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LA « PARRESIA » DI SAN PAOLO, OVVERO IL CORAGGIO DI DIRE LA VERITÀ ANCHE DAVANTI AL POTERE – OMELIA SU ATTI 26, 1 ss

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LA « PARRESIA » DI SAN PAOLO, OVVERO IL CORAGGIO DI DIRE LA VERITÀ ANCHE DAVANTI AL POTERE – OMELIA SU ATTI 26, 1 ss

13 maggio 2012: Sesta di Pasqua

At 26,1-23; 1 Cor 15,3-11; Gv 15,26-16,4

Per comprendere il brano degli Atti degli Apostoli che la liturgia ci propone in questa domenica come prima lettura bisognerebbe fare qualche passo indietro.
Paolo viene arrestato dal tribuno romano per proteggerlo da una sommossa popolare scatenata dai giudei. Prima o poi doveva succedere: l’apostolo ogni giorno predicava una Parola, quella di Cristo, che stava veramente provocando le ire dei capi. Viene condotto nella fortezza Antonia perché possa chiarire le vere motivazioni della sommossa. Prima però chiede di poter parlare al popolo per difendersi dalle accuse. Pronuncia così il primo dei tre discorsi in sua difesa. Il secondo lo pronuncerà davanti al procuratore Felice e il terzo davanti al re Agrippa e al procuratore Festo.
Quali sono le accuse che gli sono state rivolte? Sovvertire il popolo, violare la legge e aver portato con sé dei pagani all’interno del santuario, accuse che potevano costare la morte. Anzitutto: sovvertire il popolo. Come vedete, siamo sempre alla solita accusa, quella di sovvertire l’ordine pubblico, un’accusa che fa sempre comodo e che può interessare sia la religione che lo stato. La religione può anche accontentarsi di difendere l’ordine diciamo dottrinale (l’Inquisizione insegna), ma allo Stato interessa in modo particolare l’ordine pubblico. Comunque, anche le eresie dottrinali fanno paura allo stato, in quanto creano un certo scompiglio tra la gente. Se poi le cosiddette eresie mettono in discussione lo stesso sistema statale, allora lo stato è sempre pronto a dare una mano alla religione per sradicarle. Seconda accusa: violare la legge, in particolare quella del sabato. D’altronde l’ordine pubblico non è forse fondato sulla legge? È sempre pericoloso parlare di Coscienza, perché la Coscienza mette in crisi ogni regime. Ogni regime è fondato sull’ordine, sull’obbedienza, sul rispetto del sistema: non sopporta gli spiriti liberi che agiscono in nome della Coscienza. Terza accusa: aver portato con sé dei pagani all’interno del santuario.
Appena Paolo, sulla spianata del tempio, cerca di spiegare alla folla la sua missione tra i pagani, su un ordine ben preciso di Cristo, la folla non lo ascolta più, rompe il silenzio e, tra urla e gesti isterici, reclama la morte dell’apostolo. A irritarla non è il fatto che Paolo apra le porte ai gentili, ma che insegni loro, su ordine di Dio, che non sono tenuti a osservare la legge di Mosè. Ecco dove sta veramente il vizio di ogni religione, diciamo il suo più grosso peccato: pretendere che gli estranei, quelli di un’altra fede religiosa, si convertano caricandosi di tutti i pesi della propria religione. Il punto di riferimento è sempre, ad ogni costo, la religione. Qui bisognerebbe una buona volta chiarire il termine “evangelizzazione”. Già la parola dice che si tratta del Vangelo, ovvero della Buona Novella di Cristo. E che cos’è la Buona Novella di Cristo? Perché identificarla con la dottrina della Chiesa, che, in quanto struttura religiosa, sarà sempre tentata di far propria la stessa verità? Il Vangelo precede ogni struttura, precede la stessa Chiesa, la quale, se ha ricevuto una missione da Cristo, non è senz’altro quella di fare proselitismo, di andare alla ricerca di nuovi convertiti. Anche qui vedete: se capissimo che cos’è umanesimo nella sua pienezza, non confonderemmo il Vangelo con la Chiesa struttura.
Noi cristiani siamo chiamati a portare il messaggio rivoluzionario di Cristo senza per questo battezzare i pagani legandoli ad una struttura che di per sé, come struttura, non potrà mai esaurire il Vangelo di Cristo, che va ben oltre. Perché abbiamo dimenticato le dure parole di Cristo con cui si è scagliato contro i farisei e i dottori della Legge? «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geenna due volte più di voi”.
Il tribuno, di fronte alle ire della folla, fa portare Paolo all’interno della fortezza. E qui lo sottopone ad un interrogatorio ricorrendo anche alla forza: lo fa flagellare. La flagellazione era una procedura permessa contro schiavi e stranieri, ma severamente proibita dalla legge Porcia nei confronti di un condannato munito di cittadinanza romana. E è a questa legge che Paolo si appella, avvertendo il centurione di trovarsi di fronte a “un cittadino romano”. Non solo: egli dichiara che neppure come castigo accetterà la flagellazione, non essendo stata ancora pronunciata una sentenza giudiziaria. Il tribuno chiede a Paolo spiegazioni, e l’apostolo conferma di essere un cittadino romano, non per aver comperato tale diritto, ma per diritto di nascita. Come vedete, l’apostolo sapeva far valere i propri diritti. Ma qui occorre chiarire una cosa. Perché Paolo si è appellato al suo diritto di cittadino romano? Se doveva essere condannato, solo il tribunale di Cesare a Roma poteva emettere un verdetto, e questo permetterà all’apostolo di recarsi nella capitale per divulgare anche là il Vangelo. Questo era il suo sogno. E il sogno si avvererà. Ma prima l’apostolo dovrà subire altre umiliazioni e minacce.
