Archive pour février, 2015

IL BIBLISTA ROMANO PENNA: COSÌ L’APOSTOLO «SPIEGA» LA PASSIONE SENZA AVERLA VISTA

http://www.donatocalabrese.it/jesus/dibages3.htm

CON PAOLO SUL CALVARIO DI CHI NON C’ERA

IL BIBLISTA ROMANO PENNA: COSÌ L’APOSTOLO «SPIEGA» LA PASSIONE SENZA AVERLA VISTA

(intervista al docente della Lateranense, autore di un Dizionario sul «gigante della fede», ripercorre con lui l’evento della Pasqua)

«Dietro alle parole sulla Croce come scandalo per i giudei c’è la sua esperienza: quel fatto era tutto ciò che conosceva di Gesù prima della conversione»

Francesco Ognibene

E chi sotto la croce, quel giorno, non c’era? Meditando nella basilica del Santo Sepolcro accanto alla vetta spaccata del Calvario, è impossibile non sentirsi sopraffatti da questa considerazione: io non c’ero ma, pur non avendo visto, ora sono qui, ed è come se il tempo non si fosse spostato dalle tre di quel pomeriggio. Perché è vero che non vedo scorrere il sangue e non sento i colpi che conficcano i chiodi: ma tocco con mano la fede. Il cristiano è testimone di un mistero grande come il Venerdì Santo: non ha visto ma crede, e non solo perché ha « letto » o « ascoltato ». Per muovere qualche passo dentro questo labirinto può affidarsi a san Paolo, che di questa fede è un po’ il prototipo. A guidarci è don Romano Penna, studioso della prima cristianità e professore alla Lateranense, oltre che curatore qualche mese fa dell’edizione italiana dell’imponente Dizionario di Paolo e delle sue lettere (San Paolo, 1886 pagine, 120 mila lire), che tenta di tracciare un profilo di questo gigante della fede e della teologia facendo giustizia di luoghi comuni e tesi stravaganti fioccate negli ultimi tempi.
Colpisce nelle lettere di Paolo trovare essenzialmente due soli episodi della vita di Cristo: la morte e la risurrezione. Cosa significa?
«C’è anzitutto un dato biografico. Stando alle lettere, non è possibile stabilire con certezza quanto ampia e dettagliata fosse la conoscenza che Paolo aveva della vita di Gesù. L’Apostolo non poteva conoscere i Vangeli: le lettere sono state scritte tra il 50 e il 55, il testo di Marco, il primo evangelista a scrivere, è del 70: ritengo inattendibili le datazioni più « alte » proposte sulla base di labilissimi indizi, tipo il frammento di Qumran 7Q5. Ciò premesso, è interessante notare che nelle lettere paoline la morte e la risurrezione non siano descritte ma ripensate nel loro spessore salvifico. Non c’è alcun riferimento a fatti compiuti da Gesù, ma a sue parole. Se però Paolo ha perseguitato la prima comunità cristiana è perché doveva sapere di cosa si trattava e cosa c’era dietro. Là dove dice che la croce di Cristo è « scandalo per i giudei » bisogna intravedere una citazione autobiografica: era lui a essersi scandalizzato prima della conversione. Non aveva conosciuto fisicamente Gesù, ma
sapeva bene chi era e cosa rappresentava».
Qualcuno ne ha dedotto che allora è Paolo il vero fondatore del cristianesimo…
«È una tesi infondata, chi la afferma non coglie la prospettiva paolina: i Vangeli narrano, Paolo è su un piano diverso per quanto non alternativo. Nei Vangeli ci sono i fatti ma non è altrettanto centrale la loro interpretazione in chiave salvifica. Non cadiamo nell’errore del protestantesimo liberale di fine ’800, che si è appiattito sulla vicenda storica riducendo Gesù al livello dei grandi dell’umanità, un’istanza che trasforma il Messia in un maestro da imitare, una linea solo parallela alla vita del
credente. Paolo invece gli fa intersecare l’esistenza concretissima del cristiano, annunciandolo come il Risorto».
Fu subito chiaro che dal Calvario al sepolcro vuoto c’è tutto ciò che basta al credente?
«Sì. Però quel che più conta è che non si tratta di un’intuizione di Paolo ma di un patrimonio dei cristiani delle origini. Al capitolo 15 della prima lettera ai Corinzi l’Apostolo scrive: « Vi ho trasmesso anzitutto quello che ho ricevuto, che Cristo morì per i nostri peccati, e che fu sepolto, e fu risuscitato il terzo giorno ». Dunque un annuncio pre-paolino, fatto proprio e sviluppato da Paolo in modo originale ma già presente nella Chiesa primitiva. Dopo Gesù non viene subito Paolo ma la prima
comunità cristiana. Quel che Paolo approfondisce sono le conseguenze salvifiche della morte in croce».
E non è un modo per sovrapporre una dottrina agli eventi?
«Nient’affatto. Le radici paoline sono giudaiche, e in quella cultura la storicità è fondamentale. Paolo parla di un personaggio con una precisa fisionomia, non di una leggenda. E si rende conto che dal venerdì alla Pasqua si verificano i fatti culminanti, quelli che esprimono maggiormente l’atto di amore di Gesù per l’uomo. In Romani 5,8 si legge che « mentre ancora eravamo peccatori Cristo morì per noi ». È questa dimensione di dedizione totale che Paolo sottolinea, in polemica con il giudeo-cristianesimo: la figura di Cristo infatti emerge con tale forza da rendere chiaro che la salvezza si trova in lui solo, e non nella Torah».
Dal Venerdì Santo alle lettere passano poco più di vent’anni: bastano per una teologia già così compiuta?
«In mezzo c’è la genialità di Paolo. La comunità primitiva aveva fede nel dato del Cristo risorto. La confessione di fede della prima lettera ai Corinzi appare già consolidata e – guarda caso – non si perde in resoconti ma si concentra sull’essenziale: morte e risurrezione. La sintesi paolina è esemplare della fede della prima comunità, che aveva capito tutto: Gesù è morto « per i nostri peccati », e questo
è già un annuncio. Aggiungere poi che è risuscitato il terzo giorno è qualcosa di straordinario, rispetto alla grecità ma anche all’interno di Israele. Il cristiano dunque non spera in un evento generico che va atteso, ma ha la certezza di un fatto già avvenuto».

