagani convertiti alla Trinità, poi di tutti gli edifici sacri di ogni dimensione e fattezza, sparsi ovunque si diffondesse la cristianità — si dilatano facendo largo ai santi, si dissolvono e trapuntano di stelle, si squarciano dando posto non solo al glorioso passato della Chiesa militante, come coi cortei di vergini e di martiri delle basiliche di Ravenna, ma pure al futuro, già arcanamente presente, della Chiesa trionfante, ai festosi cieli delle cupole che stiamo vedendo, a significare, nella rappresentazione pittorica, la loro effettiva se pur nascosta discesa.
Quanto era stato realmente ricevuto nei cuori era ciò da cui i cuori erano circondati; la realtà invisibile sull’altare era visibile intorno all’altare, e i fedeli perdonavano il dolce inganno suggerito dagli artisti, ben sapendo che gli occhi vedevano cieli « finti » — che ispiravano realtà arcanamente già vive — ma non « falsi », ossia che non sbagliavano realtà. Dunque cieli « profetici » di realtà a venire, mentre le loro bocche ricevevano cieli « veri » e i loro cuori si allargavano a una realtà già presente in tutta la sua divinità e in tutta la sua umanità.
La realtà eucaristica, intorno alla quale si radunano i popoli facendo Ekklesia, adunanza di chiamati, Chiesa, sollecita da subito il suo insegnamento e al tempo stesso la sua visibilità. Se fosse necessario, la Chiesa vergherebbe in oro zecchino, come già faceva a suo tempo nei codici medievali, i caratteri delle pagine di dottrina, in modo da far risaltare la nobiltà, la somma superiorità, anzi la divinità che esse sottendono.
In qualche modo, Verità e Bellezza sono accompagnate dalla stessa premura: la Verità di irrompere in pienezza nei cuori, la Bellezza di rifulgere nel suo splendore sui muri.
L’ispirazione di dare agli edifici sacri la forma di croce nasce direttamente dalla sacralità dell’Eucaristia, sicché ai fedeli pare quasi di introdursi direttamente nel legno della croce e nel corpo stesso di Cristo — al quale davvero accederanno — quasi potesse verosimilmente avvenire quel mistico inserimento nel sacramento ecclesiale, anticipo d’eternità.
Nel Quattrocento Filippo Brunelleschi aggiunge ai muri che con la loro disposizione cruciforme rimandano fisicamente al mistero dell’incarnazione, la figurazione architettonica dell’altro e più alto mistero, la Trinità, e reinventa nella cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze la cupola quale « luogo cosmico » per incrociare adeguatamente i bracci longitudinale e trasversale della basilica cristiana proprio lì dove batte il cuore di Cristo, lì dove si compie il Sacrificio, dando così modo alla chiesa di trasfondere nei suoi fedeli altri necessari ed eccelsi pensieri: lì dove l’Alto discende sull’altare, « alzate gli occhi », o fedeli, e « vedrete » tutto ciò che attraverso l’altare vi è entrato nel cuore.
Con il ricorso alla cupola il geniale architetto — come poi tutti i grandi e meno grandi architetti rinascimentali e barocchi — dà modo alla chiesa di poter suggerire alla cristianità forse la più compiuta e profonda metafora della Trinità che si possa avere sotto le vestigia dell’arte, almeno da come ci viene descritta nelle pagine specialmente di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino, per illustrare con la massima verosimiglianza l’indicibile e sommo arcano dove batte il cuore di Cristo. Il cuore di Cristo batte infatti per il Padre, quel Padre che l’ha generato « prima dell’aurora » (Salmo 109, 3), quel Padre a cui offre il proprio sacrificio per aprirne le cateratte di misericordia — che sono poi in realtà egli stesso: il Cristo.