Il tribuno Lisia fa condurre Paolo dalla fortezza Antonia nell’aula del sinedrio con l’intento di capire quali siano le vere accuse che i capi ebrei gli hanno rivolto. Paolo, tra l’altro anche scaltro, riesce a dividere tra di loro gli stessi componenti del sinedrio, in parte farisei e in parte sadducei. Paolo affermando la sua fede nella risurrezione, si attira le simpatie dei farisei e le antipatie dei sadducei. Ne nasce un tumulto. Il tribuno è costretto a intervenire per proteggere l’apostolo, e lo riporta in caserma.
E non è finita. Una quarantina di giudei fanatici ordisce un’altra congiura ai danni di Paolo. Si impegnano con giuramento a ucciderlo. Giuramento cosiddetto esecratorio. Per farlo uscire dalla fortezza Antonia, organizzano un secondo interrogatorio, sempre nella sala delle adunanze del sinedrio, dato che il primo è degenerato in baruffa. Pensavano: durante il tragitto di trasferimento non sarebbe stato difficile sopprimerlo. Ma la congiura viene sventata da un nipote di Paolo, il quale avverte il tribuno, che, per garantire più sicurezza all’apostolo, lo fa trasferire sotto scorta a Cesarea, presso il pretorio di Erode: era un palazzo-fortezza fatto costruire da Erode il Grande, dove ora risiedevano e amministravano la giustizia i procuratori romani. Il sinedrio di Gerusalemme non molla, e invia a Cesarea una delegazione che, davanti al procuratore Felice, rinnova le accuse a Paolo, e Paolo di nuovo si difende. Le solite accuse: è un perturbatore della quiete pubblica, è uno dei capi della setta dei Nazirei (così era visto il cristianesimo, una setta!), infine un profanatore del Tempio. Il procuratore non crede alle accuse dei membri del Sinedrio o, meglio, a lui non interessano le questioni religiose. Però tiene Paolo ancora in carcere, e per ben per due anni. La politica prevale su ogni giustizia. Il procuratore doveva tenere buoni gli ebrei, che non erano molto contenti del suo governo.
Subentra a Felice un nuovo governatore, di nome Festo, il quale, a pochi giorni dal suo insediamento, si reca a Gerusalemme per farvi la prima visita. Subito i capi giudei colgono l’occasione per rinnovare l’accusa contro Paolo, e gli chiedono di condurre Paolo a Gerusalemme per essere di nuovo giudicato dal tribunale ebraico. Festo, dopo altri tentativi, fa la proposta a Paolo di salire a Gerusalemme. A questo punto Paolo, come era suo diritto, si appella al tribunale di Roma. Festo informa il Consiglio, e il Consiglio approva. Paolo sarà dunque inviato a Roma. Non è finita. La storia è davvero appassionante. Nel frattempo giungono a Cesarea il re Agrippa e la sorella Berenice. Il procuratore Festo espone al re il “caso di Paolo”. Il re Agrippa esprime il vivo desiderio di vedere l’apostolo. Il giorno seguente Agrippa e la sorella Berenice realizzano il loro desiderio: poter ascoltare Paolo. La cosa interessante, diciamo impressionante è il contesto in cui è avvenuto l’incontro. Non in via privata, ma ufficiale. L’incontro si svolge in una grande sala del palazzo di Erode, presenti i cinque comandanti di ognuna delle coorti di stanza a Cesarea, e gli uomini più rappresentativi della città. Davanti a loro Paolo fa la sua terza autodifesa. È il brano di oggi.
Vorrei ora fare qualche brevissima riflessione. Ciò che mi ha colpito dell’apostolo Paolo è la sua serenità interiore. Una serenità proveniente certamente dalle sue profonde convinzioni, ma in particolare dalla forza della Parola che egli annunciava. Una Parola-Verità, ma non basta: una Parola che salva. Una Verità che resta astratta a che serve? A dare forza è la Verità che salva, che libera, che rende umani. C’è un’altra riflessione. Sarebbe interessante soffermarsi un po’ sui vari personaggi “politici” che entrano ed escono dal racconto degli Atti degli Apostoli. Più che descrivere le loro nefandezze (ne sappiamo qualcosa di più grazie agli storici del tempo) Luca sembra che ci dica: Vedete questi “poveri” potenti? Nonostante la loro miseria morale, non hanno potuto fare a meno di riconoscere l’innocenza di Paolo! I potenti “corrotti” non hanno trovato colpe in Paolo, mentre gli ebrei “puri” (così si ritenevano!) hanno inventato accuse su accuse pur di uccidere l’apostolo. Sapete quel è il nemico che la verità e la giustizia temono maggiormente? Più che la depravazione morale è l’orgoglio, l’ostinazione mentale, l’accecamento del cuore. Ultimamente ho avuto una forte sensazione. I potenti di una volta, pur corrotti – non dimentichiamo comunque i tempi – sembravano particolarmente attratti dalla santità dei giusti. Se leggi la storia, ne incontrerai di re e di regine che hanno sentito il bisogno di consigliarsi con persone di diversa estrazione sociale, digiune di politica, aliene da ogni aspirazione connessa col potere, ma dotate di un grande dono, quello della saggezza e della profezia. Anche i buffoni di corte avevano il compito di dire la verità al sovrano. A me non sembra che oggi sia così. C’era uno in Italia che ultimamente si era circondato solo di galoppini, di gente pagata per dire ciò che gli faceva comodo, gente pronta a riverirlo in ogni suo capriccio, di prostitute e di avvocati disposti a falsificare la verità. La santità è sparita dai nostri palazzi politici. Anzi, i “puri” si sono contaminati appena si sono avvicinati al potere. I sovrani un tempo erano curiosi di conoscere i profeti, li ascoltavano, ne rimanevano anche affascinati, anche se poi gli interessi del potere avevano sempre il sopravvento. Oggi nei palazzi di potere è sparita perfino la saggezza, che è lasciata a quei pochi pazzi che vorrebbero un mondo diverso.

