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PAOLO APOSTOLO E TESSITORE DI TENDE

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PAOLO APOSTOLO E TESSITORE DI TENDE

A cura della Redazione

PAOLO APOSTOLO E TESITORE DI TENDE
LA BOTTEGA SOME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA
A CURA DELLA REDAZIONE

(forse questo articolo l’ho già messo)

L’articolo è tratto liberamente da una riflessione di Ronald F. Hock in The Social Context of Paul’s Ministry: Tentmaking and Apostleship, Philadelphia, Fortress 1980.

In uno dei suoi trattati politici, Plutarco critica alcuni filosofi perché rifiutavano di conversare con le autorità nel timore di essere considerati ambiziosi o troppo ossequienti. Per evitare il diffondersi di una tale situazione, Plutarco suggerisce che l’unica alternativa per l’uomo dalla mente aperta e desideroso di praticare la filosofia è fare l’artigiano, per esempio, il calzolaio, in modo da avere l’opportunità di conversare nella bottega, come Simone il calzolaio aveva fatto con Socrate. Questo suggerimento di Plutarco, che la bottega fosse un luogo che potesse ospitare discorsi intellettuali, è interessante e fa sorgere l’interrogativo se altre botteghe, specialmente quelle usate ai suoi tempi da Paolo, il tessitore di tende, nei suoi viaggi missionari, siano state utilizzate allo stesso modo nelle città della Grecia orientale. Questa tesi, pur avanzata dagli studiosi, non è mai stata studiata a fondo. Questo articolo è un tentativo di approfondire l’esame dei contesti sociali in cui si sono svolti la predicazione e l’insegnamento dei primi cristiani.
È noto che Paolo era un tessitore di tende. Questo suo lavoro è sempre stato considerato come un’eredità della sua tradizione ebraica. L’attività lavorativa di Paolo è considerata come un residuo della sua vita di fariseo ed è spiegata nei termini di un ideale rabbinico che cerca di associare lo studio della Torah con la pratica di un mestiere. Vorremmo ora portare il dibattito al di là dell’aspetto strettamente ebraico.

LA BOTTEGA DI PAOLO
Per una discussione sull’uso missionario della bottega da parte di Paolo, si deve sottolineare l’evidenza che lo colloca nelle botteghe delle città da lui visitate. Luca indica che Paolo aveva lavorato come tessitore di tende solo in Corinto e Efeso (At 18,3; 20,34); ma le Lettere di Paolo aggiungono Tessalonica (1 Ts 2,9) e – più importante – afferma che in generale la pratica missionaria era di lavorare per potersi mantenere (1 Cor 9,15 – 18). E allora, il riferimento di Paolo al lavoro di Barnaba per sostenere se stesso (1 Cor 9,6) dovrebbe coprire i cosiddetti primi viaggi missionari e la sua permanenza in Antiochia (At 13,1 – 14,25; 14,26-28; 15,30-35), il tempo in cui Luca pone Barnaba come suo compagno di viaggio. Il riferimento di Paolo al suo lavoro a Tessalonica (1 Ts 2,9) e la sua conferma dell’affermazione di Luca riguardante Corinto (1 Cor 4,12) si applicherebbe anche al secondo viaggio missionario (At 16,1 – 18,22). Il riferimento al suo lavoro in Efeso (cfr. 1 Cor 4,11: « fino ad ora »), di nuovo conferma il ritratto di Luca e la sua insistenza nel mantenersi economicamente, durante un futuro viaggio a Corinto (2 Co 12,14), confermerebbe questa pratica anche nel terzo viaggio missionario (At 18,23 – 21,16). In At 28,30 vediamo Paolo presumibilmente lavorare in seguito anche a Roma. In breve, le Lettere e gli Atti mettono in evidenza l’Apostolo nelle botteghe dove predicava e insegnava. Ma che cosa faceva Paolo nella bottega, oltre al suo lavoro di tessitura? Di cosa parlava? Sfruttava l’occasione per una predicazione missionaria?
Una risposta affermativa sembra verosimile, dato il suo impegno nella predicazione del Vangelo. Però né le Lettere, né gli Atti dicono esplicitamente che Paolo utilizzava la bottega per la predicazione. Il silenzio delle Lettere in proposito non è un problema, perché Paolo è di solito silenzioso o vago sulle circostanze della sua predicazione missionaria (cfr. per esempio 1 Cor 2,1-5). Con gli Atti tuttavia la situazione è diversa.
Il silenzio di Luca negli Atti può essere parzialmente spiegato perché l’evangelista era interessato a raccontare le esperienze di Paolo nella sinagoga. Solo in Atene, il centro della cultura greca e della filosofia, questo interesse è lasciato da parte in deferenza alle esperienze di Paolo al mercato (At 17,17) e specificatamente alle sue conversazioni con i filosofi stoici ed epicurei (ver.18) che portarono al discorso dell’Apostolo all’Aeropago (22-31). Qui Luca si avvicina molto nel menzionare le conversazioni della bottega, ma non lo fa, poiché le discussioni con i filosofi sono probabilmente da collocarsi sotto i portici della città, forse la Stoà di Attalos ad Atene.
La possibilità di fare conversazioni in bottega è intuibile da un brano delle Lettere di Paolo: il sommario dettagliato dell’attività missionaria dell’Apostolo nella città di Tessalonica (1 Ts 2,1-12). Al versetto 9, il lavoro e la predicazione sono accennati insieme: « Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il Vangelo di Dio ».

