Archive pour janvier, 2015

DIO SI IMPIETOSÌ (FEBBRAIO 2002) – DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER

http://www.30giorni.it/articoli_id_362_l1.htm

Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede sulla predicazione del profeta Giona nella città di Ninive

DIO SI IMPIETOSÌ (FEBBRAIO 2002)

Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede sulla predicazione del profeta Giona nella città di Ninive

DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER

Meditare la Parola
Il libro di Giona non narra avvenimenti che si sono avverati in un lontano passato; è una parabola. Nello specchio di questo racconto parabolico appare il futuro e nello stesso tempo viene sempre di nuovo spiegato alle diverse generazioni il presente, che solo nella luce del futuro – in ultima analisi in quella luce che proviene da Dio – può essere capito e rettamente vissuto. Perciò questa parabola è profezia: essa getta la luce di Dio sul tempo e con ciò ci chiarisce la direzione in cui dobbiamo muoverci perché il presente si apra sul futuro e non vada in rovina. In questa parabola profetica si possono distinguere tre cerchi.
Il testo annuncia a Israele incredulo la salvezza per i pagani, anzi, che i pagani precederanno Israele nella fede. L’ingresso dei pagani nella fede nell’unico Dio, che si è rivelato a Israele sul Sinai e oltre, risulta chiaramente in due passi del piccolo libro. I marinai (cfr. Gn 1,4-16), che normalmente venivano considerati come crudeli e lontani da Dio, si convertono quando assistono al placarsi della tempesta. Riconoscono che la descrizione che Giona ha dato del suo Dio è vera: è il Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terra. Riconoscono questo Dio del cielo come l’unico vero Dio che tiene in mano l’universo. E sanno che il riconoscimento deve diventare un atto: già sulla nave fanno un sacrificio e promettono nuove azioni di grazie non appena saranno giunti a destinazione. Importante è che Gerusalemme non appare più come l’unico luogo in cui si può sacrificare a Dio – il suo tempio è ovunque. Ancora un altro elemento è importante in questo racconto: i marinai si erano mostrati pieni di compassione e rispetto di fronte alla vita umana e solo su insistenza di Giona avevano osato gettarlo in mare, nello stesso tempo però implorando perdono per questo sacrilegio. In questa loro umanità si può vedere, per così dire, una disposizione alla grazia, che rendeva loro possibile l’accesso alla fede.
La seconda profezia (cfr. Gn 3,1-10) davvero centrale per la salvezza dei pagani si trova nella storia di Ninive. Gli assiri, la cui capitale era Ninive, erano il popolo guerriero più brutale dell’antico Oriente; Ninive è indicata nel capitolo terzo di Naum come città sanguinaria. Ci viene data così un’idea della sua « malizia » la cui fama è « salita fino » a Dio (Gn1,2). La città è simbolo per eccellenza dell’infamia del peccato umano, quello che si accumula negli agglomerati delle grandi città. Essa è « paganesimo » nella sua forma più compatta. L’incredibile accade: la città crede al profeta e crede che c’è un Dio, il Dio per eccellenza, e non solo i suoi dei. Crede che c’è un giudizio e fa penitenza. La contrapposizione all’Israele sicuro di sé si fa qui estremamente chiara. Il capitolo 36 di Geremia ci racconta come Geremia abbia fatto leggere al re Ioiakìm il rotolo con l’annuncio delle punizioni. Il re resta seduto sul trono e taglia pezzo per pezzo il rotolo, che alla fine diventa per intero preda delle fiamme. Il re della malvagia città di Ninive invece si alza dal trono, si spoglia di tutte le insegne regali e si mette a sedere come penitente sulla cenere. Il suo potere regale egli lo usa ora soltanto per imporre a tutti – uomini e animali – un digiuno completo, per richiamare alla penitenza, allo scendere dai loro seggi nella cenere. Chi è sceso è colui che sale a Dio: Dio si impietosisce e salva. La salvezza dei pagani è la salvezza di quelli che accettano la discesa di Dio e scendono da se stessi. La salvezza è fondata sulla penitenza. Chi è pieno di sé si preclude la salvezza.
Vediamo trasparire qui l’intero Vangelo di Cristo. Nel libro di Giona si compenetrano Antico e Nuovo Testamento e si mostrano come una sola cosa.
2) Il libro di Giona ci annuncia l’avvenimento di Gesù Cristo – Giona è una prefigurazione della venuta di Gesù. Il Signore stesso ci dice questo nel Vangelo del tutto chiaramente. Richiesto dai giudei di dar loro un segno che lo riveli apertamente come il Messia, risponde, secondo Matteo: « Nessun segno sarà dato a questa generazione se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra » (Mt12,39s). La versione di Luca delle parole di Gesù è più semplice: « Questa generazione [...] cerca un segno ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona. Poiché come Giona fu un segno per quelli di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione » (Lc 11,29s). Vediamo due elementi in entrambi i testi: lo stesso Figlio dell’uomo, Cristo, l’inviato di Dio, è il segno. Il mistero pasquale indica Gesù come il Figlio dell’uomo, egli è il segno in e attraverso il mistero pasquale.
Nel racconto veterotestamentario proprio questo mistero di Gesù traspare del tutto chiaramente. Nel primo capitolo del libro di Giona si parla di una triplice discesa del profeta: egli scende al porto di Giaffa; scende nella nave; e nella nave egli si mette nel luogo più riposto. Nel suo caso, però, questa triplice discesa è una tentata fuga davanti a Dio. Gesù è colui che scende per amore, non per fuggire, ma per giungere nella Ninive del mondo: scende dalla sua divinità nella povertà della carne, dell’essere creatura con tutte le sue miserie e sofferenze; scende nella semplicità del figlio del carpentiere, e scende nella notte della croce, infine persino nella notte dello Sheòl, il mondo dei morti. Così facendo egli ci precede sulla strada della discesa, lontano dalla nostra falsa gloria da re; la via della penitenza, che è via verso la nostra stessa verità: via della conversione, via che ci allontana dall’orgoglio di Adamo, dal volere essere Dio, verso l’umiltà di Gesù che è Dio e per noi si spoglia della sua gloria (Fil 2,1-10). Come Giona, Gesú dorme nella barca mentre la tempesta infuria. In un certo senso nell’esperienza della croce egli si lascia gettare in mare e così placa la tempesta. I rabbini hanno interpretato la parola di Giona « Gettatemi in mare » come offerta di sé del profeta che voleva con questo salvare Israele: egli aveva timore davanti alla conversione dei pagani e al rifiuto della fede da parte di Israele, e per questo – così dicono – voleva farsi gettare in mare. Il profeta salva in quanto egli si mette al posto degli altri. Il sacrificio salva. Questa esegesi rabbinica è diventata verità in Gesù.
3) Giona rappresenta Gesù ma rappresenta anche Israele nella sua resistenza alla misericordia universale di Dio. Il nome di Giona significa colomba. In Osea 7,11, Efraim è indicato come colomba « ingenua, priva di intelligenza ». Giona, in cui da una parte traspare il mistero di Gesù, è, dall’altra, una incarnazione dell’Israele testardo che ha timore della salvezza dei pagani e fa resistenza di fronte a questa salvezza, che insiste sulla unicità della sua predilezione che non vorrebbe dividere con nessuno. Mentre Elia era turbato dal suo insuccesso e per questo voleva fuggire da Dio e morire, Giona ha paura del successo: fin dall’inizio egli teme che alla fine non sarà emesso il giudizio. Egli conosce Dio e sa che alla fine in lui la grazia prevale sempre sul giudizio. Egli però augura ai malvagi abitanti di Ninive il giudizio e non la grazia. Si augura che la sua predicazione si manifesti come vera attraverso il giudizio e non che la misericordia di Dio, per così dire, possa farla apparire superflua. Egli somiglia in questo al fratello maggiore della parabola di Gesù del figliol prodigo, che in realtà è la parabola dei due fratelli. Se il prodigo non viene punito e non sprofonda nel fango allora la mia fedeltà, pensa il fratello maggiore, risulta inutile, poiché la dissolutezza sarebbe meglio della fedeltà: così gli sembra. Una concezione simile si trova in Giona, si trova nella resistenza di Israele contro l’ingresso dei pagani nella promessa « senza l’opera della legge ».
Ci dobbiamo domandare nel passo successivo che cosa questo significa per noi.