 

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PAPA FRANCESCO: FERMARSI E SCEGLIERE

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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

FERMARSI E SCEGLIERE

Giovedì, 19 febbraio 2015

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.041, Ven. 20/02/2015)

Nella fretta della vita bisogna avere il coraggio di fermarsi e di scegliere. E il tempo quaresimale serve proprio a questo. Nella messa celebrata a stamattina, 19 febbraio, a Santa Marta, Papa Francesco ha posto l’accento sulla necessità di porsi quelle domande che sono importanti per la vita dei cristiani e di saper fare le scelte giuste. Commentando le letture del giovedì dopo le Ceneri (Deuteronomio 30, 15-20; Salmo 1, Luca 9, 22-25), il Pontefice ha spiegato che «all’inizio del cammino quaresimale, la Chiesa ci fa riflettere sulle parole di Mosè e di Gesù: “Tu devi scegliere”». Si tratta quindi di riflettere sulla necessità che tutti noi abbiamo di fare delle scelte nella vita. «E Mosè — ha sottolineato Francesco — è chiaro: “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male: scegli”». Infatti «il Signore ci ha dato la libertà, una libertà per amare, per camminare sulle sue strade». E così noi siamo liberi e possiamo scegliere. Purtroppo però, ha avvertito il Papa, «non è facile scegliere». È più comodo «vivere lasciandosi portare dall’inerzia della vita, delle situazioni, delle abitudini». Per questo «oggi la Chiesa ci dice: “Tu sei responsabile; tu devi scegliere”». Ecco allora gli interrogativi sollevati dal Pontefice: «Tu hai scelto? Come vivi? Il tuo modo di vita, il tuo stile di vita, com’è? È dalla parte della vita o dalla parte della morte?».
Naturalmente la risposta dovrebbe essere quella di «scegliere il cammino del Signore. “Io ti comando di amare il Signore”. E così Mosè ci fa vedere la strada del Signore: “Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dei e a servirli, perirete”. Scegliere fra Dio e gli altri dei, quelli che non hanno il potere di darci niente, soltanto piccole cosine che passano». Ritornando sulla difficoltà di scegliere, Francesco si è detto consapevole che «noi abbiamo sempre questa abitudine di andare un po’ dove va la gente, un po’ come tutti». Ma, ha proseguito, «oggi la Chiesa ci dice: “Fermati e scegli”. È un buon consiglio. E oggi — ha suggerito il Papa — ci farà bene fermarci e durante la giornata pensare: com’è il mio stile di vita? Per quali strade cammino?».
Dal resto, nella quotidianità noi tendiamo all’atteggiamento opposto. «Tante volte — ha ricordato — viviamo di corsa, viviamo in fretta, senza accorgerci di come sia la strada; e ci lasciamo portare avanti dai bisogni, dalle necessità del giorno, ma senza pensare». Da qui l’invito a fermarsi: «Incomincia la Quaresima così con piccole domande che aiuteranno a pensare: “Come è la mia vita?”». Il primo interrogativo da porsi — ha spiegato il Papa — è: «Chi è Dio per me? Io scelgo il Signore? Com’è il rapporto con Gesù?». E il secondo: «Com’è il rapporto con i tuoi; con i tuoi genitori; con i tuoi fratelli; con la tua sposa; con tuo marito; con i tuoi figli?». Infatti, bastano «queste due domande, e sicuramente troveremo cose che dobbiamo correggere».
Successivamente il Pontefice si è anche chiesto «perché noi andiamo così di fretta nella vita senza sapere su quale strada camminiamo». E anche su questo Francesco è stato esplicito: «Perché vogliamo vincere, vogliamo guadagnare, vogliamo avere successo». Ma Gesù ci fa pensare: «Quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?». Infatti «una strada sbagliata — ha detto il Papa — è quella di cercare sempre il proprio successo, i propri beni, senza pensare al Signore, senza pensare alla famiglia». Tornano allora le due domande sul rapporto con Dio e con chi ci è caro, visto che «uno può guadagnare tutto, ma alla fine diventare un fallito. Ha fallito. Quella vita è un fallimento». Anche quelle che sembrano aver avuto successo, quelle di donne e di uomini cui «hanno fatto un monumento» o hanno dedicato «un quadro», ma non hanno «saputo scegliere bene fra la vita e la morte».
E per ribadire il concetto, Francesco ha spiegato che «ci farà bene fermarci un po’ — cinque, dieci minuti — e farci la domanda: com’è la velocità della mia vita? Io rifletto sulle cose che faccio? Com’è il mio rapporto con Dio e con la mia famiglia?». In questo «ci aiuterà anche quel consiglio tanto bello del Salmo: “Beato l’uomo che confida nel Signore”». E «quando il Signore ci dà questo consiglio — “Fermati! Scegli oggi, scegli” — non ci lascia soli; è con noi e vuole aiutarci». E noi, da parte nostra dobbiamo «soltanto confidare, avere fiducia in Lui».
Riproponendo le parole del Salmo «Beato l’uomo che confida nel Signore» il Papa ha quindi esortato a essere consapevoli che Dio non ci abbandona. «Oggi, nel momento in cui noi ci fermiamo per pensare a queste cose e prendere decisioni, scegliere qualcosa, sappiamo che il Signore è con noi, è accanto a noi, per aiutarci. Mai ci lascia andare da soli. È sempre con noi. Anche nel momento della scelta». Da qui la duplice consegna conclusiva: «abbiamo fiducia in questo Signore, che è con noi, e quando ci dice “scegli fra il bene e il male” ci aiuta a scegliere il bene». E soprattutto «chiediamogli la grazia di essere coraggiosi», perché «ci vuole un po’ di coraggio» per «fermarsi e chiedersi come sto davanti a Dio, come sono i rapporti con la mia famiglia, cosa devo cambiare, cosa devo scegliere. E Lui — ha assicurato Francesco — è con noi». 

Beato Angelico, Annunciation

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http://it.wikipedia.org/wiki/Annunciazione_della_cella_3_di_San_Marco

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BEATO ANGELICO: IL REALISMO DELL’ESPERIENZA -18 FEBBRAIO MEMORIA

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BEATO ANGELICO: IL REALISMO DELL’ESPERIENZA -18 FEBBRAIO MEMORIA

«Il realismo di chi ha conosciuto d’esperienza la santità, di chi ha visto e rappresentato questa realtà che è la grazia di essere abbracciati da Cristo». Così lo storico Giuseppe De Luca commenta la pittura del domenicano Giovanni da Fiesole

di Stefania Falasca

Diciamo la verità: non è che gli garbasse poi tanto andare nei sacri palazzi. Lo aveva chiamato il Papa in persona per incaricarlo di affrescare la sua cappella privata in Vaticano. Altri al suo posto, per il privilegio di una simile commissione, sarebbero corsi a gambe levate. Ma lui, fra Giovanni da Fiesole, non avrebbe lasciato la sua povera cella del convento domenicano di San Marco per tutto l’oro del mondo. E alla fine, se c’era andato, lo aveva fatto per obbedienza, solo per obbedienza. «Modesto et humilissimo», ci riferisce il Vasari, lì, nella corte rinascimentale del Papa, il frate pittore non cambiò una virgola della sua condotta di vita che l’austera regola del chiostro gli dettava.
«Dicono alcuni» informa ancora il Vasari «che fra Giovanni non harebbe preso i pennelli se prima non avesse fatto orazione». Nella cappella pontificia raffigurò le storie dei diaconi martiri Stefano e Lorenzo mostrando al Vicario di Cristo i tesori della Chiesa così come «l’umile suo cuore» e la sua abilissima mano di «eccelso pittore» gli dettavano.
Si dice che il Papa, entrato in quella cappella ad opera compiuta, guardando quelle figure tanto vivide e presenti non poté trattenere le lacrime.
Erano gli anni 1448-1450 quando fra Giovanni da Fiesole, noto come Beato Angelico, andava fissando sui muri della cappella privata di papa Niccolò V il capolavoro della sua arte matura, l’ultimo dei suoi affreschi. In quel periodo, il coetaneo Masaccio, del quale l’Angelico è l’erede più diretto, era già morto da un ventennio e un altro pittore toscano, Piero della Francesca, da tutti considerato il “maestro della divina proporzione”, punto di riferimento per le future generazioni di pittori, andava dipingendo nel Palazzo Ducale di Urbino la famosa Flagellazione di Cristo. Erano gli stessi anni, eppure come è diverso il modo d’espresýione di quest’artista; un altro mondo, quello dell’Angelico, a confronto. Scrive Albert Camus, annotando le sue impressioni proprio di fronte a quella sacra rappresentazione di Piero della Francesca: «Perché commuoversi per chi non aspetta più nulla? Non un sorriso labile, non un pudore fugace, né rimpianto o attesa, ma facce coagulate in linee eterne. L’angoscia vuol esser scacciata per sempre. A prezzo della speranza. Perché il corpo ignora la speranza, non conosce più il pulsare del sangue. L’eternità è fatta d’indifferenza. Questo supplizio non ha seguito…».
Bastano queste intense osservazioni di Camus per suggerirci indirettamente cosa non è l’opera del Beato Angelico. Lo storico dell’arte Argan ce l’ha invece descritta tutta con queste poche e chiare parole: «C’est la caritas, la foi des simples, la piété des purs de cœur».
Figura davvero singolare quella di Giovanni da Fiesole nella storia dell’arte. E tanto è singolare nella storia dell’arte quanto è unica nella storia della Chiesa. La diffusa fama di santità che lo distinse già in vita, tanto da nominarlo con l’appellativo di Angelicus e di Beatus, è stata riconosciuta ufficialmente: il pittore domenicano è l’unico artista nella storia della Chiesa elevato agli onori degli altari. L’unico al quale, agli atti del processo canonico conclusosi nel 1983, per la prima volta non furono allegati scritti spirituali o teologici, ma il catalogo completo delle opere: le 135 tavole che riproducono i suoi dipinti. Del resto, ad intuire che l’arte del maestro fiorentino non poteva esser compresa se non alla luce della sua vita fu proprio il Vasari, il primo (e per eccellenza) biografo del Beato Angelico, che, nelle Vite, così inizia a scriverne: «Frate Giovanni Angelico da Fiesole, il quale fu al secolo chiamato Guido, essendo non meno stato eccellentissimo pittore e miniatore che ottimo religioso, merita per l’una e l’altra cagione, che di lui sia fatta honoratissima memoria».

