Archive pour décembre, 2014

LA GUADALUPANA – TESTO

http://lyricskeeper.it/it/various-artists/la-guadalupana.html

LA GUADALUPANA – TESTO

DESDE EL CIELO UNA HERMOSA MAÑANA
DESDE EL CIELO UNA HERMOSA MAÑANA,
LA GUADALUPANA, LA GUADALUPANA, LA GUADALUPANA
BAJÓ AL TEPEYAC (2)

Suplicante juntaba sus manos (2)
Y eran mexicanos (3)
Su porte y su faz

Su llegada llenó de alegría (2)
De luz y armonía (3)
Todo el Anáhuac

Junto al monte pasaba Juan Diego (2)
Y acercóse luego (3)
Al oír cantar

A Juan Diego la Virgen le dijo (2)
Este cerro elijo (3)
Para hacer mi altar

Y en la tilma entre rosas pintada (2)
Su imagen amada (3)
Se dignó dejar

Desde entonces para el mexicano (2)
Ser guadalupano (3)
Es algo esencial

En sus penas se postra de hinojos (2)
Y eleva sus ojos (3)
Hacia el Tepeyaca

Publié dans:MUSICA SACRA |on 11 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

SANTA MARIA DI GUADALUPE LE APPARIZIONI E IL MIRACOLO DELL’IMMAGINE DI “MADRE INCINTA…

http://www.fuocovivo.org/MOVIMENTO/Madonna%20di%20Guadalupe.html

SANTA MARIA DI GUADALUPE LE APPARIZIONI E IL MIRACOLO DELL’IMMAGINE DI “MADRE INCINTA DI TRE MESI” STAMPATASI SUL MANTELLO DI SAN JUAN DIEGO