La Parola illumina la nostra via e la interpella
1) Nella storia il paragone tra i pagani diventati credenti e l’Israele infedele è diventato presto causa di malintesi che dobbiamo constatare e combattere in ogni generazione, poiché adesso nella Chiesa siamo diventati « Israele » e corriamo lo stesso rischio di Israele: il rischio « dell’egoismo della salvezza », il rischio di guardare Israele dall’alto in basso e considerarci automaticamente giusti. Già Paolo, invece, diceva nella Lettera ai Romani: « Essi sono stati tagliati a causa dell’infedeltà mentre tu resti lì in ragione della fede. Non montare dunque in superbia ma temi!… Considera dunque la bontà e la severità di Dio: severità verso quelli che sono caduti, bontà di Dio invece verso di te, a condizione però che tu sia fedele a questa bontà. Altrimenti anche tu verrai reciso » (11,20ss). Troviamo qui due parole chiave: « credere » e « restare nella bontà di Dio ». Crediamo veramente? Non soltanto in teoria, ma in modo tale che la fede diventi fondamento della nostra vita, in modo tale che lasciamo la nostra vita nelle mani di Dio? E rimanere in Dio significa rimanere nella sua bontà: questo è il nocciolo del credere. Non temere la sua bontà – non temere che egli potrebbe essere troppo buono con gli altri cosicché la mia fede non avrebbe valore; rimanere nella sua bontà, averne parte: questo è il segno della fede. Noi cadiamo sempre nella tentazione del fratello maggiore o dell’operaio della prima ora: crediamo che la fede abbia valore solo se gli altri hanno di meno. Ma pensiamo che sia più bello vivere nell’infedeltà e nella sua apparenza di verità piuttosto che stare nella casa del Padre? La fede è per noi un peso che continuiamo a portare ma di cui in fondo vorremmo sbarazzarci o riconosciamo che la libertà apparente della infedeltà lascia vuota la vita, riconosciamo che è bello stare con Dio? Noi crediamo davvero solo se troviamo gioia in Dio e nella compagnia con lui e se, in forza di questa gioia, vogliamo trasmettere la sua bontà.
2) Se questi pensieri della universalità della misericordia divina e del sempre nuovo volgersi di Dio verso i pagani sono concepiti in modo superficiale, possono diventare pretesto per il relativismo e per l’indifferenza. La salvezza è comunque grazia, possiamo non meritarla, potremmo dire; è la stessa cosa essere pagani e essere cristiani, anzi forse meglio essere pagani, poiché i pagani non sono penetrati dalla giustizia che viene dalle opere e dalla presunzione, e possono così ricevere più facilmente la grazia come grazia. Allora non avrebbe neanche senso predicare il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù Cristo. Lasciamo che i pagani rimangono pagani, Dio avrà senz’altro misericordia di loro: così si potrebbe dire. E così ci si sente naturalmente incoraggiati a essere pagani: se io pecco sono più vicino alla grazia, ci si dice; non cadrò così facilmente nella trappola dell’essere pieno di me. Uno sguardo al testo di Giona come all’intera Bibbia, in specie al Nuovo Testamento, mostra come tutto questo sia falso e superficiale. C’è anche un essere pieno di sé dei pagani, uno star bene col peccato. Finisce che il cuore diventa cieco, che non vuole più Dio, non vuole più la grazia, non conosce più alcun pentimento. Però ciò che è cattivo rimane cattivo. La malvagità era giunta fino a Dio, ci dice il libro di Giona, e Dio decide di intervenire, ciò che è malvagio deve essere superato. I misfatti di Hitler, di Stalin, di Pol Pot, di tanti altri, così come dei loro complici e simpatizzanti, sono misfatti che rovinano il mondo e precludono la strada verso Dio. No, il duplice invito a Giona « alzati », non era una finzione, ma un comando impellente il cui adempimento Dio imponeva a dispetto della resistenza del profeta. E Cristo non è venuto perché tutto è già buono e sta sotto il regime della grazia ma perché l’appello alla bontà e al pentimento è assolutamente necessario. Il libro di Giona e la sua prosecuzione neotestamentaria è la più decisa negazione del relativismo e dell’indifferenza che si possa immaginare. Anche per i cristiani di oggi vale « Alzati… e annunzia quanto ti dirò » (Gn 3,2). Anche oggi deve essere annunciato l’unico Dio, il Dio che ha fatto il cielo, la terra e il mare, e regna sulla storia. Anche oggi è necessario agli uomini Cristo, il vero Giona. Anche oggi deve esserci pentimento perché ci sia salvezza. E come la strada di Giona fu per lui stesso una strada di penitenza, e la sua credibilità veniva dal fatto che egli era segnato dalla notte delle sofferenze, così anche oggi noi cristiani dobbiamo innanzitutto essere per primi sulla strada della penitenza per essere credibili.
3) Le parole chiave del nostro testo sono valide anche oggi e soprattutto per noi: conversione (« ognuno si converta », Gn 3,8) e penitenza. Di per sé questa parola non è usata espressamente, ma l’annuncio « quaranta giorni e Ninive sarà distrutta » (Gn 3,4) contiene il simbolismo dei quaranta giorni che indica il peregrinare di Israele nel deserto e dà con questo una concreta immagine del tema della penitenza. Traspare qui il messaggio chiave del Nuovo Testamento, che Gesù esprime con le parole « Convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1,15). Ciascuno di noi deve riflettere cosa per lui significhi « conversione ». L’esperienza dei grandi convertiti, nella storia della Chiesa, fu che il sì a Cristo e alla sua Chiesa, il battesimo, innanzitutto comportò un inizio completamente nuovo, cambiò dal fondo la loro vita. Ma se avevano pensato che a quel punto tutto era fatto e nuovo per sempre, dovevano sperimentare che la strada della conversione andava quotidianamente ripresa e di nuovo percorsa. Proprio questa è la differenza fra la sicurezza di Israele della sua predilezione e la Chiesa ex gentibus: la conversione non è bella e fatta, non è mai finita. L’immagine di Dio in te deve formarsi lentamente, lentamente deve accadere la trasformazione in Cristo, il « rivestirsi di Cristo ». Giorno per giorno io devo combattere contro la mia pigrizia, contro abitudini che mi asservono; contro i pregiudizi nei confronti del prossimo, contro simpatie e antipatie, dalle quali mi lascio trascinare, contro la ricerca del potere e l’autocompiacimento, contro l’avvilimento e la rassegnazione; contro la vigliaccheria e il conformismo come contro l’aggressività e la prepotenza. Giorno per giorno io devo scendere dal trono e cercare di imparare la strada di Gesù. Giorno per giorno devo spogliarmi delle mie sicurezze, superare nella fede i miei pregiudizi; non decidere da me cosa significa essere cristiano, ma imparare dalla Chiesa e lasciarmi condurre da essa. Giorno per giorno devo sopportare gli altri, come essi mi sopportano, visto che Dio sopporta tutti noi…
4) Il libro di Giona è un libro teocentrico. Il vero attore è Dio. Sì, Dio agisce – non si è tirato fuori dalla storia (cfr. Gv 5,17). E Dio ama la creazione. Si occupa degli uomini e degli animali. È un Dio che combatte ciò che è cattivo e per questo deve anche punire come giudice per fare giustizia. L’aspetto del giudizio, della punizione, della « collera » di Dio non deve sparire dalla nostra fede. Un Dio che accetta tutto non è il Dio della Bibbia, ma un’immagine sognata. Gesù si mostra come Figlio di Dio proprio perché può prendere la frusta e irato cacciare dal tempio i venditori. Proprio il fatto che Dio non è indifferente davanti a ciò che è cattivo ci dà fiducia. Ma rimane valido che la misericordia di Dio è senza confini. Dobbiamo sempre combattere contro il peccato e non perdere il coraggio di farlo, soprattutto oggi. Non aiuta la strada dell’imbonimento, ma soltanto attraverso il coraggio della verità, che sa anche dire di no, noi serviamo il bene. Questo coraggio si nutre della consapevolezza della misericordia di Dio, del fatto che egli ama le sue creature, ci ama. Nella lotta contro il male in noi e attorno a noi non possiamo demordere; ma conduciamo questa battaglia nella coscienza che Dio sempre « è più grande del nostro cuore » (1Gv 3,20). Noi conduciamo la battaglia con una infinita fiducia e per amore, poiché vogliamo essere vicini a colui che amiamo e che ci ha amati per primo (1Gv 4,19). Più impariamo a conoscere Dio più possiamo dire con la saggezza veterotestamentaria: « La gioia di Dio è la nostra forza » (Ne 8,10).

