QUANDO L’INIZIO FA CORTOCIRCUITO CON LA FINE, AD ANDARE A FUOCO SIAMO NOI (Lettere di San Paolo, Apocalisse)
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QUANDO L’INIZIO FA CORTOCIRCUITO CON LA FINE, AD ANDARE A FUOCO SIAMO NOI
Si consiglia di leggere questo articolo tenendo presenti i sequenti passi biblici: Romani 5, 12- 21 e 8, 18-27; I Corinti 15, 20-28; Filippesi, 2, 5-11; Colossesi 1, 15-20; Apocalisse, cap. 21-22.
Proprio perché comincia coi racconti dell’origine e termina con le immagini di una rivelazione (apocalisse), che adombrano la conclusione ultima, la Bibbia non può non contenere pagine che tentano un incontro tra questi suoi due estremi. L’inizio preordina in qualche modo la fine e la fine inevitabilmente rimanda alle grandi attese e ai fondamentali valori dell’inizio. Lo abbiamo chiarito in termini generali in uno dei nostri primi interventi, ma qui ora dobbiamo tornarci con maggiore attenzione. Infatti la ripresa neotestamentaria del tema delle origini si caratterizza proprio per lo stretto rapporto posto tra primo e ultimo nell’interpretazione della figura di Gesù, anzi quasi traforma la loro potenziale relazione in una sorta di cortocircuito cristologico.
Tutto ciò solleva un’infinità di questioni esegetiche e teologiche tutt’altro che semplici, come abbiamo visto durante la rilettura del prologo del Vangelo di Giovanni. Se in Gesù si incontrano, infatti, l’originaria potenza creatrice del Verbo, quella storico-rivelatrice dello Spirito e, in ultimo, la realizzazione escatologica della pienezza in Dio della creazione e della storia, Gesù è la sintesi del tutto, la verità di Dio e la verità dell’uomo, il compimento che riassume in sè ogni altro essere e ogni altra attesa, ma, come Crocefisso-Risorto, ne è anche la radicale problematizzazione.
L’esegesi tipologica come strumento neotestamentario di lettura e di scrittura biblica
Tutti sappiamo che le pagine che compongono il Nuovo Testamento nascono dal bisogno di tradurre in annuncio e in testimonianza scritta la fede cristologica dei primi seguaci di Gesù. Potremmo anche tentare di articolare in tempi e livelli diversi le tappe che hanno portato alla professione esplicita di tale fede, per meglio comprendere che essa non forma un blocco unico e non corrisponde, sic et cimpliciter, alla predicazione di Gesù. Ma questo ci condurrebbe lontano. Ci basti qui tenere presente il fatto che tutto il Nuovo Testamento è frutto di una riflessione sull’esperienza del proprio incontro, diretto o indiretto, col Nazareno che, per tradursi in scritto teologicamente orientato e orientante, in cristologia appunto, si vale di una profonda rilettura dell’Antico Testamento, di una sua continua rivisitazione per mezzo di citazioni esplicite e implicite, di rimandi e rielaborazioni. In sostanza si potrebbe quasi dire che i libri cristiani della Bibbia nascono come ricucitura di quelli ebraici intorno alla figura di Gesù di Nazaret detto il Cristo.
Anche questa è una caratteristica della Bibbia, quella di essere un libro che mette in scena la propria stesura, che tematizza ed esplicita la propria natura aperta, capace di continui aggiornamenti e completamenti. Per di più dovuti ad una lettura che si fa scrittura, che genera pagine nuove, degne di diventare compagne delle antiche e sorgente di altre infinite riletture e riscritture.
E’ così che hanno operato Paolo, Giovanni e le loro scuole, che ha operato l’autore della lettera agli Ebrei e quello dell’Apocalisse. Quando hanno cercato di dare corpo teologico e forma letteraria e simbolica alla propria convinzione di fede che Gesù era il Cristo, hanno evocato i temi teologici, le forme letterarie, i simboli portanti della fede veterotestamentaria, hanno utilizzato le grandi figure della Scrittura per convogliarle e raccoglierle intorno alla persona del loro eroe. Hanno dato vita ad una straordinaria operazione esegetico-creativa che va sotto il nome di tipologia.
