Archive pour décembre, 2014

LA CONCEZIONE DI SANTA ANNA DI MAIA VERGINE

http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/commentilit/anna.htm

LA CONCEZIONE DALLA GIUSTA ANNA MADRE DELLA VERGINE MARIA

DELLA SANTISSIMA MADRE DI DIO

Commemorazione il 9 dicembre

(Calendario della Chiesa Ortodossa)

Sant’Anna, la madre della Vergine Maria, era la più giovane figlia del sacerdote Nathan di Betlemme, discendente dalla tribù di Levi. Sposò san Gioacchino, che era nativo della Galilea.
Per lungo tempo sant’Anna non ebbe figli, ma dopo venti anni, per la fervida preghiera di entrambi i coniugi, un angelo del Signore annunciò loro che sarebbero stati i genitori di una figlia, che avrebbe portato benefici a tutto il genere umano.
La Chiesa Ortodossa non accetta l’insegnamento che la Madre di Dio è stata esente dalle conseguenze del peccato ancestrale (la morte, la corruzione, il peccato, ecc) al momento della sua concezione in virtù dei meriti futuri di suo Figlio. Solo Cristo è nato perfettamente santo e senza peccato, come insegna sant’Ambrogio di Milano nel capitolo II del suo Commento a Luca. La Santa Vergine era come ogni altro nella sua mortalità, e nell’essere soggetta alla tentazione, anche se lei non commise peccati personali. Non era una creatura divinizzata rimossa dal resto dell’umanità. Se così fosse, lei non sarebbe stata veramente umana, e neanche la natura che Cristo ha preso da lei sarebbe stata veramente umana. Se Cristo non avesse veramente condiviso la nostra natura umana, allora la possibilità della nostra salvezza sarebbe in dubbio.
La Concezione della Vergine Maria da sant’Anna ha avuto luogo a Gerusalemme. Le molte icone raffiguranti la Concezione da sant’Anna mostrano la Santissima Theotokos calpestare il serpente sotto i piedi.
“Nell’icona i santi Gioacchino e Anna sono di solito rappresentati con le mani giunte in preghiera, i loro occhi sono rivolti anche verso l’alto e contemplano la Madre di Dio, che sta in aria con le braccia allargate; sotto i piedi vi è una sfera circondata da un serpente (simbolo del diavolo), che si sforza di conquistare tutto l’universo con il suo potere”.
Ci sono anche le icone in cui S. Anna regge la Santissima Vergine sul braccio sinistro come un bambino. Sul volto di sant’Anna si legge uno sguardo di riverenza. Una grande antica icona, dipinta su tela, si trova nel villaggio di Minkovetsa nel distretto Dubensk della diocesi di Volhynia. In Russia sin dai tempi antichi questa festa era particolarmente sentita dalle donne incinte.

Un pensiero del geron Paisios sui santi Gioacchino ed Anna
“Yeronda, ci parli dei santi Gioacchino ed Anna, gli antenati di Dio”. Ad un certo punto ha cominciato a dirci qualcosa.
“Fin da piccolo ho avuto grande rispetto verso gli Antenati di Dio. Infatti, avevo detto a qualcuno che, quando mi avrebbero fatto monaco, avrei voluto darmi il nome di Gioacchino. Quanto sono in debito con loro! I santi Gioacchino ed Anna sono la coppia più priva-di-passioni (in altre parole senza passioni corruttrici) che sia mai esistita. Non hanno avuto alcuna attitudine carnale.
Così è come Dio ha fatto l’uomo ed è così che voleva che gli uomini nascessero, privi-di-passioni. Ma dopo la caduta la passione è entrata nel rapporto tra uomo e donna. Non appena fu trovata una coppia priva-di-passioni, come Dio creò l’uomo e come desiderava che gli uomini nascessero, è nata la Panagia, questa creazione pura, e allora Cristo si è incarnato. I miei pensieri mi dicono che Cristo sarebbe disceso in precedenza sulla terra, se ci fosse stata una coppia pura, come erano i santi Gioacchino e Anna.
I cattolici romani cadono in errore e credono, apparentemente per devozione, che la Panagia sia nata senza peccato originale. Sebbene la Panagia non fosse esente dal peccato originale, è stata data alla luce però come Dio ha voluto che nascessero gli uomini dopo la creazione. Era tutta pura[1], perché la sua concezione è avvenuta senza piacere. I Santi Antenati di Dio, dopo la fervida preghiera a Dio di concedere loro un bambino, non concepirono attraverso il desiderio sessuale, ma per l’obbedienza a Dio. Questo fatto l’ho sperimentato sul Sinai[2]”.

Tropario – tono 4

Oggi sono infranti i vincoli della sterilità, Dio ha ascoltato le preghiere di Gioacchino e Anna. Egli ha promesso loro al di là di tutte le loro speranze di generare la Fanciulla di Dio, dalla quale l’Incircoscritto era nato come uomo mortale; Egli comandò un angelo di gridare a lei: “Rallegrati, o piena di grazia, il Signore è con te!” 

Kontakion – tono 4

Oggi l’universo esulta, perché Anna ha concepito la Theotokos attraverso la dispensazione di Dio, perché ha portato in vista colei che ha partorito l’ineffabile Parola! 