Gli evangelisti conoscevano le lettere di Paolo?
«No, e secondo me non lo conosceva neppure Luca che proprio a Paolo dedica oltre metà degli Atti. Il motivo? Le lettere erano state scritte a comunità diverse, e solo più tardi verranno raccolte in un corpus che però quando Luca scrive, alla fine degli anni 80, non esiste ancora. Tutt’al più possiamo dire che le lettere forse gli erano note ma lui non le ha volute utilizzare. Illogico? È sbagliato pretendere dagli autori antichi la nostra stessa logica compositiva».

Dalla croce quale fede nasce nel credente che « non ha visto »?
«Quella per il Gesù del quale si vive una presenza: altrimenti lo si ridurrebbe a un Buddha o a un Maometto, morti e basta. Dalla croce alla risurrezione sgorga tutto un concetto di salvezza e di comunità cristiana, perché ci si rapporta a questi eventi non per ricostruirne la memoria archeologica, ma per vivere del « Cristo attuale »: di colui che, pur essendo morto, vive».

Francesco Ognibene

L’ANTITESTIMONIANZA E LO SCANDALO

http://www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_june-sept-1996_cottier_it.html

L’ANTITESTIMONIANZA E LO SCANDALO

Nella Lettera apostolica Tertio Millennio adveniente (n. 33), la Chiesa è inviata «a farsi carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli nel ricordo di tutte quelle circostanze in cui, nell’arco della storia, essi si sono allontanati dallo spirito di Cristo e del suo Vangelo, offrendo al mondo, anziché la testimonianza di una vita ispirata ai valori della fede, lo spettacolo di modi di pensare e di agire che erano vere forme di antitestimonianza e di scandalo».
Già nel 1975, l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI, raccogliendo i frutti della III Assemblea generale del Sinodo dei vescovi, consacrata alla evangelizzazione, aveva sottolineato l’importanza centrale della testimonianza. Queste parole hanno trovato una vasta risonanza, sono state riprese dall’attuale Magistero. Conservano tutta la loro pertinenza in vista della nuova evangelizzazione: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri … o se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni …
È dunque mediante la sua condotta, mediante la sua vita, che la Chiesa evangelizzerà innanzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità» (n. 41). Si rileverà che il soggetto della testimonianza, al di là dei cristiani presi singolarmente, è la Chiesa.
In vista del Grande Giubileo, il tema della testimonianza deve in modo del tutto particolare fare l’oggetto di un nostro esame di coscienza e di meditazione. Le poche considerazioni che seguono su quello che ne è il rovescio: l’antitestimonianza e lo scandalo.