La lectio divina è stata tenuta
dal cardinale Joseph Ratzinger nella chiesa romana
di Santa Maria in Traspontina il 24 gennaio 2003.

Publié dans:PAPA BENEDETTO/JOSEPH RATZINGER |on 28 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

COSA SIGNIFICA CHE DOBBIAMO VANTARCI DELLE NOSTRE DEBOLEZZE?

http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Cosa-significa-che-dobbiamo-vantarci-delle-nostre-debolezze

COSA SIGNIFICA CHE DOBBIAMO VANTARCI DELLE NOSTRE DEBOLEZZE?

Un lettore ci chiede cosa voglia dire San Paolo con l’espressione «vantarsi delle sue debolezze». Risponde don Stefano Tarocchi, Preside della Facoltà teologica dell’Italia centrale

Nella seconda lettera ai Corinzi San Paolo dice di vantarsi delle sue debolezze, in quanto necessarie per avere la grazia di Dio. Questo vale anche per i peccati? Non dobbiamo dolerci più di tanto di certi peccati, se questi aprono alla grazia di Dio? Certo la grazia si ha se siamo peccatori, infatti Gesù è venuto per i malati e non per i sani!

Gino Galastri
Il tema della debolezza è ampiamente presente nelle lettere dello stesso apostolo (e non solo!), e merita quindi un approfondimento, non fosse altro che per capire il significato esatto delle sue parole, così da non aprire a interpretazioni non necessarie.
Già nella stessa corrispondenza con la chiesa di Corinto, troviamo che l’apostolo accosta stoltezza e debolezza di Dio, per dire che esse sono rispettivamente più sagge e più forti degli uomini (1 Corinzi 1,25). Ma, aggiunge Paolo, «quello che è stolto per il mondo, Dio l’ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio l’ha scelto per confondere i forti (1 Corinzi 1,27). Più avanti l’apostolo precisa ai Corinzi che egli stesso si è presentato a loro «nella debolezza e con molto timore e trepidazione» (1 Corinzi 2,3).
Anche solo da questo primo sguardo, appare evidente che la debolezza ha a che fare con la condizione umana, con le sue contraddizioni, come quella che provano quanti, deboli nella coscienza, sono turbati dall’aver mangiato carni originariamente destinate al culto degli idoli (1 Corinzi 8,7). Nella complessa questione cui qui è possibile solo accennare, Paolo mette in guardia quanti si sono liberati da questo condizionamento: infatti «non esiste al mondo alcun idolo» (1 Corinzi 8,4), scrive, e se anche «alcuni hanno molti dèi e molti signori», «per noi c’è un solo Dio, il Padre … e un solo Signore, Gesù Cristo» (1 Corinzi 8,6). E tuttavia, egli conclude, se c’è il pericolo che la coscienza di un debole vada in rovina, «un fratello per il quale Cristo è morto», «non mangerò mai più [questo tipo di]carne, per non dare scandalo al mio fratello» (1 Corinzi 8,11.13). La debolezza si presenta anche per descrivere la lontananza da Dio dell’umanità non redenta: «quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi» (Romani 5,6). Per questo «anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in maniera conveniente, ma lo stesso Spirito intercede con gemiti inesprimibili (Romani 8,26).
Sono quelli che Paolo, a Roma ma anche a Corinto, con una felice espressione chiama «deboli nella fede» (Romani 14,1). Sul campo opposto si trova Abramo, l’uomo che non «fu debole nella fede», e per questo «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Romani 4,18-19).
La debolezza della condizione umana, oltre che la coscienza e lo spirito, colpisce il corpo dell’uomo con la malattia, come quella che assale i Corinzi di fronte alla loro incapacità di riconoscere il Corpo del Signore nelle loro assemblee eucaristiche: «è per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi (lett. « deboli »)» (1 Corinzi 11,30), ma anche il suo inviato Epafrodito (Filippesi 2,26), o lo stesso Timoteo che Paolo invita a bere un po’ di vino a causa delle sue frequenti debolezze (1 Timoteo 5,23).
Del resto Paolo, con un colpo d’ala straordinario, sostiene la totale comunione del suo ministero di apostolo verso coloro che gli sono stati affidati, aggiunge: «mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Corinzi 9,22). È lo stesso apostolo che alcuni a Corinto accusavano di essere debole quando presente fisicamente e, al tempo stesso, quasi prepotente mentre scrive da lontano (2 Corinzi 10,1). Qualcuno diceva infatti: «le lettere sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa» (2 Corinzi 10,10). È in questo modo che Paolo difende la sua persona di fronte alle accuse ricevute nel suo svolgere il ministero a Corinto: «dal momento che molti si vantano, mi vanterò anch’io» (2 Corinzi 11,18). Quindi conclude: «chi è debole che anch’io non lo sia… se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza» (2 Corinzi 11,29-30).
E qui siamo arrivati al principale testo a cui il lettore si riferisce. Dopo aver parlato della «spina ricevuta nella sua carne», che Paolo ha chiesto gli venisse allontanata, scrive che il Signore «mi rispose: « Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza ». Mi vanterò quindi volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo; quando sono debole è allora che sono forte» (2 Corinzi 12,9-10).
Nel paradosso per cui la forza divina, la sua potenza di salvezza, si «manifesta pienamente nella debolezza», c’è la chiave per una corretta interpretazione del linguaggio dell’apostolo. Del resto, a proposito di Gesù, egli scrive che «fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio» (2 Corinzi 13,4). Proprio in quanto crocifisso, Cristo «è potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Corinzi 1,24). Quindi, senza nulla togliere al detto evangelico dell’attenzione di Gesù verso i malati e i peccatori (così Matteo 9,12 e Luca 5,31, ma anche 1 Timoteo 1,15: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori»), l’accento va posto con maggiore convinzione sul tema della croce, che rovescia totalmente tutti i nostri termini abituali di riferimento: «quello che è debole per il mondo, Dio l’ha scelto per confondere i forti (1 Corinzi 1,27).

