Archive pour janvier, 2015

per pregare Gesù

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KIERKEGAARD E SAN PAOLO: DUE GRANDI A CONFRONTO

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KIERKEGAARD E SAN PAOLO: DUE GRANDI A CONFRONTO

20 marzo 2014

Felice Diego Licopoli

L’”età dell’ansia”, così come viene denominato il periodo precedente le due guerre mondiali, contraddistingue un crocevia storico dominato dall’angoscia, dalla paura su un futuro apocalittico che incombe sulla popolazione mondiale come una spada di Damocle, che nel pensiero collettivo si traduce nella “grande mietitrice” pronta a devastare l’umanità, gettandola così in un abisso senza fine, in una notte eterna.

In questo tremendo caos, l’unico epicentro comune, l’unico barlume di salvezza diviene Dio, la speranza universale di un mondo senza più guerre, senza più conflitti, senza più esplosioni atomiche. Il ruolo centrale di Dio, così come quello del Kristos, ovvero il Messia, viene ripreso concettualmente nella corrente filosofica dell’Esistenzialismo, in cui spiccano come figure dominanti due grandi menti, lontane nel tempo tuttavia vicine nel pensiero: San Paolo e Kierkegaard.Proprio su quest’ argomento si è tenuto un interessantissimo dibattito nel nuovo appuntamento con la cultura, alla libreria “Cultura” Di Reggio Calabria. Come sempre, dopo l’elegante presentazione del presidente del CIS Rosita Lorelay Borruto, sono intervenuti nel dibattito, presentati e coordinati da Gianfranco Cordì, Rosaria Catanoso, Marco Comandè, Franco Iaria ed Emilia Serranò “ L’età dell’ansia può essere vista in diversi modi” ha così cominciato Cordì: “. Braz, ad esempio, afferma che tutto ciò che si riverberava nella storia, durante quel periodo, nella fattispecie quest’ansia che era insita nelle società,assumeva anche un significato letterario,. Per quanto riguarda Kierkegaard, egli è senza dubbio autore dell’angoscia, e fa di essa la condizione degna dell’uomo affinché possa stare al mondo. San Paolo invece è il primo autore della storia dell’occidente a parlarci di ansia” E’ poi intervenuta Catanoso, la quale ha asserito:”San Paolo e Kierkegaard rappresentano senza dubbio due figure molto diverse, sia dal punto di vista temporale che filosofico. Abbiamo da un lato il filosofo dell’Ottocento, che controbatte all’Idealismo, in contrapposizione all’apostolo, che ha avuto l’onere di portare l’Annuncio in giro per il mondo.
Sono entrambi pensatori che si interrogano sull’individuo e sul male che affligge l’uomo. Secondo San Paolo, l’animo umano è scisso da due leggi in contrapposizione l’una con l’altra.
Per Comandè:”L’età dell’ansia fa venire in mente l’età dell’uomo, espressa nel famoso enigma della Sfinge; in codesto caso, l’ansia stessa corrisponde alla vecchiaia a cui l’uomo è costretto a far fronte.
Kierkegaard potrebbe costituire un tramite tra mondo antico e moderno, in quanto egli si pone il problema della libertà. L’età dell’ansia cammina di pari passo con l’età del dubbio, se non si supera l’una di conseguenza non può essere superata l’altra.” Successivamente ha preso la parola Iaria, il quale ha sostenuto che “L’angoscia non è una categoria astratta, bensì fa parte del vissuto di ognuno di noi. Kierkegaard fa parte secondo me, della filosofia dell’Irrazionale. Noi quando parliamo dell’età dell’ansia, identifichiamo in genere il Novecento. Secondo me invece, questo periodo è da retrodatare all’Ottocento, epoca in cui si sono generati i due poli da cui poi è nata l’angoscia, ovvero il progresso e la decadenza. Nell’Ottocento, abbiamo inoltre le grandi fratture rivoluzionarie con lo stesso Kierkegaard, il quale contesta il cristianesimo storico, e si impegna invece per la definizione del singolo, che diventa cristiano dopo duemila anni.”
Per a Serranò: “Il tema è molto complesso. Il problema che mi sono personalmente posta come età dell’ansia, è la condizione individuale degli autori nei confronti non solo della religione, ma della scelta della fede. L’ansia è una sorta di cambiamento interiore, una rivoluzione del proprio modo di essere e di pensare, che non è di certo un passaggio semplice da compiere. L’attinenza con Kierkegaard, sta nella complessità del percorso esistenziale, avvenuta in ambo i personaggi. Kierkegaard pone l’aut-aut, espresso negli stati dell’esistenza. Kierkegaard fonda la sua filosofia sul singolo, che non appartiene a nessuna categoria; egli ha costruito al filosofia della totalità, partendo dall’Assoluto dove tutto si dissolve”. La stessa Borruto ha successivamente sostenuto: “In quel periodo abbiamo la corrente del Positivismo, dove cadono tutti i grandi riferimenti, eccetto il concetto di Dio, che rimane un punto cardine della filosofia.” Cordì, che asserisce il significato etimologico della parola “filosofia” come “amici della sapienza”; significato eccellentemente appropriato per definire questa straordinaria disciplina, in grado di aprire la mente umana al concetto stesso di esistenza, che è molto facile da riscontrare anche all’interno della nostra società.