Lo scandalo della Croce
Nel linguaggio della Scrittura lo scandalo significa un tranello, tutto quello che fa soccombere e, quindi, che mette alla prova la fede. Ma facciamo notare che, a seconda della provenienza, e a seconda delle capacità e delle disposizioni di chi è scandalizzato, il significato dello scandalo differisce completamente. Per il credente lo scandalo della Croce è adorabile. Questo scandalo non è un’antitestimonianza. È al contrario fonte della più grande testimonianza.
Dopo che Gesù, nella sinagoga di Cafarnao, ebbe annunciato il mistero dell’Eucaristia, una crisi profonda si produsse tra i discepoli. « Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo? ». Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro. Disse allora Gesù ai Dodici: Volete andarvene anche voi? Si conosce la risposta di Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna». Queste sono le parole della fede.
Di fronte allo smarrimento provocato dalle sue parole, Gesù non fece niente per attenuarle: «Questo vi scandalizza?». Egli precisa che in seguito capiranno e che questa comprensione è un dono dello Spirito, ch’essa s’identifica con il dono della fede: «Ma vi sono alcuni tra voi che non credono» (cf. Gv 6, 60-69).
La profondità e la sublimità del messaggio di Gesù, quindi, scandalizza, nel senso che è occasione di caduta per chi non crede o prova superata per colui che crede. Il tema dello scandalo, nel Nuovo Testamento, è dunque legato alla fede, come libera accoglienza del mistero di Cristo. Dinanzi al Vangelo non si può restare indifferente, tiepido, o sottrarsi: il Signore ci interpella personalmente e ci chiede di dichiararsi per lui (cf. Mt 10, 32-33).
Agli invitati di Giovanni che era in carcere, sconcertato per quello che sente dire dello svolgimento del ministero di Gesù, questo risponde evocando i segni messianici che l’accompagnano. E aggiunge: « beato colui che non si scandalizza di me» o: che non cadrà per causa mia (cf. Mt 11, 6).
La prima lettera di Pietro, 1, 7-8, riferendosi ad un brano d’Isaia (8, 14), afferma dal canto suo: «Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo». E vi è data la ragione: «loro v’inciampano perché non credono alla parola».
A questo scandalo, a questa prova della fede, Gesù preparerà i suoi discepoli, annunciando loro l’odio del mondo, le persecuzioni ma anche le consolazioni dello Spirito (cf. Gv 6, 14-16): «Vi ho detto queste cose perché non abbiate a scandalizzarvi (o affinché non soccombiate alla prova») (cf. Gv 16, 1).
È lo stesso paradosso di cui ci parla san Paolo nella prima lettera ai Corinzi, 1, 18-31. Il mondo peccatore non ha saputo riconoscere la Sapienza di Dio, che salverà i credenti per la stoltezza della predicazione del Messia crocifisso, stoltezza e scandalo. Il piano divino della salvezza rivela le profondità del mistero dell’agapè divina e ci invita a prendere coscienza dei nostri limiti, poiché il rifiuto ad aprirsi al mistero ha per motivo l’autosufficienza colpevole: «Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini».
Capire questo, alla luce della fede, è accogliere ciò che possiamo chiamare lo scandalo benedetto delle vie di Dio, è accogliere il mistero della Croce, fonte di salvezza. L’esigenza posta così è l’esigenza della purezza della fede, di un’adesione alla infinita trascendenza della sapienza salvifica di Dio.
L’accoglienza del mistero della salvezza con la fede suppone da parte nostra la purezza di cuore, e di conseguenza un impegno sul cammino della conversione. Ci si ricorderà della bellissima pagina del Vangelo: «In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: « Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto, queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Si, Padre, perché così a te è piaciuto. Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare »» (cf. Lc. 10, 21-22).

Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo
C’è una profonda corrispondenza tra le anawime di cui parlano le righe precedenti e l’accoglienza del mistero, che risulta uno scandalo per colui che resta chiuso nella sua sufficienza. I discepoli fanno così notare a Gesù dopo il suo insegnamento sul puro e l’impuro: «Sai che i farisei si sono scandalizzati nel sentire queste parole?» (cf. Mt. 15, 12). Qui l’accento si sposta: lo scandalo non è più, se si può dire, sulle profondità del disegno di Dio, è nella cecità del cuore.
Esistono degli scandali che provengono da noi o dei quali siamo più o meno direttamente responsabili ed che è nostro dovere togliere dalla nostra strada.
La parola di Gesù è categorica: «Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna. E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te…» (Mt. 5, 29-30, cf. anche 18, 8-9).
Il vigilare e il coraggio delle rinunce fa anche esso parte del cammino della conversione. Qui lo scandalo è l’ostacolo che occorre scartare totalmente. Per questo sappiamo di poter contare sull’aiuto di Dio, al quale lo chiediamo tutti i giorni: «non ci indurre in tentazione».

Lo scandalo dei piccoli
È dopo aver invitato i discepoli a farsi piccoli e ad accogliere i bambini, che Gesù parla, con grande severità dello scandalo arrecato ad altri: «Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!» (cf. Mt. 18, 6-7).
Necessità non vuol dire evidentemente fatalità. Significa che lo scandalo è inevitabile essendo il mondo segnato dal peccato. Ma questo non deve portare alla passività e alla rassegnazione. L’animazione evangelica della vita sociale è un dovere dei cristiani. Quindi devono alzare la voce ed impegnarsi in favore dei «piccoli» senza difesa e prendere delle iniziative per correggere i costumi il cui degrado offende la dignità dell’essere umano creato ad immagine di Dio.

La legge della carità
L’infanzia evoca dipendenza e debolezza. Su quest’ultimo punto, san Paolo enuncia il principio che ci deve sempre guidare: «Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare l’infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. Ciascuno di noi cerchi di compiacere il prossimo nel bene, per edificarlo. Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma come sta scritto: gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti sopra di me» (cf. Rm. 15, 1-3).
Quel che non è scandalo per l’uno può esserlo per l’altro. San Paolo detta a questo proposito ai cristiani di Roma la condotta che devono assumere. Alcuni di loro si credono in coscienza ancora sostenuti dall’osservanza delle prescrizioni legali del giudaismo, altri hanno capito di essersene liberati, ed erano portati a disprezzare i primi: «Cessiamo dunque dal giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non esser causa di inciampo o di scandalo al fratello…. Tutto è mondo, d’accordo; ma è male per un uomo mangiare dando scandalo» (cf. Mt. 14, 13. 20).
La regola è la ricerca della pace e della reciproca edificazione. L’apostolo aveva incontrato un’analoga situazione a Corinto, ma si trattava probabilmente di cristiani provenienti dal paganesimo, la cui coscienza era turbata quando consumavano della carne precedentemente sacrificata agli idoli. A quelli che hanno capito che l’idolo est nulla, Paolo scrive: «Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli … Ed ecco, per la tua scienza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello» (cf. 1 Co, 8, 9. 1113). La debolezza può essere quella di una coscienza poco illuminata, come nei casi esaminati direttamente da Paolo. Può essere ancora la presenza di tenaci pregiudizi, di malintesi o la difficoltà a capire alcuni segni.
Così lo scandalo investe un campo vasto di situazioni diverse e contrastate. La testimonianza più alta, quella del martirio, è perfetta comunione allo scandalo della Croce. Al contrario, lo scandalo del peccato, incitazione o cattivo esempio, porta con sè la caduta del prossimo. È una tentazione colpevole. Ci sono, in fine, dei comportamenti che, senza essere riprovevoli in se stessi, offendono la carità perché il prossimo non è atto a capirli. Allora, l’amore fraterno che è la regola suprema, richiede dei sacrifici e delle rinunce. Per un esame di coscienza che abbraccia il passato, il presente, e i progetti futuri, è giusto ricordarsi di questo triplice parametro.