Publié dans:Lettera ai Corinti - prima, TEOLOGIA |on 28 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

27 GENNAIO – GIORNO DELLA MEMORIA

27 GENNAIO - GIORNO DELLA MEMORIA dans immagini varie r1227916_16158673

http://www.abc.net.au/local/stories/2014/01/23/3930697.htm

Publié dans:immagini varie, SHOAH |on 27 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

QUANDO L’INIZIO FA CORTOCIRCUITO CON LA FINE, AD ANDARE A FUOCO SIAMO NOI (Lettere di San Paolo, Apocalisse)

http://www.tempidifraternita.it/archivio/bodratoweb/bodrato13.htm

QUANDO L’INIZIO FA CORTOCIRCUITO CON LA FINE, AD ANDARE A FUOCO SIAMO NOI

Si consiglia di leggere questo articolo tenendo presenti i sequenti passi biblici: Romani 5, 12- 21 e 8, 18-27; I Corinti 15, 20-28; Filippesi, 2, 5-11; Colossesi 1, 15-20; Apocalisse, cap. 21-22.

Proprio perché comincia coi racconti dell’origine e termina con le immagini di una rivelazione (apocalisse), che adombrano la conclusione ultima, la Bibbia non può non contenere pagine che tentano un incontro tra questi suoi due estremi. L’inizio preordina in qualche modo la fine e la fine inevitabilmente rimanda alle grandi attese e ai fondamentali valori dell’inizio. Lo abbiamo chiarito in termini generali in uno dei nostri primi interventi, ma qui ora dobbiamo tornarci con maggiore attenzione. Infatti la ripresa neotestamentaria del tema delle origini si caratterizza proprio per lo stretto rapporto posto tra primo e ultimo nell’interpretazione della figura di Gesù, anzi quasi traforma la loro potenziale relazione in una sorta di cortocircuito cristologico.
Tutto ciò solleva un’infinità di questioni esegetiche e teologiche tutt’altro che semplici, come abbiamo visto durante la rilettura del prologo del Vangelo di Giovanni. Se in Gesù si incontrano, infatti, l’originaria potenza creatrice del Verbo, quella storico-rivelatrice dello Spirito e, in ultimo, la realizzazione escatologica della pienezza in Dio della creazione e della storia, Gesù è la sintesi del tutto, la verità di Dio e la verità dell’uomo, il compimento che riassume in sè ogni altro essere e ogni altra attesa, ma, come Crocefisso-Risorto, ne è anche la radicale problematizzazione.
L’esegesi tipologica come strumento neotestamentario di lettura e di scrittura biblica
Tutti sappiamo che le pagine che compongono il Nuovo Testamento nascono dal bisogno di tradurre in annuncio e in testimonianza scritta la fede cristologica dei primi seguaci di Gesù. Potremmo anche tentare di articolare in tempi e livelli diversi le tappe che hanno portato alla professione esplicita di tale fede, per meglio comprendere che essa non forma un blocco unico e non corrisponde, sic et cimpliciter, alla predicazione di Gesù. Ma questo ci condurrebbe lontano. Ci basti qui tenere presente il fatto che tutto il Nuovo Testamento è frutto di una riflessione sull’esperienza del proprio incontro, diretto o indiretto, col Nazareno che, per tradursi in scritto teologicamente orientato e orientante, in cristologia appunto, si vale di una profonda rilettura dell’Antico Testamento, di una sua continua rivisitazione per mezzo di citazioni esplicite e implicite, di rimandi e rielaborazioni. In sostanza si potrebbe quasi dire che i libri cristiani della Bibbia nascono come ricucitura di quelli ebraici intorno alla figura di Gesù di Nazaret detto il Cristo.
Anche questa è una caratteristica della Bibbia, quella di essere un libro che mette in scena la propria stesura, che tematizza ed esplicita la propria natura aperta, capace di continui aggiornamenti e completamenti. Per di più dovuti ad una lettura che si fa scrittura, che genera pagine nuove, degne di diventare compagne delle antiche e sorgente di altre infinite riletture e riscritture.
E’ così che hanno operato Paolo, Giovanni e le loro scuole, che ha operato l’autore della lettera agli Ebrei e quello dell’Apocalisse. Quando hanno cercato di dare corpo teologico e forma letteraria e simbolica alla propria convinzione di fede che Gesù era il Cristo, hanno evocato i temi teologici, le forme letterarie, i simboli portanti della fede veterotestamentaria, hanno utilizzato le grandi figure della Scrittura per convogliarle e raccoglierle intorno alla persona del loro eroe. Hanno dato vita ad una straordinaria operazione esegetico-creativa che va sotto il nome di tipologia.
Ce lo documenta con straordinaria chiarezza Earle Ellis nel suo studio sull’uso de L’antico Testamento nel primo cristianesino (Brescia, 1999). « L’esegesi tipologica era già stata impiegata nel giudaismo, ma per il cristianesimo primitivo essa divenne la chiave fondamentale per l’interpretazione scritturistica della figura e della missione di Gesù. » Essa si basa, infatti, sulla convinzione che gli eventi cristiani della salvezza si spiegano come realizzazione di analoghi eventi testimoniati dalla storia passata di Israele. Considera questi ultimi come anticipazioni e figure, come tipi o antitipi del Cristo. Tratta anzi a sua volta il Cristo stesso come prefigurazione e anticipazione, come tipo profetico del compimento futuro dell’intero processo redentivo (p. 141).
Ora, in generale, nel Nuovo Testamento la tipologia si presenta come tipologia della creazione e tipologia dell’alleanza. La prima presenta Adamo come « tipo di colui che doveva venire » (Rom 5, 14) e Gesù come nuovo Adamo, capace di rovesciarne l’umano destino di morte in destino di vita (I Cor 15, 22). La seconda fa di Gesù il nuovo Mosè e degli eventi dell’Esodo dei « tipi » della nuova alleanza, dei « tipi » che « vennero messi per scritto quale ammonimento per noi su cui è giunta la fine dei tempi » (I Cor 10, 6-11). Il che porta ad un terzo genere di tipologia, quella escatologica. Poiché, infatti la nuova alleanza, associata alla morte e resurrezione di Gesù, sfocia in una nuova creazione, le due prime tipologie non solo possono intrecciarsi, ma di necessità si incontrano nell’immediata apertura ad una dimensione nuova e diversa del creato e della storia.
E’ esattamente per questo che Paolo può parlare di una creazione che attende la propria liberazione dalla rivelazione dei figli di Dio (Rom 8, 19), che gli autori delle lettere ai Colossesi e agli Ebrei possono presentarci Gesù come primizia del creato, capo della chiesa storica e primogenito dei risorti e dei riconciliati con Dio (Col 1, 15-20, Ebr 1-2), che il visionario dell’Apocalisse può aprire la sua prima lettera alle sette chiese qualificando l’emissario, Gesù risorto, come il Primo e l’Ultimo (2, 8) e chiudere la sua opera con una promessa che riassume enfaticamente tutto questo processo di risintetizzazione cristologica e martiriale del processo creativo e redentivo: « Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omnicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna. » (22, 12-15).