Tradotto per © Tradizione Cristiana da E. M. novembre 2010

 

Publié dans:MARIA VERGINE, SANTI |on 9 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

DIO E L’INFINITO NELLA BIBBIA – GIANFRANCO RAVASI

http://www.aleteia.org/it/religione/documenti/dio-e-infinito-nella-bibbia-1973001

DIO E L’INFINITO NELLA BIBBIA

TESTO TRATTO DA GIANFRANCO RAVASI, « DOVE SEI, SIGNORE? »

Praticamente assente come categoria filosofica e fisica, l’infinito si intreccia alla dimensione dello spazio e al suo costituirsi come orizzonte di incontro di Dio con l’uomo
Nella fama popolare lo scrittore americano ottocentesco Edgar Allan Poe è rimasto autore di inquietanti gialli di indole metafisica. Egli, però, ci ha lasciato anche vari scritti teorici. In uno di essi, Eureka del 1848, osservava: “La parola ‘infinito’ – come le parole ‘Dio’, ‘spirito’ e alcune altre, i cui equivalenti esistono in tutte le lingue – non è espressione di un’idea, ma espressione dello sforzo verso quell’idea”. Questa considerazione ben s’adatta alla Bibbia, quando essa viene sfogliata alla ricerca di temi teorici, di categorie filosofiche e teologiche simili a quelle che il mondo greco-romano ha sviluppato in modo sistematico sulla via della speculazione. E’ proprio il caso del concetto di infinito: senza esitazioni il Concilio Vaticano I (1870) applicava questo aggettivo a Dio, così come secoli prima il Concilio Lateranense IV (1215) lo definiva “immensus”. Ma per una civiltà come quella semitica, che elaborava il suo pensiero attraverso i simboli e l’esperienza concreta, il concetto di infinito – per usare le parole di Poe –, più che un’idea chiara e distinta, era “espressione di uno sforzo” per conquistare e raffigurare quell’idea.
Accadeva così anche per il concetto di nulla, che veniva rappresentato attraverso il mare, visto in opposizione alla terra abitata (cf Gb 38,8-11), oppure ricorrendo alle tenebre, all’abisso e al deserto (cf Gen 1,2). Per noi queste realtà non sono il nulla, ma in una mentalità simbolica incarnavano l’assenza di terra, di luce, di materia, di vegetazione, considerate come l’essere per eccellenza. Per questo stesso motivo non è possibile cercare la parola “infinito” nella Bibbia; bisognerà procedere per una via simbolica, seguendo
lo sforzo degli autori sacri di immaginare quell’idea. Tre sono i percorsi che proponiamo. Il primo è il semplice e immediato: l’infinito è la negazione di un limite, di una frontiera, in ebraico ‘en-sof, “senza confine”, oppure en-qeqez, “senza bordo, fine”. Illuminante è il contrappunto tra finito e infinito in questo versetto salmico: “Di ogni cosa perfetta ho visto il limite: il tuo decreto è esteso, senza limiti” (Sal 119,96). Infinito può essere, però, anche il peccato dell’uomo, le cui iniquità sono innumerevoli (cf Gb 22,5), ma per analogia si può anche parlare di “una folla innumerevole” (Qo 4,16), così come lo sono i libri pubblicati (cf Qo 12,12), l’universo “grande e senza fine, eccelso e senza misura” (Bar 3,25) e le genealogie umane “interminabili” (1Tm 1,4).
E’ però soprattuto Dio ad essere descritto così. L’autore della lettera agli Ebrei, citando il Sal 102,28 ricorda in 1,12 che “gli anni di Dio non finiranno”, mentre del sacerdote Melchisedek, simbolo di Cristo, si afferma che è “senza principio di giorni e fine di vita” (Eb 7,3), evocando in tal mondo l’idea parallela di eternità. Così dell’agàpe, l’amore cristiano, san Paolo dice che “non ha fine” (1Cor 13,8) e usa un avverbio greco che indica il “dappertutto” (oudépote), cercando di rendere visiva questa presenza illimitata e insuperabile. Ma a questo punto è necessario imboccare la seconda via che la Bibbia adotta per evocare il tema dell’infinito. E’ quella più congeniale alle culture antiche (ma non solo), ossia il ricorso ai simboli che, pur essendo di per sé limitati e a livello materiale e fisico, possono rimandare allusivamente a un’immensità innumerevole e a una trascendenza illimitata. E’, ad esempio, il caso dei granelli di polvere del terreno o della sabbia del litorale marino (cf Gen 13,16), oppure quello dello stelle in cielo (cf Gen 15,5). Un’altra simbolica ricorre ai numeri “innumerabili” come il “mille”: la bontà divina si stende per mille generazioni, mentre la sua giustizia solo fino a tre o quattro generazioni (cf Es 20,5-7; 34,7). I cori angelici sono “mille migliaia e miriadi di miriadi” (Dn 7,10).
Un altro paradigma simbolico per esprimere l’infinito è, invece, di taglio alfabetico ed è caro all’Apocalisse: “Io sono l’Alfa e l’Omega” (Ap 1,8; 21,6; 22,13) e talora s’accosta alla formulazione dell’eternità attraverso l’arco integrale del tempo applicato a Dio, “Colui che è, che era e che viene”. La prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco esprimono una figura stilistica detta “polarismo”: attraverso i due estremi si vuole indicare tutto ciò che in essi è contenuto; quindi la totalità dell’essere.
