Archive pour janvier, 2015

The Jesse Tree in the Lambeth Psalter, unknown English miniaturist, (1140s)

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IL TESORO NASCOSTO DI PAPA RATZINGER: LE OMELIE SUL BATTESIMO – di Sandro Magister

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350270

IL TESORO NASCOSTO DI PAPA RATZINGER: LE OMELIE SUL BATTESIMO

L’ultima è di pochi giorni fa, quindicesima della serie. Con un passaggio folgorante contro le « pompe del diavolo » che trionfano nella mentalità corrente. Uno « spettacolo » al quale ogni battezzato ha promesso di rinunciare

di Sandro Magister

ROMA, 18 giugno 2012 – È passata quasi inosservata al grande pubblico. Ma la « lectio divina » che Benedetto XVI ha tenuto la sera di lunedì 11 giugno nella basilica di San Giovanni in Laterano, la cattedrale di Roma, è stata uno dei momenti più alti di quel capolavoro d’insieme che sono le sue omelie sul Battesimo.
Che Benedetto XVI sia destinato a passare alla storia per la sua predicazione liturgica, come prima di lui papa Leone Magno, è un’ipotesi ormai più che consolidata.
Ma nel grande « corpus » della sue omelie, quelle dedicate al Battesimo hanno un posto di rilevanza unica.
Il mandato a battezzare « nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo » è nelle ultime parole di Gesù su questa terra. La Chiesa le ha prese tremendamente sul serio, ed è così che genera i suoi figli, da sempre. Di conseguenza, il Battesimo è l’atto di nascita e il documento d’identità di ogni cristiano.
Per questo è così centrale nella predicazione di Benedetto XVI. In un’epoca di diffuso analfabetismo religioso, di fede tremolante e di battesimi in calo nei paesi di antica cristianità, papa Joseph Ratzinger vuole ripartire dai fondamenti della vita cristiana e restituirli allo sguardo di tutti nella loro splendente bellezza.
Le sue omelie battesimali ne sono un esempio lampante. E così la « lectio divina » che ha tenuto lo scorso 11 giugno ai fedeli di Roma che gremivano la cattedrale.
Benedetto XVI ha parlato a braccio, come gli antichi Padri della Chiesa. Sopra di lui gli ascoltatori potevano ammirare, al centro dell’antico mosaico dell’abside, una croce gemmata dalla quale scaturivano fiumi di acqua viva.
Ed è stato proprio il nesso tra il Battesimo e la croce uno dei punti salienti della « lectio divina » del papa, che ha preso le mosse dal « mandato » dato da Gesù agli apostoli prima di salire al cielo: « Andate, fate discepoli tutti i popoli e battezzateli nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo ».
Un altro passaggio della « lectio » che ha molto colpito i presenti è là dove il papa ha ridato significato e freschezza attuale a un’antica formula del rito: la rinuncia del battezzando « a Satana e alle sue pompe », formula oggi annacquata in rinuncia « alle seduzioni del male ».
Da quando è stato eletto papa, sette anni fa, Benedetto XVI ha amministrato il Battesimo quattordici volte, ogni volta dedicandovi l’omelia.
Sette volte nella domenica che ogni anno segue l’Epifania, la domenica che festeggia il Battesimo di Gesù nel Giordano.
E altre sette volte nella veglia pasquale.
Nel primo caso battezzando dei bambini, quasi sempre di Roma, nella Cappella Sistina, e nel secondo caso battezzando degli adulti, provenienti da ogni parte del mondo, nella basilica di San Pietro.
Ecco qui di seguito la trascrizione integrale della « lectio divina » tenuta dal papa nella basilica di San Giovanni in Laterano l’11 giugno 2012, aprendo un convegno della diocesi di Roma, la sua diocesi, dedicato precisamente al Battesimo e alla sua « pastorale ».
Ma a seguire, il lettore troverà i link all’intero « corpus » delle omelie battesimali di Benedetto XVI: le sette da lui fin qui pronunciate nelle domeniche del Battesimo di Gesù e le altre sette delle veglie pasquali.
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IMMERSI NEL PADRE, NEL FIGLIO, NELLO SPIRITO SANTO