La cristologia come modello deflagrativo del presente
Ora questa ripresa sintetica del tema creativo e redentivo, posti in così stretta relazione con la realizzazione del loro fine ultimo, ci obbliga a renderci conto che il nostro non è affatto un credo pacificamente rassicurante e che la Bibbia cristiana, proprio perché non ci consente di dimenticare il passato, ma continuamente lo rilancia verso il futuro, è un libro esplosivo, un libro che fa del presente una sorgente di infinito e mai esausto dinamismo. Il che è evidente soprattutto per la cristologia, che privata di tale carattere dinamico e dirompente e letta come una dottrina metafisica degli attributi essenziali del Nazareno, diventa un « busillis » indecifrabile.
Il presente cristiano è per definizione un presente inquieto e lacerato, un presente in lotta per diventare quello che già sa di essere, ma ancora non sperimenta in tutta la sua pienezza. Un presente che potremmo paolinamente definire come un presente in corsa o in gara e che nulla esenta da questa situazione agonica di attesa e di tensione: non la storia con la sua specifica conflittualità, ma neppure la natura, con le sue tradizionali prerogative di fissità e perfezione.
Abbiamo in proposito già ricordato il passo in cui Paolo parla della creazione impaziente « Di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio » (Rom 8, 21),. Ma ora dobbiamo capire che quest’opera non consiste solo nella restaurazione di uno stato iniziale, temporaneamente deturpato dal peccato, bensì di qualcosa di totalmente nuovo e rivoluzionario, tanto rispetto all’essere originario del mondo, quanto e al nostro stare post-cristico. « Sappiamp bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede, come ancora potrebbe sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. » (8, 22-25).
Il che vale anche per il parallelo tipologico Adamo-Cristo. Gesù, come nuovo ed ultimo Adamo, non si limita a cancellare le colpe e i mali introdotti nella vita dalla trasgressione di Adamo, in quanto « il dono di grazia non è come la caduta ». « Se infatti per la caduta di uno solo morirono molti….molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo  » (Rom 5, 15-17). Egli è un « tipo » di Adamo che supera il padre naturale di tutti gli uomini, non soltanto perché, « pur essendo nella forma di Dio » (Filippesi 2, 6 e Gen 1, 26), « non considerò lo stato di equaglianza a Dio come una possibile preda » (Fil 2, 6; Gen 3, 5-6), ma anche perché, con la sua scelta di obbedienza fino alla morte, manifestò una vocazione alla signoria ben superiore a quella affidata da Dio ad Adamo e ottenne « un nome che è al di sopra di ogni altro nome…Un nome…di fronte al quale si piega ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra » (Fil 2, 7-11).
Se anche la creazione dove rinnovarsi
Siamo ad un passo dalle affermazioni cristologiche del prologo di Giovanni e delle lettere ai Colossesi e agli Ebrei sulla preesistenza di Gesù Cristo alla natura e sulla sua stessa funzione creatrice; affermazioni che abbiamo esaminato nell’ultimo articolo e che ci sono sembrate davvero problematiche. Ma siamo anche ad un passo dal coglierne, insieme, il limite, la necessità e la paradossalità.
Il limite, perché in nessuna di queste professioni di fede cristologica, Gesù è presentato come Dio per essenza e per pacifica connaturalità, ma sempre e solo in relazione dinamica privilegiata con Lui, in rapporto di vicinanza e prossimità operativa molto stretta, in funzione mediatrice insostituibile nel momento creativo, in quello storico rivelativo e in quello escatologico.
La necessità perché senza una propria forte coloritura cristologica difficilmente la teologia cristiana potrebbe presentarsi come fedele rielaborazione innovativa di quella ebraica: fedele nella linea della progressiva e sempre più radicale interpretazione kenotico-redentiva dell’operare di Dio; innovativa nella scelta incarnazionista ed escatologica.
Paradossale perché proprio ciò che costituisce l’originalità della teologia cristiana, la sua forte enfasi cristologica, non si limita a caricare il Cristo di tutte le tensioni della natura e della storia, ma con lui carica di tali tensioni anche il cristiano e il suo tempo, vale a dire il nostro presente, conducendolo al limite della rottura.
E’ così che ci troviamo sfidati a vivere ogni nostra giornata come se si trattasse dell’attimo in cui il Regno può fare irruzione nella storia, ad esercitare, insieme, la virtu paziente e fiduciosa dell’attesa, l’operosità attiva di chi sa che da essa dipende ben più del suo destino, il coraggio di anticipare nella realtà mondana i segni di un futuro totalmente nuovo. E’ così, infine, che siamo invitati a far nostra la convinzione che il fondamento di tutto ciò non sta nella sicura conoscenza di un passato, ben saldo, ma nello slancio di una fede che tutto proietta al di là del già dato, come speranza: persino il vero essere dei cieli e della terra nuova in cui sognamo di ritrovarci risorti e liberati dalla morte e dal male.
Non abbiamo letto, forse, che coloro, che con bianche vesti, lavate dal sangue dell’Agnello, potranno aver parte all’albero della vita (Ap 22, 14), non si troveranno nel giardino edenico della prima creazione ma in una città martire della storia, trasformata in Gerusalemme celeste (21, 9-27)? Non ci è stato annunciato che tutto ciò comporterà la scomparsa del cielo e della terra di prima e, in forma assoluta e definitiva, del mare (21, 1)? Che analoga sorte toccherà alle tenebre e alla notte e, di conseguenza, allo stesso ritmo quotidiano del loro alternarsi con la luce del giorno (22, 5)?
Solo immagini, certo, non più che figure e simboli, ma simboli, figure e immagini che ci fanno capire che neppure l’opera « molto buona » del primo capitolo di Genesi regge alla prova dell’escaton cristico; che neppure la creazione col suo Dio può da sola essere presa come punto d’appoggio solido e definitivo per aprire, senza problemi, la bella formula di un credo cristiano.