BENEDETTO XVI : LA BENEDIZIONE DIVINA PER IL DISEGNO DI DIO PADRE (EF 1,3-14)

http://www.vatican.va/latest/sub_index/hf_ben-xvi_aud_20120620_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 20 Giugno 2012

LA BENEDIZIONE DIVINA PER IL DISEGNO DI DIO PADRE (EF 1,3-14)

Cari fratelli e sorelle,

la nostra preghiera molto spesso è richiesta di aiuto nelle necessità. Ed è anche normale per l’uomo, perché abbiamo bisogno di aiuto, abbiamo bisogno degli altri, abbiamo bisogno di Dio. Così per noi è normale richiedere da Dio qualcosa, cercare aiuto da Lui; e dobbiamo tenere presente che la preghiera che il Signore ci ha insegnato, il «Padre nostro», è una preghiera di richiesta, e con questa preghiera il Signore ci insegna le priorità della nostra preghiera, pulisce e purifica i nostri desideri e così pulisce e purifica il nostro cuore. Quindi se di per sé è normale che nella preghiera richiediamo qualcosa, non dovrebbe essere esclusivamente così. C’è anche motivo di ringraziamento, e se siamo un po’ attenti vediamo che da Dio riceviamo tante cose buone: è così buono con noi che conviene, è necessario, dire grazie. E deve essere anche preghiera di lode: se il nostro cuore è aperto, vediamo nonostante tutti i problemi anche la bellezza della sua creazione, la bontà che si mostra nella sua creazione. Quindi, dobbiamo non solo richiedere, ma anche lodare e ringraziare: solo così la nostra preghiera è completa.
Nelle sue Lettere, san Paolo non solo parla della preghiera, ma riporta preghiere certamente anche di richiesta, ma anche preghiere di lode e di benedizione per quanto Dio ha operato e continua a realizzare nella storia dell’umanità.
E oggi vorrei soffermarmi sul primo capitolo della Lettera agli Efesini, che inizia proprio con una preghiera, che è un inno di benedizione, un’espressione di ringraziamento, di gioia. San Paolo benedice Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, perché in Lui ci ha fatto «conoscere il mistero della sua volontà» (Ef 1,9). Realmente c’è motivo di ringraziare se Dio ci fa conoscere quanto è nascosto: la sua volontà con noi, per noi; «il mistero della sua volontà». «Mysterion», «Mistero»: un termine che ritorna spesso nella Sacra Scrittura e nella Liturgia. Non vorrei adesso entrare nella filologia, ma nel linguaggio comune indica quanto non si può conoscere, una realtà che non possiamo afferrare con la nostra propria intelligenza. L’inno che apre la Lettera agli Efesini ci conduce per mano verso un significato più profondo di questo termine e della realtà che ci indica. Per i credenti «mistero» non è tanto l’ignoto, ma piuttosto la volontà misericordiosa di Dio, il suo disegno di amore che in Gesù Cristo si è rivelato pienamente e ci offre la possibilità di «comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo» (Ef 3,18-19). Il «mistero ignoto» di Dio è rivelato ed è che Dio ci ama, e ci ama dall’inizio, dall’eternità.
Soffermiamoci quindi un po’ su questa solenne e profonda preghiera. «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Ef 1,3). San Paolo usa il verbo «euloghein», che generalmente traduce il termine ebraico «barak»: è il lodare, glorificare, ringraziare Dio Padre come la sorgente dei beni della salvezza, come Colui che «ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo».
L’Apostolo ringrazia e loda, ma riflette anche sui motivi che spingono l’uomo a questa lode, a questo ringraziamento, presentando gli elementi fondamentali del piano divino e le sue tappe. Anzitutto dobbiamo benedire Dio Padre perché – così scrive san Paolo – Egli «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (v. 4). Ciò che ci fa santi e immacolati è la carità. Dio ci ha chiamati all’esistenza, alla santità. E questa scelta precede persino la creazione del mondo. Da sempre siamo nel suo disegno, nel suo pensiero. Con il profeta Geremia possiamo affermare anche noi che prima di formarci nel grembo della nostra madre Lui ci ha già conosciuti (cfr Ger 1,5); e conoscendoci ci ha amati. La vocazione alla santità, cioè alla comunione con Dio appartiene al disegno eterno di questo Dio, un disegno che si estende nella storia e comprende tutti gli uomini e le donne del mondo, perché è una chiamata universale. Dio non esclude nessuno, il suo progetto è solo di amore. San Giovanni Crisostomo afferma: «Dio stesso ci ha resi santi, ma noi siamo chiamati a rimanere santi. Santo è colui che vive nella fede» (Omelie sulla Lettera agli Efesini, 1,1,4).
San Paolo continua: Dio ci ha predestinati, ci ha eletti ad essere «figli adottivi, mediante Gesù Cristo», ad essere incorporati nel suo Figlio Unigenito. L’Apostolo sottolinea la gratuità di questo meraviglioso disegno di Dio sull’umanità. Dio ci sceglie non perché siamo buoni noi, ma perché è buono Lui. E l’antichità aveva sulla bontà una parola: bonum est diffusivum sui; il bene si comunica, fa parte dell’essenza del bene che si comunichi, si estenda. E così poiché Dio è la bontà, è comunicazione di bontà, vuole comunicare; Egli crea perché vuole comunicare la sua bontà a noi e farci buoni e santi.