E’ evidente che in questi percorsi simbolici l’elemento di base è una realtà finita che viene tesa a raffigurare l’Oltre e l’Altro infinito ed eterno. Questo discorso, infatti, vale anche per il concetto di “eternità”. Si pensi che in ebraico ‘olam, che spesso è reso con “eternità”, di per sé significa l’arco intero del tempo (e anche dello spazio) ed è così che in greco aiôn – che designa il “secolo” presente, cioè l’intero arco storico – diventa emblema di eternità, soprattuto nella formula “nei secoli” (Lc 1,33), ereditata dalla liturgia cristiana nell’espressione “nei secoli dei secoli”.
Analogo per l’idea di infinito è il ricorso al “cielo”, anzi al superlativo “cieli dei cieli”. Molto nitida al riguardo è una frase delle preghiera di consacrazione del tempio di Salomone, ove il confronto dialettico tra finito (tempio) e infinito è così espresso: “Ma veramente Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere, quanto meno lo potrà questo tempio che ho costruito!” (1Re 8,27).
Ed è da questa intuizione che procediamo verso l’ultima via biblica per definire l’infinito, in questo caso secondo una dimensione sempre più teologica, che è di grande pertinenza per lo sviluppo del tema generale di questo libro. Ci sono molti testi che puntano direttamente a illustrare l’onnipresenza, l’onnipotenza e l’onniscienza di Dio, ed è per questa strada che si esalta la sua infinità, che non conosce limiti spaziali o temporali, dato che egli “riempie il cielo e la terra” (Ger 23,24). Egli supera ogni frontiera cosmica, invalicabile all’uomo: “Chi è salito al cielo e ne è disceso?”, si chiede Agur, sapiente orientale citato dal libro dei Proverbi, in una serie di domande retoriche: “Chi ha raccolto il vento nelle sue palme? Chi ha racchiuso le acque nel mantello? Chi ha fissato tutti i confini della terra?” (Pr 30,4; si legga anche Gb 38-39). “La perfezione dell’Onnipotente”, afferma Zofar, il terzo degli amici di Giobbe, “è più alta dei cieli: che cosa puoi fare? E’ più profonda degli inferi: che ne puoi sapere? E’ più estesa della terra nella sua dimensione ed è più vasta del mare” (Gb 11,7-9).
In questa stessa linea si muove l’apostolo Paolo, quando agli Efesini augura di essere capaci di “afferrare, insieme a tutti i santi, la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, cioè a conoscere l’amore del Cristo che trascende ogni conoscenza” (Ef 3,18). Evidente è il paradosso di comprimere nella conoscenza umana ciò che di sua natura è in-comprensibile e trascendente, ossia l’amore divino che travalica le coordinate spaziali dell’essere. Noi, dichiara ancora l’Apostolo nella sua celebre allocuzione all’Aeropago ateniese, “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” in Dio che supera ogni nostro confine e tracciato, inglobandolo e rivelandosi sempre oltre. In questa linea è decisivo il Sal 139 (138), un gioiello poetico, dedicato all’esaltazione dell’onnipresenza del Creatore e quindi alla sua infinità onnicomprensiva, per cui ogni fuga da lui è impossibile, come già riconosceva un testo aramaico di El-Amarna (Egitto): “Se noi saliamo in cielo, se noi scendiamo agli inferi, la nostra testa è sempre nelle tue mani, o Dio”.
Nella prima strofa del Salmo (vv. 1-6) si esalta l’onniscenza divina totale e assoluta. Dio mi conosce “quando mi siedo e quando mi alzo, quando cammino e quando sosto”: sono anche in questo caso “polarismi” che indicano le azioni estreme della vita umana, ma vogliono riassumerne tutte le altre in esse comprese, essendo a lui aperti i segreti profondi dei nostri pensieri e delle nostre parole prima ancora che sboccino. L’infinito divino è celebrato, invece, soprattutto nella seconda strofa (vv. 7-12), quando si descrive il “folle volo” dell’uomo per sottrarsi a Dio. Tutto lo spazio è percorso, dalla verticale cielo-inferi fino all’orizzontale est-ovest (aurora-mar Mediterraneo). Canta il Salmista: “Dove potrei andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire lontano dalla tua presenza? Se scalassi i cieli, là tu sei, se discendessi negli inferi, eccoti. Se prendessi le ali dell’aurora e riuscissi ad abitare all’estremità del mare, anche là mi guiderebbe la tua mano e mi prenderebbe la tua destra” (vv. 7-10).
Ma anche tutto il tempo con la sequenza circadiana (che riguarda, cioè, la sequenza delle ventiquattro ore, e quindi il ciclo notte-giorno) è superato da Dio, che anche in tal modo svela la sua eternità. Nella terza strofa (vv.13-18) anche qualcosa di infinitamente piccolo come l’embrione umano nel grembo della madre è conosciuto in tutto il suo potenziale, destinato a fiorire nella vita fatta di opere e pensieri. Dio è quindi colto come infinito proprio per questa sua capacità di onnipresenza trascendente ed è forse questo il concetto più caro all’autore sacro: la sua ricerca dell’infinito approda non all’infinito filosofico o fisico, ma all’Infinito teologico.
In questa luce potremmo riconoscere – sulla scia delle parole di uno scrittore politico francese lontano da temi religiosi diretti, Georges Sorel (1847-1922), nelle sue Riflessioni sulla violenza del 1908 – che “quello che di migliore v’è nella coscienza umana è il tormento dell’infinito”. 