Che cosa dicono infatti della Trinità quei grandi dottori della Chiesa? San Tommaso, in specie, raccogliendo nel « De Trinitate » della sua « Summa Theologiæ » (I, 27-43) la più compiuta formulazione di tutte le verità scritte dai santi teologi sull’argomento, ci offre la sintesi più esauriente e in qualche modo a noi più comprensibile, per concludere che la santissima Trinità è simile a una mente che con le sue operazioni pensa e ama.
Anche sant’Agostino accenna alla stessa analogia, in particolare nel suo « De Trinitate », X, 10, 18, che infatti sarà d’ispirazione agli sviluppi dell’altro dottore, l’Angelico. Naturalmente il mistero trinitario si eleva al di là di ogni figura, almeno per il fatto che quanto viene assimilato a una mente è in realtà una Persona, cosa valevole anche per un pensiero, altra Persona, e per la stessa loro « spirazione », che è la Terza. Ma l’analogia proposta dai due dottori resta utile almeno « per chiarire — riassume bene Battista Mondin nel suo ‘Dizionario enciclopedico del pensiero di san Tommaso d’Aquino’ — come in Dio sia possibile a un tempo la sussistenza di tre individui distinti e l’identità della natura, senza cadere nel politeismo ».
Si potrà apprezzare ancor più l’opera materna della Chiesa allorché essa, dopo aver sviluppato adeguatamente la similitudine in teologia, mettendo al lavoro le sue menti più alte e sante, la traslocherà dai libri ai muri nell’influsso che avrà sui suoi artisti, di modo che la Chiesa parrà quasi una sconfinata Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana, dove libri e quadri sono accostati in un unico insieme, e la Trinità potrà essere adorata sia sui libri, sia poi quando gli uomini alzeranno gli sguardi sul gran cupolaio romano, verso le potenti curve della cupola di San Pietro, sia quando un parroco di paese alzerà gli occhi verso l’umile cupoletta della sua chiesuola di campagna.
Ma cerchiamo di capire la relazione tra la cupola e il mistero trinitario e, ancor prima, di capire come questo sia stato spiegato da san Tommaso.
Una mente che intende — dice l’Aquinate — genera o emana un pensiero, che è il « logos », il « verbum ». La mente è il principio — prima del quale altro non c’è — del pensiero che spira da essa, e questo è il motivo per cui la Persona divina da cui è generato l’Unigenito si chiama « Padre »: perché una mente ha la paternità del pensiero che ne viene generato.
Ma ciò nasce dalla mente — il pensiero — non sarebbe di per sé un pensiero ma un nulla se non rispecchiasse in sé la mente da cui procede, se non riflettesse la sua natura. Non si avrebbe il pensiero, se esso non fosse la perfetta immagine della mente da cui spira.
È così che accanto al « Logos », o « Verbum », emerge con forza il concetto di « Imago »: il nome, lo specchio, il volto, solo grazie al quale è perfettamente sorretta la somiglianza tra Figlio e Padre. Come spiega san Tommaso: « Il Figlio procede come Verbo, e il concetto di verbo implica somiglianza di specie con il soggetto da cui procede [e che è il Padre] » (« Summa Theologiae » I, 35, 2).
Nel caso della Trinità il pensiero generato dalla mente del Padre è il pensiero che dice tutto della mente da cui nasce e di cui è lo specchio fedele e completo. È il pensiero dell’ »essere », in conformità a ciò che Dio dice di sé quando alla domanda su chi Egli sia, quale sia il suo Nome, Egli risponde: « Io sono Colui che sono » (Esodo 3, 14). La mente è la realtà forte dell’essere; e il pensiero generato dalla mente esprime l’ »essere », ossia ne è il Verbo, è la Parola infinita, positiva, forte, di « Io sono Colui che sono ».
La cosa si capisce meglio se torniamo alla nostra cupola, che, tra l’altro, possiamo riscontrare anche piuttosto somigliante alla testa di un uomo. La cupola si erge alta nel cielo, incurvandosi verso il centro, verso la lanterna da dove riceve la luce. Le sue pietre scaricano le loro forze lungo i costoloni, e questi le scaricano potentemente verso il basso, in modo tale che, ricevendo più giù, sotto il tiburio, le spinte contrarie dei bracci delle navate su cui poggia, esse vengano corrette nella loro traiettoria e restino all’interno dell’area di appoggio, e ciò va notato, perché tutto questo potente costrutto viene così a costituire in qualche modo il corrispettivo architettonico di quello che nella Trinità è dato dalla persona del Padre: la potente stanzialità dell’ »Essere », e ciò non a caso, poiché da sempre la pietra è stata chiamata dall’uomo a testimoniare la solida fermezza dell’eternità; si pensi per esempio a tutte le volte che Giacobbe alza grandi pietre per stabilire che lì, in quei certi luoghi, « per sempre » sarà ricordato il Signore che gli ha parlato.
La volta della cupola è, dunque, nella sua possanza il Padre, e come il Padre essa è. E potentemente è, voltando il cielo in una larga immensità tenuta in piedi da pilastri immani. Ed ecco che, ancora come il Padre, la volta della cupola spira dalla potenza delle pietre l’affresco dei cieli, emana cioè il Figlio, genera sull’infinita superficie del suo « essere » il Pensiero che rispecchia il Padre e la sua potenza. Come lo genera? Con la più esaustiva illustrazione della sua essenza, cioè di tutto ciò che il Padre rimira in sé. Quello che vediamo, quasi fossimo nella Mente del Padre, è il Logos, è la visione della Gloria di Dio come la vede in sé Dio, e ciò per via quasi di una trasudazione di figure e colori dalle pietre della cupola — ecco l’azione dello Spirito Santo — perché le pietre della cupola « parlano », e rivelano in cosa consista la beatitudine del proprio celestiale firmamento.
Struttura architettonica e affresco sono tutt’uno. Sicché la cupola quasi spira ed emana l’affresco e l’affresco esprime e manifesta la volta della cupola. L’affresco si vede, la cupola non si vede, come quando Gesù dice: « Chi vede Me vede il Padre » (Giovanni 14, 9). Chi vede il « Logos », « Imago » e Affresco del Padre, vede il Padre che l’ha generato, vede la divina Cupola che l’Essere dà a sé e alla sua intellettuale spirazione.
L’analogia della cupola mette in campo con forza quella che senza dubbio si presenta come una delle più significative scoperte teologiche di san Tommaso d’Aquino, non mai però successivamente scavata nei notevolissimi suoi risvolti scientifici e filosofici. Parlo del secondo Nome del Figlio, « Imago », che, sulla base qualificata delle Sacre Scritture (Giovanni 14, 9; Colosses, 1, 15; Ebrei 1, 3), l’Angelico pone con autorità accanto al primo nome, « Logos », tanto quanto la rappresentazione di un pensiero va posta accanto al pensiero, il volto di un concetto accanto al concetto, l’espressione di una nozione accanto alla nozione. Come potrebbe infatti un pensiero esprimersi – ossia, dall’etimo, « premersi fuori di sé » – se non attraverso il suo volto, la sua effigie, la sua immagine? Anzi, si deduce da san Tommaso, un pensiero neanche esisterebbe se non si formulasse in un suo volto: sarebbe un nerume, uno sgorbio, un rumore.
Nell’epoca che stiamo passando — di relativismo, di debolezza e scoordinamento dell’arte dalla religione — l’avere il Figlio due Nomi e non uno, ossia essere il Figlio tanto la « Imago » quanto il « Verbum » del Padre, permette di ristabilire un legame forte, soprannaturale, tra Bellezza e Verità.
La similitudine della cupola non può ovviamente soddisfare in tutto, ma sembra la più riuscita raffigurazione associabile alla Trinità in architettura, e, non a caso, segnala con ineguagliata forza icastica la cattolicità di un edificio.
Sarebbe dunque anche un atto notevolmente religioso reinventare la cupola in termini attuali, ricchi come siamo oggi di materiali elastici quasi fatti apposta per piegarsi alle esigenze, diciamo così, « trinitarie ». L’importante è che ne sia preservato il carattere di sacro « teatro dei Cieli », rispettata la proporzione aurea — misura quasi sacra, per la sua stretta attinenza al « Logos » —, esaltato il mistero aureo della Trinità, dalla cui sublime liturgia può discendere la più superba arte. Davvero una « trinoliturgica » arte, per rendere alla Verità la più adeguata divina Bellezza.