di Benedetto XVI
Cari fratelli e sorelle, [...] le ultime parole del Signore su questa terra ai suoi discepoli, sono state: « Andate, fate discepoli tutti i popoli e battezzateli nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo » (cfr. Mt 28, 19).
Fate discepoli e battezzate. Perché non è sufficiente per il discepolato conoscere le dottrine di Gesù, conoscere i valori cristiani? Perché è necessario essere battezzati? Questo è il tema della nostra riflessione, per capire la realtà, la profondità del sacramento del Battesimo.
Una prima porta si apre se leggiamo attentamente queste parole del Signore. La scelta della parola « nel nome del Padre » nel testo greco è molto importante: il Signore dice « eis » e non « en », cioè non « in nome » della Trinità, come noi diciamo che un viceprefetto parla « in nome » del prefetto, un ambasciatore parla « in nome » del governo. No. Dice: « eis to onoma », cioè una immersione nel nome della Trinità, un essere inseriti nel nome della Trinità, una interpenetrazione dell’essere di Dio e del nostro essere, un essere immerso nel Dio Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, così come nel matrimonio, per esempio, due persone diventano una carne, diventano una nuova, unica realtà, con un nuovo, unico nome.
Il Signore ci ha aiutato a capire ancora meglio questa realtà nel suo colloquio con i sadducei circa la risurrezione. I sadducei riconoscevano dal canone dell’Antico Testamento solo i cinque Libri di Mosè e in questi non appare la risurrezione; perciò la negavano. Il Signore, proprio da questi cinque Libri dimostra la realtà della risurrezione e dice: Voi non sapete che Dio si chiama Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe? (cfr. Mt 22, 31-32).
Quindi, Dio prende questi tre e proprio nel suo nome essi diventano « il » nome di Dio. Per capire chi è questo Dio si devono vedere queste persone che sono diventate il nome di Dio, un nome di Dio, sono immersi in Dio. E così vediamo che chi sta nel nome di Dio, chi è immerso in Dio, è vivo, perché Dio – dice il Signore – è un Dio non dei morti, ma dei vivi, e se è Dio di questi, è Dio dei vivi. I vivi sono vivi perché stanno nella memoria, nella vita di Dio.
E proprio questo succede nel nostro essere battezzati: diventiamo inseriti nel nome di Dio, così che apparteniamo a questo nome e il suo nome diventa il nostro nome e anche noi potremo, con la nostra testimonianza – come i tre dell’Antico Testamento –, essere testimoni di Dio, segno di chi è questo Dio, nome di questo Dio.
Quindi, essere battezzati vuol dire essere uniti a Dio. In un’unica, nuova esistenza apparteniamo a Dio, siamo immersi in Dio stesso.
Pensando a questo, possiamo subito vedere alcune conseguenze.
La prima è che Dio non è più molto lontano per noi, non è una realtà da discutere – se c’è o non c’è –, ma noi siamo in Dio e Dio è in noi. La priorità, la centralità di Dio nella nostra vita è una prima conseguenza del Battesimo. Alla questione: « C’è Dio? », la risposta è: « C’è ed è con noi; c’entra nella nostra vita questa vicinanza di Dio, questo essere in Dio stesso, che non è una stella lontana, ma è l’ambiente della mia vita ». Questa sarebbe la prima conseguenza e quindi dovrebbe dirci che noi stessi dobbiamo tenere conto di questa presenza di Dio, vivere realmente nella sua presenza.
Una seconda conseguenza di quanto ho detto è che noi non ci facciamo cristiani. Divenire cristiani non è una cosa che segue da una mia decisione: « Io adesso mi faccio cristiano ». Certo, anche la mia decisione è necessaria, ma soprattutto è un’azione di Dio con me: non sono io che mi faccio cristiano, io sono assunto da Dio, preso in mano da Dio e così, dicendo « sì » a questa azione di Dio, divento cristiano.
Divenire cristiani, in un certo senso, è « passivo »: io non mi faccio cristiano, ma Dio mi fa un suo uomo, Dio mi prende in mano e realizza la mia vita in una nuova dimensione. Come io non mi faccio vivere, ma la vita mi è data; sono nato non perché io mi sono fatto uomo, ma sono nato perché l’essere umano mi è donato. Così anche l’essere cristiano mi è donato, è un « passivo » per me, che diventa un « attivo » nella nostra, nella mia vita. E questo fatto del « passivo », di non farsi da se stessi cristiani, ma di essere fatti cristiani da Dio, implica già un po’ il mistero della croce: solo morendo al mio egoismo, uscendo da me stesso, posso essere cristiano.
Un terzo elemento che si apre subito in questa visione è che, naturalmente, essendo immerso in Dio, sono unito ai fratelli e alle sorelle, perché tutti gli altri sono in Dio e se io sono tirato fuori dal mio isolamento, se io sono immerso in Dio, sono immerso nella comunione con gli altri.
Essere battezzati non è mai un atto solitario di « me », ma è sempre necessariamente un essere unito con tutti gli altri, un essere in unità e solidarietà con tutto il corpo di Cristo, con tutta la comunità dei suoi fratelli e sorelle. Questo fatto che il Battesimo mi inserisce in comunità, rompe il mio isolamento. Dobbiamo tenerlo presente nel nostro essere cristiani.
E finalmente ritorniamo alla parola di Cristo ai sadducei: « Dio è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe » (cfr. Mt 22, 32), e quindi questi non sono morti; se sono di Dio sono vivi. Vuol dire che con il Battesimo, con l’immersione nel nome di Dio, siamo anche noi già immersi nella vita immortale, siamo vivi per sempre.
Con altre parole, il Battesimo è una prima tappa della risurrezione: immersi in Dio, siamo già immersi nella vita indistruttibile, comincia la risurrezione. Come Abramo, Isacco e Giacobbe essendo « nome di Dio » sono vivi, così noi, inseriti nel nome di Dio, siamo vivi nella vita immortale. Il Battesimo è il primo passo della risurrezione, l’entrare nella vita indistruttibile di Dio.
Così, in un primo momento, con la formula battesimale di san Matteo, con l’ultima parola di Cristo, abbiamo visto già un po’ l’essenziale del Battesimo.
Adesso vediamo il rito sacramentale, per poter capire ancora più precisamente che cosa è il Battesimo.
Questo rito, come il rito di quasi tutti i sacramenti, si compone da due elementi: da materia – acqua – e dalla parola.