L’ATTIVITÀ MISSIONARIA
Se questi sei passi scelti dagli Atti e dalle Lettere parlano di Paolo che utilizzava le botteghe come contesti sociali per la sua predicazione missionaria, bisogna interpretare questi contesti come entità a sé, oppure confrontarli con la vita intellettuale delle città che egli ha visitato. Se la bottega è stata un contesto sociale dell’attività missionaria, per Luca questa era solo uno dei tanti luoghi in cui l’Apostolo predicava. Più frequentemente egli indica la sinagoga. Paolo predica nelle sinagoghe di Damasco (At 9,20), Gerusalemme (At 9,29), Salamide (At 13,5), Antiochia di Pisidia (At 13, 14, 44), Iconio (At 14,1), Tessalonica (At 17,1), Berea (At 17,10), Atene (At 17,17), Corinto (At 18,4) e Efeso (At 18,19; 19,8). Un altro contesto missionario importante è la casa, specialmente quelle di Lidia a Filippi (At 16,15, 40), di Tizio Giusto a Corinto (18,7) e di un cristiano non identificato a Triade (20,7-11) e di parecchie persone a Efeso (20, 20). Altre case devono essere incluse, anche se Luca non vi fa menzione di attività missionaria: la casa di Giasone a Tessalonica (17, 5-6), di Aquila e Priscilla a Corinto (18, 3), di Filippo a Cesarea (21, 8), di Mnasone di Cipro, presumibilmente a Gerusalemme (21, 16-17) e forse quelle di parecchi altri (cfr. 16,34; 21, 3-5, 7).
Ulteriori segni che indicano la varietà dei contesti sociali nella missione di Paolo sono la residenza del proconsole di Cipro, Sergio Paolo (13, 6-12), la porta della città in Listra (14, 7, 15-18), la scuola di Tiranno a Efeso (19, 9-10) e il pretorio a Cesarea (24, 24-26; 25, 23-27). Insomma, se la bottega era un contesto sociale per l’attività missionaria di Paolo, era solo uno dei tanti.

IL PULPITO, LA PIAZZA E LA BOTTEGA
La pratica dei filosofi sopra descritta può aiutarci a capire anche ciò che avveniva nella bottega di Paolo. Lo possiamo immaginare nelle lunghe ore al tavolo di lavoro mentre taglia e cuce le pelli per fare tende. Egli si rende autonomo economicamente, ma ha anche possibilità di portare avanti il suo impegno missionario (cfr. 1 Ts 2, 9). Seduti nella sua bottega troviamo i suoi compagni di lavoro o qualche visitatore, clienti e forse qualche curioso che aveva sentito parlare di questo « filosofo » tessitore di tende appena arrivato in città. In ogni caso sono tutti là ad ascoltare e a discutere con lui, che porta il discorso sugli dei ed esorta i presenti ad abbandonare gli idoli e a servire il Dio dei viventi (1, 9-10). In questo modo, certamente qualcuno degli ascoltatori, un compagno di lavoro, un cliente, un giovane aristocratico o forse anche un filosofo cinico, sarebbe stato curioso di sapere di più di Paolo, delle sue chiese, del suo Signore e sarebbe tornato per un colloquio privato (2, 11-12). Da queste conversazioni di bottega alcuni avrebbero accolto le sue parole come Parola di Dio (2, 13).
Per Paolo, il missionario, quindi, il pulpito della sinagoga non bastava, ma usciva anche in piazza ed entrava nella sua bottega. « Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo! » (1 Cor 9,16).
A CURA DELLA REDAZIONE

Il contesto storico
Esaminiamo la pratica paolina nel contesto della vita intellettuale della Grecia orientale dei suoi tempi. Ad Atene, nel quinto e quarto secolo a. C., alcuni contesti specifici, inclusa la bottega, erano diventati normali per l’attività intellettuale ed ancora esistevano ai tempi di Paolo. Senofonte descrive Socrate mentre discute di filosofia in varie botteghe, tra cui quelle di un pittore, di uno scultore, di un fabbricante di armature. Platone menziona le bancarelle del mercato come abituale ritrovo di Socrate. Naturalmente la bottega non era il suo solo ritrovo: lo si poteva trovare in altre parti del mercato, come la stoà o altri edifici pubblici, nel ginnasio o nelle case di amici. In un certo senso la pratica di Socrate era tipica dei suoi giorni, data l’abitudine della gente di frequentare i negozi e i banchi del mercato. Ma, in un altro senso, l’abitudine di Socrate era molto atipica, non solo a causa dell’alto contenuto intellettuale delle sue conversazioni, ma anche per l’effetto limitato che questa sua pratica ebbe sui filosofi che lo seguirono. A giudicare da quanto riferisce Diogene Laerzio, i discepoli di Socrate non discutevano di filosofia nella bottega, anche se alcuni di essi da studenti lo avevano accompagnato, per esempio, alla bottega del sellaio.
I seguaci di Socrate, scegliendo il ginnasio o altri edifici, praticavano una filosofia meno pubblica rispetto al loro maestro. Il numero delle persone che partecipava a queste discussioni nelle botteghe non poteva essere grande. Spesso erano solo in due, Socrate con Simone e Crate con Filisco. Gli argomenti trattati erano molti: dalle discussioni che riguardavano i commerci degli artigiani a temi più interessanti: gli dei, la giustizia, la virtù, il coraggio, la legge, l’amore, la musica, ecc.

Icona di Giovanni Battista, Abbazia Santa Maria di Pulsano

Icona di Giovanni Battista, Abbazia Santa Maria di Pulsano dans immagini sacre icona_giovanni_battista

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Publié dans:immagini sacre |on 23 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

COMMENTO A : 1 CORINZI 7,29-31

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=1%20Corinzi%207,29-31

BRANO BIBLICO SCELTO – 1 CORINZI 7,29-31

29 Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero;
30 coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godesse­ro; quelli che comprano, come se non possedessero;
31 quelli che usano del mondo come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!

