OMELIA VI DOMENICA DEL T.O. : « MOSSO A COMPASSIONE… GLI DISSE: LO VOGLIO, GUARISCI! »
15 FEBBRAIO 2015 | 6A DOMENICA – T. ORDINARIO B | APPUNTI PER LA LECTIO
« MOSSO A COMPASSIONE… GLI DISSE: LO VOGLIO, GUARISCI! »
Anche oggi la lebbra è una malattia che fa paura, anzi ribrezzo. E questo per un doppio motivo: per la orrenda deformazione che apporta all’organismo umano e per la sua potenziale contagiosità.
« Il lebbroso porterà vesti strappate e il capo scoperto »
Secondo la concezione ebraica, la lebbra era la « primogenita della morte » (Gb 18,13), nel senso che la esprimeva e anche la procurava nella forma più cruda e ripugnante. Il Levitico, nella sua legislazione dell’impurità, dedica due capitoli a questa malattia e alle purificazioni rituali alle quali erano tenuti i lebbrosi (cc. 13-14). Chi ne veniva colpito, doveva tenersi separato dagli altri e non poteva avvicinarsi a nessuno. È quanto leggiamo nella prima lettura di questa 6ª Domenica del tempo ordinario: « Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: « Immondo! Immondo! »… » (Lv 13,45-46).
E non sembra che queste fossero solo prescrizioni astratte. La realtà, anzi, proprio per l’istintivo ribrezzo che ognuno prova davanti a tale malattia, sembra che andasse oltre la stessa prescrizione giuridica.
Giuseppe Flavio, che scrive poco dopo i tempi del Signore, conferma questa impietosa « emarginazione » dei lebbrosi dal consorzio umano: « I lebbrosi perciò stavano sempre fuori delle città; dal momento che essi non potevano incontrare nessuno, non erano in nulla diversi da un cadavere ». Dei « cadaveri » ambulanti, dunque, e nulla più!
La loro situazione poi si aggravava se si pensa che, dato l’intimo rapporto fra spirituale e materiale, proprio della concezione veterotestamentaria, i lebbrosi venivano considerati come colpevoli di gravi peccati: per questo perciò Dio li puniva. Maledetti, dunque, da Dio e dagli uomini!
Ai motivi igienici si aggiungevano pertanto motivi di carattere religioso ad aggravare la situazione del lebbroso. Anche i monaci di Qumran escludevano dalla loro congregazione chiunque fosse stato colpito da lebbra.
« Se vuoi, puoi guarirmi »
Tutto questo ci può aiutare a capire meglio la novità dirompente e « provocatoria » del gesto di Gesù, non tanto e solo nel guarire il lebbroso, quando piuttosto nelle modalità e nei sentimenti che tale guarigione hanno accompagnato e che Marco, anche a distanza di tempo, sembra riferire quasi con sofferenza e in una forma letteraria contorta e, almeno apparentemente, contraddittoria.
La prima parte del racconto è semplice e solenne nello stesso tempo: un lebbroso, andato da Gesù, « lo supplicava in ginocchio e gli diceva: « Se vuoi, puoi guarirmi! ». Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: « Lo voglio, guarisci! ». Subito la lebbra scomparve ed egli guarì » (vv. 40-42).
Quello che colpisce in questa scena, oltre alla fede del lebbroso che si affida tutto alla benevolenza del Signore (« Se vuoi »), è il senso di umanità e di sofferenza che afferra Gesù davanti a quel relitto umano. A differenza degli altri Sinottici, infatti, solo Marco annota che egli fu « mosso a compassione » (v. 41), con un verbo greco che dice una sofferenza che commuove « fino alle viscere » (splanchnisthèis).
Secondo una lettura di diversi manoscritti, appartenenti alla recensione occidentale e che alcuni studiosi preferiscono, più che da compassione Gesù sarebbe stato preso da una « collera » violenta (orghisthèis): in questo caso si vorrebbe esprimere quel misto di sofferenza, di ripugnanza, di irritazione e di reazione davanti a situazioni ingiuste o penose. Se la lettura è giusta, come personalmente inclino a credere, la « collera » di Gesù non va contro il lebbroso in quanto tale, ma contro l’orrore del male che lo dilania e contro l’ingiustizia della società che lo emargina.
Per conto proprio, Gesù compie dei gesti che vanno contro la Legge, come lo « stendere la mano » e il « toccare » l’immondo (v. 41), che però viene guarito: « Lo voglio, guarisci! ». La potenza della sua parola, congiunta alla « partecipazione », direi quasi « sacramentale », di tutta la sua persona (sofferenza interiore, contatto fisico), opera il prodigio della guarigione, che è come una specie di « risurrezione » dai morti e perciò è sentita come particolarmente importante: la divulgazione, addirittura esagerata, che ne farà il lebbroso, nonostante il divieto di Gesù (v. 45), questo appunto vuol mettere in evidenza.
« E, ammonendolo severamente, lo rimandò »
Nella seconda parte del racconto abbiamo degli elementi narrativi tipici di Marco, che creano difficoltà all’esegeta e quasi certamente nascondono un preciso intento teologico dell’evangelista. C’è un insieme di contrasti che creano « tensione » nel rapido quadro narrativo. Ad esempio, per un verso Gesù proibisce al lebbroso di raccontare l’accaduto, ma nello stesso tempo gli ordina di « presentarsi al sacerdote » e di offrire il sacrificio per la « purificazione » dalla lebbra, come era prescritto dal Levitico (14,1-32), « a testimonianza per loro » (v. 44); il lebbroso non osserva il comando del Signore né l’evangelista sembra volerlo biasimare per questo, ma quasi compiacersene per la fama procurata a Gesù: « Ma quegli, allontanandosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte » (v. 45).