Questo è molto importante. Il cristianesimo non è una cosa puramente spirituale, una cosa solamente soggettiva, del sentimento, della volontà, di idee, ma è una realtà cosmica. Dio è il Creatore di tutta la materia, la materia entra nel cristianesimo, e solo in questo grande contesto di materia e spirito insieme siamo cristiani. Molto importante è, quindi, che la materia faccia parte della nostra fede, il corpo faccia parte della nostra fede. La fede non è puramente spirituale, ma Dio ci inserisce così in tutta la realtà del cosmo e trasforma il cosmo, lo tira a sé.
E con questo elemento materiale – l’acqua – entra non soltanto un elemento fondamentale del cosmo, una materia fondamentale creata da Dio, ma anche tutto il simbolismo delle religioni, perché in tutte le religioni l’acqua ha qualcosa da dire. Il cammino delle religioni, questa ricerca di Dio in diversi modi – anche sbagliati, ma sempre ricerca di Dio – diventa assunta nel sacramento. Le altre religioni, con il loro cammino verso Dio, sono presenti, sono assunte, e così si fa la sintesi del mondo. Tutta la ricerca di Dio che si esprime nei simboli delle religioni, e soprattutto – naturalmente – il simbolismo dell’Antico Testamento, che così, con tutte le sue esperienze di salvezza e di bontà di Dio, diventa presente. Su questo punto ritorneremo.
L’altro elemento è la parola, e questa parola si presenta in tre elementi: rinunce, promesse, invocazioni.
Importante è che queste parole quindi non siano solo parole, ma siano cammino di vita. In queste si realizza un decisione, in queste parole è presente tutto il nostro cammino battesimale, sia pre-battesimale, sia post-battesimale. Quindi, con queste parole, e anche con i simboli, il Battesimo si estende a tutta la nostra vita.
Questa realtà delle promesse, delle rinunce, delle invocazioni è una realtà che dura per tutta la nostra vita, perché siamo sempre in cammino battesimale, in cammino catecumenale, tramite queste parole e la realizzazione di queste parole. Il sacramento del Battesimo non è un atto di un’ora, ma è una realtà di tutta la nostra vita, è un cammino di tutta la nostra vita. In realtà, dietro c’è anche la dottrina delle due vie, che era fondamentale nel primo cristianesimo: una via alla quale diciamo « no » e una via alla quale diciamo « sì ».
Cominciamo con la prima parte, le rinunce. Sono tre e prendo anzitutto la seconda: « Rinunciate alle seduzioni del male per non lasciarvi dominare dal peccato? ».
Che cosa sono queste seduzioni del male? Nella Chiesa antica, e ancora per secoli, qui c’era l’espressione: « Rinunciate alla pompa del diavolo? », e oggi sappiamo che cosa era inteso con questa espressione « pompa del diavolo ». La pompa del diavolo erano soprattutto i grandi spettacoli cruenti, in cui la crudeltà diventa divertimento, in cui uccidere uomini diventa una cosa spettacolare: spettacolo, la vita e la morte di un uomo. Questi spettacoli cruenti, questo divertimento del male è la « pompa del diavolo », dove appare con apparente bellezza e, in realtà, appare con tutta la sua crudeltà.
Ma oltre a questo significato immediato della parola « pompa del diavolo », si voleva parlare di un tipo di cultura, di una « way of life », di un modo di vivere, nel quale non conta la verità ma l’apparenza, non si cerca la verità ma l’effetto, la sensazione, e, sotto il pretesto della verità, in realtà, si distruggono uomini, si vuole distruggere e creare solo se stessi come vincitori.
Quindi, questa rinuncia era molto reale: era la rinuncia ad un tipo di cultura che è un’anti-cultura, contro Cristo e contro Dio. Si decideva contro una cultura che, nel Vangelo di san Giovanni, è chiamata « kosmos houtos », « questo mondo ». Con « questo mondo », naturalmente, Giovanni e Gesù non parlano della creazione di Dio, dell’uomo come tale, ma parlano di una certa creatura che è dominante e si impone come se fosse questo il mondo, e come se fosse questo il modo di vivere che si impone.
Lascio adesso ad ognuno di voi di riflettere su questa « pompa del diavolo », su questa cultura alla quale diciamo « no ». Essere battezzati significa proprio sostanzialmente un emanciparsi, un liberarsi da questa cultura. Conosciamo anche oggi un tipo di cultura in cui non conta la verità. Anche se apparentemente si vuol fare apparire tutta la verità, conta solo la sensazione e lo spirito di calunnia e di distruzione. Una cultura che non cerca il bene, il cui moralismo è, in realtà, una maschera per confondere, creare confusione e distruzione. Contro questa cultura, in cui la menzogna si presenta nella veste della verità e dell’informazione, contro questa cultura che cerca solo il benessere materiale e nega Dio, diciamo « no ». Conosciamo bene anche da tanti Salmi questo contrasto di una cultura nella quale uno sembra intoccabile da tutti i mali del mondo, si pone sopra tutti, sopra Dio, mentre, in realtà, è una cultura del male, un dominio del male.
E così, la decisione del Battesimo, questa parte del cammino catecumenale che dura per tutta la nostra vita, è proprio questo « no », detto e realizzato di nuovo ogni giorno, anche con i sacrifici che costa opporsi alla cultura in molte parti dominante, anche se si imponesse come se fosse il mondo, questo mondo: non è vero. E ci sono anche tanti che desiderano realmente la verità.
Così passiamo alla prima rinuncia: « Rinunciate al peccato per vivere nella libertà dei figli di Dio? ».
Oggi libertà e vita cristiana, osservanza dei comandamenti di Dio, vanno in direzioni opposte. Essere cristiani sarebbe come una schiavitù; libertà è emanciparsi dalla fede cristiana, emanciparsi – in fin dei conti – da Dio. La parola peccato appare a molti quasi ridicola, perché dicono: « Come! Dio non possiamo offenderlo! Dio è così grande, che cosa interessa a Dio se io faccio un piccolo errore? Non possiamo offendere Dio, il suo interesse è troppo grande per essere offeso da noi ».
Sembra vero, ma non è vero. Dio si è fatto vulnerabile. Nel Cristo crocifisso vediamo che Dio si è fatto vulnerabile, si è fatto vulnerabile fino alla morte. Dio si interessa a noi perché ci ama e l’amore di Dio è vulnerabilità, l’amore di Dio è interessamento dell’uomo, l’amore di Dio vuol dire che la nostra prima preoccupazione deve essere non ferire, non distruggere il suo amore, non fare nulla contro il suo amore perché altrimenti viviamo anche contro noi stessi e contro la nostra libertà. E, in realtà, questa apparente libertà nell’emancipazione da Dio diventa subito schiavitù di tante dittature del tempo, che devono essere seguite per essere ritenuti all’altezza del tempo.