Aldo Bodrato 

IL “NON SO” DEL CARD. MARTINI, di PIERO STEFANI

http://pierostefani.myblog.it/2012/09/08/397-il-non-so-del-card-martini/

IL “NON SO” DEL CARD. MARTINI, di PIERO STEFANI [Il riferimento biblico è al Paolo degli Atti degli apostoli (20,17-38)]

Posted on 8 settembre 2012

Il pensiero della settimana, n. 397

Vi sono due esperienze comuni nella vita di ciascuno. La prima è di non saper motivare fino infondo sul piano argomentativo le scelte qualificanti della propria esistenza, la seconda è di sperimentare le conseguenze impreviste di alcune decisioni liberamente e consapevolmente assunte. Se si domandano a ciascuno di noi le motivazioni profonde del perché sia credente o agnostico, del perché abbia sposato quella determinata persona, del perché abbia scelto quella determinata professione e così via, dalla bocca uscirebbero certo parole, tuttavia si resterebbe nell’intimo, in parte, insoddisfatti; avverrebbe qualcosa di simile a quel che capita quando si racconta un proprio sogno: anche quando si vuol essere precisi si avverte che qualcosa ci sfugge; il discorso resta al di sotto delle immagini. Allorché si prendono decisioni fondamentali per la propria vita si è consapevoli di non poter controllare la distesa del possibile che ci si squaderna davanti, si ignora però quali specifiche situazioni prenderanno effettivamente piede e se, per caso, irromperà una di quelle che vanifica alcuni presupposti di fondo della scelta compiuta.
Dieci anni fa, al termine del suo lungo mandato episcopale, Carlo Maria Martini comunicò la propria volontà di trascorrere a Gerusalemme gli ultimi anni della sua vita. Quella città avrebbe dovuto essere anche il luogo della sua sepoltura. Si trattò di una scelta qualificante. Essa suscitò non poco sconcerto in molti di coloro che vedevano la grande guida spirituale allontanarsi dall’Italia.
Parlando a Efeso il 18 giugno 2002, nel corso di un pellegrinaggio diocesano, Martini commentò di persona la scelta da lui compiuta. Nel farlo espresse la propria incapacità di motivare in maniera conveniente la decisione già assunta: «Tante volte mi è stato chiesto negli ultimi mesi: perché vuole andare a Gerusalemme, una volta terminato il suo ministero a Milano? E ho risposto: non lo so. Vado “avvinto dallo spirito”, come dice Paolo, mosso interiormente dallo Spirito Santo. Mi pare quindi di partecipare molto fortemente ai suoi sentimenti e di viverli nel cuore. E vado senza sapere ciò che mi accadrà. Nessuno sa che cosa può accadere a Gerusalemme dove avvengono tante cose dolorose e strazianti» (C.M. Martini, Verso Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2002, p.11).
Il riferimento biblico è al Paolo degli Atti degli apostoli (20,17-38). In quel passo si afferma appunto che egli andrà a Gerusalemme «avvinto dallo Spirito (…) senza sapere ciò che gli accadrà». L’attualizzazione a cui alludeva il cardinale riguardava invece i giorni terribili degli attentati terroristici: poche ore prima era saltato in aria un autobus provocando la morte di una ventina di studenti. Nel riferire a se stesso le parole di Paolo, Martini pensava probabilmente che sarebbe potuto capitare anche a lui di essere casualmente colpito da qualche strumento di morte mentre si trovava per le strade della «città santa». L’eventualità rafforzava in lui la convinzione che era bene abitare là dove il dramma della storia umana si fa più intenso e autentico.
Il Vangelo di Luca rimarca con forza il momento di svolta dell’itinerario fisico e spirituale di Gesù. Ciò avviene evocando la figura del «servo del Signore» che indurì il proprio volto (Is 50, 7). Così fece anche Gesù quando si mise in cammino verso Gerusalemme (Lc 9,51). Giunto là sapeva che sarebbe dovuto morire. Il racconto lucano non lascia spazio a incertezze: «Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua il cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori da Gerusalemme» (Lc 13,33).
In quel frangente della sua vita Martini guardò però non già al Vangelo bensì all’altra opera di Luca, gli Atti, in cui il rapporto di Paolo con Gerusalemme è contraddistinto da una nota meno sicura: in quella città non si sa cosa possa accadere. Sembra tuttavia di capire che l’animo del cardinale allora, per quanto insicuro del modo in cui sarebbe morto a Gerusalemme dove «avvengono tante cose dolorose e strazianti», non avesse messo in preventivo che proprio la sua malattia sarebbe stata la causa maggiore che gli avrebbe impedito di chiudere per sempre gli occhi nella città alle cui porte Gesù gridò «Elì». Il dilagare progressivo del Parkinson e la crescente necessità di essere accudito hanno, invece, spinto Martini a ritornare in provincia di Milano. In modo inatteso la sua parabola finale si è consumata in terra ambrosiana.
Per chi ha studiato filosofia Gallarate evoca i volumi, più volte consultati, dell’ Enciclopedia filosofica. Per chi è più addentro nelle questioni accademiche richiama anche l’Aloisianum, vecchia sede della Pontificia Facoltà di Filosofia (dove studiò anche il giovane Martini). Tutto questa è storia passata: la Facoltà è chiusa da decenni e ora il Centro studi di Gallarate, scombinando un poco gli orientamenti geografici, ha sede a Padova. La decrescita numerica e il progressivo invecchiamento dei gesuiti italiani hanno indotto a trasformare la sede dell’Aloisianum in casa di riposo per i membri anziani dell’ordine. Là Martini ha trovato la sua «residenza assistita». Al pari di Ignazio di Loyola – in altre circostanze da lui esplicitamente citato a questo riguardo – Martini avrebbe desiderato vivere e morire a Gerusalemme. La crescente debolezza sua e della Compagnia di Gesù nel suo insieme lo hanno condotto invece a morire lontano dalle mura di Gerusalemme e prossimo ai luoghi in cui fu pastore. Tuttavia proprio questo reditus, che appare per più versi come un fallimento, è inscritto più profondamente nella paradossale logica salvifica della croce di quanto non sarebbe stato un congedo dalla vita terrena avvenuto nella città di Davide. L’ininterrotto pellegrinaggio alla sua salma ospitata nel Duomo di Milano è stato il segno pubblico di quanto la sua figura e la sua opera abbiano inciso in terra ambrosiana.