Publié dans:c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 9 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

L’ IMMACOLATA CONCEZIONE

L' IMMACOLATA CONCEZIONE dans immagini sacre immaculb

http://rediscoveringthejourney.blogspot.it/2013/12/immaculate-conception.html

Publié dans:immagini sacre |on 7 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

L’IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Maria/feste/2000-2001/L%27Immacolata%20Concezione.html

L’IMMACOLATA CONCEZIONE

Premessa storico-liturgica
La riflessione teologica sull’Immacolata concezione di Maria è stata molto lenta. Una festa della Natività di Maria era celebrata in Oriente verso la fine del VI secolo. Nel secolo seguente, poi, sorse una festa della Concezione di Maria.
In Occidente, invece, questa festa della Concezione di Maria appare solo in Italia Meridionale, a Napoli, nel IX secolo e intorno al 1060 veniva celebrata anche in Inghilterra, introdotta molto probabilmente da un monaco orientale. Dopo la conquista dell’isola da parte dei Normanni, la festa riacquistò vigore e passò in Europa come festa dell’Immacolata Concezione.
Non tutti i teologi del tempo erano favorevoli. Perfino il grande San bernardo di Chiaravalle (1091-1153), il cantore di Maria, colui che si sentì rispondere ad un suo saluto rivolto alla statua della Vergine: “Ave, Bernarde” (Ciao, Bernardo), protestò in una lettera contro i Canonici di Lione per aver introdotto questa festa.
In questo stesso periodo, però, un discepolo di Sant’Anselmo di Aosta (1033-1109), Eadmero, sostenne la possibilità dell’Immacolata Concezione. L’argomento era molto semplice: Dio lo poteva fare. Se perciò lo voleva fare, lo fece. Di qui ebbe origine il famoso assioma: “Potuit, decuit, ergo fecit” (Dio poteva; era conveniente, perciò lo fece). L’intuizione era buona, ma poteva portare a delle esagerazioni. Una volta che i teologi avevano deciso che una cosa era conveniente, concludevano che Dio l’aveva fatta. Ed esagerazioni del genere non mancarono.
Seguirono alcuni secoli di dibattito teologico al riguardo. Poi, nel 1477, Sisto IV dà il suo beneplacido ad una Messa della Concezione; nel 1695, Innocenzo XII approva una Messa con ufficio e ottava per la Chiesa intera, ed infine, nel 1708, con Clemente IX la festa divenne di precetto.
Un altro appoggio alla celebrazione dell’Immacolata Concezione venne nel 1830 con le apparizioni della Vergine a Caterina Labouré, che promosse la diffusione della Medaglia Miracolosa con l’invocazione: “O Maria, concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a voi”.
Finalmente nel 1854, Pio IX definì come dogma di fede la Concezione Immacolata di Maria e quattro anni dopo la Madonna stessa, a suggello di quanto la Chiesa aveva proclamato, si autodefinì a Lourdes: “Io sono l’Immacolata Concezione”. Con la riforma liturgica del Vaticano II questa celebrazione ha assunto il grado di solennità.

Riflessione ascetico-pastorale
L’Immacolata Concezione è spesso fraintesa da chi è privo di una sufficiente istruzione catechetica: viene confusa con il concepimento verginale di Gesù.
Diciamo subito che il Nuovo Testamento non dice nulla sulla concezione di Maria. La riflessione teologica dei primi secoli toccò sì Maria, ma in modo indiretto. I primi due dogmi mariani, infatti, cioè la Verginità di Maria e la Maternità divina, erano prettamente cristologici, nel senso che erano affermazioni fatte su Maria, ma con il fine di salvaguardare verità riguardanti Gesù.
I due dogmi mariani più recenti, cioè quello dell’Immacolata Concezione e quello dell’Assunzione, riguardano in maniera più diretta Maria. Da un certo punto di vista essi rappresentano dei privilegi concessi alla Madonna, perché doveva essere Madre di Gesù, vero Dio e vero uomo. Però il loro significato più profondo è soteriologico, in quanto riguardano la nostra salvezza. Ci ammaestrano sul nostro fine ultimo, sulla grazia vittoriosa di Cristo che vince il peccato e ci porta alla gloria finale.
La cosa fondamentale che possiamo dire sull’Immacolata Concezione è che Maria è stata redenta in previsione dei meriti del Figlio suo. Gesù ha guadagnato sulla croce la grazia dell’Immacolata concezione di sua Madre. Tutto ciò significa che la salvezza dell’umanità era operativa ancora prima che Cristo nascesse. Solo se vediamo Dio condizionato dal tempo, proviamo imbarazzo per il concetto di “redenzione preservativa”, vale a dire fatta in vista dei meriti acquisiti da Gesù sul Calvario. Intuizione questa tanto cara al beato Duns Scoto (1266-1308).
La salvezza è sempre un dono gratuito di Dio. Il bambino è santificato gratuitamente nell’acqua del battesimo e l’adulto accetta come dono di Dio la grazia della giustificazione mediante la fede.
Quando diciamo che Maria è stata concepita senza macchia di peccato, diciamo che è stata redenta nel modo più perfetto possibile: il peccato non l’ha potuta nemmeno sfiorare. Questa sua Concezione Immacolata, però, è un dono totalmente gratuito di Dio.
Mediante questo privilegio, dunque, Maria è la perfetta salvata. Ella non ha mai avuto gli ostacoli spirituali che distolgono noi, creature nate con il peccato originale, dal totale amore di Dio. Questo dono le ha permesso di pronunciare al momento dell’Annunciazione, pur con un profondo atto di fede di fronte al disegno imperscrutabile di Dio, un sì senza limiti, senza alcuna restrizione inconscia.
In molti passi la liturgia ci presenta la Vergine Santa come inizio della Chiesa. Sì, perché Maria è la persona dove la grazia della redenzione raggiunse la sua espressione massima. In Maria, infatti, la Chiesa incomincia ad esistere “senza macchia né ruga… ma santa e immacolata” (Ef 5,27). Ciò che la Chiesa intera sarà un giorno, è già perfetto in Maria mediante la sua Immacolata Concezione e la sua Assunzione.
E allora si deve concludere che la Vergine Immacolata è lontanissima da noi ed è inimitabile? No, assolutamente! Nel mondo della grazia e dello spirito, solo il peccato è anormale, mentre la santità è normale. La nostra esperienza quotidiana ce lo conferma. Quando siamo in contatto regolare con Dio nella preghiera, quando prendiamo la vita spirituale con maggior serietà, tendiamo ad essere più buoni, più disponibili, più gentili verso gli altri. Il fatto, quindi, che Maria sia senza peccato, la rende perciò Madre di Misericordia, Madre compassionevole, Aiuto dei Cristiani. In una parola: Corredentrice.