E finalmente: « Rinunciate a Satana? ». Questo ci dice che c’è un « sì » a Dio e un « no » al potere del Maligno che coordina tutte queste attività e si vuol fare dio di questo mondo, come dice ancora san Giovanni. Ma non è Dio, è solo l’avversario, e noi non ci sottomettiamo al suo potere. Noi diciamo « no » perché diciamo « sì », un « sì » fondamentale, il « sì » dell’amore e della verità.
Queste tre rinunce, nel rito del Battesimo, nell’antichità, erano accompagnate da tre immersioni: immersione nell’acqua come simbolo della morte, di un « no » che realmente è la morte di un tipo di vita e risurrezione ad un’altra vita. Su questo ritorneremo.
Poi, la confessione in tre domande: « Credete in Dio Padre onnipotente, creatore, in Cristo e, infine, nello Spirito Santo e la Chiesa? ».
Questa formula, queste tre parti, sono state sviluppate a partire dalla Parola del Signore: « Battezzare in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ». Queste parole sono concretizzate ed approfondite: che cosa vuol dire Padre, cosa vuol dire Figlio – tutta la fede in Cristo, tutta la realtà del Dio fattosi uomo – e che cosa vuol dire credere di essere battezzati nello Spirito Santo, cioè tutta l’azione di Dio nella storia, nella Chiesa, nella comunione dei Santi.
Così, la formula positiva del Battesimo è anche un dialogo: non è semplicemente una formula. Soprattutto la confessione della fede non è soltanto una cosa da capire, una cosa intellettuale, una cosa da memorizzare – certo, anche questo –, ma tocca anche l’intelletto, tocca anche il nostro vivere, soprattutto. E questo mi sembra molto importante. Non è una cosa intellettuale, una pura formula. È un dialogo di Dio con noi, un’azione di Dio con noi, e una risposta nostra, è un cammino. La verità di Cristo si può capire soltanto se si è capita la sua via. Solo se accettiamo Cristo come via incominciamo realmente ad essere nella via di Cristo e possiamo anche capire la verità di Cristo. La verità non vissuta non si apre; solo la verità vissuta, la verità accettata come modo di vivere, come cammino, si apre anche come verità in tutta la sua ricchezza e profondità.
Quindi, questa formula è una via, è espressione di una nostra conversione, di un’azione di Dio. E noi vogliamo realmente tenere presente questo anche in tutta la nostra vita: che siamo in comunione di cammino con Dio, con Cristo. E così siamo in comunione con la verità: vivendo la verità, la verità diventa vita e vivendo questa vita troviamo anche la verità.
Adesso passiamo all’elemento materiale: l’acqua.
È molto importante vedere due significati dell’acqua. Da una parte, l’acqua fa pensare al mare, soprattutto al Mar Rosso, alla morte nel Mar Rosso. Nel mare si rappresenta la forza della morte, la necessità di morire per arrivare ad una nuova vita. Questo mi sembra molto importante. Il Battesimo non è solo una cerimonia, un rituale introdotto tempo fa, e non è nemmeno soltanto un lavaggio, un’operazione cosmetica. È molto più di un lavaggio: è morte e vita, è morte di una certa esistenza e rinascita, risurrezione a nuova vita.
Questa è la profondità dell’essere cristiano: non solo è qualcosa che si aggiunge, ma è una nuova nascita. Dopo aver attraversato il Mar Rosso, siamo nuovi. Così il mare, in tutte le esperienze dell’Antico Testamento, è divenuto per i cristiani simbolo della croce. Perché solo attraverso la morte, una rinuncia radicale nella quale si muore ad un certo tipo di vita, può realizzarsi la rinascita e può realmente esserci vita nuova.
Questa è una parte del simbolismo dell’acqua: simboleggia – soprattutto nelle immersioni dell’antichità – il Mar Rosso, la morte, la croce. Solo dalla croce si arriva alla nuova vita e questo si realizza ogni giorno. Senza questa morte sempre rinnovata, non possiamo rinnovare la vera vitalità della nuova vita di Cristo.
Ma l’altro simbolo è quello della fonte. L’acqua è origine di tutta la vita; oltre al simbolismo della morte, ha anche il simbolismo della nuova vita. Ogni vita viene anche dall’acqua, dall’acqua che viene da Cristo come la vera vita nuova che ci accompagna all’eternità.
Alla fine rimane la questione – solo una parolina – del Battesimo dei bambini. È giusto farlo, o sarebbe più necessario fare prima il cammino catecumenale per arrivare ad un Battesimo veramente realizzato?
E l’altra questione che si pone sempre è: « Ma possiamo noi imporre ad un bambino quale religione vuole vivere o no? Non dobbiamo lasciare a quel bambino la scelta? ».
Queste domande mostrano che non vediamo più nella fede cristiana la vita nuova, la vera vita, ma vediamo una scelta tra altre, anche un peso che non si dovrebbe imporre senza aver avuto l’assenso del soggetto.
La realtà è diversa. La vita stessa ci viene data senza che noi possiamo scegliere se vogliamo vivere o no. A nessuno può essere chiesto: « vuoi essere nato o no? ». La vita stessa ci viene data necessariamente senza consenso previo, ci viene donata così e non possiamo decidere prima « sì o no, voglio vivere o no ».
E, in realtà, la vera domanda è: « È giusto donare vita in questo mondo senza avere avuto il consenso: vuoi vivere o no? Si può realmente anticipare la vita, dare la vita senza che il soggetto abbia avuto la possibilità di decidere? ». Io direi: è possibile ed è giusto soltanto se, con la vita, possiamo dare anche la garanzia che la vita, con tutti i problemi del mondo, sia buona, che sia bene vivere, che ci sia una garanzia che questa vita sia buona, sia protetta da Dio e che sia un vero dono.
Solo l’anticipazione del senso giustifica l’anticipazione della vita. E perciò il Battesimo come garanzia del bene di Dio, come anticipazione del senso, del « sì » di Dio che protegge questa vita, giustifica anche l’anticipazione della vita.
Quindi, il Battesimo dei bambini non è contro la libertà. È proprio necessario dare questo, per giustificare anche il dono – altrimenti discutibile – della vita. Solo la vita che è nelle mani di Dio, nelle mani di Cristo, immersa nel nome del Dio trinitario, è certamente un bene che si può dare senza scrupoli.
E così siamo grati a Dio che ci ha donato questo dono, che ci ha donato se stesso. E la nostra sfida è vivere questo dono, vivere realmente, in un cammino post-battesimale, sia le rinunce che il « sì », e vivere sempre nel grande « sì » di Dio, e così vivere bene.