SPOGLIÀTI DELL’UOMO VECCHIO (CCC, CEI) (anche Paolo)

http://www.educat.it/catechismo_dei_giovani/venite_e_vedrete/&iduib=5_1

SPOGLIÀTI DELL’UOMO VECCHIO (CCC, CEI)

L’incontro con Gesù cambia la vita, la rende nuova. Può accadere Che una persona, incontrando Gesù, non abbia il coraggio di fidarsi totalmente di lui e se ne vada via triste (Lc 18,18-23), oppure riconosca in lui quella novità che dà un significato profondo alla vita (Lc 19,1-10).
Il Nuovo Testamento è unanime nel sottolineare che un tratto fondamentale dell’uomo convertito, animato dallo Spirito, è l’esperienza della novità. La comunione con Cristo e l’accoglienza dello Spirito conducono ad una vita nuova. Scrive san Paolo ai cristiani di Corinto: « Se uno è in Cristo è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove » (2Cor 5,17). E ai cristiani di Colossi: « Vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore » (Col 3,9-10). La novità dello Spirito raggiunge il nucleo più profondo della persona, ristrutturandolo e rinnovandolo dall’interno (Rm 6,4).
I primi cristiani sentivano la novità di questo nuovo orientamento in modo così vivace da esprimerlo con le immagini della risurrezione, della creazione, della rinascita, del risveglio. Queste immagini sottolineano una sorta di passaggio dalla morte alla vita, dalla schiavitù alla libertà, dal chiuso dell’egoismo e dell’indifferenza agli spazi aperti della carità.
La novità dello Spirito è la novità della vita di Dio, che irrompe nell’uomo vecchio, rigenerandolo. Siamo sempre in ansiosa ricerca di cose nuove; spesso, però, appena si fanno realtà e le tocchiamo con mano, ci deludono, appaiono subito vecchie. Lo Spirito, invece, dischiude all’uomo un mondo sempre nuovo e rinnovante, pieno di sorprese; nuovo a tal punto da prefigurare « un nuovo cielo e una nuova terra » (Ap 21,1).

Abbandonare l’uomo vecchio
Non è però possibile essere uomini e donne nuovi senza un coraggioso abbandono dell’uomo vecchio, l’uomo inautentico, ripiegato su se stesso. La novità dello Spirito è insieme dono e compito: « Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici. Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera » (Ef 4,22-24).
Uomini e donne nuovi si diventa quando si ha il coraggio di una conversione profonda, di una scelta netta e definitiva. L’azione trasformante dello Spirito non rinnega nulla di quanto nell’uomo è autentico, né trascura alcuna delle sue profonde aspirazioni, ma tutte porta a insospettata pienezza. Richiede però che ci si lasci alle spalle le opere dell’egoismo, per gustare i frutti dello Spirito.
Uomo « vecchio » è il giovane che cerca la novità per se stessa e si affanna a inventare il cambiamento per il cambiamento, immergendosi così in una vita sradicata, ridotta a continua esplorazione senza meta in una sorta di soggettività « senza dimora ». Una vita così sradicata affonda poi nel rincorrere impressioni e sensazioni sempre nuove, bloccata nelle secche dell’effimero.
Uomo « vecchio » è il giovane che affida la sua fame di novità a desideri senza limite, come se in essi ci sia una promessa di eternità. Nasce allora l’illusione di possedere certezze e soluzioni per un mondo nuovo, solo perché lo si sa immaginare in termini astratti. Ma la vera novità della pace, della giustizia, della libertà rimane lontana. L’utopia si rivela illusoria; rimane la novità dei piccoli appagamenti, dei bisogni soddisfatti; il sogno ricade su una quotidianità divorata dalla noia.
Uomo « vecchio » è il giovane che si lascia imbrigliare dalle opere dell’egoismo: « fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere » (Gal 5,19-21). L’elenco che Paolo offre trova purtroppo facili attualizzazioni: avidità di denaro e conseguenti atti delinquenziali per ottenerlo, disprezzo della propria e altrui vita, tempo libero vissuto nella noia, uso di droghe, violenza e libertinaggio sessuale, fragilità e suicidio, sfruttamento dei genitori, sincretismo religioso, satanismo e magia, rigurgiti razzisti e disprezzo degli immigrati, cecità di fronte alle tragedie umane…
« Vecchio » e « nuovo », « carne » e « Spirito », sono fra loro in antitesi: « La carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne » (Gal 5,17). Non sono possibili patteggiamenti, né illusioni. Si impone una scelta chiara e coraggiosa: « Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito » (Rm 8,5).
La radice della novità è l’esperienza profonda, viva e attuale dello Spirito di Gesù. La novità per l’uomo non consiste nelle cose che egli può inventare, produrre, mettere sul mercato, godere… Consiste nella novità che è la persona stessa di Gesù: in lui e solo in lui è possibile inventare una storia nuova, una vicenda umana inedita, segnata dalla grazia. È lo Spirito di Gesù che rende nuove tutte le cose e dona ai credenti « amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé » (Gal 5,22).
I giovani che vivono secondo lo Spirito ne esprimono i frutti in volontariato, servizio ai poveri, servizio educativo, slancio e impegno per la pace, preparazione alla vita di famiglia, generosa risposta a una vocazione di speciale consacrazione, impegno missionario, apertura alla vita anche dopo esperienze di fallimento, slancio per i valori della giustizia, generosità di offrirsi gratuitamente, entusiasmo per le mete più alte…

