«O TIMOTEO, CUSTODISCI IL DEPOSITO»
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«O TIMOTEO, CUSTODISCI IL DEPOSITO»
Le Lettere pastorali di san Paolo mostrano che la custodia del depositum fidei è garantita dall’azione dello Spirito Santo, attraverso la grazia dell’imposizione delle mani e la grazia che risplende nelle opere buone. Eppure proprio queste Lettere, che costituiscono il fondamento della Chiesa-istituzione, «non isolano più la Chiesa dal mondo profano, al contrario ve la impiantano con un ottimismo e una sicurezza rimarchevoli». Riproponiamo alcune pagine del commentario di Ceslas Spicq alle Lettere pastorali
di Lorenzo Cappelletti
Da parecchi mesi l’espressione deposito della fede o il suo equivalente latino depositum fidei campeggia in titoli e articoli di 30Giorni. Ma il copyright non è di 30Giorni. «O Timoteo, custodisci il deposito» è la raccomandazione finale fatta da san Paolo nella prima Lettera indirizzata al suo discepolo prediletto. Ripetuta, poco prima di andare incontro al martirio, nella seconda Lettera. Prima di allora quell’espressione non era stata mai usata da san Paolo (e neanche dagli altri scrittori neotestamentari). Proprio nel momento in cui il suo sangue stava per essere sparso, san Paolo avvertiva che poteva disperdersi il tesoro che come un vaso debole eppure forte aveva custodito. Come avvertì quell’altro Paolo più vicino a noi quando scrisse il Credo del popolo di Dio. La grande alternativa – è stato scritto di recente – per la vita di un uomo e di un popolo è, infatti, tra ideologia e tradizione.
Forse non è appena un caso che le cosiddette Lettere pastorali (denominazione che insieme alle due Lettere a Timoteo ricomprende anche quella a Tito) siano venute di recente alla ribalta. Ad esse è stato dedicato il convegno dell’Associazione biblica italiana tenutosi lo scorso settembre a Termoli, la cittadina molisana che custodisce le reliquie di Timoteo nel suo Duomo incantevole. In attesa che vengano pubblicati gli atti di quel convegno ci facciamo accompagnare nella lettura di qualche brano di quelle Lettere dal grande esegeta domenicano Ceslas Spicq. È suo infatti il commento, apparso in terza edizione giusto cinquant’anni fa (Saint Paul. Les Épîtres pastorales, Éd. Gabalda, Paris 1947), che anche gli eminenti studiosi che si sono succeduti dopo di lui non possono fare a meno di tenere a modello.
Il deposito
«O Timoteo, custodisci il deposito; evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosiddetta gnosi, professando la quale taluni hanno deviato dalla fede» (1Tm 6, 20).
Può essere di aiuto anzitutto capire cosa sia l’istituto giuridico del deposito, al quale si ispira san Paolo. «A Roma “c’è deposito quando si mette una cosa al sicuro presso una persona che si impegna a custodirla e a renderla quando gliela si richiederà”. A differenza della cessione in modo fiduciario, dove c’è un vero trasferimento di proprietà, non c’è nel deposito che una cessione provvisoria di detenzione. Il depositario non possiede per sé stesso ma per il depositante; non è che un custode e conserva i beni a disposizione del tradens, che conserva i diritti legati alla proprietà. Peraltro, come il contratto di fiducia, il deposito si fa volentieri presso un amico che lo conserva gratuitamente. A lungo il deposito effettuato attraverso la semplice consegna (traditio), fu sprovvisto d’efficacia giuridica, essendo un atto senza forma» (p. 331).