Al centro della preghiera di benedizione, l’Apostolo illustra il modo in cui si realizza il piano di salvezza del Padre in Cristo, nel suo Figlio amato. Scrive: «mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia» (Ef 1,7). Il sacrificio della croce di Cristo è l’evento unico e irripetibile con cui il Padre ha mostrato in modo luminoso il suo amore per noi, non soltanto a parole, ma in modo concreto. Dio è così concreto e il suo amore è così concreto che entra nella storia, si fa uomo per sentire che cosa è, come è vivere in questo mondo creato, e accetta il cammino di sofferenza della passione, subendo anche la morte. Così concreto è l’amore di Dio, che partecipa non solo al nostro essere, ma al nostro soffrire e morire. Il Sacrificio della croce fa sì che noi diventiamo «proprietà di Dio», perché il sangue di Cristo ci ha riscattati dalla colpa, ci lava dal male, ci sottrae alla schiavitù del peccato e della morte. San Paolo invita a considerare quanto è profondo l’amore di Dio che trasforma la storia, che ha trasformato la sua stessa vita da persecutore dei cristiani ad Apostolo instancabile del Vangelo. Riecheggiano ancora una volta le parole rassicuranti della Lettera ai Romani: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?… Io sono infatti persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura, potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,31-32.38-39). Questa certezza – Dio è per noi, e nessuna creatura può separarci da Lui, perché il suo amore è più forte – dobbiamo inserirla nel nostro essere, nella nostra coscienza di cristiani.
Infine, la benedizione divina si chiude con l’accenno allo Spirito Santo che è stato effuso nei nostri cuori; il Paraclito che abbiamo ricevuto come sigillo promesso: «Egli – dice Paolo – è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria» (Ef 1,14). La redenzione non è ancora conclusa – lo sentiamo -, ma avrà il suo pieno compimento quando coloro che Dio si è acquistato saranno totalmente salvati. Noi siamo ancora nel cammino della redenzione, la cui realtà essenziale è data con la morte e la resurrezione di Gesù. Siamo in cammino verso la redenzione definitiva, verso la piena liberazione dei figli di Dio. E lo Spirito Santo è la certezza che Dio porterà a compimento il suo disegno di salvezza, quando ricondurrà «al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra» (Ef 1,10). San Giovanni Crisostomo commenta su questo punto: «Dio ci ha eletti per la fede ed ha impresso in noi il sigillo per l’eredità della gloria futura» (Omelie sulla Lettera agli Efesini 2,11-14). Dobbiamo accettare che il cammino della redenzione è anche un cammino nostro, perché Dio vuole creature libere, che dicano liberamente sì; ma è soprattutto e prima un cammino Suo. Siamo nelle Sue mani e adesso è nostra libertà andare sulla strada aperta da Lui. Andiamo su questa strada della redenzione, insieme con Cristo e sentiamo che la redenzione si realizza.
La visione che ci presenta san Paolo in questa grande preghiera di benedizione ci ha condotto a contemplare l’azione delle tre Persone della Santissima Trinità: il Padre, che ci ha scelti prima della creazione del mondo, ci ha pensato e creato; il Figlio che ci ha redenti mediante il suo sangue e lo Spirito Santo caparra della nostra redenzione e della gloria futura. Nella preghiera costante, nel rapporto quotidiano con Dio, impariamo anche noi, come san Paolo, a scorgere in modo sempre più chiaro i segni di questo disegno e di questa azione: nella bellezza del Creatore che emerge dalle sue creature (cfr Ef 3,9), come canta san Francesco d’Assisi: «Laudato sie mi’ Signore, cum tutte le Tue creature» (FF 263). Importante è essere attenti proprio adesso, anche nel periodo delle vacanze, alla bellezza della creazione e vedere trasparire in questa bellezza il volto di Dio. Nella loro vita i Santi mostrano in modo luminoso che cosa può fare la potenza di Dio nella debolezza dell’uomo. E può farlo anche con noi. In tutta la storia della salvezza, in cui Dio si è fatto vicino a noi e attende con pazienza i nostri tempi, comprende le nostre infedeltà, incoraggia il nostro impegno e ci guida.
Nella preghiera impariamo a vedere i segni di questo disegno misericordioso nel cammino della Chiesa. Così cresciamo nell’amore di Dio, aprendo la porta affinché la Santissima Trinità venga ad abitare in noi, illumini, riscaldi, guidi la nostra esistenza. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23), dice Gesù promettendo ai discepoli il dono dello Spirito Santo, che insegnerà ogni cosa. Sant’Ireneo ha detto una volta che nell’Incarnazione lo Spirito Santo si è abituato a essere nell’uomo. Nella preghiera dobbiamo noi abituarci a essere con Dio. Questo è molto importante, che impariamo a essere con Dio, e così vediamo come è bello essere con Lui, che è la redenzione.
Cari amici, quando la preghiera alimenta la nostra vita spirituale noi diventiamo capaci di conservare quello che san Paolo chiama «il mistero della fede» in una coscienza pura (cfr 1 Tm 3,9). La preghiera come modo dell’«abituarsi» all’essere insieme con Dio, genera uomini e donne animati non dall’egoismo, dal desiderio di possedere, dalla sete di potere, ma dalla gratuità, dal desiderio di amare, dalla sete di servire, animati cioè da Dio; e solo così si può portare luce nel buio del mondo.
Vorrei concludere questa Catechesi con l’epilogo della Lettera ai Romani. Con san Paolo, anche noi rendiamo gloria a Dio perché ci ha detto tutto di sé in Gesù Cristo e ci ha donato il Consolatore, lo Spirito di verità. Scrive san Paolo alla fine della della Lettera ai Romani: «A colui che ha il potere di confermarvi nel mio Vangelo, che annuncia Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, ma ora manifestato mediante le Scritture dei Profeti, per ordine dell’eterno Dio, annunciato a tutte le genti, perché giungano all’obbedienza della fede, a Dio, che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli. Amen» (16,25-27). Grazie.