GEORGES COTTIER

Publié dans:LO SCANDALO, Vaticano (dal |on 25 février, 2015 |Pas de commentaires »

Chapel of the Descent of the Holy Spirit

Chapel of the Descent of the Holy Spirit dans immagini sacre SalaSpiritoSanto0041Big
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Publié dans:immagini sacre |on 24 février, 2015 |Pas de commentaires »

DALLA PREDICAZIONE DI SAN PAOLO FINO AI GIORNI NOSTRI – CRISTIANI IN TERRA SANTA

http://www.tracce.it/?id=266&id2=266&id_n=7936

CRISTIANI IN TERRA SANTA: STORIA E PROFEZIA

JAVIER VELASCO YEREGUI

DALLA PREDICAZIONE DI SAN PAOLO FINO AI GIORNI NOSTRI. LA CURA DEI CRISTIANI PER I LUOGHI DOVE VISSE GESÙ

La cura dei cristiani verso la comunità cristiana di Terra Santa è antica quanto la stessa predicazione apostolica. Intorno agli anni cinquanta della nostra era, Paolo si impegnò davanti a Giacomo, Cefa e Giovanni, le massime autorità della Chiesa, a venire in aiuto delle necessità di Gerusalemme, e a questo scopo organizzò collette tra i Galati (1 Cor 16,1), a Corinto (1 Cor 16,1-4), in Macedonia (2 Cor 8,1-5) e nella provincia romana d’Asia (Atti 20,4-5). Paolo chiamerà questo gesto delle Chiese che si erano convertite dal paganesimo nei confronti della chiesa giudeo-cristiana di Gerusalemme con i termini «grazia e comunione», kharis kai koinonía (2 Cor 8,4), perché esprimeva una unità tanto nello spazio (communio) quanto nel tempo (traditio) tra la Chiesa dei gentili e quella «nella quale si sono compiute le Scritture» (Atti 13,27). Venti secoli più tardi, la Chiesa di Gerusalemme continua a essere una particolare icona della Chiesa, una imago Ecclesiae che sempre si presenta attraverso i segni dell’umiltà e della debolezza. Da qui trae la sua forza. Oltre a essere la realtà che custodisce i luoghi della salvezza, essa rappresenta come nessun’altra la ricchezza – e insieme le contraddizioni – della storia cristiana. I teologi orientali amano contemplare la Chiesa indivisa dei primi secoli come un riflesso della stessa vita di Dio: Roma o la latinità, la greca Bisanzio e l’Oriente cristiano di cultura aramaica rappresentano il sigillo stesso del Dio trinitario che si attua nella storia della sua Chiesa. Che oggi questa unità nella diversità sia venuta meno è un problema nostro. Nella loro ricchezza e nel loro confronto, queste tre forme dell’unica Chiesa hanno plasmato il cristianesimo della Terra Santa sin dai primi secoli. L’eredità di una storia ricchissima, vissuta in un presente difficile, diventa così profezia per il futuro. Queste sono le chiavi per comprendere l’identità e la missione delle chiese e delle comunità ecclesiali in Terra Santa.
È difficile ricostruire con chiarezza la struttura della Chiesa nella Palestina romana dei primi tre secoli. Sappiamo dell’esistenza di comunità giudeo-cristiane e di comunità convertitesi dal paganesimo. È il tempo dei martiri, di eruditi come Origene, e di campioni della difesa della logica cristiana di fronte al sistema religioso e filosofico imperiale, come san Giustino, originario della oggi così tormentata Nablus. Con la legalizzazione della nuova religione, nel IV secolo, si apre un’epoca di splendore per Gerusalemme, elevata al rango di patriarcato: i suoi fedeli rappresentavano la Chiesa universale. In quei secoli vedremo san Gerolamo operare per far giungere al mondo latino la Bibbia scritta in ebraico e greco. Accanto a lui, i monaci giunti da Roma a Betlemme o al Monte degli Ulivi. Nella Basilica che custodiva il Calvario e il Sepolcro di Cristo si udrà san Cirillo predicare in greco la sua catechesi, tradotta simultaneamente a una parte del popolo in lingua siriaca o aramaica, secondo la testimonianza della pellegrina spagnola Egeria (382 circa). I monaci orientali nel deserto di Giuda, le cui più celebri lavre o cenobi sono giunte sino ai nostri giorni, svolsero una vasta opera di evangelizzazione con le tribù arabe del deserto. È il caso del clan beduino Aspebet, che abbracciò la fede per opera del monaco Eutimio nei primi anni del V secolo, e il cui vescovo parteciperà al Concilio di Efeso, nel 431, con il titolo di “vescovo delle tende”. In occasione della grave frattura ecclesiale del V secolo, che trasse fuori dell’unità alcune chiese d’Oriente, Gerusalemme rimase legata a Roma e a Costantinopoli nell’ortodossia. I fedeli delle città della Palestina rimasero al seguito della retta fede professata nelle città imperiali: erano i melchiti o uomini dell’Imperatore (malek, in aramaico). Fra la popolazione rurale invece prevalse la fede di quelle che furono chiamate più tardi le antiche chiese d’Oriente.