PAOLO E LA CROCE – DI GIOVANNI BISSOLI

http://letterepaoline.net/2009/04/10/paolo-e-la-croce/

PAOLO E LA CROCE

DI GIOVANNI BISSOLI

Riproponiamo il testo di un intervento che Giovanni Bissoli, docente di Giudaismo e Nuovo Testamento, ha tenuto presso il trentaquattresimo Corso di Aggiornamento Biblico-Teologico dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme (25-28 marzo 2008). Il testo originale si può leggere qui (in formato pdf).

Paolo, appena dopo tre giorni che arrivò a Roma, chiamò presso di sé «i più in vista dei Giudei» per presentare loro il suo caso giudiziario e discolparsi dalle accuse. Questi gli risposero: «Noi non abbiamo ricevuto nessuna lettera sul tuo conto dalla Giudea, né alcuno dei fratelli è venuto a riferire o parlar male di te» (At 28,21). Il testo è riportato da Eusebio di Cesarea, che osserva com’era uso delle autorità della madrepatria inviare ai correligionari in tutte le parti del mondo lettere informative mediante dei “legati” o “apostoli” (In Is. 18,1-2).
Anche Saulo era stato inviato alle sinagoghe di Damasco con lettere creditizie contro «i seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati» (At 9,2). Per lo zelo che lo distingueva, prima di essere apostolo di Cristo, fu apostolo giudeo. Uno scritto pseudo-clementino, che può essere preso come un romanzo, lo fa intervenire dopo che Giacomo ha invitato la folla a ricevere il battesimo e lui esorta gli israeliti a non lasciarsi sedurre dai discepoli di un mago. Quando Giacomo gli vuole replicare, incita la folla contro i cristiani e lui stesso se la prende con il fratello del Signore (Rec. I,70).
Saulo aveva studiato alla scuola di Gamaliele: non era un “poliziotto”, ma un esegeta. Come tale combatteva la nuova fede non con la spada, ma con la parola. Quando richiama il suo passato, lo recrimina come un errore, non come un crimine. Per lui giudeo, come poteva essere il Cristo Gesù, giustiziato sul patibolo e per questo «maledetto da Dio» (cf. Dt 21,23: «L’appeso [sul patibolo] è una maledizione di Dio»)? Perciò mediante la sua argomentazione in pubblico e nelle sinagoghe «voleva distruggere la fede» (Gal 1,23; At 9,21), e «devastava la ekklesía» (Gal 1,13).
Anche Giustino conferma che era convinzione dei Giudei del suo tempo che Gesù fosse, in quanto morto sulla croce, «maledetto da Dio» (Dial., 32,1; 89.2; 90,1; 96,1). Quando Paolo scriveva di «Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei» (1Cor 1,23), doveva parlare per esperienza personale. La scala dei valori della cultura contemporanea non pensava differentemente. Ce ne dà un saggio Cicerone, in un suo discorso del 63 a.C.: «Quanto dolorosa è l’ignominia di una sentenza giudiziaria, quanto penosa una multa pecuniaria, quanto misero l’esilio; tuttavia in ogni disgrazia ci resta un aspetto di libertà. Anche se siamo minacciati di morte, moriamo da uomini liberi. Ma il carnefice, la benda sugli occhi e la parola stessa “croce” stia lontana non solo dal corpo, ma anche dal pensiero, dagli occhi e dagli orecchi di un cittadino romano. Perché non soltanto l’accadimento di queste cose o la loro sopportazione, ma la sola eventualità, la prospettiva, la menzione stessa è indegna di un cittadino romano e di un uomo libero» (Pro Rabirio 5,16).
È ben nota una lettera di Plinio il Giovane (legato imperiale di Traiano in Bitinia, 111-113 d.C.), che descrive l’assemblea eucaristica e l’agape cristiana. In questa ricorre la sentenza che ci interessa: la religione cristiana è superstitio prava immodica, che possiamo tradurre: «[è una] credenza smisuratamente stolta», dato che parla di un salvatore crocifisso (Ep. X 96,8).
Questo punto di vista lo conferma anche Paolo: «È piaciuto a Dio salvare i credenti attraverso la stoltezza della predicazione» (1Cor 1,21). «È piaciuto a Dio»: l’espressione indica un atto libero di Dio. Paolo la usa, ricordando la sua esperienza: «Quando è piaciuto a Dio di rivelare suo Figlio attraverso di me» (Gal 1,15). In quel momento cadde il sistema di valori in cui l’ebreo Saulo credeva: «Circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3,5-8).
L’inno, conservatoci in Fil 2,6-11, ci presenta la cristologia creduta e celebrata fin dai primi anni del cristianesimo: di Gesù Cristo ricorda la natura divina ed eterna nell’uguaglianza con Dio, l’abbassamento nell’assunzione della natura umana, umiliandosi sino alla morte – e morte di croce – e per questo l’esaltazione universale di Gesù Signore “a gloria di Dio Padre”. Ma perché proprio la croce? È il punto più basso cui potesse arrivare, scandalo per il “giudeo”, stoltezza per il “pagano”. Paolo non attenua la durezza del linguaggio.
Abbiamo ricordato l’espressione biblica di Dt 21,23: «L’appeso [sul patibolo] è una maledizione di Dio», cui Paolo si rifà in Gal 3,13. Ne possiamo aggiungere un’altra, non meno forte: «Colui che non conosceva peccato, Dio lo fece (epoíesen) “peccato” in nostro favore» (2Cor 5,21). Parlando del giovenco che serviva per il sacrificio di espiazione, Lv 4,21 in ebraico scrive: hatta’t haqqahal hû, che è reso in greco hamartía synagogês estin: «è “peccato” per l’assemblea». La traduzione italiana semplifica e chiarisce: «è il sacrificio di espiazione per l’assemblea» (traduzione liturgica della CEI). A proposito dell’espiazione, Paolo dice di Cristo: «Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione […] nel suo sangue» (Rm 3,25).