Lo Spirito di Gesù in noi
Gesù, il risorto e il vivente, è presente nella Chiesa e nel mondo; lo Spirito ci mette in comunione con lui, delinea in noi i suoi lineamenti.
Il Vangelo di Giovanni sottolinea l’insostituibile funzione dello Spirito: « Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto » (Gv 14,26); « Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che ha udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà » (Gv 16,12-14).
Lo Spirito non dice parole proprie, ma ripete quelle già dette da Gesù: « Non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che ha udito ». Lo Spirito non si distacca dalla storia di Gesù e dalla tradizione vivente della Chiesa. C’è una perfetta comunione tra lo Spirito e Gesù, tanto che l’insegnamento dello Spirito è il medesimo insegnamento di Gesù; meglio, il suo insegnamento è Gesù. Lo Spirito svela la persona di Gesù e la sua comunione con il Padre.
L’insegnamento dello Spirito non è ricordo ripetitivo, non è semplice memoria. Non aggiunge nulla alla rivelazione di Gesù, però la interiorizza e la rende presente in tutta la sua pienezza; ristruttura la nostra personalità offrendole un nuovo centro e un solido fondamento, la vita stessa di Gesù. Lo Spirito fa incontrare Gesù: l’orientamento di vita che ne scaturisce diventa punto di unificazione della personalità e criterio per ogni scelta e decisione. Uomini e donne nuovi sono allora giovani vivi, ricchi di umanità, piegati fino in fondo al servizio e all’amore, alle prese con i problemi, le difficoltà, gli entusiasmi e le incertezze di ogni giorno, che si affidano e fanno riferimento esplicito a Gesù di Nazareth e al suo progetto di vita, radicati dal suo stesso Spirito su di lui, roccia indistruttibile. Per questo Gesù precisa: lo Spirito « v’insegnerà ogni cosa » e « vi guiderà alla verità tutta intera » (Gv 14,2616,13).
Questa è la fede dei primi cristiani e della Chiesa di ogni tempo: soltanto lo Spirito consente di comprendere le parole e ricordare i gesti di Gesù come realtà presenti e operanti, come inesauribile « sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna » (Gv 4,14): « È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono spirito e vita » (Gv 6,63).

Lo Spirito ci fa figli del Padre
Comunicandoci la conoscenza e l’amore di Gesù, il Figlio amato, lo Spirito ci inserisce nel dialogo di conoscenza e amore che corre tra il Padre e il Figlio, aprendoci a un nuovo e inaspettato rapporto con Dio: « Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio » (Gal 4,6-7). L’uomo animato dallo Spirito non sta più davanti a Dio nel timore e nella paura, ma nella libertà. Sa di stare a cuore a Dio, di potersi consegnare alla sua affidabile cura e di affidarsi a lui anche oltre la morte.
L’obbedienza a Dio non è più vissuta come legge, ma come libertà; non più come mortificazione, ma come dono. La preghiera rivolta a Dio è segnata dalla coraggiosa confidenza dei figli. La preghiera, infatti, è un punto nodale e rivelatore dell’esistenza. Manifesta il modo con cui l’uomo si pone davanti a Dio, a se stesso, al mondo.
Lo Spirito crea in noi quella segreta familiarità che ci consente di riconoscere nella voce di Dio la voce amica di un Padre: « Abbà, Padre! Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio » (Rm 8,15-16). Questa confidenza di fronte a Dio, una confidenza che è obbedienza e libertà, è il segno dell’autenticità della preghiera, non più fatta di molte parole, ma di sereno abbandono: « Voi dunque pregate così: Padre nostro… » (Mt 6,9). Questa libertà di fronte a Dio, che si manifesta nella preghiera e si esprime nella vita, è la libertà più alta donata all’uomo.