    
PIERO STEFANI

Desert Father, praising God

Desert Father, praising God dans immagini sacre praise

http://restlesspilgrim.net/blog/wp-content/uploads/2013/02/praise.jpg

Publié dans:immagini sacre |on 26 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

RICCARDO DI SEGNI – LEGGE E LIBERTÀ NELL’EBRAISMO

http://www.morasha.it/zehut/rds18_liberta.html

RICCARDO DI SEGNI

LEGGE E LIBERTÀ NELL’EBRAISMO

Intervento per il convegno del S. Egidio, Palermo, 2 Settembre 2002

Ringrazio…

L’argomento che discutiamo questa mattina ha un posto di tutto rilievo nell’esperienza religiosa ebraica. Quando Charlton Heston nei panni di Mosè nel film I dieci comandamenti scende dal monte Sinai e scopre il vitello d’oro, gli sceneggiatori gli fanno dire che “non c’è libertà senza legge”. In questo caso la battuta non è un’invenzione holliwoodiana, ma ha un preciso riscontro nella tradizione. Il rapporto tra legge e libertà è definito con precisione nel racconto della Bibbia, in particolare nel libro dell’Esodo. La storia a tutti nota è quella di un popolo che viene strappato, forse anche contro la sua volontà, dalla schiavitù egiziana, e che poi , a 50 giorni dal giorno in cui è stato liberato, assiste alla rivelazione divina con la promulgazione del decalogo sul monte Sinai. Il modello dell’uscita dall’Egitto diventa fondamento dell’esperienza religiosa ebraica, base della legge, criterio di riferimento per un sistema di diritto dove non c’è posto per l’ingiustizia e l’oppressione. La prima affermazione dei cosiddetti 10 comandamenti è quella in cui D. si presenta come Colui “che ti ha fatto uscire dall’Egitto, dalla terra della schiavitù” (Esodo 20:2). La legge che regola la schiavitù si basa sul principio che “i figli d’Israele sono per me schiavi che ho fatto uscire dall’Egitto (Lev. 25:55). Come spiegano i rabbini, schiavi di D. ma solo di Lui, e quindi di nessun altro. Sottomissione a D. come libertà da qualsiasi altro assoggettamento. Il tema della libertà si caratterizza quindi in un modo del tutto particolare, nel legame inscindibile con D. e la sua volontà e il dovere che impone. Mosè davanti al Faraone cita le parole divine: “manda via il mio popolo, perché mi servano” (Es. 7:16, 26, 9:1,13, 8:16) da una parte la libertà, dall’altra il servizio.

Come è noto, nell’ebraismo il racconto biblico non rimane solo un documento del passato, ma è base dell’esperienza quotidiana, oggetto di studio e modello di pratica che viene sistematicamente rivisitato. Il ricordo dell’uscita dall’Egitto, che è in altri termini quello della libertà acquisita, è base di tutta la vita cerimoniale, dal Sabato alla Pasqua. Ma la scansione liturgica del tempo comprende necessariamente la celebrazione di Shavuot, la Pentecoste ebraica, a sette settimane dalla Pasqua, e alla quale ci si prepara giorno per giorno, contando letteralmente ogni giorno, con una piccola cerimonia, in ossequio al dettato biblico di Lev. 23:15. Il messaggio è chiaro: che la libertà conquistata non ha senso se non c’è la la legge, la cui promulgazione si celebra appunto a Shavuot.

I rabbini hanno voluto ribadire questo concetto con una specie di slogan. E’ un famoso midrash, un insegnamento rabbinico del secondo secolo, che gioca sull’espressione biblica con cui si descrive la scrittura delle tavole della legge. Il testo dice che “le tavole erano opera divina e la scrittura era scrittura di D. incisa sulle tavole” (Esodo 32:16). “Incisa” in ebraico è “charut”; sostituendo una vocale –cosa possibile perchè il testo non è vocalizzato- si può leggere cherut, che significa libertà: Quindi i Maestri suggerivano di leggere la frase nel senso che “la scrittura di D. è libertà nelle tavole”1. La frase ha un grande effetto di per sè, ma i rabbini continuarono a ragionarci sopra. Alcuni spiegarono: “chi si occupa di Torà è libero per sè stesso”. 2 Altri discussero il senso di questa libertà: Rabbì Jehuda dice “libertà dai regni”, o in altre versioni “dagli esili”; rabbi Nechemia dice “libertà dall’angelo della morte”, gli altri Maestri dicono “libertà dalle sofferenze” 3 La divergenza rabbinica, che ora cercheremo di capire, scopre l’aspetto al tempo stesso debole e forte del principio. Perchè può essere facile parlare di libertà, ma di libertà ce ne se sono tante e diverse e lo slogan non ha senso se non si chiarisce di che libertà si tratti. E se qualcuno si potrebbe stupire per la mancanza di consenso rabbinico su un così importante pilastro del sistema, usi almeno questo rilievo come conferma di un primo dato molto importante: che la divergenza sul senso della libertà dimostra come ci sia nel sistema un ampio margine di libertà di pensiero e di dissenso. Entrando nel dettaglio della divergenza possiamo spiegare che la prima interpretazione, quella che parla di libertà dai regni o dagli esili, è essenzialmente politica; si tratta di indipendenza nazionale e il messaggio è che per il popolo ebraico solo se c’è l’accettazione della legge c’è la garanzia di non dipendere o ed essere sottomessi ad altri. Ma quello che sembra un semplice discorso politico probabilmente contiene un profondo messaggio religioso perché sostiene per gli ebrei l’unicità e l’esclusività della legge divina come garante di una libertà che altri popoli invece possono acquistare anche solo in termini meramente politici. Quando poi si parla, nelle altre due interpretazioni, di libertà dalle sofferenze o dall’angelo della morte, il discorso non è più – almeno in apparenza- politico, ma sale sulla scala dell’esperienza religiosa, per integrare la dimensione collettiva con quella personale, per passare dalla sofferenza materiale all’equilibrio e alla crescita spirituale, fino alla trasformazione totale della condizione dell’uomo. Beninteso, i messaggi che cerchiamo di interpretare sono in parte ancora misteriosi, con ampio raggio di significati, e le proposte di lettura non potranno mai garantire la certezza del risultato; ma questo nell’ebraismo fa parte del gioco.