Via pulchritudinis
Guido di Piero era nato nell’anno 1400 a Vicchio del Mugello, nella campagna fiorentina. Proprio nella Firenze dei Medici, agli inizi del Quattrocento, cominciò l’attività di “dipintore”. Poco più che bambino lo troviamo già all’opera nella bottega di Lorenzo Monaco, dove apprese la tecnica della miniatura e dell’affresco e si specializzò nella pittura su tavola. La sua pittura dovette essere apprezzata ben presto, se già nel 1417 risulta pagata a suo nome un’opera commissionata per la chiesa di Santo Stefano a Firenze. Un enfant prodige, si direbbe oggi. Certo è che Guido di Piero, stando ai documenti e alle testimonianze riguardo alla sua precoce e dimostrata abilità in quest’arte, aveva già avviata davanti a sé una brillante carriera di pittore. E ben remunerata anche, considerato lo status sociale di cui godevano i pittori affermati in un’epoca così favorevole per chi esercitava l’arte. Ma tre anni più tardi, poco più che ventenne, lo vediamo bussare, insieme al fratello Benedetto, alla porta del convento di San Domenico a Fiesole. Il “conventino”, come lo chiamavano quasi con disprezzo gli stessi domenicani della storica e ben più celebre sede conventuale di Santa Maria Novella a Firenze. Un conventino abbandonato e sperduto tra le colline fiesolane, di stretta osservanza, dove la vita comunitaria si svolgeva secondo la regola originaria, nella più radicale povertà. Era stato fondato pochi anni prima dal riformatore dell’ordine domenicano, il beato Giovanni Dominici, discepolo di santa Caterina da Siena, e tra i primi monaci vi aveva spiccato la semplice e umanissima figura di fra Antonino Pierozzi, poi canonizzato da papa Adriano VI. È sotto il priorato di questo santo frate che l’Angelico e suo fratello abbracciarono il chiostro, insieme a non pochi altri loro coetanei.
Dunque, Guido di Piero «se bene harebbe potuto commodissimamente stare al secolo, et oltre quello che haveva, guadagnandosi cioche havesse voluto con quell’arti, che ancor giovinetto benissimo fare sapeva… volle farsi religioso dell’ordine de’ frati predicatori» commenta il Vasari. E “harebbe potuto”, potremmo dire ancora col Vasari, bussare al ben più noto convento domenicano di Santa Maria Novella, pieno d’opere di insigni maestri, dove non gli sarebbe stato difficile mantenere contatti per progredire nella sua arte. “Harebbe potuto” anche, una volta finito il noviziato, non proseguire con l’ordinazione sacerdotale, restando così più libero di esercitare la pittura, come altri frati pittori avevano fatto (e ce ne sono tanti che a un certo punto sono rimasti solo pittori). Ma fra Giovanni no. Aveva bussato a quel conventino. Non c’era altro. Lo aveva fatto per sempre. Già, per sempre. Perché in convento rimase tutta la vita. «Non si cavò mai l’abito», «mai abbandonò la Religione», «nulla stimava più caro e bello che la compagnia di Christo solo» dice il Vasari, sottolineando con sorpresa, più che l’aspetto della sua vocazione, la sua fedeltà fino alla fine, il suo perseverare nella vita religiosa. Continuata vitae innocentia (nonostante, anche, la fama e la celebrità raggiunte).
Il noto storiografo ce lo descrive così: «Era humanissimo e molto sobrio», «semplice ne’ suoi costumi» e «in tutte le opere e ragionamenti suoi humilissimo e modesto». «Non lasciò mai huficio ecresiasticho per dipingere e con amorevolezza incredibile, a úhiunque ricercava opere da lui diceva che ne facesse esser contento il priore, e che, poi non mancherebbe». «Era solito dire che chi fa cose di Christo, con Christo deve star sempre». «Non fu mai veduto in collera tra i frati; il che grandissima cosa, e quasi impossibile mi pare a credere: et soghignando semplicemente haveva in costume d’amonire gli amici». «Poté havere dignità ne’ frati, e fuori, e non le stimò, affermando non cercare altra dignità che cercare di fuggire lo Inferno». «Potette comandar a molti, e non volle; dicendo esser men fatica, et manco errore ubbidire altrui». Per nessuna delle circa duecento Vite di eccellenti pittori, scultori e architetti scritte dal Vasari sono riportati tanti fatti e detti (oltremodo veritieri e documentati) come in quella del Beato Angelico. Non ce ne sono così nemmeno per il «sommo Michelangelo» (al cui cospetto, per lo storico Vasari, tutti gli altri artisti non sono che ombre). Sembra quasi che di fronte all’Angelico non abbia potuto fare altrimenti. Come resistere al fascino di questo pittore «non minore a Giotto» e padre «humanissimo», dall’umiltà tanto vera e profonda da renderlo persino inconsapevole della sua stessa arte, che mai firmò le sue opere e nemmeno volle mai lasciare autoritratti, che «mai fece crucifisso che non si bagnasse le gote di lacrime»? Senza la sua vita, è vero, non si può dire tutta la bellezza delle sue opere. «A San Marco fece storie del Testamento nuovo belle quanto più non si può dire». Basta guardarle.