Conclusione
Vorrei concludere queste brevi note e riflessioni con alcune espressioni di lode nei confronti di Maria Immacolata, espressioni che troviamo nella Liturgia delle Ore, ma nate dalla mente e dal cuore del genio più alto della nostra poesia: Dante Alighieri.

«… Qui se’ a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra i mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia ed a te non ricorre,
sua disianza vuol volar sanz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate… »
(Paradiso, XXXIII, 10-21).

Tutti questi pregi e lodi, che Dante indirizza alla Vergine Santa, sono possibili e convenienti solo perché Maria è Madre di Dio e Immacolata.

Antonio Baruffa SDB

Publié dans:FESTE DI MARIA |on 7 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

G.B. Tiepolo, Isaia

G.B. Tiepolo, Isaia dans immagini sacre the-prophet-isaiah-1729.jpg!Blog

http://www.wikiart.org/en/giovanni-battista-tiepolo/the-prophet-isaiah-1729

Publié dans:immagini sacre |on 5 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

BRANO BIBLICO SCELTO – ISAIA 40,1-5.9-11

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Isaia%2040,1-5.9-11

BRANO BIBLICO SCELTO - ISAIA 40,1-5.9-11

1 « Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. 2 Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati ».
3 Una voce grida: « Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. 4 Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura. Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato ».
9 Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion; alza la voce con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annunzia alle città di Giuda: « Ecco il vostro Dio! 10 Ecco, il Signore Dio viene con potenza, con il braccio egli detiene il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e i suoi trofei lo precedono. 11 Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri ».

COMMENTO
Isaia 40,1-5.9-11
Il lieto annunzio del ritorno

Il testo preso in esame è l’introduzione al libro della Consolazione di Israele, detto anche Deuteroisaia perché costituisce la seconda parte del libro che porta il nome del grande profeta (cc. 40-55). L’ambiente non è più quello dell’antico regno di Giuda, in cui è vissuto e ha operato Isaia (sec. VIII), ma quello degli esuli giudei che si trovano in esilio a Babilonia, quando questo regno sta ormai cadendo sotto i colpi dei persiani guidati da Ciro (538). Questo brano si presenta non come una composizione unitaria, ma piuttosto come una piccola antologia di diversi oracoli riguardanti la fine dell’esilio e il ritorno degli esuli a Gerusalemme: la consolazione di Israele (vv. 1-2); il nuovo esodo (vv. 3-5); l’efficacia della parola di Dio (vv. 6-8); il lieto annunzio (vv. 9-11).

La consolazione di Israele (vv. 1-2)
Il testo si apre con un oracolo nel quale Dio stesso esorta a «consolare» il suo popolo. Questo invito viene rivolto non tanto al profeta, il quale si limita a registrare le parole di JHWH, quanto piuttosto ad anonimi araldi i quali sono inviati a tutto il popolo (v. 1). Nel versetto successivo appare che il messaggio è indirizzato direttamente a Gerusalemme, la città santa, personificazione del popolo giudaico, e forse non senza un riferimento specifico ai giudei che hanno vissuto la tragedia dell’esilio pur restando nella terra dei padri. I messaggeri devono parlare al «cuore» di Gerusalemme (v. 2a). Il cuore indica il centro della persona, dove hanno luogo le scelte determinanti per la vita: perciò «parlare al cuore» di Gerusalemme significa annunziarle che la sua esistenza è profondamente trasformata perché JHWH ha deciso di ripristinare quel legame d’amore che univa lo univa al suo popolo (cfr. Os 2,16).
Il motivo della consolazione di Gerusalemme consiste nel fatto che «è finita la sua schiavitù, è scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati» (v. 2b). È dunque terminato il servizio coatto a cui erano sottoposti i suoi abitanti condotti in esilio dai babilonesi. Il popolo che si era allontanato da Dio ha ormai scontato ampiamente la pena dovuta alla sua iniquità (cfr. Lv 26,41.43), ha ricevuto un doppio castigo per i suoi peccati, cioè in termini di sofferenza ha pagato un prezzo persino superiore alle sue colpe. In sintonia con tutta la predicazione profetica il castigo viene attribuito a Dio stesso, anche se la causa immediata sono state le vicende politiche di un travagliato periodo storico.

Tra breve il popolo sarà dunque liberato, con un gesto gratuito di misericordia, dallo stesso Dio che aveva dovuto intervenire con una dura punizione. Per gli esuli è giunto il momento del ritorno nella città santa, rappresentata come la sposa infedele che JHWH riprende con sé dopo una punizione esemplare (cfr. Ez 16; 23; Os 2,16; Is 49,14-26; 51,17-52,12; 54,1-17).