COMMENTO
1 Corinzi 7,29-31
La vita cristiana nella prospettiva della fine
I corinzi avevano posto per iscritto a Paolo alcuni quesiti, di cui il primo riguarda la vita sessuale nel matrimonio e nel celibato. L’apostolo risponde nel c. 7, chiarendo dubbi e indicando loro nuove prospettive. L’esposizione si apre con alcune direttive pratiche riguardanti anzitutto i coniugi (vv. 1-7), poi i non sposati, le vedove, le coppie in crisi e i cristiani sposati con non cristiani (vv. 8-16); Paolo passa poi a delineare il principio generale a cui si ispira, quello cioè secondo cui ciascuno deve restare nella condizione di vita in cui si trovava al momento della conversione (vv. 17-24). Infine ritorna ai casi specifici, soffermandosi su quello dei celibi (vv. 25-35), dei fidanzati (vv. 36-38) e nuovamente su quello delle vedove (vv. 39-40).
Nel brano riguardante le direttive sul celibato Paolo afferma che, per quanto riguarda le vergini, non dispone di un comando del Signore, ma si limita a consigliare che, a causa della presente «necessità», ciascuno rimanga nella situazione in cui si trova; tuttavia chi si sposa non pecca, ma avrà «tribolazione» nella carne (cfr. vv. 25-28). Con il termine «necessità» (anankê) si indica, nel linguaggio apocalittico, la crisi degli ultimi tempi, mentre il termine «tribolazione» (thlipsis) indica le sofferenze (disastri cosmici, guerre, carestie ed epidemie) che l’accompagnano. Paolo ritiene dunque che al sopraggiungere della crisi finale le sofferenze ad essa connesse saranno più pesanti per chi ha sulle spalle la responsabilità di una famiglia. A questo punto inizia il testo liturgico che si apre con un principio generale (v. 29a), a cui fanno seguito alcuni esempi illustrativi (vv. 29b-31a); il testo termina con una breve conclusione (v. 31b).
L’introduzione del brano contiene un altro riferimento agli ultimi tempi: Paolo afferma infatti che il tempo «si è fatto breve» (synestalmenos) (v. 29a). Questa espressione significa che la fine del mondo si è ormai avvicinata. Al vecchio mondo dominato dal peccato sta ormai per subentrare un mondo nuovo, contrassegnato dalla sovranità di Dio, nel quale l’egoismo dell’uomo lascerà il posto a rapporti nuovi ispirati dall’amore. L’apostolo riecheggia l’annunzio di Gesù (cfr. Mc 1,15: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino»), riferendosi però al tempo che separa la prima dalla seconda venuta di Gesù. Egli dimostra così di condividere le idee tipiche dei circoli apocalittici circa l’imminenza degli ultimi tempi (cfr. 1Ts 4,15; 1Cor 15,51; Rm 13,11), ma più in profondità vuol dire che, con la venuta di Cristo, la fine del mondo è stata decretata in modo inderogabile. Lunga o breve che sia, l’esistenza di questo mondo prosegue ormai sotto il segno della fine: anzi il regno di Dio, anche se in modo nascosto, è già in una certa misura presente.
La prospettiva della fine ormai vicina esige un cambiamento di atteggiamento nei confronti di questo mondo. Paolo indica in particolare cinque categorie di persone le quali devono rivedere il loro rapporto con le cose terrene. La prima categoria è quella degli sposati: «Quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero» (v. 29b). Con questa direttiva egli non vuole certo proibire e neppure sconsigliare ai coniugi i normali rapporti sessuali, che poco prima aveva loro raccomandato di esercitare normalmente (cfr. 7,3-4); ciò che egli esclude è l’egoismo di coppia, che spinge i due a cercare l’uno nell’altro unicamente il proprio piacere e la propria realizzazione personale. Vengono poi citate due categorie contrapposte: «Coloro che piangono, come se non piangessero» (v. 30a), «quelli che godono come se non godessero» (v. 30b). Anche il piangere e il gioire non devono essere visti come assoluti, l’uno da evitare e l’altro da cercare a ogni costo, ma devono essere vissuti come realtà transitorie, destinate a finire, e quindi relative e superabili.
Infine Paolo considera altri due tipi di persone: «quelli che comprano » (v. 30c) e «quelli che usano i beni del mondo » (v. 31a): ai primi dice di comportarsi come se non possedessero i beni acquistati, ai secondi come se non li usassero pienamente. Per il loro carattere transitorio, i beni di questo mondo non devono essere considerati come lo scopo della vita, ma devono essere utilizzati con il dovuto distacco. In altre parole l’apostolo vuole dire che le cose di questo mondo, come anche i rapporti tra le persone e addirittura i propri stati d’animo, devono essere gestiti non per se stessi ma in vista di un fine più grande, cioè come un mezzo per raggiungere la piena comunione con Dio e con i fratelli che è tipica del nuovo mondo che è ormai all’orizzonte.
Paolo conclude questa prima parte del brano con le parole: «Passa infatti la figura di questo mondo» (v. 31b). Il termine «figura» (schêma) può indicare anzitutto la parte esterna e visibile (l’apparenza) di una cosa: se così fosse egli intenderebbe dire che il mondo è una realtà apparente, destinata a passare, diversamente da quelle realtà più vere e sostanziali che non avranno mai fine perché sono costruite sulla giustizia e sull’amore. Lo stesso termine può indicare però anche la parte che un attore recita in un’opera teatrale: in questo caso l’apostolo direbbe che il mondo è come un attore che ha esaurito la sua parte e sta per lasciare il palcoscenico. In ogni caso la frase significa che il mondo non è che una realtà limitata e transitoria, alla quale non conviene appoggiarsi.

Linee interpretative
Paolo raccomanda ai cristiani di Corinto un atteggiamento di profondo distacco nei confronti delle cose di questo mondo. A prima vista si potrebbe supporre che ciò comporti un abbandono delle realtà terrene, come se costituissero un campo alternativo, meno nobile rispetto a quello della fede e della vita comunitaria. Invece non si tratta di abbandonare il mondo a se stesso, ma di vivere in esso senza cedere a quei meccanismi di possesso che condizionano il comportamento della gran parte degli esseri umani. Il distacco di cui si parla implica perciò non un impegnarsi di meno nelle cose del mondo, ma piuttosto il proporsi come fine non semplicemente il bene proprio o del gruppo a cui si appartiene, ma un bene più grande, che riguarda tutta l’umanità. Ciò comporta una piena adesione, nei limiti del possibile, a ideali di giustizia e di solidarietà, e il rifiuto netto di ogni corruzione. Chi si comporta in questo modo difficilmente potrà arricchirsi, ma supererà gli alti e bassi della condizione umana e sarà arricchito di rapporti fecondi non solo con gli altri cristiani, ma anche con tutte le persone di buona volontà.