Testimoni liberi di fronte al mondo: il coraggio della missione
Un altro importante tratto dell’uomo nuovo è la testimonianza. Nei discorsi di addio, narrati nel Vangelo di Giovanni, Gesù avverte i discepoli che saranno odiati dal mondo e perseguitati, ma insieme li assicura che, dinanzi all’odio del mondo e alla persecuzione, saranno sorretti dalla testimonianza dello Spirito:
« Lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio » (Gv 15,26-27). Il cristiano spesso deve compiere scelte contro corrente, trovandosi di fronte a chi non riesce a capire, perché bloccato dall’accomodante: « Fanno tutti così! » e dai sondaggi d’opinione.
Nel grande processo tra Cristo e il mondo, che si svolge entro la storia, lo Spirito depone in favore di Gesù. Davanti all’ostilità che incontrano, anche i discepoli sono esposti al dubbio, allo scandalo, allo scoraggiamento (Gv 16,1-4). Ma lo Spirito custodirà la loro fede, li renderà sicuri nel loro opporsi alla logica del mondo. Quando i discepoli avranno bisogno di certezza, lo Spirito gliela offrirà. Lo Spirito è il testimone intimo e segreto che crea nei discepoli la sicurezza di essere con Dio e dona il coraggio della libertà.
« Dove c’è lo Spirito del Signore c’è la libertà », scrive Paolo con molta convinzione (2Cor 3,17). Di questa libertà il Nuovo Testamento offre ampie testimonianze. La parola greca che preferibilmente la esprime è « parresìa »; un termine che indica la libertà di parola e di coscienza, il coraggio di esprimere, di fronte a chiunque, la propria convinzione e il proprio dissenso.
Questa « franchezza » permette il superamento della paura, uno dei segni rivelatori dell’uomo vecchio, l’uomo ricattabile, perché prigioniero della stima del mondo ed eccessivamente preoccupato di sé, incapace di affrontare la solitudine in cui spesso il cristiano deve vivere i propri ideali. L’incontro con il Signore risorto libera il cuore dell’uomo dal timore del mondo e da tutti i suoi ricatti. Trasforma un cuore ricattabile in un cuore libero. I discepoli di Gesù sono liberi dentro, orgogliosi di appartenere a Cristo, incapaci di tenere per sé il dono e l’esperienza della fede. Sono appassionati per la grande causa del vangelo, come lo è Gesù per il regno di Dio.
Questo miracolo lo può compiere soltanto Gesù risorto. Di questa vittoria sulla paura parla spesso il libro degli Atti. Qui il cristiano è presentato nel vivo degli avvenimenti, non chiuso nella tranquillità della sua casa, separato in piccoli gruppi, ma presente sulle piazze, sulle strade, nelle sinagoghe, nei tribunali, in tutti i luoghi dove gli uomini vivono, dialogano, si incontrano e si confrontano. Sono uomini e donne pieni di fede, convinti di essere sorretti dalla presenza dello Spirito e di possedere un messaggio di salvezza di cui il mondo intero ha bisogno, lieti anche di subire persecuzioni « per amore del nome di Gesù » pur di non venir meno al compito « di insegnare e di portare il lieto annunzio che Gesù è il Cristo » (At 5,41-42). I cristiani sono pieni di slancio e in perenne cammino missionario: testimoni di Cristo « a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra » (At 1,8).
È sempre grande il numero di giovani che hanno sete di Dio e non trovano fontane a cui estinguere la loro sete; a volte hanno una domanda religiosa, ma non incrociano le proposte della comunità cristiana e disperdono l’intensità della ricerca nei rivoli delle sètte, della superstizione e della magia. Ancora più grande è il numero di coloro che ancora non conoscono il Signore; abitano in terre lontane o sono venuti ad abitare nella casa accanto. Cristiano è colui che senza stancarsi sa annunciare a tutte le genti la gioia sperimentata in Gesù.
Nel libro degli Atti, Luca tratteggia questa figura di cristiano, moltiplicando gli esempi, per mostrare ai suoi lettori che la risurrezione di Gesù ha introdotto nel mondo un radicale cambiamento. Non quello, certo, di far cessare le persecuzioni, che anzi sembrano insorgere più di prima, ma quello di suscitare, in ogni tempo e in ogni luogo, uomini liberi e coraggiosi, obbedienti a Dio piuttosto che agli uomini (At 4,19).

I doni dello Spirito
I cristiani possono contare sulla potenza dello Spirito che si comunica loro mediante i suoi doni. La tradizione della Chiesa ne enumera sette, ispirandosi a Is 11,2: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timore di Dio.
Con la ricchezza e la novità dei suoi doni, lo Spirito offre a ciascuno lo spazio per seguire la propria vocazione, esprimere la propria originalità ed esercitare il proprio servizio. Ai cristiani di Corinto Paolo scrive che « a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune » (1Cor 12,7).
L’uomo nuovo non si appiattisce nell’anonimato, ma riconosce e difende la propria originalità. Al tempo stesso, però, sente la passione della comunione e non fa della sua originalità un motivo per dividere, per contrapporsi o per elevarsi sopra gli altri, ma ne fa un dono per tutti, un servizio per la crescita comune.
L’uomo nuovo non è senza volto, non è anonimo: è una persona creativa e originale. E tuttavia non cammina da solo, ma con gli altri. L’uomo nuovo, contemplando la croce di Gesù, non vive per se stesso, nella difesa egoistica della propria vita, ma nel dono di sé. E questo il « perdersi per ritrovarsi » di cui parla Gesù nel Vangelo (Mc 8,35).

…venne da Gesù un lebbroso

...venne da Gesù un lebbroso dans immagini sacre

https://cacina.wordpress.com/2012/01/12/carry-the-gospel-with-you-1126/

Publié dans:immagini sacre |on 13 février, 2015 |Pas de commentaires »

UNA LIBERANTE TRASGRESSIONE DI DIO (è una omelia)

http://www.sestogiorno.it/liturgia/liturgia_15febbraio15.html

6 domenica B – 15 febbraio 2015

Preghiamo. Risanaci, o Padre, dal peccato che ci divide, e dalle discriminazioni che ci avviliscono; aiutaci a scorgere anche nel volto del lebbroso l’immagine del Cristo, per collaborare all’opera della redenzione e narrare ai fratelli la tua misericordia. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen

Dal libro del Levìtico 13,1-2.45-46
Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli. Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».

Sal 31. Tu sei il mio rifugio, mi liberi dall’angoscia.
Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato.
Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno.
Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa.
Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità» e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato.
Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti!
Voi tutti, retti di cuore, gridate di gioia!

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 10,31-11,1
Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.