Sant’Agnese

Sant'Agnese dans immagini sacre 1_21_St+Agnes+best
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Publié dans:immagini sacre |on 20 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

21 GENNAIO : SANT’ AGNESE VERGINE E MARTIRE

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21 GENNAIO : SANT’ AGNESE VERGINE E MARTIRE

BIOGRAFIA
Fra le innumerevoli vergini che hanno sacrificato la vita per le fede di Gesù Cristo, emerge S. Agnese. Nacque a Roma da genitori cristiani, appartenenti ad illustre famiglia patrizia, verso la fine del III secolo. Giovanetta consacrò al Signore la sua verginità e riuscì a portare il giglio intatto dinanzi al suo Sposo Divino. In piena persecuzione, quando molti fedeli e il clero stesso s’abbandonavano in massa alla defezione, ella rimase fedele a Cristo e gli sacrificò la sua giovane vita. Morì martire a Roma più probabilmente all’inizio del IV secolo. S. Ambrogio e S. Damaso hanno esaltato il suo esempio. Il suo nome è scritto nel canone della messa. La sua fama volò alta e lontana, come il suo culto fu grande e continuo.

MARTIROLOGIO
Memoria di sant’Agnese, vergine e martire, che, ancora fanciulla, diede a Roma la suprema testimonianza di fede e consacrò con il martirio la fama della sua castità; vinse, così, sia la sua tenera età che il tiranno, acquisendo una vastissima ammirazione presso le genti e ottenendo presso Dio una gloria ancor più grande; in questo giorno si celebra la deposizione del suo corpo.

DAGLI SCRITTI…
Dal Trattato « Sulle vergini » di sant’Ambrogio, vescovo
E’ il giorno natalizio per il cielo di una vergine: seguiamone l’integrità. E’ il giorno natalizio di una martire: offriamo come lei il nostro sacrificio. E’ il giorno natalizio di sant’Agnese! Si dice che subì il martirio a dodici anni. Quanto é detestabile questa barbarie, che non ha saputo risparmiare neppure un’età così tenera! Ma certo assai più grande fu la forza della fede, che ha trovato testimonianza in una vita ancora all’inizio. Un corpo così minuscolo poteva forse offrire spazio ai colpi della spada? Eppure colei che sembrava inaccessibile al ferro, ebbe tanta forza da vincere il ferro. Le fanciulle, sue coetanee, tremano anche allo sguardo severo dei genitori ed escono in pianti e urla per piccole punture, come se avessero ricevuto chissà quali ferite. Agnese invece rimane impavida fra le mani del carnefici, tinte del suo sangue. Se ne sta salda sotto il peso delle catene e offre poi tutta la sua persona alla spada del carnefice, ignara di che cosa sia il morire, ma pur già pronta alla morte. Trascinata a viva forza all’altare degli dei e posta fra i carboni accesi, tende le mani a Cristo, e sugli stessi altari sacrileghi innalza il trofeo del Signore vittorioso. Mette il collo e le mani in ceppi di ferro, anche se nessuna catena poteva serrare membra così sottili.
Nuovo genere di martirio! Non era ancora capace di subire tormenti, eppure era già matura per la vittoria. Fu difficile la lotta, ma facile la corona. La tenera età diede una perfetta lezione di fortezza. Una sposa novella non andrebbe si rapida alle nozze come questa vergine andò al luogo del supplizio: gioiosa, agile, con il capo adorno non di corone, ma del Cristo, non di fiori, ma di nobili virtù. Tutti piangono, lei no. I più si meravigliano che, prodiga di una vita non ancora gustata, la doni come se l’avesse interamente goduta. Stupirono tutti che già fosse testimone della divinità colei che per l’età non poteva ancora essere arbitra di sé. Infine fece sì che si credesse alla sua testimonianza in favore di Dio, lei, cui ancora non si sarebbe creduto se avesse testimoniato in favore di uomini. Invero ciò che va oltre la natura é dall’Autore della natura. A quali terribili minacce non ricorse il magistrato, per spaventarla, a quali dolci lusinghe per convincerla, e di quanti aspiranti alla sua mano non le parlò per farla recedere dal suo proposito! Ma essa: « E’ un’offesa allo Sposo attendere un amante. Mi avrà chi mi ha scelta per primo. Carnefice, perché indugi? Perisca questo corpo: esso può essere amato e desiderato, ma io non lo voglio ». Stette ferma, pregò, chinò la testa. Avresti potuto vedere il carnefice trepidare, come se il condannato fosse lui, tremare la destra del boia, impallidire il volto di chi temeva il pericolo altrui, mentre la fanciulla non temeva il proprio. Avete dunque in una sola vittima un doppio martirio, di castità e di fede. Rimase vergine e conseguì la palma del martirio.Lib. 1, cap. 2. 5. 7-9; PL 16, 189-191)

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GERUSALEMME MISTERO D’ORO

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GERUSALEMME MISTERO D’ORO

Giacoma Limentani

[Tratto da: Jerushalaim «I nostri piedi stanno alle tue porte, Gerusalemme»
Atti del XVII Colloquio ebraico-cristiano di Camaldoli 1996]