 

Publié dans:Lettera ai Corinti - prima |on 23 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

II DOMENICA DEL T.O. OMELIA: « SEGUITEMI, VI FARÒ DIVENTARE PESCATORI DI UOMINI »

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25 GENNAIO 2015 | 3A DOMENICA – T. ORDINARIO B | APPUNTI PER LA LECTIO

« SEGUITEMI, VI FARÒ DIVENTARE PESCATORI DI UOMINI »

Anche nel Vangelo di questa Domenica c’è una scena di « chiamata », la vocazione dei primi quattro discepoli del Signore (Mc 1,14-20), proprio come nel Vangelo che abbiamo commentato la Domenica scorsa (Gv 1,35-42).
Questa volta, però, l’accento di tutta la celebrazione liturgica è posto non tanto sul « senso » della chiamata, quanto sull’ »urgenza » dell’appello di Cristo a « convertirsi » per avere salvezza: « Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo » (v. 15). È come l’offerta di un’occasione che non verrà più riproposta: se si lascia cadere, l’uomo avrà perduto per sempre la possibilità di diventare diverso, più felice, più ricco, più aperto all’amore e alla vita.

« Il tempo ormai si è fatto breve »
Questo senso di « urgenza » si avverte già nella prima lettura, che ci descrive la predicazione di Giona a Ninive: « Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta ». Proprio perché non c’era tempo da perdere, « i cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo… e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece » (Gio 3,4-5.10). L’aver accettato nel tempo giusto l’appello del profeta è valso ai Niniviti la salvezza loro e della città: pochi momenti possono decidere per una vita intera!
Soprattutto questo senso di « urgenza » si avverte nel brevissimo tratto paolino, proposto come seconda lettura e ripreso dalla 1ª lettera ai Corinzi. In esso Paolo, per far cogliere meglio ai suoi lettori il valore della « verginità » come scelta radicale che fa aderire « con cuore indiviso » al Signore, fin da questo momento, ricorda che tutta la vita cristiana è sotto il segno della « provvisorietà » e della « fugacità », che non consentono ritardi nella decisione per Iddio. « Questo vi dico fratelli; il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero; coloro che piangono, come se non piangessero, e quelli che godono come se non godessero…; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo! » (1 Cor 7,29-31).
Non c’è dunque alcun valore nella vita, come quello della famiglia (« aver moglie »), della gioia, del commercio, del lavoro, ecc., che può fare da diaframma fra Dio e l’uomo e « ritardare » la nostra totale adesione al Signore: il « vergine » è precisamente colui che si è trasferito affettivamente al di là degli illusori giochi della « scena di questo mondo », per radicarsi solo in Dio. Pur rimanendo nel tempo, è già al di là del tempo, perché ha « sposato » Cristo come valore definitivo e assoluto! Ciò che gli permette fin dal presente di inserirsi nell’éschaton, non è la fuga dal precipitare delle cose verso la fine, quanto l’aver fatto irrompere nella sua esistenza la « pienezza » di vita del Cristo, quello che, con termine evangelico, possiamo appunto dire « il regno di Dio ».
È il « regno di Dio », manifestato e realizzato in Cristo, che porta la definitività, la pienezza, che fa maturare il tempo, e che obbliga gli uomini a decidersi. In questo senso il « tempo » non si misura più per lo scorrere degli anni o dei giorni, ma per una ricchezza che ad esso si accompagna e che viene offerta a chi sa valutarla ed accoglierla: chi la rifiuta o non sa vederla, rimarrà per sempre travolto dai gorghi della temporalità, nella povertà di un esistere senza valore e senza significato.
« Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il Vangelo »
E così ritorniamo al brano del Vangelo di Marco, che tutto questo ci dice in una forma anche più efficace, facendoci riascoltare, nella sua densità scarna e sconvolgente, il primo annuncio di Gesù che propone agli uomini la novità del suo « Vangelo »: « Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il Vangelo di Dio e diceva: « Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo »" (Mc 1,14-15).
È interessante, prima di tutto, l’annotazione cronologica preposta da Marco al racconto dell’inizio della predicazione di Gesù: « Dopo che Giovanni fu arrestato », quasi per mettere in evidenza la continuità fra l’opera del Battista e quella di Cristo: quando il primo termina la sua missione, il secondo, quello che lui aveva definito il « più forte » (Mc 1,7), la inizia, ormai investito dalla « forza » dello Spirito che è disceso sopra di lui.
E la inizia dalla Galilea, che già Isaia chiamava « Galilea delle genti », cioè la regione settentrionale della Palestina, in cui c’erano forti insediamenti di pagani, lontano dalla Giudea e da Gerusalemme, dove aveva operato Giovanni; già con questo l’evangelista intende esprimere la maggiore apertura del Vangelo, a Ebrei e pagani nello stesso tempo, che Dio chiama egualmente alla salvezza.
Ma vediamo adesso il contenuto di questo « lieto annunzio » che Gesù andava « proclamando » nella regione della Galilea. Esso consta di quattro affermazioni, che si susseguono con forza martellante e dànno, in forma scheletrica, il compendio del messaggio completamente nuovo annunziato da Cristo.

« Il tempo è compiuto »
La prima è esclusiva di Marco, e spiega il perché dell’urgenza con cui Cristo sollecita l’adesione al suo messaggio: « Il tempo è compiuto ». La forma, al passivo perfetto, indica una « pienezza » che viene dal di fuori, e non è perciò da intendere quasi si trattasse di un normale svolgimento del tempo che, attraverso alle sue varie successioni, arriva da se stesso a completarsi: è piuttosto Dio che lo compie, realizzando in esso il suo disegno di salvezza.
E questo significa almeno due cose: la prima è che c’è una misteriosa continuità fra le varie tappe della salvezza, che si sovrappongono quasi l’una sull’altra fino a raggiungere il « colmo ». Dio ha disseminato i segni della sua presenza e gli interventi della sua salvezza lungo tutte le piste del tempo e del mondo, ben al di là dello stesso popolo eletto!
La seconda è che, pur nella continuità del disegno salvifico, quello che avviene adesso in Cristo rappresenta la « pienezza » radicale: non è una tappa che viene dopo le altre, ma è la tappa che tutte le altre assorbe e a tutte dà significato, perché tutto, anche prima di lui, già marciava verso di lui. Proprio per questo il momento presente è decisivo: esso viene chiamato, infatti, non « chrónos », ma kairós, cioè tempo carico di significato, un attimo che sfugge portandosi dietro la nostra salvezza o la nostra rovina.