Dal Vangelo secondo Marco 1,40-45
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

UNA LIBERANTE TRASGRESSIONE DI DIO.
Don Augusto Fontana
C’è un doppio modo di diventare discepoli: o per essere direttamente chiamati o per essere direttamente guariti. L’opera di guarigione è una convocazione e un rito di invio in missione. La sequela, dunque, è composta da chiamati e da guariti, da convocati dalla “parola” e da convocati dai “segni”.
Non sia inutile ricordare che il Vangelo di Marco pare rivolto prevalentemente a dei catecumeni: quindi in ogni suo racconto e catechesi è bene tener vivo il sospetto che l’evangelista ci stia informando sulla prassi battesimale della sua comunità. E tornano le domande: Chi è Gesù? Chi è il discepolo? E soprattutto: dove ci porta questo Gesù? Non sarebbe male che queste domande costituissero la griglia di lettura e di ascolto anche del testo evangelico di oggi, sentendoci protagonisti dell’evento. Benchè già battezzati, siamo un po’ ancora “catecumeni”.
Probabilmente Marco si trova anche alle prese con evidenti problemi interni alla sua (e nostra?) comunità: se siamo “impuri” ed emarginati dalle leggi religiose come veniamo trattati da Gesù? E se invece ci consideriamo gente per bene e integrati, come ci collochiamo davanti agli esclusi, infetti, pericolosi? Ognuno di noi ha la sua categoria di immondi che gli fanno un po’ schifo, che gli fanno storcere la bocca, che non intendiamo toccare per non infettarci. Si comincia nelle famiglie a dire ai bambini: “Certi compagni non devi frequentarli”.
«Una società che non sa salvare deve ricorrere alla repressione, alla reclusione, alla emarginazione, per difendersi. L’uomo incapace di salvare deve “salvarsi” e la “legittima difesa” può andare anche fino all’uccisione di colui che si ritiene aggressore. Così, incapaci di vincere il male, si “vince” colui che ne è vittima: lo si toglie fuori dai piedi…Il tempo del Messia è il tempo in cui il sano non rifiuta di prendere per mano il malato senza timori né verso di lui né nei confronti della malattia, perché sa di poter vincere il male. Se per tenerci puliti dobbiamo continuare a isolarci sotto la campana di vetro delle nostre istituzioni, a chi testimoniamo? Continueremo a rendere sterile la Parola di salvezza? Ogni volta che in noi prevale l’atteggiamento di difesa o di ostilità, non facciamo altro che accodarci ad una umanità incapace di salvare; le nostre chiese e i nostri gruppi saranno sempre rifugi da “gente perbene”, in cui troppi non avrebbero voglia di entrare per ascoltare la parola che fa vivere, e continueranno a restare esclusi. Chiesa e società rischieranno ancora di ritrovarsi abbinate nell’accettare e avallare le medesime esclusioni»[1].
La società in cui vivevano gli antichi uomini della Bibbia sottolineava molto la gravità della lebbra (sotto questo nome andavano diverse affezioni della pelle); nella prima lettura abbiamo sentito che i lebbrosi dovevano vivere isolati, e segnalare la loro presenza con delle vesti strappate e con il gridare: « Immondo, immondo! ». La lebbra veniva vista come il peggiore dei mali, proprio a causa della concezione che legava il peccato alla malattia: l’idea di fondo è che la lebbra, e in definitiva ogni malattia, sia un castigo di Dio per il peccatore. Il lebbroso perciò era quasi uno scomunicato e bisognava evitare la sua presenza per il contagio fisico e morale. Chi era lebbroso era dunque escluso dalla città dei vivi, « buttato via », dato per morto. Di fronte a questa disgrazia, le persone sane e religiose erano autorizzati a pensare: “sicuramente quel lebbroso deve aver commesso qualche grave peccato…” (cf. Gv 9,34); addirittura poteva arrivare a dire: “ben gli sta, ci poteva pensare prima… se l’è cercata…”. Ma ecco che succede qualcosa che è come un terremoto che fa crollare tutti questi ragionamenti come un castello di carta, una scossa che fa crollare il muro di separazione che isolava i puri dagli impuri. La prima mossa è quella del lebbroso che aveva sentito parlare di Gesù, di questo profeta che annunciava l’inizio di un nuovo regno, che proclamava il perdono e la guarigione dal male: invece di gridare « immondo, immondo » il lebbroso prende il coraggio a due mani e, trasgredendo le regole stabilite da Mosè, si presenta a Gesù con questa bellissima confessione di fede: se vuoi, puoi guarirmi!
Gesù non gli dice « va’ via, allontanati », come avrebbe potuto fare un ebreo osservante, e tanto meno, « te la sei cercata… » ma è preso da un misto di collera e commozione [così si può dedurre dall'incertezza dei manoscritti greci, molti dei quali hanno orgistheis, “preso da collera” al posto di splagchnistheis, “preso da commozione”]: Gesù è preso da collera per quella mentalità che aveva portato alla scomunica del lebbroso e insieme è profondamente mosso a compassione per la miseria della condizione umana. Anche Gesù trasgredisce le regole, le buone maniere igieniche, quando servono soltanto a fornire alibi all’indifferenza: stende la mano, lo tocca e lo guarisce. Quando si tratta di amare e di soccorrere chi soffre non valgono più le regole dell’ordine civile e religioso…
Il puro tocca l’impuro e prende su di sé la nostra lebbra: « Ecco l’agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo! » (Gv 1,29). Paolo scriverà in Romani 9,3: «Vorrei infatti essere io stesso anatema (scomunicato), separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne».
E Gesù morirà come uno scomunicato, fuori dalle mura della città, col volto sfigurato come quello di un lebbroso, messo all’indice dai passanti, che potevano pensare: « sicuramente quell’uomo crocifisso deve aver commesso qualche grave peccato… » o addirittura potevano arrivare a dire: « ben gli sta, ci poteva pensare prima… se l’è cercata ». È quello che S.Paolo chiama lo “scandalo della croce” (cf. 1Cor 1,23).
Il Crocifisso resta per sempre la risposta e il rimedio anche ad ogni immagine distorta di Dio: non una divinità pronta a castigare ma un Dio ricco di misericordia che prende su di sé attraverso il Figlio il peccato e il dolore del mondo; per questo Gesù “può anche salvare per sempre quelli che, per mezzo di lui, si avvicinano a Dio, essendo sempre vivente per intercedere in loro favore” (Eb 7,25).