Colpito evidentemente dalle caratteristiche di questo istituto, che come contratto «era una novità [datava infatti solo dall’epoca del triumvirato di Ottaviano] e una novità assai sorprendente perché è uno dei primi contratti non solenni» (p. 329), san Paolo lo adotta proprio nel momento del massimo pericolo per la fede. «Fino a quel momento l’Apostolo aveva insistito soprattutto sulla fedeltà al suo ministero, sulla lealtà verso i suoi discepoli; ora è condotto dal pericolo delle nascenti eresie a considerare l’integrità della dottrina per sé stessa, della quale è stato stabilito “araldo, apostolo e maestro”. L’ha ricevuta con incarico di trasmetterla, non gli appartiene. Presentendo la sua prossima fine, Paolo percepisce più vivamente ancora la responsabilità che gli incombe di custodire intatto questo tesoro; fino al termine fissato egli deve preservare la parola di Dio (1Tm 4, 6) da ogni errore e corruzione. È, infatti, un deposito che Dio gli ha confidato ed è prossimo il giorno in cui il divino creditore gliene chiederà conto. Questo deposito Paolo l’ha ricevuto da Dio, e più precisamente da Cristo, sulla strada per Damasco. Visto che questo contratto reale non presupponeva, in origine, per il suo modo di formazione che una semplice rimessa del possesso dei beni, è dunque al momento di questo incontro iniziale che è nato fra il Signore e il suo apostolo questo accordo – l’accordo delle loro due volontà – generatore d’obbligazione fin dal momento della trasmissione dell’oggetto affidato. Il contenuto di questo deposito è il Vangelo. La legge non autorizzava, salvo stipulazioni contrarie, alcun uso dei beni affidati. Ora, l’Apostolo non si è mai considerato che come un amministratore, un dispensatore, dei misteri divini (1Cor 4, 1). A differenza dei maestri che insegnano una dottrina originale, frutto di loro speculazioni, egli non è che un delegato. Quel che predica non lo inventa, non lo trasforma, l’ha appreso e ricevuto e deve trasmettere intatto – come un deposito – questo tesoro che è la parola divina ovvero l’oggetto della fede [...]. Ha terminato la corsa, il momento della sua dipartita è arrivato (2Tm 4, 6-8); esorta Timoteo a vegliare sul deposito che gli trasmette; è suonata l’ora in cui sta per comparire davanti a Dio che giudicherà il suo fedele depositario» (pp. 332-333).
Ma sarà sufficiente l’esortazione di Paolo perché Timoteo, giovane e timido per natura, possa conservare il deposito?
«Con l’ordine di conservare il deposito, Paolo indica il mezzo di esservi fedele. Il compito non è facile. Molti hanno abbandonato la fede e l’Apostolo stesso sta per andarsene, ma lo Spirito Santo dimora nella Chiesa e illuminerà e fortificherà i suoi ministri (cfr. 2Tm 1, 7). San Paolo non ne dubita (cfr. 2Tm 1, 12). Questi due ultimi versetti fondano l’insegnamento cattolico relativo alla tradizione. Gli apostoli hanno ricevuto dal Signore la verità cristiana; loro stessi l’hanno trasmessa oralmente, specialmente ai loro collaboratori e ai loro successori nel ministero; ma questi ultimi hanno il dovere di conservarla in tutta la sua purezza e di non comunicarla a loro volta che a degli uomini provati e capaci di assicurare una nuova trasmissione (cfr. 2Tm 2, 2). Ora, questa conservazione e questa trasmissione non possono essere garantite a sufficienza dalle forze umane. È lo Spirito Santo che le preserva da ogni alterazione e da ogni deviazione e, secondo il versetto 7, si può precisare che questa azione dello Spirito Santo si esercita con una efficacia particolare nei membri della gerarchia ecclesiastica» (p. 320). In altre parole, Timoteo dovrà e potrà fare appello alla grazia dell’ordinazione ricevuta da Paolo stesso, che gli scrive:
«6Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani. 7Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. 8Non vergognarti dunque della testimonianza da rendere al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio. 9Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, 10ma è stata rivelata solo ora con l’apparizione del salvatore nostro Cristo Gesù, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del vangelo, 11del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro.
12È questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto e son convinto che egli è capace di conservare il mio deposito fino a quel giorno. 13Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù. 14Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi» (2Tm 1, 6-14).