« Il regno di Dio è vicino »
La seconda affermazione del « lieto annunzio » di Cristo è: « Il regno di Dio è vicino ». Ma che cosa intendeva dire Gesù quando parlava di « regno di Dio »?
L’Antico Testamento proclamava l’effettiva « regalità » di Dio sopra Israele; dopo il ritorno dall’esilio quando la regalità davidica era rimasta poco più che un ricordo, crebbero il desiderio e la speranza che Dio stesso avrebbe manifestato un giorno, in maniera clamorosa, la sua regalità in Sion e l’avrebbe estesa a tutta la terra. Il « regno di Dio » era dunque una certezza vissuta nella tensione, perché Israele rimandava sempre ad un momento più lontano la realizzazione di questa attesa. Orbene, Gesù annuncia che questa attesa è al suo termine, che il « regno di Dio » è già lì, « in mezzo a loro ». Si tratta solo di avere occhi per vederlo e coraggio per entrarvi!
Difatti, il « regno di Dio » si identifica con Cristo, in quanto egli, nel mistero dell’Incarnazione, con le sue parole e con le opere trasferisce già tra gli uomini la presenza e la potenza trasformante di Dio, anticipando così quella che sarà la fase definitiva della sua sovranità quando « tutto gli sarà sottomesso », anche « l’ultimo nemico », cioè la morte (1 Cor 15,27-28). Perciò in Cristo il « regno di Dio » ha già fatto irruzione nel mondo, anche se la sua completezza si potrà avere solo quando il ciclo della storia, che di questo regno porta i fermenti e le parziali realizzazioni, si sarà concluso.
Proprio perché il « regno di Dio » è già presente in Cristo, gli uomini non possono non prendere posizione: o entrarvi, o rimanerne fuori!

« Convertitevi e credete al Vangelo »
Però l’entrarvi non è facile. Se è vero che il « regno » è un’offerta gratuita da parte di Dio, è altrettanto vero che vi si entra solo a condizione di diventare noi stessi « regno », cioè a dire trasformandoci, diventando capaci di assimilare il dono che ci viene offerto, sintonizzando con tutte le esigenze nuove che nel dono stesso ci vengono proposte, rinnovando perciò la nostra vita.
È quanto viene espresso dal duplice invito o, meglio, comando imperioso, che segue alle precedenti affermazioni: « Convertitevi e credete al Vangelo ».
La « conversione », o « metánoia », come meglio si esprime il testo greco, significa cambiamento di « mentalità » (= nous), capovolgimento dei criteri di valutazione di tutta la realtà e di tutte le situazioni. Si pensi solo a qualche affermazione del discorso della montagna, per rendersi conto di quale capovolgimento opera la presenza del regno di Dio fra gli uomini: « Beati i poveri secondo lo spirito, perché di questi è il regno dei cieli… Beati coloro che sono perseguitati per la giustizia, perché di questi è il regno dei cieli » (Mt 5,3.10).
Tutto questo è possibile solo a condizione di accettare la nuova « logica » del regno, che però non quadra con le nostre categorie razionali.
È il senso dell’ultimo invito di Gesù: « E credete al Vangelo ». Il « credere » è come un’autoespropriazione, per affidarsi completamente a Cristo, facendogli credito di salvezza, di vita, di amore: in questo caso il « credere », più che un mero conoscere, è un « vivere » l’esperienza nuova che il Cristo offre ad ognuno di noi con la proposta del suo « Vangelo ».

« E subito, lasciate le reti, lo seguirono »
L’esempio concreto di una risposta « piena », direi quasi precipitosa, come a sottolineare l’urgenza dell’appello e della decisione davanti alla proposta del « regno », che ci sta davanti nella persona del Cristo, è costituito dalla successiva scena della chiamata dei primi quattro discepoli. La chiamata di Gesù li coglie di sorpresa, come pesci nella rete: « Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini » (v. 17).
Quello che colpisce in questa scena è la rapidità, direi la fretta con cui si svolgono sia la chiamata, sia la risposta. Nello spazio di appena cinque versetti Marco adopera per ben due volte il caratteristico avverbio « subito » (= euthús). Una volta è attribuito alla chiamata di Gesù: « Subito li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni, lo seguirono » (v. 20). Un’altra volta è detto per esprimere la prontezza, con cui Pietro e Andrea lo seguono: « E subito, lasciate le reti, lo seguirono » (v. 18). È una prontezza che non si lascia dietro nulla!
Questi uomini sanno rompere con il passato; persino la famiglia (il « padre ») passa in second’ordine; quello che vale è « seguire » Cristo, diventare « pescatori » di altri uomini, per partecipare al « regno di Dio » che è vicino, che ormai è in mezzo a loro. Essi sono il primo, grandioso esempio che Marco vuole offrire ai suoi lettori, di come si accetta il « regno di Dio »: « trasformandosi » e « credendo » al Vangelo.

Da CIPRIANI S., Convocati dalla Parola

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 23 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

Gesù con una spada, una rara pittura, Kosovo

Gesù con una spada, una rara pittura,  Kosovo dans immagini sacre christ+1

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Publié dans:immagini sacre |on 22 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

L’ »ECUMENISMO » DI PAPA RATZINGER – ALLA SCUOLA DI PAOLO, GESTI SENZA UGUALI

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L’ »ECUMENISMO » DI PAPA RATZINGER

ALLA SCUOLA DI PAOLO, GESTI SENZA UGUALI

SALVATORE MAZZA

(« Avvenire », 1/7/’08)