Letterariamente le espressioni sono figure retoriche, metonimie (trasferenza di significato), in cui si prende l’astratto per il concreto o viceversa, perché si tratta sempre di concetti contigui. Ma cosa significano a livello religioso? Mediante la ribellione a Dio la creatura cade sotto il potere del peccato e ha come conseguenza la morte fisica e spirituale (Rm 1,32; 5,12.14; 6,16.21.23). Dio prende sul serio la colpa dell’uomo, altrimenti poteva sembrare che soprassedesse alla colpa (Rm 3,23 s.). Ma croce, sacrificio, espiazione e redenzione non sono atti punitivi, bensì salvifici: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Cor 15,3; cf. 1Gv 2,2; 4,10; 1Pt 3,18: «Cristo è morto per i peccati»; cf. Mc 10,45: «dare la propria vita in riscatto per molti», che fa eco a Is 53,10-12; così nell’istituzione dell’Eucaristia, «sangue… versato per molti»: Mc 14,24).
Nel linguaggio di Paolo: «Ha dato se stesso per i nostri peccati» (Gal 1,4); «mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi» (Rm 5,6); «Uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti» (2Cor 5,14).
Con una bella immagine l’apostolo descrive la situazione che Dio istaura con Cristo crocifisso: «Annullando il documento scritto del nostro debito, le cui conseguenze erano a noi sfavorevoli, egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce» (Col 2,13).
Purtroppo nel nostro tempo accadono spesso dei sequestri di persona a scopo di estorcere soldi alle famiglie facoltose. Nel mondo biblico capitavano casi di schiavitù in occasione di guerra sia a causa di debiti. Chi avrebbe pagato il riscatto? La legge biblica ci dice che toccava al parente più prossimo, chiamato perciò “redentore”. Nell’esodo è Dio, in quanto legato da alleanza con gli antichi padri, che interviene a liberare Israele dalla schiavitù. In seguito il rito dell’agnello pasquale è “memoriale” di questo benefico intervento divino.
Il sangue di Cristo, agnello della nuova Pasqua, toglie tutta l’umanità dalla signoria del peccato per restituirla a Dio: «Con lui siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui siete anche stati insieme risuscitati» (Col 2,12); «È per lui [Dio] che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione» (1Cor 1, 30). Con la croce è tolta la colpa dell’uomo, l’uomo è sottratto al potere del peccato (Rm 6,17s.22): Cristo si è consegnato «per i nostri peccati» in modo da «strapparci da questo mondo perverso» (Gal 1,4).
Una cosa ancora aggiunge Paolo: l’uomo è sottratto alla condanna del giudizio, al potere della morte (Rm 7,5 s.; 1Cor 15,56), ma Cristo è anche la fine della Legge come mezzo di salvezza (Rm 10,4 s.; Gal 2,21; cf. 2,16; 2Cor 3,14): «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5).
Il fatto che Cristo morì per noi è tale, che Paolo può dire che noi siamo morti con lui (Col 2,20; Gal 2,19; 6,14: con-crocifissi), cioè l’uomo naturale come tale, sottratto al potere del peccato con il battesimo (Rm 6,4-10) e unito alla morte di Cristo, vive ed è “in Cristo” (2Cor 5,14). La risurrezione di Cristo non è solo sigillo che nella croce opera Dio (Rm 8,34), ma lavora anche sui fedeli come giustificazione (Rm 4,25), opera una nuova esistenza per il cristiano (Rm 6,4; Col 2,12) e mira al compimento dell’azione di Dio per ciascuno, alla piena figliolanza (Rm 8,11.17-23; 1Cor 6,14; 15,16.20; 2Cor 4,14 ecc.), altrimenti «la vostra fede è vana e voi siete ancora nei vostri peccati» (1Cor 15,17).
Come avviene questo? La morte in croce di Cristo è avvenuta «una volta per sempre» nel passato. Ma Dio rende efficace questo fatto appena una creatura accetta l’azione di Dio mediante la fede e ratifica la sua adesione interiore mediante il battesimo: «Quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte. Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,3-4). Il cristiano è “nuova creatura” (2Cor 5,17; Gal 6,15).
Per Paolo non c’è che un unico vangelo (Gal 1,6-7): nella croce e nella risurrezione appare l’estremo e definitivo atto d’amore di Dio (Rm 8,32). È opera di amore del Padre che dà a noi il Figlio in croce (Rm 5,8; 8,39), amore del Figlio che si dà per noi (Gal 1,4; 2,20): per questo il vangelo non si può comprendere se non con lo Spirito (1Cor 2,7-10).
Paolo ha sempre considerato la persona e l’opera di Cristo nella prospettiva della croce. Dio non ha tolto i peccatori dalla loro situazione agendo dall’esterno, ma operando dentro la loro situazione. Com’è avvenuto? Ci è facile tenere a mente la frase: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4). Ha preso corpo dalla vergine Maria colui che non «conosce peccato», ma assume «il corpo del peccato» (Rm 6,6), «il corpo votato alla morte» (Rm 7,24): «(Dio) mandando il proprio figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, ha condannato il peccato nella carne» (Rm 8,3).
Noi non potevamo uscire dalla nostra situazione senza speranza, ma il giusto, l’innocente, il Figlio di Dio si è immedesimato con noi e ne ha portato le conseguenze. Cristo in croce si è identificato con noi, perché noi ci identificassimo con lui, cioè diventassimo “giustizia di Dio” (2Cor 5,21b): «Tutto però viene da Dio» (2Cor 5,18). Tutto viene da Dio, tutto è grazia sua. All’apostolo è affidato «il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18).
Paolo scrive allora che la sua sapienza è «Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1Cor 2,2). Non è un vangelo a contenuto ridotto, quasi non voglia parlare del Risorto, al contrario (cf. 1Cor 15). Ma la croce è l’evento decisivo della salvezza, che dà morte alla morte / peccato e nello stesso tempo dà la vita. In altre parole: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).