Facilità espressiva
Bisogna allora entrare a San Marco. In quel convento domenicano a Firenze del quale l’Angelico decorò tutti gli ambienti: i corridoi, il chiostro, la sala capitolare e le quarantadue celle destinate ai frati, suoi confratelli. L’Angelico realizzò queste opere tra il 1436 e il 1445. Il suo più grande ciclo di affreschi destinato a un luogo privato. Un luogo di clausura, frequentato da soli monaci. Il ciclo di affreschi di San Marco, universalmente considerato un capolavoro assoluto dell’arte italiana, fra Giovanni lo dipinse così come aveva fatto tutto il resto della sua vita: per obbedienza, «pregando Dio che gli facesse ogni cosa a gloria di Lui»; e per il frate non era nient’altro che quello che è: una preghiera dipinta.
Vi raffigurò scene della vita di Cristo insieme ai misteri fondamentali della salvezza «con tale ardente amore, tale viva partecipazione e semplicità cristiana quanto alcun altro mai». Non un gesto, in queste immagini, è inutile. E non c’è sforzo, non smania, non gratuito divincolarsi. «Solo la sua immaginazione lo tradiva, ed egli diventava come un bambino» scrive lo storico dell’arte Berenson. Si è detto molto sulla “facilità espressiva” di queste opere e sulla loro evangelica semplicità. L’Angelico infatti non inventa mai dei racconti o dei dettagli. Le sue raffigurazioni si attengono a quanto riferiscono le Sacre Scritture o le fonti della Tradizione. Non introduce mai elementi scenografici, curiosi o superflui che possono distogliere l’attenzione dal fatto narrato. «Ciò che qui si esprime» ebbe a dire Paolo VI, visitando San Marco «è una voce cavata proprio dal profondo dell’animo, una forma che si distingue da ogni travisamento di palcoscenico, di rappresentazione puramente esteriore».
È stata sottolineata dai critici l’umanità che trapela dai volti dei suoi crocifissi, dai gesti di Gesù. Scriveva già Lorenzo Valla: «L’aspetto di Cristo è tale che chi lo guardi, quasi infiammato di incontenibile letizia, non cessa di esclamare, giorno e notte: santo, santo, santo». Come pure la singolare bellezza delle sue moltissime Madonne: «Gratia fingendae Virginis una fuit/ Ut docet eiusdem manibus descripta Iohannis/ Saepe salutatae forma venusta deae» (Del tutto particolare fu la grazia con cui venne effigiata la Vergine, come dimostra la leggiadra bellezza divina con cui fu dipinta dalle mani dello stesso Giovanni, spesso nell’atto di ricevere il saluto [dall’Angelo]), scrive Domenico di Corrella nel suo Theotocon del 1468. Non c’è dunque da stupirsi se l’Angelico, come pictor mansuetudinis Christi, possa essere paragonato in questo allo scriba mansuetudinis Christi, l’evangelista autore degli Atti degli apostoli.
Si è anche notato che pur dipingendo sempre santi, il Beato Angelico non ne ha mai rappresentato i “trionfi”, come era in uso, secondo la volontà delle committenze (come ad esempio il celebre Trionfo di san Tommaso dell’Orcagna nella Cappella Strozzi). I suoi santi sempre sono raffigurati nell’atto di adorare. Bisogna allora entrare nella direzione di quegli sguardi. Solo guardando. Perché «l’affetto ama ciò che vede e capisce» diceva san Tommaso. Guardando. Ma bisogna più che guardare: bisogna lasciarsi trafiggere il cuore. E la reazione di chi guarda è quella degli ascoltatori di Pietro, che, come è scritto negli Atti, «all’udir tutto questo, si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”».

Una preghiera dipinta
Contemplari et contemplata aliis tradere. Quello che fra Giovanni vide ha trasmesso, con intensità tale da muovere a «divozione» chi guarda. Ed è questo che dovette provare lo stesso pontefice Eugenio IV quando, il 6 gennaio 1443, andò a presenziare alla consacrazione della chiesa di San Marco, pernottando nel convento. Ne rimase così sorpreso e intimamente commosso che chiamò fra Giovanni a Roma incaricandolo di eseguire alcuni affreschi nella Basilica di San Pietro. Quella stessa sorpresa il Papa dovette provarla anche quando un giorno, chiamato il buon frate a pranzare alla sua tavola, si sentì da lui candidamente declinare l’invito, dicendo che avrebbe dovuto chiedere la dispensa al suo superiore poiché nella regola è proibito mangiare carne. E questa, non fu certo minore di quella volta che lo stesso Pontefice, volendolo ricompensare per la stima che nutriva nei suoi confronti, gli offrì l’arcivescovado di Firenze. Non solo l’angelico frate rifiutò, supplicando «Sua Santità che provvedesse d’uno altro», perché, disse, non si sentiva «buono a governar popoli» ed «è men fatica e manco errore ubbidire altrui», ma indicò anche al Papa chi avrebbe potuto degnamente ricoprire quell’incarico.
Dopo questo periodo trascorso a Roma, fra Giovanni ritornò a Fiesole dove ricevette l’incarico di dipingere l’Armadio degli Argenti per la chiesa della Santissima Annunziata in Firenze. L’armadio era destinato a contenere gli ex voto offerti alla Vergine. Ancora una volta l’Angelico vi illustrò con estremo realismo tutti gli episodi della vita di Gesù. Con estremo realismo, è proprio il caso di dire. «Perché di realismo si tratta» disse lo storico Giuseppe De Luca, commentando quest’opera dell’Angelico in occasione del centenario della morte del pittore (occasione nella quale egli difese il frate dalla critica che lo inseriva nella corrente degli artisti misticheggianti, secondo la quale il fervoroso frate avrebbe dipinto i suoi santi rapito in inconscie estasi). «È il realismo di un uomo reale e realista, il realismo di chi ha conosciuto d’esperienza la santità, di chi ha visto e rappresentato questa realtà che è la grazia di essere abbracciati da Cristo».
Quel realismo che uno come Michelangelo aveva capito subito, al primo sguardo. Raccontano i biografi del Buonarroti che un giorno egli volle salire nella chiesa di San Domenico a Fiesole. Entrato, si fermò in silenzio davanti all’Annunziata dell’Angelico. «Bisogna che La vedesse sì fatta in Paradiso» disse poi, e aggiunse: «quest’huomo l’ha veduto il Paradiso».
Nel 1453, svolto l’incarico di priore nel convento di San Domenico succedendo al fratello Benedetto, l’Angelico venne nuovamente richiamato a Roma. Al suo amato chiostro fiesolano non farà più ritorno.
Fra Giovanni moriva al canto del Salve Regina nel convento domenicano della Minerva. Era il 18 febbraio 1455. Il suo corpo è ancora lì, nella basilica romana dell’ordine dei Frati predicatori, accanto alle spoglie mortali di santa Caterina da Siena. «Ai tuoi, o Cristo, donavo tutti i miei guadagni. Alcune opere sono in terra, altre in cielo [Altera nam terris opera exstat, altera coelo]», è scritto nell’epitaffio che riassume la sua vita. Ma forse, ancora una volta, più che le parole possono le immagini. Quelle da lui stesso lasciate nel convento di San Marco. Quella nel chiostro del convento dove Tommaso d’Aquino abbraccia il legno della croce ai piedi di Cristo. L’Angelico è tutto lì, in quell’immagine. Immagine che sembra rievocare il dialogo tra il Crocifisso e il Santo aquinate, quando Gesù dalla croce volgendosi verso di lui gli aveva detto: «Hai scritto bene di me, Tommaso, che ricompensa vuoi?»; e Tommaso: «Nessun’altra che Te», Non aliam quam Te. Non aliam mercedem quam Te.