In questo come nell’altro passaggio (1Tm 4, 14) in cui rammenta a Timoteo l’imposizione delle mani, «san Paolo designa il dono divino così comunicato con la medesima parola. Tale parola non è impiegata nelle Lettere pastorali che in questi due testi sull’ordinazione. Come nelle lettere precedenti, essa designa una specie particolare di grazia, che mette in rilievo un aspetto della sua gratuità; è donata meno per il beneficio del soggetto che per il bene della comunità cristiana, “l’utilità comune” (1Cor 12, 7), per edificare la Chiesa (1Cor 14, 12)» (p. 325). Spicq cita in nota, a questo proposito, il padre Lemonnyer, autore della voce Carismi nel Supplément au Dictionnaire de la Bible: «Questo carisma, la cui ricezione ha fatto di Timoteo il personaggio ufficiale che è, è il carattere sacramentale dell’Ordine. Il sacramento dell’Ordine, generatore della gerarchia ecclesiastica, e il sacramento della Confermazione, con cui sono costituiti i milites Christi, sono essenzialmente dei sacramenti carismatici. La gerarchia sacra è fatta di autorità e di capacità ugualmente soprannaturali. Questa capacità è stata sempre identificata in primo luogo col carattere impresso dall’Ordine a tutti quelli che lo ricevono, in qualunque grado, e che a dire di san Tommaso è una potentia, quasi una facoltà soprannaturale, un carisma di rango più elevato che abilita i membri della gerarchia a tutte le funzioni del loro ufficio. Al quale eventualmente s’aggiunge la concessione extra-sacramentale di carismi complementari: apostoli, dottori, predicatori, pastori etc. Ben lungi dall’essere fondata sulla scomparsa dei carismi, la gerarchia da sempre è fondata su dei carismi» (p. 325 nota 1).
«Bisogna sottolineare che il dono di Dio… in te…; Dio ci ha dato uno Spirito… (2Tm 1, 6. 7) non è senza legame con il deposito la cui conservazione si fa attraverso lo Spirito Santo che abita in noi (2Tm 1, 14). [...] Vuol dire che l’ordinazione assicura la perpetuità della dottrina ortodossa; questa è un legato santo, un “deposito”. La sua integrità in parte dipende senza dubbio dalla docilità e dalla fedeltà dei predicatori, non insegnare dottrine diverse(1Tm 1, 3); ma alla fin fine lo Spirito Santo ne è il primo custode e solo può preservare i ministri cristiani dall’errore. Si è dunque in diritto di identificare in qualche modo la grazia trasmessa con l’imposizione delle mani con l’azione immanente dello Spirito Santo che garantisce il deposito della fede da ogni pericolo d’alterazione. I pastori e i predicatori, avendo ricevuto il carisma dell’ordinazione, godono dell’assistenza dello Spirito Santo nella diffusione e nella conservazione della verità evengelica: «Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità (1Tm 3, 15). Questo è il fondamento della dottrina cattolica sulla tradizione orale come norma della fede. Avendo ricevuto l’imposizione delle mani Timoteo ha la sicurezza di avere sempre la forza e l’attitudine soprannaturali per compiere degnamente il suo ufficio evangelico» (pp. 325-326). Spicq esplicita ulteriormente: «Non si tratta tanto di sforzi ascetici per acquisire un’energia umana, una forza di carattere, quanto della fedeltà alla grazia dell’ordinazione (2Tm 1, 6.7.8.12). Timoteo dovrà mettere in opera i poteri e la forza soprannaturali che ha ricevuto, esercitarli al meglio, a dispetto delle sofferenze e delle fatiche penose che comporta il suo ministero; ma per l’Apostolo con la grazia si può tutto!» (p. 340).
Ecumenismo
Le Lettere pastorali mostrano dunque che la custodia del deposito è garantita dal carattere sacramentale dell’istituzione ecclesiastica. Eppure proprio queste Lettere che costituiscono il fondamento della Chiesa-istituzione (pare un paradosso) «non isolano più la Chiesa dal mondo profano, al contrario ve la impiantano con un ottimismo e una sicurezza rimarchevoli. L’esperienza ha provato che ogni cristiano è chiamato a vivere in mezzo ai suoi vecchi compagni d’errore e di peccato. Lungi dal disprezzarli e dal combatterli, si mostrerà loro come un uomo trasformato dalla grazia» (p. CXCVIII). Nelle Lettere pastorali si esprime al massimo grado l’ecumenismo di Paolo. Come si mostra in particolare in 1Tm 2, 1-5:
«1Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, 2per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. 3Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, 4il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. 5Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, 6che ha dato sé stesso in riscatto per tutti».