 

OMELIA VI DOMENICA DEL T.O. : « MOSSO A COMPASSIONE… GLI DISSE: LO VOGLIO, GUARISCI! »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/8-Ordinario/6a-Domenica-B/12-06a-Domenica-B-2015-SC.htm

15 FEBBRAIO 2015 | 6A DOMENICA – T. ORDINARIO B | APPUNTI PER LA LECTIO

« MOSSO A COMPASSIONE… GLI DISSE: LO VOGLIO, GUARISCI! »

Anche oggi la lebbra è una malattia che fa paura, anzi ribrezzo. E questo per un doppio motivo: per la orrenda deformazione che apporta all’organismo umano e per la sua potenziale contagiosità.
« Il lebbroso porterà vesti strappate e il capo scoperto »
Secondo la concezione ebraica, la lebbra era la « primogenita della morte » (Gb 18,13), nel senso che la esprimeva e anche la procurava nella forma più cruda e ripugnante. Il Levitico, nella sua legislazione dell’impurità, dedica due capitoli a questa malattia e alle purificazioni rituali alle quali erano tenuti i lebbrosi (cc. 13-14). Chi ne veniva colpito, doveva tenersi separato dagli altri e non poteva avvicinarsi a nessuno. È quanto leggiamo nella prima lettura di questa 6ª Domenica del tempo ordinario: « Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: « Immondo! Immondo! »… » (Lv 13,45-46).
E non sembra che queste fossero solo prescrizioni astratte. La realtà, anzi, proprio per l’istintivo ribrezzo che ognuno prova davanti a tale malattia, sembra che andasse oltre la stessa prescrizione giuridica.
Giuseppe Flavio, che scrive poco dopo i tempi del Signore, conferma questa impietosa « emarginazione » dei lebbrosi dal consorzio umano: « I lebbrosi perciò stavano sempre fuori delle città; dal momento che essi non potevano incontrare nessuno, non erano in nulla diversi da un cadavere ». Dei « cadaveri » ambulanti, dunque, e nulla più!
La loro situazione poi si aggravava se si pensa che, dato l’intimo rapporto fra spirituale e materiale, proprio della concezione veterotestamentaria, i lebbrosi venivano considerati come colpevoli di gravi peccati: per questo perciò Dio li puniva. Maledetti, dunque, da Dio e dagli uomini!
Ai motivi igienici si aggiungevano pertanto motivi di carattere religioso ad aggravare la situazione del lebbroso. Anche i monaci di Qumran escludevano dalla loro congregazione chiunque fosse stato colpito da lebbra.
« Se vuoi, puoi guarirmi »
Tutto questo ci può aiutare a capire meglio la novità dirompente e « provocatoria » del gesto di Gesù, non tanto e solo nel guarire il lebbroso, quando piuttosto nelle modalità e nei sentimenti che tale guarigione hanno accompagnato e che Marco, anche a distanza di tempo, sembra riferire quasi con sofferenza e in una forma letteraria contorta e, almeno apparentemente, contraddittoria.
La prima parte del racconto è semplice e solenne nello stesso tempo: un lebbroso, andato da Gesù, « lo supplicava in ginocchio e gli diceva: « Se vuoi, puoi guarirmi! ». Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: « Lo voglio, guarisci! ». Subito la lebbra scomparve ed egli guarì » (vv. 40-42).
Quello che colpisce in questa scena, oltre alla fede del lebbroso che si affida tutto alla benevolenza del Signore (« Se vuoi »), è il senso di umanità e di sofferenza che afferra Gesù davanti a quel relitto umano. A differenza degli altri Sinottici, infatti, solo Marco annota che egli fu « mosso a compassione » (v. 41), con un verbo greco che dice una sofferenza che commuove « fino alle viscere » (splanchnisthèis).
Secondo una lettura di diversi manoscritti, appartenenti alla recensione occidentale e che alcuni studiosi preferiscono, più che da compassione Gesù sarebbe stato preso da una « collera » violenta (orghisthèis): in questo caso si vorrebbe esprimere quel misto di sofferenza, di ripugnanza, di irritazione e di reazione davanti a situazioni ingiuste o penose. Se la lettura è giusta, come personalmente inclino a credere, la « collera » di Gesù non va contro il lebbroso in quanto tale, ma contro l’orrore del male che lo dilania e contro l’ingiustizia della società che lo emargina.
Per conto proprio, Gesù compie dei gesti che vanno contro la Legge, come lo « stendere la mano » e il « toccare » l’immondo (v. 41), che però viene guarito: « Lo voglio, guarisci! ». La potenza della sua parola, congiunta alla « partecipazione », direi quasi « sacramentale », di tutta la sua persona (sofferenza interiore, contatto fisico), opera il prodigio della guarigione, che è come una specie di « risurrezione » dai morti e perciò è sentita come particolarmente importante: la divulgazione, addirittura esagerata, che ne farà il lebbroso, nonostante il divieto di Gesù (v. 45), questo appunto vuol mettere in evidenza.
« E, ammonendolo severamente, lo rimandò »
Nella seconda parte del racconto abbiamo degli elementi narrativi tipici di Marco, che creano difficoltà all’esegeta e quasi certamente nascondono un preciso intento teologico dell’evangelista. C’è un insieme di contrasti che creano « tensione » nel rapido quadro narrativo. Ad esempio, per un verso Gesù proibisce al lebbroso di raccontare l’accaduto, ma nello stesso tempo gli ordina di « presentarsi al sacerdote » e di offrire il sacrificio per la « purificazione » dalla lebbra, come era prescritto dal Levitico (14,1-32), « a testimonianza per loro » (v. 44); il lebbroso non osserva il comando del Signore né l’evangelista sembra volerlo biasimare per questo, ma quasi compiacersene per la fama procurata a Gesù: « Ma quegli, allontanandosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte » (v. 45).