L’islam e le crociate
L’islam giunse in Terra Santa quando il califfo Omar entrò a Gerusalemme nel febbraio del 638. Fu una conquista pacifica, ma inesorabile. Con il passare del tempo, una parte dei cristiani indigeni (siriani, arabi e altri) passò alla religione di Maometto, mentre altri conservarono la fede dei loro progenitori con i suoi riti, pur integrandosi nella nuova cultura arabizzata. Questa integrazione fu tanto forte che gli attuali cristiani di Terra Santa (e di tutto il Medio Oriente) si offenderebbero se qualcuno osasse dire che non appartengono alla cultura araba per lingua, costumi e mentalità. Con tutto questo, ciascuna forma ecclesiale continuò a caratterizzare l’identità della sempre più minoritaria comunità cristiana. In questo senso i vescovi cattolici di Terra Santa hanno recentemente dichiarato: «In Oriente, noi teniamo molto alla nostra liturgia e alle nostre tradizioni. È la liturgia che ha molto contributo a conservare la fede cristiana nei nostri paesi lungo la storia. Il rito è come una carta d’identità, e non solo un modo tra altri di pregare».
La parentesi eccezionale delle crociate (secoli XI-XIII) rappresentò, almeno inizialmente, il tentativo fallito di imporre la cristianità latina nelle terre d’Oriente, ma proprio dal suo fallimento nascerà la proposta alternativa di san Francesco. Si trattava di una forma nuova di presenza, molto diversa da quella dei cavalieri franchi. I frati della corda, che erano rimasti nell’isola di Cipro ad aspettare il momento in cui poter ritornare a prendersi cura dei luoghi santi e dei loro fedeli cristiani, portarono una nuova forma di presenza nel XIV secolo.

I cristiani oggi
Senza la pazienza, l’umiltà, il martirio di tanti figli del poverello di Assisi, oggi sarebbe difficile per i cattolici recarsi in pellegrinaggio nella terra del quinto vangelo. Grazie al loro lavoro pastorale, ogni santuario è sede di una comunità cattolica araba di rito latino. Quando nel XIX secolo giungeranno le missioni anglicana, protestante e ortodossa dalla Russia, la Chiesa cattolica restaurerà la diocesi latina nella forma del patriarcato di Gerusalemme, che oggi conta circa 30.000 fedeli in Israele, nei territori della Cisgiordania e di Gaza, in Giordania e a Cipro. Accanto a essi, i fedeli cattolici delle chiese orientali unite a Roma, come i greco-cattolici (45.000 fedeli), i maroniti di origine settentrionale o libanesi (4.000 fedeli), e siriani, armeni, copti e caldei (alcune centinaia o decine). Il quadro della famiglia cattolica non sarebbe completo senza ricordare la comunità di lingua ebraica (alcune centinaia) che, all’interno del mondo culturale e religioso ebraico, testimonia molte volte nel silenzio la pienezza delle promesse fatte ai padri di Israele. Come nel IV secolo, oggi la Terra Santa è casa di tutti i Cristiani, i quali preferiscono, nonostante tutto, denominarsi con il solo appellativo di «cristiani». In questo modo si rendono più vicini ai membri delle altre chiese o comunità ecclesiali con i quali non vivono la piena comunione (ortodossi, chiese d’Oriente o protestanti). Sono in totale un 2% della popolazione, stretti fra islam e giudaismo. Ogni cambiamento storico ha lasciato loro una traccia. La più recente e sanguinosa è il conflitto arabo-israeliano, di cui condividono sofferenze e minacce, essendo arabi senza essere musulmani, israeliani senza essere ebrei. Proprio per questo possono offrire, di fronte alla costante tentazione dell’emigrazione, il portato di speranza e riconciliazione che si trova al cuore del Vangelo. Mescolata in questa storia si può scorgere la valenza profetica di questa Chiesa (non dimentichiamo che il significato più letterale del termine pro-fezia è quello di pro-vocazione). Per questo, accostarci a essa, anche se solo attraverso un pellegrinaggio, è “grazia e comunione”, come già ebbe a dire san Paolo. *Direttore dell’Istituto Spagnolo Biblico Archeologico di Gerusalemme “Casa di Santiago”

Publié dans:Paolo: studi, TERRA SANTA (LA) |on 24 février, 2015 |Pas de commentaires »

TURCHIA – MESSAGGIO DI QUARESIMA DI BARTOLOMEO I

http://www.asianews.it/notizie-it/Messaggio-di-Quaresima-di-Bartolomeo-I-33535.html

TURCHIA – MESSAGGIO DI QUARESIMA DI BARTOLOMEO I

23/02/2015 – di NAT da Polis

Il Patriarca ecumenico di Costantinopoli chiede a tutti i fedeli di impegnarsi nella conversione a Dio e nell’amore ai fratelli. Siamo come « vasi…infranti ogni giorno a causa del male ». Riscoprire la « somiglianza con Dio » per allontanarci dagli « orribili crimini che vediamo colpire in questi giorni l’intero mondo ».