Il nuovo esodo (vv. 3-5)
Il profeta comunica ora quanto dice «una voce», cioè un anonimo messaggero di Dio, il quale ordina di preparare nel deserto una strada perché in essa possa passare JHWH. Egli aveva guidato un giorno il suo popolo fuori dell’Egitto camminando alla sua testa sotto forma di colonna di fuoco di notte e di colonna di nubi durante il giorno (Es 13,20-22; 14,17), poi aveva posto la sua dimora nel santuario (Es 40,34) e infine nel tempio di Gerusalemme (2Re 8,10-11), ma lo aveva abbandonato a motivo dei peccati del popolo (Ez 10,18; 11,22-23). Ora egli sta per ritornare nella città santa e nel tempio alla testa del suo popolo dopo averlo liberato dall’oppressione babilonese (v. 3).
La preparazione consiste nel colmare ogni valle, nell’abbassare monti e colli e nel trasformare il terreno accidentato e scosceso in pianura (v. 4). Fuori metafora ciò significa che l’evento del ritorno richiederà un profondo cambiamento nella mentalità di tutti i giudei, guidato e illuminato dalla predicazione profetica che non era mai venuta meno durante tutto il tempo dell’esilio. La religione di Israele in questo periodo è cambiata e dovrà ancora cambiare in profondità, coinvolgendo in questa trasformazione anche coloro che erano rimasti nella madre patria e avevano continuato nelle pratiche sincretistiche dei loro padri. Proprio l’incapacità da parte di costoro di accettare il nuovo di cui i rimpatriati erano portatori provocherà tutta una serie di tensioni che renderanno difficile la restaurazione del popolo di Dio.
Il ritorno degli esuli comporterà una meravigliosa rivelazione della gloria di Dio: «Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato» (v. 5). Il termine «gloria» (kabôd) indica il fulgore che nell’immaginazione popolare accompagna la manifestazione di Dio. La gloria è la forma visibile e luminosa sotto cui Dio si era manifestato più volte nell’esodo (cfr. per es. Es 16,7.10; 24,16-17) e aveva preso dimora prima nella tenda (Es 40,34) e poi nel tempio di Gerusalemme (1Re 8,11). Vedere la gloria del Signore significa sperimentare in prima persona gli effetti dell’intervento divino. Ora la rivelazione della gloria di Dio sarà disponibile non solo agli israeliti, ma a tutti gli uomini. Secondo il Deuteroisaia l’evento del ritorno avrà una forte connotazione universalistica: tutti i popoli saranno coinvolti in esso, se non altro come spettatori che partecipano intimamente a quanto si svolge sotto i loro occhi. Nei successivi vv. 6-9 si dice che l’uomo è come l’erba che dissecca, mentre la parola di Dio dura per sempre. Dio dunque è più potente degli oppressori del suo popolo (cfr. Is 51,12), e anche del suo popolo peccatore: la sua promessa di liberazione perciò si attuerà infallibilmente. Questo concetto, che viene ripreso nella conclusione del libro (cfr. 55,10-11), rappresenta una delle idee chiave del libro.

Il lieto annunzio (vv. 9-11)
Nuovamente viene chiamato in scena un araldo che viene inviato con un compito specifico: «Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion; alza la voce con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annunzia alle città di Giuda: Ecco il vostro Dio!» (v. 9). L’araldo deve annunziare a Gerusalemme e alle città di Giuda il ritorno di JHWH alla testa degli esiliati. Egli è designato come «colui che reca liete notizie» (mebasseret): da questa espressione, tradotta in greco «colui che evangelizza» (euangelizomenos) deriverà il termine «vangelo», con cui i primi cristiani designeranno la predicazione di Gesù.
Il Signore che ritorna alla testa del suo popolo è poi presentato con due immagini. La prima è quella del re potente e vittorioso, che ritorna dalla guerra portando con sé il bottino tolto ai nemici (v. 10): questo rappresenta il popolo stesso che JHWH ha sottratto alla dominazione straniera. La seconda immagine è quella del pastore che guida il suo gregge (cfr. Sal 23; Ez 34), lo raduna, lo fa pascolare, porta sulle spalle gli agnellini e ha cura delle pecore madri (v. 11).

Linee interpretative
Nell’introduzione del Deuteroisaia sono indicati in modo significativo i grandi temi del libro: la fine dell’esilio, visto come un duro castigo per i peccati del popolo, il nuovo esodo, l’esigenza di una preparazione da parte del popolo, l’efficacia della parola di Dio, l’universalismo della salvezza. Dio viene presentato con immagini diverse: condottiero, marito, pastore. Tutto il brano esprime meraviglia, gioia ed esaltazione per la svolta improvvisa che sta prendendo la storia della salvezza. Il messaggio fondamentale di questo poema è la fiducia nel Dio che dirige gli eventi della storia umana piegandoli a quelli che sono i suoi piani di salvezza. Anche quando sembra che le vicende umane sfuggano al suo controllo, Dio non rinunzia al suo potere e non viene meno alle sue promesse. L’importante per l’uomo è di saper vedere la sua gloria quando si manifesta.
Il profeta è convinto che il momento del ritorno segni l’attuazione delle grandi profezie che alla vigilia dell’esilio preannunziavano la trasformazione escatologica del popolo di Dio (Ger 31,31-34; Ez 36,25-27; Dt 30,6). Il tema del castigo è ancora presente, ma passa ormai in secondo piano: il popolo aveva un debito che doveva essere pagato, e di fatto ha scontato amaramente per le sue colpe, ma in realtà la salvezza è frutto di un intervento gratuito di Dio. Purtroppo la restaurazione del popolo non si verificherà con la pienezza annunziata, ma le immagini elaborate in questo momento entusiasmante serviranno per delineare la futura salvezza, rinviata ormai agli ultimi tempi.