Commenta Spicq, citando san Giovanni Crisostomo: «Bisogna rendere grazie a Dio anche dei beni che egli accorda agli altri, per esempio che faccia risplendere il suo sole sui cattivi e sui buoni, che faccia piovere sui giusti e sugli ingiusti. Vedi come l’Apostolo non solo con le suppliche ma con l’azione di grazie ci unisce e ci lega insieme» (p. 53). E prosegue: «Tutte queste preghiere non sono limitate a interessi personali, né a una cerchia ristretta di fedeli; hanno di mira il prossimo e avranno un’applicazione universale “per tutti gli uomini”. Questo universalismo è una caratteristica del culto “cattolico”. La preghiera ha la stessa estensione della carità; l’una e l’altra lo stesso universalismo della salvezza (cfr. 1Tm 1, 15; Tt 2, 11). Non c’è nessuno, di qualsivoglia nazione o religione, per il quale la Chiesa non debba pregare, nessuno, nemmeno uno scomunicato di cui almeno l’esistenza non sia un motivo di rendere grazie a Dio» (p. 53). Commentando poi il versetto 3 («Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio»), Spicq aggiunge: «Questa intercessione che il popolo cristiano compie come un sacerdozio regale in favore di tutti gli uomini è una cosa a un tempo moralmente buona, eccellente in sé stessa, come un’opera eminente di carità, e bella e gradita al cospetto di Dio – hapax nel NT – può essere considerato come esplicativo di cioè “bello a vedersi”), perché è la migliore cooperazione che ci sia al piano divino di salvare gli uomini» (p. 57).
Le opere belle cioè buone
L’aggettivo “bello” è il vocabolo che più caratterizza le Pastorali. Delle 44 ricorrenze di esso nel corpus paolinum, ben 24 (più della metà) appartengono alle Pastorali. Tanto che Spicq si meraviglia di come proprio in età ormai avanzata «questa bellezza sembri essere diventata agli occhi di san Paolo una nota distintiva della vita cristiana, un’espressione della nuova fede; tutte le età, tutte le condizioni, ogni sesso, sono come rivestiti di bellezza» (p. 290). Ciò è tanto più notevole dal momento che «Aristotele ritiene che i vecchi non vivono più per il bello (cfr. Retorica II, 13, 1389b, 36); è un segno della forza di rinnovamento e di ringiovanimento della grazia nell’anima dell’Apostolo» (p. 290 nota 1). È «la prova estetica della speranza», scriveva Massimo Borghesi nel numero scorso di 30Giorni (n. 12, dicembre 1997, p. 84). Che si rivela, come abbiamo visto sopra, nella preghiera, come prima opera di carità, e nella carità in senso stretto, cioè in quelle buone opere cui proprio «le Lettere pastorali hanno donato il senso tecnico che la tradizione cristiana ha conservato [...], identificandole giustamente con le opere di misericordia» (pp. 294 e 282), scrive Spicq commentando la Lettera a Tito 3, 3-8:
«3Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda. 4Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, 5egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, 6effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, 7perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna. 8Questa parola è degna di fede e perciò voglio che tu insista in queste cose, perché coloro che credono in Dio si sforzino di essere i primi nelle opere buone. Ciò è bello e utile per gli uomini».
Tito, che era di origine pagana, conosceva per esperienza il valore di queste parole. «Com’è possibile», si chiede Spicq nel commento a questo brano, «fare da un pagano un cristiano? È l’opera della sola grazia, gratis et gratiose. Il versetto Tt 3, 4 è parallelo a Tt 2, 11. Come i doveri reciproci dei cristiani erano fondati sull’iniziativa e la forza educatrice [Spicq più avanti parlerà, in contrasto con la pretesa pelagiana, di una «paideia della grazia» (p. 282)] della grazia di Dio in Cristo, così i doveri dei cristiani di fronte al mondo sono fondati sulla bontà e l’amore di Dio per gli uomini [...]. È l’amore di Dio per gli uomini la causa della conversione di pagani ciechi e peccatori a una vita santa. Questo amore s’è manifestato concretamente in un momento storico e sotto una duplice forma che contrasta con l’odio e la gelosia degli uomini gli uni per gli altri; mentre essi si detestavano, Dio li amava tutti teneramente e voleva loro bene. Anzitutto la benignità. Secondo l’etimologia, significa “quello di cui ci si può servire” e si impiega specialmente per gli alimenti di buona qualità [...]. La è dunque una delicata amabilità, ma implica anche liberalità» (p. 275). E poi la, cioè «una simpatia efficace; equivale al latino humanitas, che significa rispetto per l’uomo in quanto uomo [...]. Dunque un sinonimo di ma accentuando l’universalità di questo favore» (p. 276).
Preghiera, benignità, rispetto per l’uomo in quanto uomo: cose belle, cioè buone, gradite al cospetto di Dio.
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