Apostle Paul in prison

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L’Apostolo Paolo in prigione

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L’UOMO, IMMAGINE DI DIO, SOGGETTO DI CONOSCENZA E DI LIBERTÀ – PAPA GIOVANNI PAOLO II

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L’UOMO, IMMAGINE DI DIO, SOGGETTO DI CONOSCENZA E DI LIBERTÀ

PAPA GIOVANNI PAOLO II

23 aprile 1986

1. Il contrassegno della mascolinità e della femminilità. 2. Diversità e complementarietà dei sessi. 3. La benedizione della fecondità. 4. La prima forma di comunione di persone. 5. Relazione essenziale con la verità. 6. Intrinseca relazione al bene. 7. Capacità di accogliere o di opporsi a Dio. 8. Dio «pose lo sguardo nei cuori» degli uomini. 9. La libertà, «segno altissimo dell’immagine divina». 10. L’uomo chiamato all’Alleanza con Dio. 11. Il fondamento della chiamata divina.
1. «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gen 1,27).
L’uomo e la donna, creati con uguale dignità di persone come unità di spirito e di corpo, si diversificano per la loro struttura psico-fisiologica. L’essere umano porta infatti il contrassegno della mascolinità e quello della femminilità.
2. Mentre è contrassegno di diversità, esso è anche indicatore di complementarità. E quanto si deduce dalla lettura del testo «jahvista», là dove l’uomo, vedendo la donna appena creata, esclama: «Questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa» (Gen 2,23). Sono parole di contentezza e anche di entusiastico trasporto dell’uomo nel vedere un essere essenzialmente simile a sé. La diversità e insieme la complementarità psico-fisica sono all’origine della particolare ricchezza di umanità, che è propria dei discendenti di Adamo in tutta la loro storia. Di qui prende vita il matrimonio, istituito dal Creatore fin da «principio»: «Per questo l’uomo abbandonerà sua padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gen 2,24).
3. A questo testo di Gen 2,24 corrisponde la benedizione della fecondità, riportata in Gen 1,28: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela…». L’istituzione del matrimonio e della famiglia, contenuta nel mistero della creazione dell’uomo, sembra doversi collegare con il mandato di «soggiogare» la terra, affidato dal Creatore alla prima coppia umana.
L’uomo, chiamato a «soggiogare la terra» – si badi: a «soggiogarla», non a devastarla, perché la creazione è un dono di Dio e come tale merita rispetto -, l’uomo è immagine di Dio non soltanto come «maschio e femmina, ma anche in ragione della relazione reciproca dei due sessi». Questa relazione reciproca costituisce l’anima della «comunione di persone» che si instaura nel matrimonio e presenta una certa similitudine con l’unione delle Tre Persone divine.
4. A questo proposito il Concilio Vaticano II ci dice: «Dio non creò l’uomo lasciandolo solo; fin da principio « uomo e donna li creò » e la loro unione costituisce la prima forma di comunione di persone. L’uomo, infatti, per sua intima natura è un essere sociale, e senza i rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti» [1] .
La creazione comporta così per l’uomo sia il rapporto con il mondo, sia quello con l’altro essere umano (il rapporto uomo-donna), come pure con gli altri suoi simili. Il «soggiogare la terra» delinea il carattere «relazionale» dell’esistenza umana. Le dimensioni: «con gli altri», «tra gli altri» e «per gli altri», proprie della persona umana in quanto «immagine di Dio», stabiliscono fin da principio il posto dell’uomo tra le creature. A questo scopo l’uomo viene chiamato all’esistenza come soggetto (come concreto «io»), dotato di coscienza intellettuale e di libertà.
5. La capacità della conoscenza intellettuale distingue radicalmente l’uomo dall’intero mondo degli animali, dove la capacità conoscitiva si limita ai sensi. La conoscenza intellettuale rende l’uomo capace di discernere, di distinguere tra la verità e la non verità aprendo davanti a lui i campi della scienza, del pensare critico, della ricerca metodica della verità circa la realtà. L’uomo ha dentro di sé una relazione essenziale con la verità, che determina il suo carattere di essere trascendentale. La conoscenza della verità compenetra tutta la sfera del rapporto dell’uomo col mondo e con gli altri uomini, e pone le premesse indispensabili di ogni forma di cultura.
6. Congiuntamente alla conoscenza intellettuale e alla sua relazione alla verità si pone la libertà della volontà umana, che è legata da intrinseca relazione al bene. Gli atti umani portano in sé il segno dell’autodeterminazione (del volere) e della scelta. Di qui nasce l’intera sfera della morale: l’uomo, infatti, è capace di scegliere tra il bene e il male, sostenuto in ciò dalla voce della coscienza, che spinge al bene e trattiene dal male.
Come la conoscenza della verità, così anche la capacità di scelta – cioè la libera volontà – compenetra l’intera sfera della relazione dell’uomo col mondo, e specialmente con gli altri uomini e si spinge anche oltre.
7. Infatti l’uomo, grazie alla natura spirituale e alla capacità di conoscenza intellettuale e di libertà di scelta e di azione, si trova, fin da principio, in una particolare relazione con Dio. La descrizione della creazione (cf. Gen 1-3) ci permette di constatare che l’«immagine di Dio» si manifesti soprattutto nella relazione dell’«io» umano con il «Tu» divino. L’uomo conosce Dio, e il suo cuore e la sua volontà sono capaci di unirsi con Dio («homo est capax Dei»). L’uomo può dire «sì» a Dio, ma anche dirgli «no». La capacità di accogliere Dio e la sua santa volontà, ma anche la capacità di opporsi ad essa.
8. Tutto questo è iscritto nel significato dell’«immagine di Dio», che ci presenta, tra gli altri, il libro del Siracide: «Il Signore creò l’uomo dalla terra e ad essa lo fa ritornare di nuovo. Secondo la sua natura li [gli uomini] rivestì di forza, e a sua immagine li formò. Egli infuse in ogni essere vivente il timore dell’uomo, perché l’uomo dominasse sulle bestie e sugli uccelli. Discernimento, lingua, occhi, orecchi e cuore diede loro perché ragionassero. Li riempì di dottrina e di intelligenza e indicò loro anche il bene e il male. Pose lo sguardo nei loro cuori – si noti l’espressione! – per mostrar loro la grandezza delle sue opere… Inoltre pose davanti a loro la scienza e diede loro in eredità la legge della vita. Stabilì con loro una alleanza eterna e fece loro conoscere i suoi decreti» [2] . Sono parole ricche e profonde che ci fanno riflettere.
9. Il Concilio Vaticano II esprime la stessa verità sull’uomo con un linguaggio che è insieme perenne e contemporaneo. «L’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà. La dignità dell’uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere…». «Nella sua interiorità, egli trascende l’universo: in quelle profondità egli torna, quando si rivolge al cuore, là dove lo aspetta Dio, che scruta i cuori, là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino». «La vera libertà… è nell’uomo segno altissimo dell’immagine divina» (GS 17.14.17). La vera libertà è la libertà nella verità, iscritta, da principio, nella realtà dell’«immagine divina».
10. In forza di quest’«immagine» l’uomo, quale soggetto di conoscenza e libertà, non soltanto è chiamato a trasformare il mondo secondo la misura dei suoi giusti bisogni, non soltanto è chiamato alla comunione di persone propria del matrimonio («communio personarum»), da cui ha inizio la famiglia, e conseguentemente ogni società, ma è anche chiamato all’alleanza con Dio. Infatti egli non è soltanto creatura del suo Creatore, ma anche immagine del suo Dio. E creatura come immagine di Dio, ed è immagine di Dio come creatura. La descrizione della creazione già in Gen 1-3 è unita a quella della prima alleanza di Dio con l’uomo. Questa alleanza (così come la creazione) è un’iniziativa totalmente sovrana di Dio creatore, e rimarrà immutata lungo la storia della salvezza, fino all’alleanza definitiva ed eterna che Dio concluderà con l’umanità in Gesù Cristo.
11. L’uomo è il soggetto idoneo per l’alleanza, perché è stato creato «a immagine» di Dio, capace di conoscenza e di libertà. Il pensiero cristiano ha scorto nella «somiglianza» dell’uomo con Dio il fondamento per la chiamata dell’uomo a partecipare alla vita interiore di Dio: la sua apertura al soprannaturale.
Così dunque la verità rivelata circa l’uomo, che nella creazione è stato fatto «a immagine e somiglianza di Dio», contiene non soltanto tutto ciò che in lui è «humanum», e perciò essenziale alla sua umanità, ma potenzialmente anche ciò che è «divinum», e perciò gratuito, contiene cioè anche ciò che Dio – Padre, Figlio e Spirito Santo – ha di fatto previsto per l’uomo come dimensione soprannaturale della sua esistenza, senza di cui l’uomo non può raggiungere tutta la pienezza destinatagli dal Creatore.