Quando il sole a picco l’inonda scolorandola come il fuoco scolora il metallo che arroventa, Gerusalemme appare nitida e chiara: una carta topografica, una città in cui nessuno potrebbe perdersi né tendere agguati, perché tutto non può che accadervi alla luce del sole. Questo sole che l’illumina adempiendovi alla chiarissima e chiarificante funzione di lume, si chiama shemesh, nome che solo la differenza delle vocali distingue da shammash: inserviente. È il sole che serve a distinguere il giorno dalla notte e la luce dalle tenebre. Se però distinguere il giorno dalla notte è espressione che va intesa nel suo senso più piano e letterale, distinguere la luce dalle tenebre implica un modo di sceverare che, quando separa con troppo immediata nettezza, può indurre smarrimento. Perché la troppa luce annienta le sfumature, e ovunque si trovi contrastata da un muro, dalla curva di una strada, da un panno steso a una finestra o sia pure dal volo di un uccello, genera ombre accecanti: contrasti improvvisi come agguati.
Il sole che così ne scandisce i percorsi e fa di Gerusalemme una città in bianco e nero, si chiama chammà da chom, calore. E questo sole è incandescente come il fuoco che imbianca i metalli con cui si forgiano le armi, mentre comunque vengano usate, le armi deturpano ogni candore col fitto nero del lutto. Certo, ben diversi nelle loro finalità sono il gesto che impugna l’arma per l’offesa e quello che la usa per la difesa, ma le parole offesa e difesa non sono che i due opposti poli della parola guerra, e spesso, troppo spesso nel corso dei millenni, sono stati opposti quanto accecanti convincimenti di agire in nome di ragioni odi fedi vissute come uniche e impareggiabili, a scatenare le guerre che hanno imbrattato di lutto Gerusalemme.
Tremendo fu lo scontro intestino, mentre i romani premevano alle porte, fra gli ebrei che avrebbero voluto scendere a patti per risparmiare almeno il tempio dell’Eterno Dio Vivente, e quelli che invece rifiutavano ogni compromesso proprio in nome della sacralità del tempio. Furono questi ultimi a prevalere per soccombere poi sotto l’urto dei soldati di Roma, a loro volta accecati da una concretezza di pensiero che impediva loro di comprendere e tollerare, perché non poteva non avere in superstizioso orrore l’inafferrabile Dio d’Israele. Quel Dio alieno dalle immagini che raffiguravano tutto ciò cui essi erano usi, e quindi loro stessi e il loro mondo, per porli di fronte all’alterità massima: l’assoluta alterità fra divino e umano. E quando infine le fiamme degli incendi accesi dalle torce romane si incunearono nelle canne del grande organo, dalla crollante dimora terrena del Dio invisibile si levò un urlo disumano che assordò insieme sostenitori dei compromessi e paladini dell’intransigenza, conquistati e conquistatori cementando ognuno nella propria assoluta perentorietà.
Altrettanto perentorio fu, circa un millennio più tardi, lo slancio con cui i crociati scalarono le mura della Città Santa, per redimerne l’anima inondandone però le strade di sangue sia musulmano che ebraico: comunque sangue infedele. Perentorio e ispirato a una fede che si voleva contrita, pur non avendo nulla da invidiare alla protervia romana.
Questi assalti, queste distruzioni, questi massacri non furono i primi ne gli ultimi. Altri li avevano preceduti, altri li seguirono, tutti furono portatori delle atrocità secondarie che sempre fanno da scia a lotte intestine, guerre e dominazioni intransigenti. Quasi ad avvertirne il visitatore ignaro della sua storia, la cittadella di Gerusalemme si presenta chiusa in un anello di lapidi d’ogni tempo e fede. Una casa dei morti stringe d’assedio il cuore palpitante della sua vita, e però circolare come circolari sono i cicli della vita stessa, e disseminata di secolari alberi d’olivo, la pianta che come l’anelito alla pace ha fama di non morire mai. E così come i sempreverdi olivi temperano di speranza il rigore delle sue tombe dalle molte fedi, leggende e simboli d’ogni sorta infiorano le cupe realtà della sua storia.
Leggende e simboli indispensabili a comprendere proprio le realtà della storia, anche e forse tanto più proprio quando ne sfalsano l’oggettività. Perché Gerusalemme, la dimora terrena scelta dall’Eterno Dio il cui sigillo è Verità, non ha mai albergato un’unica verità religiosa. Perfino in seno al solo ebraismo le verità religiose di Gerusalemme si intrecciano osi scontrano spiegandosi oppure negandosi a vicenda, e accavallandosi con ideali laici vissuti come religioni con evidenze innegabili e che pure un’altrettanto innegabile incongruità ammanta di mistero.
Non è per esempio incongruo che in una zona di alture geograficamente strutturate come inespugnabili fortezze naturali, la cittadella di Gerusalemme sia stata eretta su una vetta riarsa e lontana anche dalla più vicina polla d’acqua: l’unica vetta della zona che, come Amos Oz nota nel suo Gerusalemme città di specchi, presenta un lato vulnerabilissimo? Non dovrebbe perciò destare meraviglia che a stabilire su questa vetta la capitale del suo regno e quindi a farne per forza di cose la più intima fortezza, sia stato proprio David, il re guerriero che di assedi e battaglie doveva intendersene? E anche volendo ammettere che David se ne sia invaghito al punto di non poter prendere in considerazione nessun’altra altura, come mai ne a quanti hanno occupato dopo di lui il trono di Giuda, ne ai diversi dominatori che li hanno seguiti è venuto in mente di andarsi ad arroccare su un’altra e davvero inespugnabile vetta?