Soprattutto ci sono due espressioni iniziali, esclusive di Marco, che sembrano quasi esprimere una specie di pentimento o di irritazione di Gesù: « E, ammonendolo severamente, lo rimandò (letteralmente: « lo cacciò ») e gli disse: « Guarda di non dir niente a nessuno… »" (vv. 43-44).
Che senso hanno queste strane espressioni di Marco, che ci aprono come un varco negli atteggiamenti interiori di Gesù?
Si può solo tentare di darne una spiegazione di carattere psicologico, che però forse rimane molto al di qua del vero. È la lebbra in quanto malattia ripugnante ed emarginante che quel povero infelice, anche se ormai guarito, richiama alla mente di Gesù; è quello che tale malattia significa di sofferenza anche per il possibile futuro reinserimento del miracolato nella società; è forse, soprattutto, il fatto che in quel lebbroso Gesù legge il suo futuro destino di « servo sofferente di Jahvè », che gli uomini metteranno come al bando e sfigureranno fino al punto di essere irriconoscibile, « come uno davanti al quale ci si copre la faccia », come un lebbroso, appunto, « percosso da Dio ed umiliato » (Is 53,3-4).
È tutto questo insieme di sensazioni drammatiche che Gesù prova, nel momento stesso in cui compie il miracolo, che gli fanno assumere un atteggiamento come di sofferenza e di ribellione interiore per la cattiveria degli uomini che, sordi a istanze più profonde di amore e di giustizia, perderanno ancora tempo a discettare sul « puro » e sull’ »impuro » comportato dalla lebbra, e prenderanno pretesto anche da un gesto di sofferta carità da parte di Gesù per « iniziare » contro di lui quella sorda opposizione che lo porterà alla morte di croce.
« Guarda di non dir niente a nessuno »
« Ancora una volta il modo in cui Marco riporta questa breve storia ci interpella nettamente. La presenza della potenza di Dio viene descritta in modo quasi inquietante: gli basta toccare per guarire e la sua potenza non può essere nascosta. Al tempo stesso però appare chiaro che la mera fede nel miracolo non è decisiva, finché non si è disposti a lasciarsi donare l’autentico dono di Gesù che travalica tutte le frontiere tra puro e impuro, fra popolo di Dio e forestieri. Questo è il motivo della terribile ira di Gesù e del suo ordine di tacere. A questo modo Marco chiede al lettore se vuol veramente abbandonarsi a questo incontro con Dio in Gesù e lasciare distruggere le tradizionali frontiere. La Chiesa antica ha sentito qualcosa di questa intenzione di Marco, quando ha messo in bocca al lebbroso ancora queste parole riportate da un antico papiro: « Signore Gesù, tu che passeggi con i lebbrosi e mangi nella locanda… »".
Per il resto, la « tensione », a cui poco sopra si è fatto riferimento, si inquadra nella tematica del « segreto messianico », di cui si è già parlato nel commento al Vangelo della Domenica precedente.
Così si presentò Gesù di Nazaret ai suoi contemporanei, come un « segno di contraddizione »: un potente annunciatore di Dio, e per di più taumaturgo e guaritore, al quale gli uomini accorrevano in folla, e che tuttavia manteneva una singolare distanza dal popolo, rimanendo incomprensibile agli uomini. Solo il seguito della sua vita, culminante nella passione, morte e risurrezione, avrebbe potuto dare significato « pieno » a quello che già adesso stava facendo e insegnando: fino a quel momento, il più di lui non poteva non rimanere avvolto nel « mistero ». Di qui le sue precauzioni perché, oltre tutto, il senso della sua missione allora, come del resto anche oggi, non fosse « distorto ».
« Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo »
La brevissima seconda lettura conchiude la lunga trattazione di san Paolo sul problema della carne immolata agli idoli (« idolotìti »), per risolvere il quale aveva enunciato due princìpi fondamentali: il primo, quello della « libertà », invitava a superare ogni formalismo ritualistico, dato appunto che gli « idoli » non esistono (1 Cor 8,4-6), e perciò quella carne era carne comune, che si poteva tranquillamente mangiare; il secondo, quello della « carità », invitava al rispetto della coscienza « debole » del fratello, astenendosi dal mangiare di quella carne qualora ciò avesse scandalizzato qualcuno.
Riassumendo adesso il suo discorso ed ampliandolo anche a tanti altri casi, l’apostolo ricorda che determinante in ogni nostra azione è la ricerca esclusiva della « gloria » di Dio, anche se ciò potrà costarci rinunce e sacrifici.
« Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio…; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare l’utile mio ma quello di molti, perché giungano alla salvezza » (1 Cor 10,31-32). È a questo punto che l’apostolo aggiunge l’invito ad « imitare » questo suo atteggiamento di carità, così come egli si sforza di seguire l’esempio di Cristo (1 Cor 11,1).
Riportato tutto questo all’episodio della guarigione del lebbroso, vediamo facilmente quanto cammino abbiamo da fare per estendere la nostra « carità » oltre tutti i confini del facile, dell’usuale, del quotidiano, affrontando, se necessario, anche i casi nuovi, non previsti, magari anche dirompenti, come fece Gesù in quella occasione.
Da CIPRIANI S., Convocati dalla Parola
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