Istanbul (AsiaNews) – Oggi inizia la Quaresima secondo la tradizione ortodossa, un periodo in cui, secondo il pensiero dei grandi Padri della Chiesa universale unita, l’uomo è chiamato a reinterrogarsi sul proprio futuro e riconfermare il senso escatologico della propria vita.
Il digiuno che inizia da oggi e si conclude il giorno della resurrezione di Gesù, non significa un rifiuto della vita materiale, ma la sottomissione dei bisogni materiali a quel processo che conduce l’umana esistenza a partecipare alla santità del Signore, come dice il messaggio del Patriarca Ecumenico Bartolomeo rivolto ai fedeli.
« Questo periodo – afferma Bartolomeo – è la preparazione salvifica che inizia da oggi, per condurci alla Grande e Sacra Pasqua di Cristo, nostro Signore. E’ la Santa e Grande Quaresima, che dobbiamo vivere presentando le nostre suppliche, chiedendo perdono per poter veramente assaporare la Pasqua, diventando anche noi dei santi, attraverso la nostra conversione davanti a Dio, in quanto assomigliamo a dei vasi che vengono infranti ogni giorno a causa del male. Confessiamo dunque la nostra umana imperfezione, la nostra debolezza e la nostra nullità davanti a Dio, l’unico vero santo, l’unico Signore Gesù Cristo, a gloria di Dio Padre ».
« Perché Il nostro Creatore – continua Bartolomeo – desidera che siamo in comunione con Lui e gustiamo la Sua grazia, diventiamo insomma partecipi della sua santità. La comunione con Lui è vita, santità, mentre l’allontanamento da Lui è peccato, ed è identificato dai Padri della Chiesa con il ‘male del cuore’. Il peccato non appartiene alla natura, ma alla cattiva condotta ».
« La santità, aggiunge il patriarca ecumenico, è una qualità di Dio, il Quale è Colui che offre è Colui che è offerto; Colui che riceve i doni e per dono si offre. E tutto questo si esprime nella Divina Eucarestia ».
« La nostra Chiesa aspira esclusivamente alla salvezza dell’uomo, e per questo ha decretato un periodo dell’anno quale periodo di particolare preghiera e supplica per calmare le passioni dell’anima e del corpo, allo scopo di aiutare l’esistenza umana, perché raggiunga la somiglianza con Dio, cioè la santità, motivo per il quale è stato creato ».
« Siamo pertanto chiamati tutti insieme, cari fratelli e sorelle, in ogni momento ed in modo particolare durante questo periodo di Quaresima, in uno sforzo d’amore verso il prossimo, spogliandoci di ogni pensiero corrotto e corruttibile »
« Pertanto – continua Bartolomeo – ciascuno di noi deve pacificarsi con la propria coscienza attraverso la conversione, affinché nel fuoco della coscienza offriamo un mistico olocausto, sacrificando le nostre passioni e offrendole in sacrificio d’amore verso il prossimo, come il Signore offre se stesso per la vita e la salvezza del mondo. Solo allora sorgerà anche per noi dalla tomba il perdono e vivremo, come esseri umani, nel rispetto reciproco e nella piena carità, lontano dai tanti orribili crimini che vediamo colpire in questi giorni l’intero mondo ».
« E infine – conclude il patriarca ecumenico – il nostro continuo impegno e certezza, perchè i cieli e la terra e tutto ciò che è visibile ed invisibile si illuminino alla fine sotto la luce della Resurrezione del Signore, in qualità di padre spirituale di tutti i nostri fedeli cristiani ortodossi sparsi nel mondo, esortiamo ed invitiamo tutti, di impegnarsi da oggi a non pensare ed agire in modo inopportuno ed iniquo, ma ad agire e pensare come uomini di buona volontà ».

 

San Policarpo

San Policarpo dans immagini sacre s1737004

http://full-of-grace-and-truth.blogspot.it/2010/02/st-polycarp-hieromartyr-of-smyrna-and.html

Publié dans:immagini sacre |on 23 février, 2015 |Pas de commentaires »

IL MARTIRIO DI POLICARPO DI SMIRNE – (EUSEBIO DI CESAREA, STORIA ECCLESIASTICA, LIBRO IV 15,1-43)

http://camcris.altervista.org/policarpo.html

IL MARTIRIO DI POLICARPO DI SMIRNE

(EUSEBIO DI CESAREA, STORIA ECCLESIASTICA, LIBRO IV 15,1-43)