[1] «Gaudium et spes», 12.
[2] Sir 17,1.3-7.9-10.

LA LIBERTÀ DI ESSERE SCHIAVI DI D-O – PARASHAT BEAR SINAI – BECHUKOTAI 5758

http://www.archivio-torah.it/jonathan/3058.pdf

PARASHAT BEAR SINAI – BECHUKOTAI 5758

LA LIBERTÀ DI ESSERE SCHIAVI DI D-O

L’idea di rendenzione è profondamente impressa nella Torà. Quando la Torà ci descrive la forma delle ‘Tavole della Legge’, dice che la Scrittura Divina era incisa (charut) sulle tavole. I Maestri invitano a non leggere ‘charut’ (incisa) bensì ‘cherut’ libertà. Le parole di Torà condensate nelle Dieci Espressioni (l’italiano poco si adatta a tradurre la parola ‘davar’, la classica traduzione ‘Dieci Comandamenti’ è molto approssimativa) sono parole di libertà. Ogni festa del nostro lunario è caratterizzata da una forma di libertà/redenzione. Se Pesach è la libertà fisica, Shavuot rappresenta la libertà spirituale preceduta da 49 giorni di preparazione nei quali ogni ebreo, ogni anno, rivive l’esperienza dei padri (ma anche la propria) nell’approccio alla Legge. Qui sorge il paradosso dell’ebraismo. La libertà non può che venire dalla autosottomissione, volontaria, alla Legge Divina. La libertà del popolo di Israele è completa nel momento in cui Israele diventa schiavo di D-o. “Essi sono Miei schiavi”, e non schiavi degli schiavi. La libertà di essere schiavi di D-o dunque.
Ma il concetto della libertà è ancora più chiaro se si pensa allo Shabbat. L’unico possibile riposo secondo la Torà è il dedicarsi completamente al culto Divino, innalzando tutto ciò che è materiale ad un livello sacrale (ad es. sesso, cibo, abbigliamento). La propria libertà quindi si esprime nell’astenerci
dall’esercitare quella potenza creatrice che D-o ci ha dato nel mondo della materia per dedicarci a quello dello spirito. E questo paradossalmente attraverso una spiritualizzazione della materia stessa.
In genere noi siamo portati a dire che è libero colui che non dipende da alcun padrone e viceversa colui che è sottomesso è uno schiavo. Nell’ebraismo la libertà nasce con l’accettazione del fatto che c’è un Solo Padrone del mondo, il Santo Benedetto Egli Sia. La nostra sottomissione alla Sua Legge ci rende liberi, liberi dagli altri, liberi di servire l’Unico vero Padrone. Questo concetto è così ben esemplificato nello Shabbat, che ogni settimana rimarca l’ordine dei rapporti tra il potere del singolo e quello della Divinità, da poter essere trasferito senza problemi a livello nazionale. Nasce quindi il Sabato degli anni, l’Anno Sabbatico. Secondo il classico schema di ‘uno a sette’, si santifica il settimo anno nel quale a riposare non è solo il singolo ebreo o i suoi beni, bensì un intera nazione e soprattutto la sua Terra. Un anno dedicato allo spirito anziché ai campi. Ma per dedicare un anno allo spirito si deve sacralizzare il campo così come nello Shabbat è il cibo, l’abito o il sesso ad essere sacralizzato.
La Terra d’Israele non è una terra come le altre perché il popolo d’Israele non è un popolo come gli altri. Gli altri popoli non hanno lo Shabbat e le altre terre non hanno l’anno Sabbatico. Se nella Parashà di Bear Sinai la Torà ci insegna le regole dell’anno Sabbatico, nella Parashà di Bechukotai essa ci mette in guardia dalle conseguenze del mancato adempimento alle norme in questione, cioè dall’esilio, ossia l’antitesi della libertà e della rendenzione. Non hanno dubbi i Maestri nel sostenere che tra le cause principali dell’esilio babilonese ci sia la mancata osservanza delle regole dell’anno Sabbatico. Il popolo d’Israele ha un ruolo nella sua Terra 2 se si Santifica attraverso le mizvot (ed in particolare lo Shabbat) e se Santifica la Terra stessa attraverso le mizvot (e l’anno Sabbatico in particolare). Altrimenti c’è l’esilio.
È doveroso ricordare però che nel caso del nostro esilio, quello che dura da ormai quasi 2000 anni, l’esilio romano, non è il mancato adempimento alle regole sabbatiche che ci ha condannati, bensì l’odio gratuito tra ebrei.
Quando D-o parla nella nostra Parashà del giorno in cui ci redimerà, presto ed ai nostri giorni, Egli annuncia che ricorderà in nostro favore quattro cose. Il Patto di Giacobbe, Il Patto di Isacco, Il Patto
di Abramo e la Terra.
Potremmo dire che la Terra rappresenta il concetto di Shabbat e di anno Sabbatico. Abramo rappresenta il rifiuto dell’idolatria e la sottomissione all’Unità di D-o simbolizzata dalla milà. Isacco rappresenta la preghiera. E Giacobbe? Giacobbe non è un personaggio facile. Non è ancora il pio Israele, è colui che inganna. Accade però che in questo specifico punto della Torà il nome Jaacov (Giacobbe), sia scritto con una ‘vav’ in più. Se controlliamo in tutta la Bibbia solo 5 volte questo accade. Parallelamente il nome
del profeta Elia (Eliau) è scritto solo 5 volte senza una ‘vav’ (Eliah). La ‘vav’ è la lettera congiuntiva per eccellenza. Non solo è la congiunzione grammaticale più usata nell’ebraico ma i ganci che tengono insieme le cortine del Santuario si chiamano ‘vavvim’ (il plurale di ‘vav’). La ‘vav’ inoltre ha la forma di un dito.
Il Profeta Elia, colui che annuncerà la redenzione e l’arrivo del Messia, dà cinque ‘vav’a Giacobbe.
Ossia dà la sua mano a Giacobbe. È vero quindi che se solo Israele osservasse due Sabati consecutivi come si deve il Messia giungerebbe subito, ma è altrettanto vero che se solo ogni Giacobbe sapesse dare la sua mano al suoprossimo allora sicuramente il Messia arriverebbe.

Shabbat Shalom

Jonathan Pacifici

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