 

Publié dans:SANTI :"memorie facoltative" |on 18 février, 2015 |Pas de commentaires »

QUARESIMA. È L’ORA DEL RISVEGLIO – Enzo Bianchi

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QUARESIMA. È L’ORA DEL RISVEGLIO

Enzo Bianchi

SPIRITUALITÀ – Si avvicina il tempo della quaresima, tempo dei quaranta giorni precedenti la Pasqua, tempo da viversi come penitenziale, impegnati nel rinnovamento della conversione, tempo che la Chiesa vive e ceLebra dalla metà del IV secolo d.C. La quaresima – che la Chiesa con audacia chiama ‘sacramento’ ( annua quadragesimalis exercitia sacramenti: colletta della I domenica di Quaresima), cioè realtà che si vive per partecipare al mistero – è un tempo ‘forte’, contrassegnato da un intenso impegno spirituale, per radunare tutte le energie in vista di un mutamento del nostro pensare, parlare e operare, di un ritorno al Signore dal quale ci allontaniamo, cedendo costantemente al male che ci seduce. La prima funzione della quaresima è il risveglio della nostra coscienza: ciascuno di noi è un peccatore, cade ogni giorno in peccato e perciò deve confessarsi creatura fragile, sovente incapace di rispondere al Signore vivendo secondo la sua volontà.
Il cristiano non può sentirsi giusto, non può ritenersi sano, altrimenti si impedisce l’incontro e la comunione con Gesù Cristo il Signore, venuto per i peccatori e per i malati, non per quanti si reputano non bisognosi di lui (cf. Mc 2,17 e par.). Con l’Apostolo il cristiano dovrebbe dire: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io» (1Tm 1,15). Ecco, riconoscere il proprio peccato è il primo passo per vivere la quaresima, e i padri del deserto a ragione ammonivano: «Chi riconosce il proprio peccato è più grande di chi fa miracoli e risuscita un morto».
Il cammino quaresimale si incomincia con questa consapevolezza, e perciò la Chiesa prevede il rito dell’imposizione delle ceneri sul capo, con le parole che ne esprimono il significato: «Sei un uomo che, tratto dalla terra, ritorna alla terra, dunque convertiti e credi alla buona notizia del Vangelo di Cristo!». Così si vive un gesto materiale, una parola assolutamente decisiva per la nostra identità e chiamata.
Di conseguenza, nei 40 giorni quaresimali si dovrà intensificare l’ascolto della parola di Dio contenuta nelle sante Scritture e la preghiera; si dovrà imparare a digiunare per affermare che «l’uomo non vive di solo pane» (Dt 8,3; Mt 4,4; Lc 4,4); ci si dovrà esercitare alla prossimità all’altro, a guardare all’altro, a discernere il suo bisogno, a provare sentimenti di compassione verso di lui e ad aiutarlo con quello che si è, con la propria presenza innanzitutto, e con quello che si ha.
Per la quaresima di quest’anno papa Francesco ha inviato, com’è consuetudine, un messaggio ai cattolici, ispirandosi significativamente a un testo, anzi a un solo versetto densissimo di cristologia della Seconda lettera di Paolo ai Corinzi: «Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). Anche Benedetto XVI nel messaggio quaresimale del 2008 si era lasciato ispirare dallo stesso versetto, che è davvero un’affermazione decisiva perché condensa in sé l’incarnazione del Figlio di Dio, mettendone nel contempo in risalto lo stile.
Sì, la fede della Chiesa di Corinto, fondata dall’Apostolo da pochissimi anni, confessa che Dio si è fatto uomo in Gesù, confessa che Gesù il Cristo, che era Figlio di Dio, che era Dio, al quale tutto apparteneva – potenza, eternità, ricchezza, gloria –, si è spogliato di tutte queste prerogative e si è dunque fatto uomo tra di noi, uomo fragile, mortale, per essere in mezzo a noi, uno di noi, un figlio di Adamo come noi.
Ecco lo stile del nostro Dio, non di un qualsiasi Dio. Io amo dire che il nostro Dio è un «Dio al contrario » perché si rivela nella debolezza, nella povertà, nell’insuccesso secondo il mondo, nel servire noi anziché chiedere il nostro servizio. Questo è scandaloso, perché noi abbiamo l’immagine – che gli uomini sempre fabbricano e rinnovano – di un Dio potente, che regna, che si impone. Se il nostro Dio è un «Dio al contrario» rispetto alle nostre attese mondane, anche suo Figlio, l’Inviato nel mondo, il Messia, è un «Messia al contrario». Non è venuto nello splendore, nella gloria, nella straordinarietà di teofanie che abbagliano, ma nella povertà, nascendo non a caso in una stalla, come uno che non ha trovato un luogo in cui venire al mondo neppure in un caravanserraglio (cf. Lc 2,7)…

1981, Il pittore Giuseppe Benassi dona alla Cattedrale la tela raffigurante la Conversione di San Paolo, che viene collocata nella cappella di Santa Teresa, Parma

1981, Il pittore Giuseppe Benassi dona alla Cattedrale la tela raffigurante la Conversione di San Paolo, che viene collocata nella cappella di Santa Teresa, Parma dans immagini sacre A74-pag147

http://www.cattedrale.parma.it/page.asp?IDData=15847

Publié dans:immagini sacre |on 17 février, 2015 |Pas de commentaires »

«O TIMOTEO, CUSTODISCI IL DEPOSITO»

http://www.30giorni.it/articoli_id_20434_l1.htm

«O TIMOTEO, CUSTODISCI IL DEPOSITO»

Le Lettere pastorali di san Paolo mostrano che la custodia del depositum fidei è garantita dall’azione dello Spirito Santo, attraverso la grazia dell’imposizione delle mani e la grazia che risplende nelle opere buone. Eppure proprio queste Lettere, che costituiscono il fondamento della Chiesa-istituzione, «non isolano più la Chiesa dal mondo profano, al contrario ve la impiantano con un ottimismo e una sicurezza rimarchevoli». Riproponiamo alcune pagine del commentario di Ceslas Spicq alle Lettere pastorali

di Lorenzo Cappelletti

Da parecchi mesi l’espressione deposito della fede o il suo equivalente latino depositum fidei campeggia in titoli e articoli di 30Giorni. Ma il copyright non è di 30Giorni. «O Timoteo, custodisci il deposito» è la raccomandazione finale fatta da san Paolo nella prima Lettera indirizzata al suo discepolo prediletto. Ripetuta, poco prima di andare incontro al martirio, nella seconda Lettera. Prima di allora quell’espressione non era stata mai usata da san Paolo (e neanche dagli altri scrittori neotestamentari). Proprio nel momento in cui il suo sangue stava per essere sparso, san Paolo avvertiva che poteva disperdersi il tesoro che come un vaso debole eppure forte aveva custodito. Come avvertì quell’altro Paolo più vicino a noi quando scrisse il Credo del popolo di Dio. La grande alternativa – è stato scritto di recente – per la vita di un uomo e di un popolo è, infatti, tra ideologia e tradizione.
Forse non è appena un caso che le cosiddette Lettere pastorali (denominazione che insieme alle due Lettere a Timoteo ricomprende anche quella a Tito) siano venute di recente alla ribalta. Ad esse è stato dedicato il convegno dell’Associazione biblica italiana tenutosi lo scorso settembre a Termoli, la cittadina molisana che custodisce le reliquie di Timoteo nel suo Duomo incantevole. In attesa che vengano pubblicati gli atti di quel convegno ci facciamo accompagnare nella lettura di qualche brano di quelle Lettere dal grande esegeta domenicano Ceslas Spicq. È suo infatti il commento, apparso in terza edizione giusto cinquant’anni fa (Saint Paul. Les Épîtres pastorales, Éd. Gabalda, Paris 1947), che anche gli eminenti studiosi che si sono succeduti dopo di lui non possono fare a meno di tenere a modello.