 

OMELIA – ANNO LITURGICO B | 4 DICEMBRE 2011 – 2A DOMENICA AVVENTO B

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/11-12/1-Avvento_B-2011/Omelie/02-Domenica-Avvento-B-2011_SC.html

TEMPO AVVENTO – ANNO LITURGICO B | 4 DICEMBRE 2011 – 2A DOMENICA AVVENTO B

Commento esegetico-spirituale della Parola di Dio

* Is 40,1-5.9-11 – Preparate la via del Signore.
* Sal 84 – Rit.: Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza.
* 2 Pt 3,8-14 – Aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova.
* Mc 1,1-8 – Raddrizzate le vie del Signore.
« Alza la voce, annunzia:
Ecco, il Signore Dio viene! »

C’è una profonda unità tematica fra le varie letture di questa Domenica, che deriva non solo dal fatto che il Vangelo viene presentato come l’attuazione di un celebre testo di Isaia, ma anche dal fatto che tutti e tre i brani biblici esprimono un senso di attesa gioiosa e trepidante nello stesso tempo.
C’è « qualcosa » di molto importante che deve avvenire; c’è soprattutto « Qualcuno » che deve venire, il cui volto misterioso è ancora nascosto sotto la ruga delle vecchie pagine del libro sacro e nell’indeterminatezza delle parole taglienti di Giovanni il battezzatore.
Proprio per questo il credente è invitato a vivere nell’attesa, proiettato nel futuro, sapendo però che questo futuro non viene da sé, ma soltanto se sollecitato, invocato, quasi « creato » dal nostro desiderio.

« Nell’attesa di questi eventi, cercate di essere senza macchia »
È tutt’altro che un’attesa inerte la nostra, o fatalistica, ma un’attesa viva, creatrice addirittura: nel senso che solo nel cuore degli uomini aperti all’amore irrompe la « salvezza » che viene da Dio. Altrimenti, essa verrebbe non come « grazia » ma come « giudizio », come condanna. E questo non sarebbe un « Avvento » gioioso, ma una maledizione! Proprio per questo la seconda lettura mette in guardia i credenti dall’agire con leggerezza in attesa del « giorno del Signore »: « Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, cercate di essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace » (2 Pt 3,14).
Su questa linea di preparazione e di vigilanza si muove anche la colletta con cui si apre la Liturgia odierna: « O Dio, grande e misericordioso, fa’ che il nostro impegno nel mondo non ci ostacoli nel cammino verso il tuo Figlio, ma la sapienza che viene dal cielo ci guidi alla comunione con il Cristo, nostro Salvatore ». L’attenzione ai problemi e all’impegno nel mondo, che pure è un dovere dei cristiani, non deve allentare la tensione verso ciò che deve ancora venire, e non solo per il breve spazio dell’imminente Natale, ma durante tutto l’arco della nostra vita: c’è sempre una parte di inedito e di incompiuto, che rimane per tutti noi ancora da « scontare » e da completare con grande pazienza e generosità.

« Consolate, consolate il mio popolo »
La prima lettura ci riporta il bellissimo inizio del cosiddetto « libro della consolazione » d’Israele, che abbraccia i cc. 40-55, che ormai gli studiosi attribuiscono concordemente al Deutero-Isaia, un profeta anonimo della fine dell’esilio.
Il brano si presenta come un coro a più voci. Apre il canto Dio stesso che annuncia la fine della schiavitù: « Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati » (Is 40,1-2).
La liberazione avviene non come un fatto meccanico, o per una felice combinazione di eventi e di rapporti di forza, ma perché Gerusalemme « ha scontato la sua iniquità », cioè si è convertita pagando il « doppio » di quello che aveva rubato al Signore: come i ladri che dovevano restituire il « doppio » (Es 22,3)! Come si vede, il fatto politico è riassorbito nella dimensione religiosa dell’evento.

« Nel deserto preparate la via al Signore »
A questo punto si inserisce una « voce » misteriosa, che il profeta lascia volutamente nell’anonimo per creare un clima di maggiore attenzione, la quale esorta a « preparare » la via al Signore che sta per ritornare nella sua terra, conducendosi dietro vittoriosamente il suo popolo: « Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura. Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato » (vv. 3-5).
Nei testi babilonesi si parla in termini analoghi di « vie » processionali o trionfali, preparate per determinate divinità o per il re vittorioso. Il riferimento al « deserto », oltre che una precisa indicazione delle steppe siriane che avrebbero dovuto attraversare i deportati in Babilonia, vuol essere soprattutto un rimando all’esperienza del primo Esodo, con tutti i prodigi che lo avevano accompagnato. Anche adesso Dio manifesterà la sua « gloria » nei prodigi che accompagneranno questa nuova liberazione: tanto che « ogni uomo la vedrà » (v. 5) con i propri occhi e quasi la toccherà con le proprie mani.