Quando logica politica e necessità strategica li impongono, i trasferimenti di capitale sono prassi consueta nelle storie degli stati. Gerusalemme deve quindi avere esercitato un fascino irresistibile su chiunque, possedendola e pur non sopportando l’idea di perderla, l’ha voluta lì e così nonostante l’arsura strutturale e la fragilità difensiva. Forse perché l’acqua, spesso paragonata alla purezza della fede sincera, deve essere anche premio di valente, continua conquista, bene preziosissimo che non può darsi per scontato? Perché il lato naturalmente arroccato e inespugnabile di Gerusalemme volta le spalle al tramonto, mentre il suo valico naturale è sempre baciato dal primo sole? Perché questi due elementi insieme sembrano star li a dimostrare che il suo possesso va vissuto come testimonianza di un favore divino da ostentare oppure da ambire?
lo non sono una storica e le realtà storico-geografiche cui accenno mi vengono da libri di storia che non riesco a leggere senza gli occhiali di una riflessione intrisa di leggenda ebraica, come pure di poesia d’amore odi fede. Leggere delle rivalità che hanno avvelenato Gerusalemme, delle stragi che l’ hanno insanguinata, dei tesori che fra una guerra e l’altra le sono stati donati e che di guerra in guerra le sono stati sottratti per essere portati in innumerevoli Babilonie a un tempo più forti e più caduche, comunque avide della sua mistica autorevolezza, è per me vedere un flusso d’ oro che da lei si diparte per andare a riverberare la sua essenza nel mondo intero. Perciò, insieme con William Blake, mi viene fatto di cantare: «Ti do il capo di un filo d’oro, / tu avvolgilo, fanne un gomitolo, / ti guiderà alla porta del cielo / che si apre sopra le mura di Gerusalemme». E perciò pensando a quando il cielo si apre per comunicare con la terra, ricordo che stando all’esegesi rabbinica proprio qui, sotto la porta del cielo, nel luogo stesso dove sorgeranno il tempio e l’altare per le offerte, è stato commesso il primo assassinio.
Il cielo si era già aperto per ricevere i sacrifici dei due primi fratelli, ma solo quelli del pastore Abele che aveva immolato le parti grasse e scelte dei più teneri fra i suoi animali, vi aveva trovato accoglienza. Con cupo rancore l’agricoltore Caino si era visto rifiutare la frutta che pure sapeva di avere colta a casaccio, quasi l’ offerta di un dono non meritasse speciale attenzione.
Dio l’aveva ammonito contro gli irriflessivi moti d’ira: «Attento» gli aveva detto lasciando intendere che per ogni essere umano la porta dell’anima deve essere contigua a quella del cielo. «Attento, il peccato è in agguato alla porta, ma tu devi dominarlo». E lo devi in quanto lo puoi.
L ‘episodio illustra due diversi modi d’intendere e praticare i rapporti con la Divinità e testimonia del pessimo carattere di Caino, ma anche se la Scrittura sembra farne l’introduzione all’assassinio che per primo intrise di sangue la terra di Gerusalemme, può anche non essere letto come sua causa diretta. La tradizione rabbinica separa infatti i due episodi dando dell’assassinio una lettura premonitrice delle passioni che faranno di Gerusalemme una fortezza perennemente contesa: le passioni base di ogni umano eccesso.
In Genesi IV ,8 è scritto: «E disse Caino ad Abele suo fratello, e accadde che mentre erano nel campo, Caino si levò contro Abele suo fratello e lo uccise». Il testo non accenna neppure a quel che Caino avrebbe detto, in compenso i rabbini ipotizzano che parlò anche Abele, e drammatizzano il loro dialogo in tre separate versioni. Una attesta che i due fratelli, unici eredi della prima coppia umana, si erano accordati per spartirsi il mondo: a Caino l’agricoltore era toccata la terra e al pastore Abele i beni mobili. Subito però l’avidità di possesso aveva sconvolto le loro menti. «Gli abiti che indossi sono tessuti con la lana dei miei agnelli! Spogliati!» aveva gridato Abele mentre Caino gli ingiungeva: «La terra su cui cammini è mia! Vola!». Siccome Abele non riusciva a volare, erano venuti alle mani con le conseguenze che sappiamo.
In base alla seconda versione Caino e Abele si sarebbero divisi in parti uguali beni mobili e beni immobili, per trarne poi subito motivo di contesa. «Il tempio sorgerà nel mio territorio!» avevano gridato entrambi, chiaramente intendendo: «Saranno la mia religione e le mie leggi a dominare, e tu o chinerai la testa o te la taglierò». Così introducendo nel mondo l’intransigenza religiosa e la prepotenza politica, si erano scagliati uno contro l’altro e Caino aveva ucciso Abele. Secondo la terza versione erano scesi a vie di fatto per via di Eva che era sì la loro madre, ma era anche l’unica donna esistente al momento, e per quanto possa sembrare strano, proprio questa terza versione getta su Gerusalemme e sulle passioni di cui viene fatta oggetto, una luce tanto più illuminante in quanto squisitamente simbolica.