Il testo che segue riguarda un servo del Signore, Policarpo, vescovo della Chiesa di Smirne vissuto nel primo secolo cristiano. Di seguito potrete leggere il resoconto del suo martirio, della testimonianza che diede con la sua vita, e una sua lettera (la quale, pur non essendo parte della Sacra Scrittura, è di incoraggiamento e testimonianza della fedeltà dei primi cristiani alla Parola di Dio e ai Suoi insegnamenti).
La data del martirio di Policarpo, che lo storico cristiano Eusebio di Cesarea, nella Cronaca, pone nel 177, è fissata all’epoca di Antonino Pio, mentre l’Asia era sconvolta da grandissime persecuzioni. Il racconto della sua morte si è conservato fino ad oggi per iscritto.
Durante quel periodo di persecuzioni, Policarpo trascorse i giorni pregando intensamente il Signore. Implorava la pace per le Chiese di tutta la terra, come era sempre stata sua abitudine. Tre giorni prima del suo arresto, ebbe di notte una visione, e vide il cuscino che era sotto la sua testa incendiarsi improvvisamente e consumarsi. Al che si svegliò e spiegò subito la visione ai presenti, pur senza annunciare chiaramente che sarebbe morto per Cristo sul rogo.
I suoi inseguitori sopraggiunsero a tarda ora, e lo trovarono che riposava in una soffitta. Il racconto continua testualmente così:
« Avendo saputo della loro presenza, scese giù e parlò con loro con un viso dolcissimo e così lieto, che a quelli, che non l’avevano mai conosciuto prima, parve di vedere un miracolo, quando osservarono quell’uomo di età avanzata dal portamento venerando e calmo, e si meravigliarono di tanta preoccupazione per arrestare un simile vecchio. Senza indugi egli fece preparare subito una tavola per loro e li invitò a un abbondante pranzo, poi chiese loro un’ora soltanto, per pregare in pace. Gliela concessero ed egli, alzatosi in piedi, pregò pieno della grazia del Signore, al punto che i presenti, sentendolo pregare, rimasero stupefatti e molti di loro si pentirono che un vecchio così venerando e pio stesse per essere ucciso.
Quando terminò la preghiera, dopo aver ricordato tutti coloro che aveva incontrato, piccoli e grandi, illustri ed oscuri, e l’intera Chiesa cristiana sparsa nel mondo, venuta l’ora di andare, lo misero su di un asino e lo portarono in città, un sabato di festa. Lo incontrarono l’irenarca Erode e suo padre Niceta, i quali, fattolo salire sulla loro carrozza, gli si sedettero vicino e cercarono di convincerlo, dicendo: « Che male c’è a dire: Cesare signore, e a sacrificare per salvarsi? ». Egli dapprima non rispose, poi, dato che essi insistevano, disse: « Non intendo fare ciò che mi consigliate ». Allora, non riuscendo a persuaderlo, gli rivolsero male parole e lo fecero scendere tanto in fretta, che uscendo dalla carrozza si sbucciò lo stinco, ma egli, senza neppure voltarsi, come se non avesse sentito niente, proseguì a piedi in fretta e di buon grado, e fu condotto allo stadio. Qui il clamore era così grande, che nessuno avrebbe potuto farsi sentire. Ma all’ingresso di Policarpo nello stadio una voce venne dal cielo: « Sii forte, Policarpo, e comportati da uomo! ». Nessuno vide chi parlava, ma molti dei nostri che erano presenti udirono quella voce. Mentre veniva condotto, vi fu un grande tumulto da parte di quanti avevano udito che Policarpo era stato preso. Venuto quindi avanti, il proconsole gli chiese se fosse Policarpo, e poiché egli lo confermò, tentò di persuaderlo ad abiurare dicendo: « Rispetta la tua età », e altre cose simili che usano dire, come: Giura per il genio di Cesare, pentiti, di’: Basta con gli atei! Allora Policarpo, guardando col volto serio la folla che era nello stadio, agitò verso di essa la mano e gemendo levò gli occhi al cielo, e disse: « Basta con gli atei! ». Ma il proconsole insisteva: « Giura, e ti lascerò andare. Insulta Cristo ». Policarpo rispose: « Lo servo da ottantasei anni e non mi ha fatto alcun torto: come posso bestemmiare il mio re, colui che mi ha salvato? ». E l’altro insisteva: « Giura per il genio di Cesare ». Allora Policarpo disse: « Se ti illudi che io giuri per il genio di Cesare, come dici fingendo di non sapere chi sono io, ascolta bene: io sono cristiano. E se vuoi conoscere la dottrina del Cristianesimo, concedimi un giorno e stammi a sentire ». Rispose il proconsole: « Convinci il popolo! ». E Policarpo: « Ho stimato degno di un discorso te, perché ci hanno insegnato a tributare ai magistrati e alle autorità istituiti da Dio l’onore che loro compete, se questo non ci porta danno, ma costoro non meritano di ascoltare la mia difesa ». Riprese il proconsole: « Ho delle belve. Ti consegnerò a loro, se non cambi idea ». Rispose Policarpo: « Chiamale. Non cambieremo parere per andare dal meglio al peggio, mentre è bello passare dal male alla giustizia ». E l’altro: « Ti farò domare dal rogo, se non t’importa delle belve, a meno che tu non cambi idea ». E Policarpo: « Tu minacci un fuoco che brucia un momento e poco dopo si spegne, perché non conosci il fuoco del giudizio che verrà e della punizione eterna riservata agli empi. Ma perché indugi? Fa’ venire ciò che vuoi ». Dicendo queste e molte altre cose ancora, si riempì di coraggio e di