Il deposito
«O Timoteo, custodisci il deposito; evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosiddetta gnosi, professando la quale taluni hanno deviato dalla fede» (1Tm 6, 20).
Può essere di aiuto anzitutto capire cosa sia l’istituto giuridico del deposito, al quale si ispira san Paolo. «A Roma “c’è deposito quando si mette una cosa al sicuro presso una persona che si impegna a custodirla e a renderla quando gliela si richiederà”. A differenza della cessione in modo fiduciario, dove c’è un vero trasferimento di proprietà, non c’è nel deposito che una cessione provvisoria di detenzione. Il depositario non possiede per sé stesso ma per il depositante; non è che un custode e conserva i beni a disposizione del tradens, che conserva i diritti legati alla proprietà. Peraltro, come il contratto di fiducia, il deposito si fa volentieri presso un amico che lo conserva gratuitamente. A lungo il deposito effettuato attraverso la semplice consegna (traditio), fu sprovvisto d’efficacia giuridica, essendo un atto senza forma» (p. 331).
Colpito evidentemente dalle caratteristiche di questo istituto, che come contratto «era una novità [datava infatti solo dall’epoca del triumvirato di Ottaviano] e una novità assai sorprendente perché è uno dei primi contratti non solenni» (p. 329), san Paolo lo adotta proprio nel momento del massimo pericolo per la fede. «Fino a quel momento l’Apostolo aveva insistito soprattutto sulla fedeltà al suo ministero, sulla lealtà verso i suoi discepoli; ora è condotto dal pericolo delle nascenti eresie a considerare l’integrità della dottrina per sé stessa, della quale è stato stabilito “araldo, apostolo e maestro”. L’ha ricevuta con incarico di trasmetterla, non gli appartiene. Presentendo la sua prossima fine, Paolo percepisce più vivamente ancora la responsabilità che gli incombe di custodire intatto questo tesoro; fino al termine fissato egli deve preservare la parola di Dio (1Tm 4, 6) da ogni errore e corruzione. È, infatti, un deposito che Dio gli ha confidato ed è prossimo il giorno in cui il divino creditore gliene chiederà conto. Questo deposito Paolo l’ha ricevuto da Dio, e più precisamente da Cristo, sulla strada per Damasco. Visto che questo contratto reale non presupponeva, in origine, per il suo modo di formazione che una semplice rimessa del possesso dei beni, è dunque al momento di questo incontro iniziale che è nato fra il Signore e il suo apostolo questo accordo – l’accordo delle loro due volontà – generatore d’obbligazione fin dal momento della trasmissione dell’oggetto affidato. Il contenuto di questo deposito è il Vangelo. La legge non autorizzava, salvo stipulazioni contrarie, alcun uso dei beni affidati. Ora, l’Apostolo non si è mai considerato che come un amministratore, un dispensatore, dei misteri divini (1Cor 4, 1). A differenza dei maestri che insegnano una dottrina originale, frutto di loro speculazioni, egli non è che un delegato. Quel che predica non lo inventa, non lo trasforma, l’ha appreso e ricevuto e deve trasmettere intatto – come un deposito – questo tesoro che è la parola divina ovvero l’oggetto della fede [...]. Ha terminato la corsa, il momento della sua dipartita è arrivato (2Tm 4, 6-8); esorta Timoteo a vegliare sul deposito che gli trasmette; è suonata l’ora in cui sta per comparire davanti a Dio che giudicherà il suo fedele depositario» (pp. 332-333).

Ma sarà sufficiente l’esortazione di Paolo perché Timoteo, giovane e timido per natura, possa conservare il deposito?
«Con l’ordine di conservare il deposito, Paolo indica il mezzo di esservi fedele. Il compito non è facile. Molti hanno abbandonato la fede e l’Apostolo stesso sta per andarsene, ma lo Spirito Santo dimora nella Chiesa e illuminerà e fortificherà i suoi ministri (cfr. 2Tm 1, 7). San Paolo non ne dubita (cfr. 2Tm 1, 12). Questi due ultimi versetti fondano l’insegnamento cattolico relativo alla tradizione. Gli apostoli hanno ricevuto dal Signore la verità cristiana; loro stessi l’hanno trasmessa oralmente, specialmente ai loro collaboratori e ai loro successori nel ministero; ma questi ultimi hanno il dovere di conservarla in tutta la sua purezza e di non comunicarla a loro volta che a degli uomini provati e capaci di assicurare una nuova trasmissione (cfr. 2Tm 2, 2). Ora, questa conservazione e questa trasmissione non possono essere garantite a sufficienza dalle forze umane. È lo Spirito Santo che le preserva da ogni alterazione e da ogni deviazione e, secondo il versetto 7, si può precisare che questa azione dello Spirito Santo si esercita con una efficacia particolare nei membri della gerarchia ecclesiastica» (p. 320). In altre parole, Timoteo dovrà e potrà fare appello alla grazia dell’ordinazione ricevuta da Paolo stesso, che gli scrive:
«6Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani. 7Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. 8Non vergognarti dunque della testimonianza da rendere al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio. 9Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, 10ma è stata rivelata solo ora con l’apparizione del salvatore nostro Cristo Gesù, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del vangelo, 11del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro.
12È questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto e son convinto che egli è capace di conservare il mio deposito fino a quel giorno. 13Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù. 14Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi» (2Tm 1, 6-14).
In questo come nell’altro passaggio (1Tm 4, 14) in cui rammenta a Timoteo l’imposizione delle mani, «san Paolo designa il dono divino così comunicato con la medesima parola. Tale parola non è impiegata nelle Lettere pastorali che in questi due testi sull’ordinazione. Come nelle lettere precedenti, essa designa una specie particolare di grazia, che mette in rilievo un aspetto della sua gratuità; è donata meno per il beneficio del soggetto che per il bene della comunità cristiana, “l’utilità comune” (1Cor 12, 7), per edificare la Chiesa (1Cor 14, 12)» (p. 325). Spicq cita in nota, a questo proposito, il padre Lemonnyer, autore della voce Carismi nel Supplément au Dictionnaire de la Bible: «Questo carisma, la cui ricezione ha fatto di Timoteo il personaggio ufficiale che è, è il carattere sacramentale dell’Ordine. Il sacramento dell’Ordine, generatore della gerarchia ecclesiastica, e il sacramento della Confermazione, con cui sono costituiti i milites Christi, sono essenzialmente dei sacramenti carismatici. La gerarchia sacra è fatta di autorità e di capacità ugualmente soprannaturali. Questa capacità è stata sempre identificata in primo luogo col carattere impresso dall’Ordine a tutti quelli che lo ricevono, in qualunque grado, e che a dire di san Tommaso è una potentia, quasi una facoltà soprannaturale, un carisma di rango più elevato che abilita i membri della gerarchia a tutte le funzioni del loro ufficio. Al quale eventualmente s’aggiunge la concessione extra-sacramentale di carismi complementari: apostoli, dottori, predicatori, pastori etc. Ben lungi dall’essere fondata sulla scomparsa dei carismi, la gerarchia da sempre è fondata su dei carismi» (p. 325 nota 1).
«Bisogna sottolineare che il dono di Dio… in te…; Dio ci ha dato uno Spirito… (2Tm 1, 6. 7) non è senza legame con il deposito la cui conservazione si fa attraverso lo Spirito Santo che abita in noi (2Tm 1, 14). [...] Vuol dire che l’ordinazione assicura la perpetuità della dottrina ortodossa; questa è un legato santo, un “deposito”. La sua integrità in parte dipende senza dubbio dalla docilità e dalla fedeltà dei predicatori, non insegnare dottrine diverse(1Tm 1, 3); ma alla fin fine lo Spirito Santo ne è il primo custode e solo può preservare i ministri cristiani dall’errore. Si è dunque in diritto di identificare in qualche modo la grazia trasmessa con l’imposizione delle mani con l’azione immanente dello Spirito Santo che garantisce il deposito della fede da ogni pericolo d’alterazione. I pastori e i predicatori, avendo ricevuto il carisma dell’ordinazione, godono dell’assistenza dello Spirito Santo nella diffusione e nella conservazione della verità evengelica: «Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità (1Tm 3, 15). Questo è il fondamento della dottrina cattolica sulla tradizione orale come norma della fede. Avendo ricevuto l’imposizione delle mani Timoteo ha la sicurezza di avere sempre la forza e l’attitudine soprannaturali per compiere degnamente il suo ufficio evangelico» (pp. 325-326). Spicq esplicita ulteriormente: «Non si tratta tanto di sforzi ascetici per acquisire un’energia umana, una forza di carattere, quanto della fedeltà alla grazia dell’ordinazione (2Tm 1, 6.7.8.12). Timoteo dovrà mettere in opera i poteri e la forza soprannaturali che ha ricevuto, esercitarli al meglio, a dispetto delle sofferenze e delle fatiche penose che comporta il suo ministero; ma per l’Apostolo con la grazia si può tutto!» (p. 340).