Ce lo documenta con straordinaria chiarezza Earle Ellis nel suo studio sull’uso de L’antico Testamento nel primo cristianesino (Brescia, 1999). « L’esegesi tipologica era già stata impiegata nel giudaismo, ma per il cristianesimo primitivo essa divenne la chiave fondamentale per l’interpretazione scritturistica della figura e della missione di Gesù. » Essa si basa, infatti, sulla convinzione che gli eventi cristiani della salvezza si spiegano come realizzazione di analoghi eventi testimoniati dalla storia passata di Israele. Considera questi ultimi come anticipazioni e figure, come tipi o antitipi del Cristo. Tratta anzi a sua volta il Cristo stesso come prefigurazione e anticipazione, come tipo profetico del compimento futuro dell’intero processo redentivo (p. 141).
Ora, in generale, nel Nuovo Testamento la tipologia si presenta come tipologia della creazione e tipologia dell’alleanza. La prima presenta Adamo come « tipo di colui che doveva venire » (Rom 5, 14) e Gesù come nuovo Adamo, capace di rovesciarne l’umano destino di morte in destino di vita (I Cor 15, 22). La seconda fa di Gesù il nuovo Mosè e degli eventi dell’Esodo dei « tipi » della nuova alleanza, dei « tipi » che « vennero messi per scritto quale ammonimento per noi su cui è giunta la fine dei tempi » (I Cor 10, 6-11). Il che porta ad un terzo genere di tipologia, quella escatologica. Poiché, infatti la nuova alleanza, associata alla morte e resurrezione di Gesù, sfocia in una nuova creazione, le due prime tipologie non solo possono intrecciarsi, ma di necessità si incontrano nell’immediata apertura ad una dimensione nuova e diversa del creato e della storia.
E’ esattamente per questo che Paolo può parlare di una creazione che attende la propria liberazione dalla rivelazione dei figli di Dio (Rom 8, 19), che gli autori delle lettere ai Colossesi e agli Ebrei possono presentarci Gesù come primizia del creato, capo della chiesa storica e primogenito dei risorti e dei riconciliati con Dio (Col 1, 15-20, Ebr 1-2), che il visionario dell’Apocalisse può aprire la sua prima lettera alle sette chiese qualificando l’emissario, Gesù risorto, come il Primo e l’Ultimo (2, 8) e chiudere la sua opera con una promessa che riassume enfaticamente tutto questo processo di risintetizzazione cristologica e martiriale del processo creativo e redentivo: « Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omnicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna. » (22, 12-15).
La cristologia come modello deflagrativo del presente
Ora questa ripresa sintetica del tema creativo e redentivo, posti in così stretta relazione con la realizzazione del loro fine ultimo, ci obbliga a renderci conto che il nostro non è affatto un credo pacificamente rassicurante e che la Bibbia cristiana, proprio perché non ci consente di dimenticare il passato, ma continuamente lo rilancia verso il futuro, è un libro esplosivo, un libro che fa del presente una sorgente di infinito e mai esausto dinamismo. Il che è evidente soprattutto per la cristologia, che privata di tale carattere dinamico e dirompente e letta come una dottrina metafisica degli attributi essenziali del Nazareno, diventa un « busillis » indecifrabile.
Il presente cristiano è per definizione un presente inquieto e lacerato, un presente in lotta per diventare quello che già sa di essere, ma ancora non sperimenta in tutta la sua pienezza. Un presente che potremmo paolinamente definire come un presente in corsa o in gara e che nulla esenta da questa situazione agonica di attesa e di tensione: non la storia con la sua specifica conflittualità, ma neppure la natura, con le sue tradizionali prerogative di fissità e perfezione.
Abbiamo in proposito già ricordato il passo in cui Paolo parla della creazione impaziente « Di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio » (Rom 8, 21),. Ma ora dobbiamo capire che quest’opera non consiste solo nella restaurazione di uno stato iniziale, temporaneamente deturpato dal peccato, bensì di qualcosa di totalmente nuovo e rivoluzionario, tanto rispetto all’essere originario del mondo, quanto e al nostro stare post-cristico. « Sappiamp bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede, come ancora potrebbe sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. » (8, 22-25).