Punto d’attrazione e d’incontro di culture, fedi, ideali tutti assoluti, tutti determinati a presentarsi come l’unico tanto puramente candido da meritare di possederla, troppo spesso la troppo amata Gerusalemme è stata vittima di malintesi amori. Perché malinteso è l’amore che invece di cercare soprattutto il bene dell’oggetto amato, vuole l’oggetto amato solo per sé, a costo di mandarlo distrutto o di avvelenarne il respiro pur di non cederlo né condividerlo con altri. Città con una storia particolarissima che non si lascia leggere come le storie delle altre città, Gerusalemme è stata ed è amata con la passione esclusiva che si dedica a una moglie, a una madre, comunque al fondamento femminile di una maschile storia individuale.
Lo stesso essere stata tante volte eletta a capitale d’una singola fede in un luogo che l’esibisce a ogni sguardo e quindi a ogni brama senza però garantirle l’imprendibilità, l’accosta a quelle mogli che la superbia di mariti gelosi agghinda e ostenta per metterne alla prova la fedeltà, senza però che venga loro garantita quella pace interiore che è l’unico vero baluardo contro ogni cedimento. E come queste mogli, una volta perdute, diventano specchi di rimorsi e rimpianti, ecco la Gerusalemme vedova e madre di figli esiliati, che nelle Lamentazioni piange in gramaglie sulle rovine del proprio passato splendore, infestate ormai da rovi e scorpioni.
La madre che da gestante è tutt’uno col figlio e poi accetta che dal suo corpo si distacchi, che lo nutre con la propria linfa ma per dargli vita autonoma, che sempre perdona e sempre torna ad accogliere, punto focale di esistenza ed essenza, è per l’ebraismo figura concretamente palese eppure inscrutabile in quanto il rapporto madre-figlio è in se stesso mistero. E non è misterioso il rapporto fra Gerusalemme e i suoi figli ebrei?
Se nasce ebreo chi è figlio di madre ebrea, se nel Libro dei Proverbi l’insegnamento di questa madre è chiamato Torà come la base prima di ogni insegnamento ebraico, se sempre nei Proverbi al figlio viene raccomandato di non distaccarsi da questo insegnamento perché da esso dipende la sopravvivenza dell’intero Israele, ebbene, allora, quanta parte della sopravvivenza d’Israele è dovuta alla grande madre Gerusalemme o, meglio, al ricordo di lei? Soprattutto al ricordo, che insieme con 10 studio della Torà per secoli e secoli ha fatto sì che gruppi di esuli dispersi per il mondo e onnai diversi fra loro per la lingua quotidianamente parlata, per gli abiti, per le golosità gastronomiche e perfino per le caratteristiche somatiche, continuassero a sentirsi parte di un’unità chiamata Israele. Un’unità integra che dal giorno dell’esilio una volta all’anno in coro ha continuato ad auspicare: «L ‘anno prossimo a Gerusalemme!».
I ricordi non sono dati storici e mai persistono immutati. perfino quelli individuali tendono a sfumare e a trasformarsi sotto l’incalzare delle esperienze con cui vengono a contatto. Se poi le esperienze li tingono di rimpianto, diventano dignità, dovere. «La destra mi si paralizzi se ti dimentico, Gerusalemme. La lingua mi si incolli al palato se non ti ricorderò, se non porrò Gerusalemme in cima a ogni mia gioia» canta il salmista esiliato a Babilonia. Dalla Toledo d’inizio millennio Jehudà ha-Levi echeggia: «Il mio cuore è in Oriente e io sono al confine d’Occidente. Come trovare sapore nel cibo? Come può il cibo essere dolce per me? Come potrò adempiere ai miei voti… quando Sion è ancora in ceppi di Edom e io sono qui fra gli arabi in catene?».
Certo né il salmista né Jehudà ha-Levi ignorano le tante parole amare scagliate dai profeti all’ indirizzo di Gerusalemme. Essi però di certo non ignorano neppure che nella città di Gerusalemme i profeti hanno di volta in volta additato il contenitore delle malefatte dei suoi governanti, mentre nel sogno messianico che fa da contrappeso a ogni loro rampogna, una futura Gerusalemme redenta è alveo di armoniose fioriture d’amore e concordia universali. Ebbene, per gli ebrei dispersi le profetiche visioni del futuro si fondono alla nostalgia di un passato che il rimpianto aureola di gloria, e che bisogna sforzarsi d’imitare nella speranza di farne rivivere lo splendore.
Ed ecco che in Spagna, in Italia, in Lituania, ovunque insomma gli ebrei si imbattono in governi che consentono loro di coltivare in relativa tranquillità studi e costumi particolari e particolarmente amati, ecco che in ogni città o centro baciato dalla tolleranza dei gentili nascono innumerevoli, nuove, piccole, fervidissime Gerusalemme. Tesori di libri, ricami, oggetti di culto, speculazioni mistiche e costumi gioiosi, canti conviviali, di fede e d’amore scaturiscono dalle radici enfatiche di queste cittadelle del ricordo, per disperdersi però a uno a uno col ciclico estinguersi delle tolleranze dei gentili. E come dalla Gerusalemme in rovina si era sparso per il mondo il flusso dorato del suo ricordo unificante, dallo spegnersi delle tante Piccole Gerusalemme si dipartono fili e fili che avvolgendosi in gomitoli arrivano alla Gerusalemme bianca e nera della storia, per inondarla col sole dei suoi crepuscoli.
È un attimo quello in cui levandosi oppure tramontando il sole l’investe coi suoi raggi obliqui. In quell’attimo Gerusalemme diventa tutta d’oro, quasi si specchiasse nella città gemella che l’attende alla porta del cielo.