Se dunque sul primo termine del discorso, la libertà, tutti concordano che c’è ma ognuno l’ intende a modo suo e abbiamo qualche difficoltà a capire fino in fondo di cosa si parli, sul secondo termine, quello della legge, l’intenzione è chiara, malgrado il terribile equivoco che lo circonda. Quando in tutti i testi tradizionali si parla di legge, si intende sempre qualcos’altro, che non è strettamente legge, è la Torà. Torà significa essenzialmente insegnamento ed è il nome che viene dato in senso stretto alla prima parte della Bibbia, il Pentateuco, che rappresenta la Torà scritta, e in senso più largo a tutta la tradizione sacra, che viene definita orale perché fino a circa il secondo secolo veniva trasmessa solo a viva voce. In tutti i testi che abbiamo citato la parola legge è da sostituirsi con Torà. Di questa traduzione parziale e fuorviante è responsabile il tramite greco, che spesso rende Torà con nomos e poi ne riduce il significato. In questo processo riduttivo, e in qualche modo emarginante, ha una notevole responsabilità il cristianesimo dei primi secoli, e di questo dato, proprio nel contesto attuale che è di confronto rispettoso e costruttivo, dobbiamo tener conto con grande attenzione. Il cristianesimo di Paolo nasce alimentandosi su una contrapposizione con la legge, che è poi contrapposizione alla Torà, e proprio in questa contrapposizione trova parte della sua identità rispetto alla matrice originaria ebraica. Le espressioni rabbiniche sopra citate vanno lette anche in questa luce, come un tentativo di sistematizzazione che ha sullo sfondo la nascita di una nuova religione che critica all’ebraismo la sua fedeltà alla Torà. Il paradosso è che il cristianesimo eredita dall’ebraismo il tema della libertà che si conquista solo nella strada di una disciplina spirituale, ma allo stesso tempo rifiuta il modello globale presentato dall’ebraismo, definendolo come “legge”. Nei secoli successivi il distacco si farà ancora più profondo, accompagnato anche dal disprezzo e dall’accusa di freddo legalismo.

Questa prima grande rivolta del figlio contro il padre ha avuto la sua ripetizione quasi vendicativa nella rivolta del nipote contro padre e nonno; uscendo di metafora, la nascita del mondo contemporaneo intorno all’idea della democrazia, fondata sui concetti di libertà ed uguaglianza. La modernità, mentre attinge questi concetti -anche senza ammetterlo- dalle fonti mai prosciugate della tradizione giudeo-cristiana rifiuta in qualche modo l’ispirazione religiosa sottolineando il diritto ad una legge che l’uomo si dà da solo, senza dipendere dall’autorità divina o di chi pretende di rappresentarla in questa terra. Alcune religioni monoteistiche hanno faticato molto nel tentativo di conciliare i fondamenti della società attuale con l’idea di origine sacra degli ordinamenti dei propri sistemi; spesso il risultato è quello di un compromesso più o meno onorevole nel quale si cerca di far convivere le differenze separando gli ambiti di competenza. Altre religioni non hanno neppure fatto questo tentativo, o sono giunte, in alcune loro componenti , alla conclusione di opporsi totalmente al sistema democratico. E siamo così arrivati alla dolorosa recente constatazione che in questo mondo globalizzato l’estremismo religioso, opposto ai valori centrali della democrazia, è diventato veramente una minaccia seria.

La dicotomia tra secolarismo e religione sul tema della libertà, dopo essere stata una delle basi del conflitto degli ultimi due secoli tra progresso e reazione, torna alla tragica ribalta nella tormentata ricerca attuale di un equilibrio. La società occidentale deve trovare la sua strada tra le minacce dell’estremismo religioso da una parte e del relativismo morale dall’altra 4. Il ruolo delle religioni, specialmente delle tre grandi monoteistiche, potrebbe essere determinante in questo processo, ma è difficile dire se le religioni riusciranno a trovare una piattaforma condivisa per una risposta comune. Non si può ignorare quanto, proprio su questi temi, in ciascuna religione l’identità sia costruita su un’immagine forte, e spesso, almeno nel passato, polemica verso le altre realtà. Ma perchè non possiamo rifiutare la richiesta e la responsabilità, dobbiamo ragionare sui nostri fondamenti, sui valori e sulle proposte da offrire, ciascuno partendo dalla propria esperienza.

L’idea che guida l’ebraismo è la riflessione sulla natura e sul dovere dell’uomo. L’uomo è libero di scegliere il suo destino ma non è indipendente dalla creazione e dal Creatore, ed è per questo chiamato ad una vocazione superiore, alla realizzazione della spiritualità cui lo chiama la sua natura duplice, materiale e spirituale. Come l’accampamento, dove il popolo si raccoglie e si ferma deve essere sacro (Deut. 23:15), così il singolo individuo deve realizzare la santità per diventare egli stesso accampamento e sede di immanenza divina; un’immanenza che cerca l’uomo singolo come la collettività organizzata e vi si posa sopra anche suo malgrado, “sta in mezzo a loro tra le loro impurità” (Lev.16:16). L’uomo è sottoposto e minacciato da ogni tipo di schiavitù, da quella delle passioni personali a quella politica e ideologica della società che lo circonda. In opposizione a queste minacce il modello di santità proposto rappresenta una forma di riscatto e di liberazione totale dalle seduzioni passionali e culturali; e rispetto alle forme politiche di oppressione una linea di resistenza attiva e passiva, e un’espressione di speranza nella forza divina liberatrice. Di libertà ce ne sono tante, come di schiavitù. Quando un essere umano serve più di un padrone sta facendo una qualche forma di idolatria. Il richiamo assoluto ebraico alla spiritualità non estranea l’uomo dalla società ma ve lo reimmerge decisamente con un progetto di rinnovamento e di correzione, indicando un modello di libertà molto più ampio e comprensivo di quelli di cui la società laica si accontenterebbe. Senza estremismi e imposizioni, possiamo e dobbiamo rivendicare, nel confronto con gli altri sistemi e le altre culture, e potremmo farlo anche insieme, che la nostra idea di servizio assoluto ad un unico Re è la risposta necessaria, è una sfida alla crescita, è un lievito fecondo.

1 Avot 6 :2 dove il testo prosegue: « e’ libero solo colui che si dedica allo studio della Tora’ »
2 Avot de Rabbi Nathan 2
3 Numerose le fonti: Tanchuma Waera 9, Shir haShirim Rabba 8, Shemot Rabba 51, Waikra Rabba 18
4 Paul Eidelberg, Beyond the Secular Mind. A Judaic Response to the Problems of Modernity, Greenwood Press

12345...10

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01