Ecumenismo
Le Lettere pastorali mostrano dunque che la custodia del deposito è garantita dal carattere sacramentale dell’istituzione ecclesiastica. Eppure proprio queste Lettere che costituiscono il fondamento della Chiesa-istituzione (pare un paradosso) «non isolano più la Chiesa dal mondo profano, al contrario ve la impiantano con un ottimismo e una sicurezza rimarchevoli. L’esperienza ha provato che ogni cristiano è chiamato a vivere in mezzo ai suoi vecchi compagni d’errore e di peccato. Lungi dal disprezzarli e dal combatterli, si mostrerà loro come un uomo trasformato dalla grazia» (p. CXCVIII). Nelle Lettere pastorali si esprime al massimo grado l’ecumenismo di Paolo. Come si mostra in particolare in 1Tm 2, 1-5:
«1Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, 2per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. 3Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, 4il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. 5Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, 6che ha dato sé stesso in riscatto per tutti».
Commenta Spicq, citando san Giovanni Crisostomo: «Bisogna rendere grazie a Dio anche dei beni che egli accorda agli altri, per esempio che faccia risplendere il suo sole sui cattivi e sui buoni, che faccia piovere sui giusti e sugli ingiusti. Vedi come l’Apostolo non solo con le suppliche ma con l’azione di grazie ci unisce e ci lega insieme» (p. 53). E prosegue: «Tutte queste preghiere non sono limitate a interessi personali, né a una cerchia ristretta di fedeli; hanno di mira il prossimo e avranno un’applicazione universale “per tutti gli uomini”. Questo universalismo è una caratteristica del culto “cattolico”. La preghiera ha la stessa estensione della carità; l’una e l’altra lo stesso universalismo della salvezza (cfr. 1Tm 1, 15; Tt 2, 11). Non c’è nessuno, di qualsivoglia nazione o religione, per il quale la Chiesa non debba pregare, nessuno, nemmeno uno scomunicato di cui almeno l’esistenza non sia un motivo di rendere grazie a Dio» (p. 53). Commentando poi il versetto 3 («Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio»), Spicq aggiunge: «Questa intercessione che il popolo cristiano compie come un sacerdozio regale in favore di tutti gli uomini è una cosa a un tempo moralmente buona, eccellente in sé stessa, come un’opera eminente di carità, e bella e gradita al cospetto di Dio – hapax nel NT – può essere considerato come esplicativo di cioè “bello a vedersi”), perché è la migliore cooperazione che ci sia al piano divino di salvare gli uomini» (p. 57).

Le opere belle cioè buone
L’aggettivo “bello” è il vocabolo che più caratterizza le Pastorali. Delle 44 ricorrenze di esso nel corpus paolinum, ben 24 (più della metà) appartengono alle Pastorali. Tanto che Spicq si meraviglia di come proprio in età ormai avanzata «questa bellezza sembri essere diventata agli occhi di san Paolo una nota distintiva della vita cristiana, un’espressione della nuova fede; tutte le età, tutte le condizioni, ogni sesso, sono come rivestiti di bellezza» (p. 290). Ciò è tanto più notevole dal momento che «Aristotele ritiene che i vecchi non vivono più per il bello (cfr. Retorica II, 13, 1389b, 36); è un segno della forza di rinnovamento e di ringiovanimento della grazia nell’anima dell’Apostolo» (p. 290 nota 1). È «la prova estetica della speranza», scriveva Massimo Borghesi nel numero scorso di 30Giorni (n. 12, dicembre 1997, p. 84). Che si rivela, come abbiamo visto sopra, nella preghiera, come prima opera di carità, e nella carità in senso stretto, cioè in quelle buone opere cui proprio «le Lettere pastorali hanno donato il senso tecnico che la tradizione cristiana ha conservato [...], identificandole giustamente con le opere di misericordia» (pp. 294 e 282), scrive Spicq commentando la Lettera a Tito 3, 3-8:
«3Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda. 4Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, 5egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, 6effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, 7perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna. 8Questa parola è degna di fede e perciò voglio che tu insista in queste cose, perché coloro che credono in Dio si sforzino di essere i primi nelle opere buone. Ciò è bello e utile per gli uomini».
Tito, che era di origine pagana, conosceva per esperienza il valore di queste parole. «Com’è possibile», si chiede Spicq nel commento a questo brano, «fare da un pagano un cristiano? È l’opera della sola grazia, gratis et gratiose. Il versetto Tt 3, 4 è parallelo a Tt 2, 11. Come i doveri reciproci dei cristiani erano fondati sull’iniziativa e la forza educatrice [Spicq più avanti parlerà, in contrasto con la pretesa pelagiana, di una «paideia della grazia» (p. 282)] della grazia di Dio in Cristo, così i doveri dei cristiani di fronte al mondo sono fondati sulla bontà e l’amore di Dio per gli uomini [...]. È l’amore di Dio per gli uomini la causa della conversione di pagani ciechi e peccatori a una vita santa. Questo amore s’è manifestato concretamente in un momento storico e sotto una duplice forma che contrasta con l’odio e la gelosia degli uomini gli uni per gli altri; mentre essi si detestavano, Dio li amava tutti teneramente e voleva loro bene. Anzitutto la benignità. Secondo l’etimologia, significa “quello di cui ci si può servire” e si impiega specialmente per gli alimenti di buona qualità [...]. La è dunque una delicata amabilità, ma implica anche liberalità» (p. 275). E poi la, cioè «una simpatia efficace; equivale al latino humanitas, che significa rispetto per l’uomo in quanto uomo [...]. Dunque un sinonimo di ma accentuando l’universalità di questo favore» (p. 276).
Preghiera, benignità, rispetto per l’uomo in quanto uomo: cose belle, cioè buone, gradite al cospetto di Dio.

 

Publié dans:Lettera a Timoteo - prima |on 17 février, 2015 |Pas de commentaires »
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