gioia, e il suo viso si colmò di grazia, così che non solo non si spaventò alle parole rivoltegli, ma fu anzi il proconsole ad essere scosso, ed inviò un araldo in mezzo allo stadio ad annunciare tre volte: Policarpo ha confessato di essere cristiano. Appena l’araldo lo annunciò, tutta la folla di pagani e di Giudei abitanti a Smirne urlò a gran voce con ira incontenibile: « Questo è il maestro dell’Asia, il padre dei Cristiani, il distruttore dei nostri dei, colui che insegna a molti a non sacrificare e a non adorarli ». Così dicendo, urlarono e chiesero all’asiarca Filippo di lasciar libero un leone contro Policarpo, ma egli rispose che non gli era permesso perché lo spettacolo delle belve si era concluso. Allora pensarono bene di reclamare tutti a gran voce che Policarpo fosse bruciato vivo. Doveva così avverarsi la visione del cuscino che gli apparve mentre pregava, quando lo vide bruciare, e rivolto ai fedeli che erano con lui, profetizzò: « Devo essere bruciato vivo ». Il che avvenne quasi prima che fosse detto, giacchè la folla raccolse immediatamente dalle botteghe e dalle terme legna e fascine, e si prodigarono con alacrità soprattutto i Giudei, come era loro abitudine. Appena il rogo fu pronto, dopo essersi levato da solo tutti gli abiti, sciolto il cinto, prese a levarsi anche i calzari, cosa che prima non faceva mai da sé, perché ogni fedele cercava di farlo per primo: a causa della sua santità, venne infatti onorato in tutto ancora prima della vecchiaia. Quindi gli si misero subito intorno i materiali adatti al rogo. Quando fecero per inchiodarlo, disse: « Lasciatemi così. Perché colui che mi concede di sopportare il fuoco, mi concederà anche di resistere fermo sul rogo senza bisogno dei vostri chiodi ». Allora non lo inchiodarono, ma lo legarono. Messe le mani dietro alla schiena, fu legato, come un montone scelto da un grande gregge in olocausto accetto a Dio onnipotente, e disse: « Padre del tuo amato e benedetto Figlio Gesù Cristo, per mezzo del quale ti abbiamo conosciuto, Dio degli angeli e delle potestà, ti benedico per avermi ritenuto degno di questo giorno e di questo momento, rendendomi partecipe, nel numero dei martiri, del calice del tuo Cristo per la risurrezione dell’anima e del corpo nella vita eterna e nell’incorruttibilità dello Spirito Santo. Possa io oggi essere accolto fra loro innanzi a te in un sacrificio pingue e gradito, quale tu stesso mi hai preparato e manifestato e porti ora a compimento, Dio verace e leale. Perciò io ti lodo anche per tutte le cose, ti benedico, ti rendo gloria per mezzo dell’eterno gran sacerdote Gesù Cristo tuo Figlio diletto, e per mezzo suo sia gloria a te in unione con Lui nello Spirito Santo ora e sempre nei secoli venturi, amen ».
Pronunciato l’amen e terminata la preghiera, gli addetti appiccarono il fuoco, e mentre divampava una grande fiamma assistemmo ad un miracolo, noi a cui fu dato di vedere e che fummo serbati per raccontare agli altri ciò che avvenne. Il fuoco, infatti, prese forma di volta, come una vela di nave gonfiata dal vento, e circondò il corpo del martire, che vi era in mezzo non come carne che bruciava, ma come oro e argento arroventati in una fornace. E noi sentimmo un odore acuto come il profumo d’incenso o di altri aromi preziosi. Quei malvagi, infine, vedendo che il fuoco non riusciva a consumare il suo corpo, ordinarono ad un confector (l’esecutore, colui che nell’arena ‘finiva’ il lottatore o la belva già ferita) di andare a conficcarvi una spada. Fatto questo, ne uscì una tale quantità di sangue, che il fuoco si spense e tutta la folla stupì di una così grande differenza tra i non credenti e gli eletti, uno dei quali fu certamente il meraviglioso Policarpo, maestro apostolico e profetico nostro contemporaneo, vescovo della Chiesa di Smirne: ogni parola che uscì dalla sua bocca si è avverata e si avvererà. Ma il Maligno, rivale astuto, avversario della stirpe dei giusti, vedendo la grandezza del suo martirio, la sua condotta da sempre irreprensibile, la corona d’incorruttibilità da cui era cinto, il premio incontestabile ottenuto, si adoperò perché almeno il suo cadavere non fosse raccolto da noi, malgrado molti desiderassero farlo. Alcuni suggerirono quindi a Niceta, padre di Erode e fratello di Alce, di supplicare il governatore perché non consegnasse il suo corpo, ‘per timore’ disse ‘che si mettano a venerare costui, dimenticando il Crocifisso’. Dissero questo consigliati ed istigati dai Giudei, che ci spiavano quando stavamo per toglierlo dal rogo, perché non sanno che noi non potremo mai né abbandonare Cristo, che subì la passione per la salvezza di coloro che nel mondo intero sono salvati, né venerare qualcun altro. Perché Lui, noi l’adoriamo in quanto Figlio di Dio, mentre i martiri, li amiamo giustamente in quanto discepoli ed imitatori del Signore a causa del loro insuperabile amore per il proprio re e maestro. Voglia il cielo che anche noi possiamo essere loro compagni e condiscepoli! Il centurione, allora, vedendo la contesa provocata dai Giudei, fatto mettere il cadavere in mezzo, secondo la loro abitudine ordinò di bruciarlo.

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