« Il Signore Dio viene con potenza »
Subito dopo il profeta immagina che uno si distacchi dal gruppo dei reduci e si affretti a portare il buon annuncio alla città di Gerusalemme, che ancora giace nella sua tristezza e nella sua desolazione: « Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion; alza la voce, con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme. Alza la voce, non temere, annunzia alle città di Giuda: « Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, con il braccio egli detiene il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e i suoi trofei lo precedono. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri »" (vv. 9-11).
È il grande « Avvento » del Dio che « salva » nella sua terra: è perciò una « venuta » di riconciliazione e di amore! Con il popolo che ritorna dall’esilio anche Gerusalemme rifiorisce. Il prodigio è pertanto duplice: il ritorno d’Israele alle sue sorgenti e il « rifiorire » di ciò che era rimasto, quale simbolo di un mondo ormai in dissoluzione.
L’immagine conclusiva del brano è bellissima: Dio, che pur è potente e detiene nel suo pugno lo scettro del « dominio » (v. 10), è rassomigliato ad un « pastore », pieno di premura e di delicatezza verso gli « agnellini » appena nati e verso le « pecore madri » (v. 11). La potenza e l’amore disarmato, direi quasi infantile e materno nello stesso tempo, in lui non si contraddicono!

« In quei giorni si presentò Giovanni a battezzare »
Il brano del Vangelo dà un nome ed un volto alla « voce » misteriosa evocata dal profeta: essa viene dalle profondità del « deserto » di Giuda e ne riecheggia quasi l’ardore bruciante e il sibilo mulinante quando è percosso dal vento.
« In quei giorni si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati… » (Mc 1,4).
Il resoconto di Marco sulla predicazione del Battista è molto breve. Non ha nulla che corrisponda ai detti sull’ira imminente, sulla scure posta alla radice dell’albero, sul ventilabro nella mano di colui che viene, sulla pulitura dell’aia e sul bruciamento della pula in un fuoco inestinguibile. E neppure riporta le esortazioni alle folle, ai pubblicani, ai soldati (Lc 3,10-14). Tutto si concentra nella profezia della venuta del « più forte », cioè il Messia, e del battesimo « in Spirito » che egli amministrerà in contrasto con quello di sola acqua del Battista. Il presente « viene » (érchetai) dice tutta l’imminenza della venuta.
Più che negli altri Vangeli qui il Battista è soltanto una « voce »: direi che di suo non ha nulla! Grida soltanto ed annuncia che il Cristo sta per venire: per conto proprio, egli è tutto proteso verso questo personaggio misterioso, davanti al quale si sente come uno schiavo, « indegno » perfino di servirlo. A questo, infatti, allude l’immagine dello « sciogliere i legacci dei sandali » (v. 7).
Questo rapporto schiavo-padrone secondo qualche esegeta (E. Lohmeyer) sarebbe espresso anche dalla formula « dopo di me viene » (v. 7), che non avrebbe valore cronologico, ma vorrebbe appunto descrivere l’atteggiamento del servo che va avanti, facendo da battistrada al padrone. L’idea è suggestiva e mi pare che si inquadri benissimo nel contesto.
Le affermazioni « cristologiche » più importanti del brano sono due: a) Gesù è « più forte » di Giovanni; b) e battezzerà « con lo Spirito Santo ».
La prima espressione, con riferimento a Marco 3,27 e a Luca 11,22, in cui si parla di Satana che viene vinto da uno « più forte », dovrebbe significare che Gesù viene per combattere Satana: la sua opera di salvezza consisterà appunto nel « distruggere le opere del Diavolo » (1 Gv 3,8). Il Battista rappresenta appena l’avvisaglia di questa lotta spietata!
La seconda espressione allude al Messia come donatore dello Spirito. Secondo il messaggio profetico, infatti, negli ultimi tempi si attendeva una sovrabbondante effusione dello Spirito, anche se è vero che non sempre lo Spirito Santo veniva direttamente collegato al Messia. Per dei lettori cristiani, poi, è ovvio che il battesimo « nello Spirito » evocava il sacramento del battesimo, che costituiva il loro primo e fondamentale incontro con Cristo, il suo « avvento » glorioso e trasformante nella loro vita. L’acqua era solo simbolo dell’operazione più profonda prodotta in loro dallo Spirito Santo.

« Egli era vestito di peli di cammello… »
Ma non è solo con la sua « voce » secca e vibrata che Giovanni predicava e preparava l’avvento del Messia: anche il suo stile di vita, che riduceva all’essenziale i bisogni, quasi per dire che la cosa più importante di tutte è il Messia che viene, era una predica travolgente. Tanto che « accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati » (v. 5).
Il fatto che vestisse un abito intessuto di « peli di cammello » e mangiasse « locuste e miele selvatico » (probabilmente il succo di certe piante) e vivesse nel deserto sta a dire, più che il suo spirito di penitenza, la ricerca appassionata e macerante delle cose che più contano: Dio, la preghiera che lo può raggiungere, la libertà radicale della propria esistenza che non si lascia condizionare da nessun tipo di bisogno vero o artefatto, l’incontro con i propri fratelli per aiutarli a riscoprire, anche loro, la via del « deserto », là dove passa il Signore che ritorna in Gerusalemme.
Tutti questi elementi costituiscono quella « conversione per il perdono dei peccati » (v. 4), che Giovanni predicava e intendeva anche plasticamente esprimere mediante il suo battesimo di acqua. In tal modo voleva anche dire che il Messia lega il suo avvento alla « conversione » del cuore: là dove questa non c’è, neppure il Messia viene! O se viene, è solo per « condannare » gli uomini che si sono chiusi al suo amore.

DA CIPRIANI S., CONVOCATI DALLA PAROLA

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 5 décembre, 2014 |Pas de commentaires »
1...678910

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01