A memoria, la concentrazione di gesti « ecumenici », ai quali abbiamo assistito nei due giorni inaugurali dell’ »Anno Paolino », non ha precedenti. Nulla di inedito, forse. Ma certo hanno impressionato la loro quantità e, più ancora, qualità. E se indubbiamente una ribalta affatto speciale è spettata al Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I – fino all’intensa emozione della benedizione « co-impartita » domenica col Papa – nessuno, per così dire, è rimasto al di qua della « porta paolina ». Perché nella processione che sabato l’ha varcata, quella porta di San Paolo Fuori le Mura « inventata » per l’occasione, c’erano tutti. Ma proprio tutti: Chiese d’Oriente e d’Occidente, Anglicani e Riformati. Non mancava nessuno.
Ripensando a tutto questo, sono due le riflessioni che, quasi con prepotenza, si impongono. La prima riguarda direttamente l’evento che ha fatto da scintilla al radunarsi di tutte le denominazioni cristiane attorno alla tomba dell’ »Apostolo delle Genti ». «Siamo riuniti non per riflettere su una storia passata, irrevocabilmente superata – ha detto il Papa durante i « Vespri inaugurali » di sabato scorso – : Paolo vuole parlare con noi, oggi. Per questo ho voluto indire questo speciale « Anno Paolino »: per ascoltarlo e per apprendere ora da lui, quale nostro maestro, « la fede e la verità », in cui sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo». Ragioni davvero forti e, come ha intuito Benedetto XVI nel voler accentuare questa impronta « ecumenica », largamente condivise, vista la risposta arrivata dalla altre Chiese cristiane. Da valutare non solo registrando il mero dato della loro presenza compatta ma, soprattutto, avendo presente la straordinaria varietà di iniziative « ecumeniche » che, come un volano, la sola indizione dell’ »Anno Paolino » ha già ovunque suscitato. Segno di una « voglia » di unità, di una « nostalgia », che i tanti ostacoli posti su quella strada, vecchi e nuovi, piccoli o enormi che possano essere, non riescono comunque a sopprimere.
La seconda riflessione riguarda invece lo stato delle relazioni « ecumeniche » al terzo anno da poco trascorso del Pontificato di Papa Ratzinger. Il 20 aprile del 2005, alla prima « concelebrazione » con i cardinali dopo l’elezione, forse non furono in pochi a ritenere che la sua assunzione come «impegno primario» di «lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo» fosse una sorta di dovuta « dichiarazione d’intenti ». O poco più: seria, certo, e sinceramente ritenuta, come disse, «sua ambizione… e suo impellente dovere», ma su un territorio « costellato » da troppe mine. Eppure, quello che non si può non constatare a trentotto mesi di distanza, è che il suo essere «cosciente che… (per ricostruire l’unità)… non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti» è davvero riuscito a tradursi in una serie lunghissima di «gesti concreti» capaci di «entrare negli animi e smuovere le coscienze». È esattamente quello a cui abbiamo assistito. Gesti sorprendenti – come sembrano ormai essere tutti quelli che coinvolgono il Papa e il Patriarca di Costantinopoli – dove certo un ruolo importante gioca la simpatia reciproca instauratasi tra i due fin dal loro primo incontro; o piccoli, o forse solo poco notati, come l’invito al « Primate anglicano » a inviare a Roma, sabato e domenica scorsi, un proprio rappresentante personale, quasi a sottintendere la preoccupata attenzione con cui segue la crisi che sta « travagliando », proprio in questi mesi, la « Comunione anglicana ». Gesti importanti. Un elenco lunghissimo. E che, in quest’ »Anno Paolino », sembra destinato ad allungarsi di molto.

 

IL « VANGELO » DI SAN PAOLO DI BRUNO FORTE

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IL « VANGELO » DI SAN PAOLO DI BRUNO FORTE

Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo…
1. Il Vangelo di Paolo. Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo – è tutto radicato in quell’esperienza straordinaria: afferrato da Cristo, può dire a tutti, che mentre eravamo ancora peccatori, il Figlio di Dio è morto per noi, facendo sue la nostra fragilità, la nostra colpa, la nostra morte; risorgendo da morte per la potenza dello Spirito effusa su di Lui dal Padre, ci ha portati con sé in Dio, rendendoci partecipi della vita che viene dall’alto. Con Cristo, in Lui e per Lui è possibile vivere un’esistenza significativa e piena, uniti ai nostri fratelli e sorelle nella fede, al servizio di tutti. La gratuità del dono divino trionfa sul male: l’impossibile possibilità di Dio, la forza di amare, cioè, di cui noi siamo incapaci e che ci è data dall’alto, è offerta a chiunque apra al Signore le porte del cuore. Per chi accoglie questo annuncio con fede, niente è più lo stesso. La vita nuova comincia nel tempo e per l’eternità. Questo messaggio Paolo lo proclama non solo con le parole e gli scritti (le tredici lettere che portano il suo nome), ma anche con la sua esistenza, che è tutta un Vangelo vissuto: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Galati 2,20). Narrare le tappe della vita di Paolo vuol dire, allora, imparare a vivere di Cristo alla scuola di Colui, che non vuole essere altro che un discepolo di Gesù, un suo imitatore, un suo servo e apostolo. Conoscere Paolo significa conoscere Cristo!
2. La conoscenza di Paolo si fonda anzitutto sul libro degli Atti degli Apostoli (scritti da Luca agli inizi degli anni 60 d.C.), quasi tutti dedicati alla vocazione e ai viaggi missionari dell’Apostolo. Anche le lettere contengono importanti notizie biografiche. Paolo nasce agli inizi dell’era cristiana, tanto che nel racconto della lapidazione di Stefano è presentato come il giovane,ai cui piedi sono deposti i mantelli dei lapidatori (Atti 7,58). Il luogo di nascita è Tarso di Cilicia, “una città non senza importanza” (Atti 21,39); la famiglia è ebrea, agiata al punto da aver acquisito la cittadinanza romana. Dai genitori, che probabilmente l’avevano atteso intensamente, viene chiamato Saulo, “il desiderato”, e forse anche Paolo, come sarà sempre nominato a partire da Atti 13,9, può darsi in ricordo del proconsole Sergio Paolo, convertito a Cipro dalla sua predicazione. A Tarso impara il greco come lingua propria, ma la sua formazione è giudaica: i genitori seguono la sua educazione con grande cura, tanto da mandarlo a Gerusalemme verso i 13-14 anni per farlo studiare alla scuola di Gamaliele, uno dei più illustri maestri del tempo. Tornato a Tarso alla fine degli studi, non ha modo di conoscere personalmente Gesù. Apprende il lavoro di tessitore di tende da viaggio, molto richiesto in una città di traffici e di commerci come la sua. L’ordinarietà della vita che gli si apre davanti, tuttavia, lo lascia ben presto insoddisfatto: probabilmente contro il parere dei suoi, decide di tornare a Gerusalemme, dove entra nel partito dei Farisei e si impegna nella lotta al cristianesimo nascente. Prende parte alla condanna di Stefano. È un giovane colto, focoso, di ardente fede giudaica, dotato di spirito pratico e di capacità decisionali. Fino a questo punto, però, quella di Saulo è un’esistenza come tante: Dio interviene nell’ordinarietà delle opere e dei giorni di ciascuno di noi. Non dobbiamo pretendere di aver fatto chi sa quali esperienze, perché l’incontro con Lui cambi per sempre la nostra vita. Il dire “se fossi.. se avessi…” è un inutile alibi. Occorre solo accettare di mettersi in gioco…
3. La vocazione sulla via di Damasco. Nel pieno del suo fervore anticristiano, Paolo accetta di recarsi a Damasco per contribuire a reprimere la diffusione della prima evangelizzazione dei discepoli di Gesù. Siamo all’incirca nel 35-36 d.C. È allora che accade l’evento che segnerà per sempre la sua vita. L’episodio – narrato in terza persona in Atti 9 e in forma autobiografica in Atti 22 e 26 – consiste in un incontro, l’incontro con Cristo, che gli fa vedere tutto in modo nuovo. Paolo capisce che la fede che intendeva perseguitare non consiste anzitutto in una dottrina, ma in una persona, il Signore Gesù, il Vivente, che prende l’iniziativa di rivelarsi a lui: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (1 Timoteo 1,12-13). Riferendosi a quanto gli è accaduto, Paolo parlerà di una rivelazione, di una missione ricevuta, di un’apparizione. Lui che a motivo della formazione e del temperamento pensava di possedere Dio e si sentiva giusto, scopre di essere stato raggiunto e posseduto da Dio, giustificato unicamente da Lui: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo… avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (Filippesi 3,4-7. 9). È il capovolgimento totale delle sue precedenti certezze: ora Paolo accetta di non appartenersi più per appartenere unicamente a Cristo e farsi condurre dove Lui vorrà. Condizione dell’incontro col Dio vivente è lasciarsi sovvertire da Lui, accettare di essere e fare quello che Lui vuole da noi, non quello che noi pretendiamo da Lui.
4. Gli anni del silenzio, i primi entusiasmi e la prova. La risposta alla vocazione implica un distacco, che è una vera esperienza di buio e di cecità. La luce che ha raggiunto Paolo gli fa percepire tutto il peso del peccato personale e di quello radicale, che grava sulla condizione umana: ne parlerà con accenti insuperabili nel capitolo settimo della lettera ai Romani, lì dove descrive la condizione tragica dell’essere umano, l’impotenza a fare il bene che vorremmo. Il Signore gli fa intuire quanto dovrà soffrire per il suo nome. Nel vivo di questa maturazione interiore, comincia ad annunciare Cristo con entusiasmo nella stessa Damasco, da cui l’odio degli avversari lo costringe ben presto a fuggire in maniera quasi rocambolesca: “I Giudei deliberarono di ucciderlo, ma Saulo venne a conoscenza dei loro piani. Per riuscire a eliminarlo essi sorvegliavano anche le porte della città, giorno e notte; ma i suoi discepoli, di notte, lo presero e lo fecero scendere lungo le mura, calandolo giù in una cesta” (Atti 9,23-25). Torna a Gerusalemme, dove molti degli stessi discepoli hanno paura di lui, non riuscendo a credere che fosse divenuto uno di loro. È Barnaba a dargli fiducia e a prenderlo con sé, aiutandolo ad essere accolto anche dagli altri: nasce così un’amicizia, che è fra le pagine più belle della vita di Paolo. “Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù” (Atti 9,27). Nonostante gli sforzi di Barnaba, tuttavia, alla fine Paolo è costretto a lasciare anche Gerusalemme, dietro l’insistenza degli stessi fratelli nelle fede, timorosi che il suo slancio evangelizzatore potesse provocare una reazione ancora più dura della persecuzione in atto. Paolo torna a Tarso, confuso e umiliato: vi resterà alcuni anni (almeno fino al 43), in un grigiore tanto più pesante, quanto più lo aveva fuggito da giovane e quanto più avverte in sé l’urgenza di fuggirlo. Al tempo dei primi entusiasmi, segue quello delle amarezze e delle delusioni: le incomprensioni gli vengono non solo dagli avversari, ma anche dai fratelli di fede. Conosce la solitudine, un senso di vergogna davanti ai suoi e di sconfitta rispetto ai suoi sogni, lo sconforto dell’incompiuto, che appare impossibile. L’esperienza di Paolo dimostra sin dall’inizio come l’amore chieda il suo prezzo: senza dolore nessuno vivrà veramente l’amore per Dio o per gli altri.