Il che vale anche per il parallelo tipologico Adamo-Cristo. Gesù, come nuovo ed ultimo Adamo, non si limita a cancellare le colpe e i mali introdotti nella vita dalla trasgressione di Adamo, in quanto « il dono di grazia non è come la caduta ». « Se infatti per la caduta di uno solo morirono molti….molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo » (Rom 5, 15-17). Egli è un « tipo » di Adamo che supera il padre naturale di tutti gli uomini, non soltanto perché, « pur essendo nella forma di Dio » (Filippesi 2, 6 e Gen 1, 26), « non considerò lo stato di equaglianza a Dio come una possibile preda » (Fil 2, 6; Gen 3, 5-6), ma anche perché, con la sua scelta di obbedienza fino alla morte, manifestò una vocazione alla signoria ben superiore a quella affidata da Dio ad Adamo e ottenne « un nome che è al di sopra di ogni altro nome…Un nome…di fronte al quale si piega ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra » (Fil 2, 7-11).
Se anche la creazione dove rinnovarsi
Siamo ad un passo dalle affermazioni cristologiche del prologo di Giovanni e delle lettere ai Colossesi e agli Ebrei sulla preesistenza di Gesù Cristo alla natura e sulla sua stessa funzione creatrice; affermazioni che abbiamo esaminato nell’ultimo articolo e che ci sono sembrate davvero problematiche. Ma siamo anche ad un passo dal coglierne, insieme, il limite, la necessità e la paradossalità.
Il limite, perché in nessuna di queste professioni di fede cristologica, Gesù è presentato come Dio per essenza e per pacifica connaturalità, ma sempre e solo in relazione dinamica privilegiata con Lui, in rapporto di vicinanza e prossimità operativa molto stretta, in funzione mediatrice insostituibile nel momento creativo, in quello storico rivelativo e in quello escatologico.
La necessità perché senza una propria forte coloritura cristologica difficilmente la teologia cristiana potrebbe presentarsi come fedele rielaborazione innovativa di quella ebraica: fedele nella linea della progressiva e sempre più radicale interpretazione kenotico-redentiva dell’operare di Dio; innovativa nella scelta incarnazionista ed escatologica.
Paradossale perché proprio ciò che costituisce l’originalità della teologia cristiana, la sua forte enfasi cristologica, non si limita a caricare il Cristo di tutte le tensioni della natura e della storia, ma con lui carica di tali tensioni anche il cristiano e il suo tempo, vale a dire il nostro presente, conducendolo al limite della rottura.
E’ così che ci troviamo sfidati a vivere ogni nostra giornata come se si trattasse dell’attimo in cui il Regno può fare irruzione nella storia, ad esercitare, insieme, la virtu paziente e fiduciosa dell’attesa, l’operosità attiva di chi sa che da essa dipende ben più del suo destino, il coraggio di anticipare nella realtà mondana i segni di un futuro totalmente nuovo. E’ così, infine, che siamo invitati a far nostra la convinzione che il fondamento di tutto ciò non sta nella sicura conoscenza di un passato, ben saldo, ma nello slancio di una fede che tutto proietta al di là del già dato, come speranza: persino il vero essere dei cieli e della terra nuova in cui sognamo di ritrovarci risorti e liberati dalla morte e dal male.
Non abbiamo letto, forse, che coloro, che con bianche vesti, lavate dal sangue dell’Agnello, potranno aver parte all’albero della vita (Ap 22, 14), non si troveranno nel giardino edenico della prima creazione ma in una città martire della storia, trasformata in Gerusalemme celeste (21, 9-27)? Non ci è stato annunciato che tutto ciò comporterà la scomparsa del cielo e della terra di prima e, in forma assoluta e definitiva, del mare (21, 1)? Che analoga sorte toccherà alle tenebre e alla notte e, di conseguenza, allo stesso ritmo quotidiano del loro alternarsi con la luce del giorno (22, 5)?
Solo immagini, certo, non più che figure e simboli, ma simboli, figure e immagini che ci fanno capire che neppure l’opera « molto buona » del primo capitolo di Genesi regge alla prova dell’escaton cristico; che neppure la creazione col suo Dio può da sola essere presa come punto d’appoggio solido e definitivo per aprire, senza problemi, la bella formula di un credo cristiano.
Aldo Bodrato
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