Sogno di aspirazioni alla pace ciclicamente frustrate dalle vicissitudini della Gerusalemme terrena, la Gerusalemme celeste ne è il controluce spirituale, l’esempio, l’invito, lo stimolo. Scenderà su di essa e con essa si fonderà, quando la Gerusalemme terrena sarà capace di elevarsi verso il cielo per raggiungerla. Dal cielo intanto, nel breve attimo dei suoi crepuscoli le legge ogni giorno il Cantico dei Cantici perché, come dice lo Zohar, «unendo fra loro tutti i cantici celesti, questo cantico racchiuse in sé tutti i misteri della Legge e della saggezza, come pure tutti gli eventi passati e futuri». E di Legge e saggezza ha bisogno la Gerusalemme terrena, come pure di ricordare, per costantemente indagarlo, il mistero della propria nascita, quando emerse dalle acque dell’inizio, primo lembo di terra e pietra, ombelico del mondo creato da Elohim.
Ma chi, che cosa è Elohim? Elohim è Dio e Elohim è anche il nome con cui si definisce l’aspetto giudicante della Divinità, quello di cui il Signore dell’universo si avvale per mantenere tutto ciò che è di questo mondo. E come fa a mantenerlo? Lo mantiene in virtù del segreto insito nelle lettere di questo Suo nome, che se anagrammate danno: Mi elI eh, cioè a dire: chi, che cosa sono queste cose? Col Suo attributo giudicante, l’attributo del Supremo Giudice, infallibile perché prima di emettere giudizi non solo si interroga, ma consulta l’attributo della misericordia, indispensabile per temperare i giudizi e dare durata a ogni creazione, Dio ha quindi proceduto per gradi dando tempo al tempo.
Come sarebbe: ha proceduto per gradi, e cosa significa: dando tempo al tempo? Significa che essendo il pensiero divino creazione, l’universo divenne realtà creata nel momento stesso in cui Dio pensò di crearlo. Siccome però gli elementi che lo compongono sono diversi e passibili di trovarsi in contrasto fra loro, Dio li mise in atto uno a uno, dopo essersi e averlo interrogato in modo da dare a ognuno il tempo di abituarsi all’altro e, prima ancora, di avvertirne il bisogno e perciò attenderlo come si attende un oggetto d’amore.
Dalle acque dell’abisso, che si aprirono per amor suo, il monte di Gerusalemme emerse per primo, ombelico che lega la terra al cielo, perché le creature impastate con la terra avrebbero avuto bisogno di sentirsi legate al cielo, per trame ispirazione. Quando poi campi e fiumi e mari e foreste avvertirono la necessità di una presenza umana che li governasse, in un crepuscolo fra giorno e notte che fu annuncio dorato dei crepuscoli di Gerusalemme, e con la migliore terra della sua vetta vennero plasmati Adamo ed Eva, il padre e la madre di tutte le creature, i primi sposi della storia del mondo.
«Lekhà dodì licrat callà» cantano gli ebrei nel crepuscolo del venerdì sera: «Vieni, mio diletto, incontro alla sposa». E sposa d’Israele è il Sabato, ultimo giorno della creazione, che andrebbe vissuto come un assaggio dell’era messianica. Vuole però la tradizione che questo canto vada, nell’intenzione, rivolto a Gerusalemme, perché sarà Gerusalemme ad annunciare questa èra quando sul suo monte si poserà la pace. Quando cioè potrà smettere le gramaglie e stringersi al cuore i figli che nell’intimo dei loro cuori si rifaranno a lei, e perciò saranno fra loro concordi pur essendo diversi come le lapidi che inanellano l’ombelico della sua vetta.
Il mistero di Gerusalemme, quel mistero che i suoi crepuscoli da sempre annunciano e che Gerusalemme ancora stenta a rivelare, è il vitale mistero delle preziose alchimie che si realizzano quando più comunità di esseri umani si integrano in umanità senza perciò rinunciare alle proprie specifiche valenze, e così facendo si elevano verso il cielo facendo scendere il cielo sulla terra. Ebbene lì, a mezz’aria, nel punto d’incontro che fa della vita d’ogni giorno un’esistenza tesa oltre la quotidianità, si libra la Gerusalemme d’oro. Ci voleva un poeta per afferrare con una sola mano questi due aspetti estremi della sua valenza. Jehudà Ammichai l’ha fatto ricordandoci:

Ci sono preghiere infisse nelle fessure del muro del pianto
bigliettini di carta ripiegati e l’uno all’altro appiccicati.
Un bigliettino solitario se ne sta invece infilato in una vecchia porta di ferro
seminascosta da un cespuglio di gelsomino:
«Non sono riuscita a venire,
spero che capirai».

Potrebbe averlo scritto la pace, cui l’attimo dell’incontro viene sempre impedito. Potrebbe averlo scritto l’amata del Cantico, che per le strade di Gerusalemme cerca e attende il suo amato, e che vuole a sua volta farsi cercare e attendere da lui. Potrebbe semplicemente averlo scritto una qualsiasi ragazza innamorata. Per sapere chi sia, non c’è che da attenderla così come chiunque sa veramente amare sa anche attendere ciò che più ama, e cioè spianando ogni possibile strada. La Gerusalemme d’oro vive nelle attese dell’anima.

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 20 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

Christ praying in the Garden of Gethsemane

Christ praying in the Garden of Gethsemane dans immagini sacre artlib_gallery-287028-o

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Publié dans:immagini sacre |on 19 janvier, 2015 |Pas de commentaires »
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