5. La missione e la crisi. Sarà Barnaba, l’amico del cuore, a trarlo fuori dalla prova e a lanciarlo nel grande impegno missionario: Barnaba appare dal racconto degli Atti come un uomo prudente e generoso, che sa capire e valorizzare l’irruenza di Saulo. Con un’iniziativa tanto libera, quanto audace, va a Tarso a prenderlo per portarlo ad Antiochia, dove c’è una comunità che lo desidera, perché la missione sta fiorendo al di là di tutte le più rosee attese e i discepoli – che qui sono stati chiamati per la prima volta “cristiani” – hanno bisogno di aiuto per la predicazione del Vangelo. Barnaba e Saulo iniziano a lavorare insieme e tutto sembra procedere meravigliosamente: nel racconto degli Atti (capitoli 11 e 13-15) il nome di Barnaba dapprima precede quello di Paolo; poi avverrà il contrario. I due amici sono, in realtà, molto diversi: quanto Paolo è irruente, tanto Barnaba è pacato e mediatore. Si giunge così al momento forse più doloroso della vita di Paolo: la rottura con Barnaba. L’occasione è legata ad un giovane discepolo – Giovanni Marco (Marco l’evangelista?) – che si è mostrato tiepido nel primo viaggio missionario, al punto da tornare indietro (cf. Atti 13,13). Paolo non lo vuole più con sé (più tardi lo riscoprirà e lo manderà a chiamare per averne la vicinanza e l’aiuto: “Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero”: 2 Timoteo 4,11). Barnaba invece non vuole perdere nessuno e ritiene che bisogna dare ancora una possibilità al giovane: “Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (Atti 15,39-40). I due – entrambi innamorati del Signore, ma totalmente diversi – decidono di separare le loro strade a causa della valutazione differente di una stessa questione, che ciascuno dei due ritiene di guardare con gli occhi della verità e dell’amore! La santità – come si vede – non annulla i caratteri: e, alla luce dei fatti, sembrerebbe che Barnaba avesse più ragione di Paolo! L’Apostolo ha dei limiti caratteriali: proprio questo, però, può esserci d’aiuto. I nostri limiti non devono diventare un alibi per disimpegnarci. Possiamo anzi domandarci con umiltà alla scuola di Paolo: riconosco i limiti del mio carattere e quelli altrui e li accetto, sforzandomi di lasciarmi trasfigurare progressivamente da Cristo nel servizio del Vangelo e di accettare gli altri con benevolenza?
6. La “trasfigurazione” di Paolo. Seguiranno i grandi viaggi missionari di Paolo, con innumerevoli prove e consolazioni (leggi, ad esempio, 2 Corinzi 11,24-28). Attraverso le prove, superate per amore di Cristo con la forza della Sua grazia, animato nell’annuncio del Vangelo da una gioia vittoriosa di ogni fatica, Paolo dimostra una cura amorosa verso tutte le Chiese, nate o corroborate dalla sua azione apostolica. Ne sono testimonianza le lettere a loro inviate, in cui le esorta, le rimprovera, le guida, le illumina sull’essere con Cristo, sulle vie di accesso al Suo perdono e al Suo amore, sulla vita secondo lo Spirito, sulle esigenze della fedeltà nell’esprimere il dono ricevuto. Di questo ministero appassionato è voce intensa il discorso di Mileto, riportato nel capitolo 20 degli Atti, un discorso di addio, quasi il testamento dell’Apostolo, di cui riassume in qualche modo la vita. Paolo sa di essere oramai ben conosciuto: “Voi sapete…”. I fatti parlano per lui! Ha vissuto il suo ministero con immenso amore a Cristo e ai suoi: “Ho servito il Signore con tutta umiltà… non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù” (Atti 20,19-21). Paolo ha conosciuto la prova ed è stato fedele fino alla fine, perché ha fatto esperienza della fedeltà del suo Signore: “Affinché io non monti in superbia – ci confida nella seconda lettera ai Corinzi – è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinzi 12,7-9). Cristo lo ha trasfigurato e Paolo ne ha fatto tesoro, imparando a svuotarsi di sé per essere pieno di Dio e darsi agli altri da innamorato del Signore. Perciò non esita a definirsi “il prigioniero di Cristo” (Efesini 3,1), il “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio” (Romani 1,1). È divenuto in Cristo il collaboratore della gioia altrui (cf. 2 Corinzi 1,24), il testimone esigente ed insieme il padre amoroso: “Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!” (1 Corinzi 4,14-16). La domanda radicale che nasce per noi dalla conoscenza di Paolo è dunque: chi è Cristo per me? È come per Paolo il Vivente, che ho incontrato e di cui sono e voglio essere prigioniero nella libertà e nell’amore? Vivo di Lui, per Lui, con Lui, sull’esempio di Paolo?
7. La passione del Discepolo. L’Apostolo è pronto, preparato a seguire il Maestro fino in fondo, sulla via della Croce: Paolo rivive in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte. “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). I capitoli 21-28 degli Atti vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Tre volte il suo capo tagliato sarebbe rimbalzato sulla terra, facendo sgorgare tre fontane, figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. Molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Colossesi 1,29). A differenza di Gesù Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, sigillando il suo amore nel silenzio eloquente del martirio. Il grande evangelizzatore conclude la sua esistenza parlando dalla più alta e ineccepibile delle cattedre: il martirio. Paolo non si è risparmiato per il Vangelo: che significa per noi, in questa luce, quanto egli dice sul bisogno di dare compimento a ciò che della passione di Cristo manca nella sua carne a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa? Amo, amiamo la Chiesa, come Paolo l’ha amata? L’Apostolo ha patito ogni genere di prova e ci fa chiedere perciò: seguo Gesù nel dolore, dove Lui vorrà per me e dove mi precede e mi accompagna? Lo amo più di tutto, come lo ha amato Paolo?
8. Paolo e noi. Nella consapevolezza della nostra fragilità, soprattutto se ci misuriamo su ciò che fu l’Apostolo, dopo aver risposto con verità alle domande che la vita di Paolo suscita in noi, invochiamo con fiducia il Signore Gesù, vero protagonista nell’esistenza dell’Apostolo: Lode a te, Signore Gesù, che parli a noi nel volto di Paolo e ci chiedi di seguirti senza condizioni come Ti ha seguito Lui! Lode a Te, Cristo, cercatore di ogni uomo, che sei venuto per me nei luoghi della mia vita, come entrasti nella vita di Paolo sulla via di Damasco! Lode a Te, che ci raggiungi sulle nostre strade e ci prendi con te e ci invii per essere Tuoi testimoni, a tempo e fuori tempo, per ogni essere umano, fino agli estremi confini della terra! Nella comunione dei Santi, affidiamoci poi all’intercessione e all’aiuto dell’Apostolo delle genti: Prega per noi, Paolo, perché possiamo vivere come Te l’incontro con Cristo, che cambia il cuore e la vita. Aiutaci a svuotarci di noi per riempirci di Lui, affinché, resi forti dal Suo Spirito, siamo capaci di credere, di sperare e di amare oltre ogni prova o misura di stanchezza. Ottienici di divenire sempre più testimoni umili e innamorati di Colui che è la speranza del mondo, in comunione con tutta la Chiesa, al servizio di ogni creatura. Il Cristo Gesù sia per noi la vita vera, la gioia piena, la sorgente di un amore sempre nuovo, la luce senza tramonto, nel tempo e per l’eternità. Amen.

(Teologo Borèl) Marzo 2009 – autore: mons. Bruno Forte

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