Soprattutto ci sono due espressioni iniziali, esclusive di Marco, che sembrano quasi esprimere una specie di pentimento o di irritazione di Gesù: « E, ammonendolo severamente, lo rimandò (letteralmente: « lo cacciò ») e gli disse: « Guarda di non dir niente a nessuno… »" (vv. 43-44).
Che senso hanno queste strane espressioni di Marco, che ci aprono come un varco negli atteggiamenti interiori di Gesù?
Si può solo tentare di darne una spiegazione di carattere psicologico, che però forse rimane molto al di qua del vero. È la lebbra in quanto malattia ripugnante ed emarginante che quel povero infelice, anche se ormai guarito, richiama alla mente di Gesù; è quello che tale malattia significa di sofferenza anche per il possibile futuro reinserimento del miracolato nella società; è forse, soprattutto, il fatto che in quel lebbroso Gesù legge il suo futuro destino di « servo sofferente di Jahvè », che gli uomini metteranno come al bando e sfigureranno fino al punto di essere irriconoscibile, « come uno davanti al quale ci si copre la faccia », come un lebbroso, appunto, « percosso da Dio ed umiliato » (Is 53,3-4).
È tutto questo insieme di sensazioni drammatiche che Gesù prova, nel momento stesso in cui compie il miracolo, che gli fanno assumere un atteggiamento come di sofferenza e di ribellione interiore per la cattiveria degli uomini che, sordi a istanze più profonde di amore e di giustizia, perderanno ancora tempo a discettare sul « puro » e sull’ »impuro » comportato dalla lebbra, e prenderanno pretesto anche da un gesto di sofferta carità da parte di Gesù per « iniziare » contro di lui quella sorda opposizione che lo porterà alla morte di croce.
« Guarda di non dir niente a nessuno »
« Ancora una volta il modo in cui Marco riporta questa breve storia ci interpella nettamente. La presenza della potenza di Dio viene descritta in modo quasi inquietante: gli basta toccare per guarire e la sua potenza non può essere nascosta. Al tempo stesso però appare chiaro che la mera fede nel miracolo non è decisiva, finché non si è disposti a lasciarsi donare l’autentico dono di Gesù che travalica tutte le frontiere tra puro e impuro, fra popolo di Dio e forestieri. Questo è il motivo della terribile ira di Gesù e del suo ordine di tacere. A questo modo Marco chiede al lettore se vuol veramente abbandonarsi a questo incontro con Dio in Gesù e lasciare distruggere le tradizionali frontiere. La Chiesa antica ha sentito qualcosa di questa intenzione di Marco, quando ha messo in bocca al lebbroso ancora queste parole riportate da un antico papiro: « Signore Gesù, tu che passeggi con i lebbrosi e mangi nella locanda… »".
Per il resto, la « tensione », a cui poco sopra si è fatto riferimento, si inquadra nella tematica del « segreto messianico », di cui si è già parlato nel commento al Vangelo della Domenica precedente.
Così si presentò Gesù di Nazaret ai suoi contemporanei, come un « segno di contraddizione »: un potente annunciatore di Dio, e per di più taumaturgo e guaritore, al quale gli uomini accorrevano in folla, e che tuttavia manteneva una singolare distanza dal popolo, rimanendo incomprensibile agli uomini. Solo il seguito della sua vita, culminante nella passione, morte e risurrezione, avrebbe potuto dare significato « pieno » a quello che già adesso stava facendo e insegnando: fino a quel momento, il più di lui non poteva non rimanere avvolto nel « mistero ». Di qui le sue precauzioni perché, oltre tutto, il senso della sua missione allora, come del resto anche oggi, non fosse « distorto ».
« Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo »
La brevissima seconda lettura conchiude la lunga trattazione di san Paolo sul problema della carne immolata agli idoli (« idolotìti »), per risolvere il quale aveva enunciato due princìpi fondamentali: il primo, quello della « libertà », invitava a superare ogni formalismo ritualistico, dato appunto che gli « idoli » non esistono (1 Cor 8,4-6), e perciò quella carne era carne comune, che si poteva tranquillamente mangiare; il secondo, quello della « carità », invitava al rispetto della coscienza « debole » del fratello, astenendosi dal mangiare di quella carne qualora ciò avesse scandalizzato qualcuno.
Riassumendo adesso il suo discorso ed ampliandolo anche a tanti altri casi, l’apostolo ricorda che determinante in ogni nostra azione è la ricerca esclusiva della « gloria » di Dio, anche se ciò potrà costarci rinunce e sacrifici.
« Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio…; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare l’utile mio ma quello di molti, perché giungano alla salvezza » (1 Cor 10,31-32). È a questo punto che l’apostolo aggiunge l’invito ad « imitare » questo suo atteggiamento di carità, così come egli si sforza di seguire l’esempio di Cristo (1 Cor 11,1).
Riportato tutto questo all’episodio della guarigione del lebbroso, vediamo facilmente quanto cammino abbiamo da fare per estendere la nostra « carità » oltre tutti i confini del facile, dell’usuale, del quotidiano, affrontando, se necessario, anche i casi nuovi, non previsti, magari anche dirompenti, come fece Gesù in quella occasione.

Da CIPRIANI S., Convocati dalla Parola

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 13 février, 2015 |Pas de commentaires »
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