Abbazia Saint-Joseph de Clairval
21150 Flavigny-sur-Ozerain
France

LA STORIA STRAORDINARIA DELLE APPARIZIONI E DELL’IMMAGINE MIRACOLOSA
Un giorno in cui contemplava una riproduzione dell’Immagine di Nostra Signora di Guadalupe, Papa Giovanni Paolo II fece questa confidenza: «Mi sento attirato da quest’Immagine, perché il viso è pieno di tenerezza e di semplicità; mi chiama…». Più tardi, il 6 maggio 1990, in occasione di un pellegrinaggio in Messico, il Santo Padre beatificava il messaggero di Nostra Signora, Juan Diego, e diceva: «La Vergine ha scelto Juan Diego fra i più umili, per ricevere quella manifestazione affabile e benigna che fu l’apparizione di Nostra Signora di Guadalupe. Il suo viso materno sulla santa Immagine che ci lasciò in dono ne è un ricordo imperituro». Nel secolo XVI, la Santa Vergine, piena di pietà per il popolo azteco che, vivendo nelle tenebre dell’idolatria, offriva agli idoli innumerevoli vittime umane, si è degnata di prendere in mano essa medesima l’evangelizzazione degli Indiani dell’America Centrale che erano anch’essi suoi figli. Un dio degli Aztechi, cui era attribuita la fertilità, si era trasformato, con l’andar del tempo, in dio feroce. Simbolo del sole, quel dio, in lotta permanente con la luna e le stelle, aveva bisogno – così si credeva – di sangue umano per restaurare le proprie forze, poiché, se fosse perito, la vita si sarebbe spenta. Sembrava dunque indispensabile offrigli, in perpetuo sacrificio, sempre nuove vittime.
Un’aquila su un cactus
I sacerdoti aztechi avevano profetizzato che il loro popolo nomade si sarebbe insediato nel luogo in cui si fosse mostrata un’aquila che, appollaiata su un cactus, divorasse un serpente. L’aquila figura sulla bandiera del Messico attuale. Giunti su un’isola palustre, in mezzo al lago Texcoco, gli Aztechi vedono compiersi il preannunciato presagio: un’aquila, appollaiata su un cactus, sta divorando un serpente; siamo nel 1369. Fondano quindi lì la città di Tenochtitlán, che diventerà Città del Messico. Essa si sviluppa fino a diventare una vasta città su palafitte con numerosi giardini in cui abbondano fiori, frutti e verdure. L’organizzazione progressiva del regno azteco fa di esso un impero gerarchizzato e molto strutturato. Le conoscenze dei matematici, degli astronomi, filosofi, architetti, medici, artisti ed artigiani sono molto avanzate per l’epoca. Ma le leggi fisiche rimangono poco note. La potenza e la prosperità di Tenochtitlán sono dovute soprattutto alla guerra. Le città conquistate devono pagare un tributo di derrate varie e di uomini per la guerra e per i sacrifici. I sacrifici umani e l’antropofagia degli Aztechi hanno pochi riscontri analoghi nel corso della storia.
Nel 1474, nasce un bambino cui vien dato il nome di Cuauhtlatoazin («aquila parlante»). Alla morte di suo padre, è lo zio che si incarica del piccolo. Fin dall’età di tre anni, gli si insegna, come a tutti i bambini aztechi, a partecipare ai lavori domestici ed a comportarsi dignitosamente. A scuola, impara il canto, la danza e soprattutto la religione con i suoi molteplici dèi. I sacerdoti hanno una grande influenza sulla popolazione, che mantengono in una sottomissione che va fino al terrore. Cuauhtlatoazin ha tredici anni, quando si procede alla consacrazione del gran Tempio di Tenochtitlán. Nel corso di quattro giorni, i sacerdoti sacrificano al loro dio 80.000 vittime umane. Dopo il servizio militare, Cuauhtlatoazin si sposa con una ragazza della sua condizione. Insieme, conducono una modesta vita di agricoltori.
Nel 1519, lo spagnolo Cortés sbarca nel Messico, alla testa di più di 500 soldati. Conquista il paese per conto della Spagna, ma non senza zelo per l’evangelizzazione degli Aztechi; nel 1524, ottiene la venuta a Città del Messico di dodici Francescani. I missionari s’integrano facilmente nella popolazione; la loro bontà contrasta con la durezza dei sacerdoti aztechi e con quella di certi conquistatori. Si cominciano a costruire chiese. Tuttavia, gli Indiani si mostrano assai refrattari al Battesimo, soprattutto a causa della poligamia che dovrebbero abbandonare.
Cuauhtlatoazin e sua moglie sono fra i primi a ricevere il Battesimo, ed assumono rispettivamente i nomi di Juan Diego e Maria Lucia. Alla morte di quest’ultima, nel 1529, Juan Diego si ritira a Tolpetlac, a 14 km da Città del Messico, presso lo zio Juan Bernardino, diventato pure lui cristiano.
Il 9 dicembre 1531, come sempre il sabato, egli parte prestissimo la mattina per assistere alla Messa celebrata in onore della Santa Vergine, presso i Frati francescani, vicino a Città del Messico. Passa ai piedi della collina di Tepeyac. Improvvisamente, sente un canto dolce e sonoro che gli sembra provenga da una gran moltitudine di uccelli. Alzando gli occhi verso la cima della collina, vede una nuvola bianca e sfavillante. Guarda intorno a sé e si chiede se non stia sognando. Improvvisamente il canto tace ed una voce di donna, dolce e delicata, lo chiama: «Juanito! Juan Dieguito!» S’inerpica rapidamente sulla collina e si trova davanti ad una giovane bellissima, le cui vesti brillano come il sole.
«Un tempio in cui manifesterò il mio amore»
Rivolgendosi a lui in nahuatl, la sua lingua materna, gli dice: «Figlio mio, Juanito, dove vai? – Nobile Signora, mia Regina, vado a Messa a Città del Messico per apprendervi le cose divine che ci insegna il sacerdote. – Voglio che tu sappia con certezza, caro figlio, che io sono la perfetta e sempre Vergine Maria, Madre del vero Dio da cui proviene ogni vita, il Signore di tutte le cose, Creatore del cielo e della terra. Ho un grandissimo desiderio: che si costruisca, in mio onore, un tempio in cui manifesterò il mio amore, la mia compassione e la mia protezione. Sono vostra madre, piena di pietà e d’amore per voi e per tutti coloro che mi amano, hanno fiducia in me e a me ricorrono. Ascolterò le loro lamentele e lenirò la loro afflizione e le loro sofferenze. Perché possa manifestare tutto il mio amore, va’ ora dal vescovo, a Città del Messico, e digli che ti mando da lui per fargli conoscere il grande desiderio che provo di veder costruire, qui, un tempio a me consacrato».
Juan Diego si reca immediatamente al vescovado. Monsignor Zumárraga, religioso francescano, primo vescovo di Città del Messico, è un uomo pio e pieno di zelo il cui cuore trabocca di bontà per gli Indiani; ascolta attentamente il pover’uomo, ma, temendo un’illusione, non gli dà credito. Verso sera, Juan Diego prende la via del ritorno. In cima alla collina di Tepeyac, ha la felice sorpresa di ritrovare l’Apparizione; rende conto della sua missione, poi aggiunge: «Vi supplico di affidare il vostro messaggio a qualcuno più noto e rispettato, affinché possa essere creduto. Io sono solo un modesto Indiano che avete mandato da una persona altolocata in qualità di messaggero. Perciò non sono stato creduto ed ho potuto soltanto causarvi una gran delusione. – Figlio carissimo, risponde la Signora, devi capire che vi sono persone molto più nobili cui avrei potuto affidare il mio messaggio, e tuttavia è grazie a te che il mio progetto si realizzerà. Torna domani dal vescovo… digli che sono io in persona, la Santa Vergine Maria, Madre di Dio, che ti manda».
La domenica mattina dopo la Messa, Juan Diego si reca dal vescovo. Il prelato gli fa molte domande, poi chiede un segno tangibile della realtà dell’apparizione. Quando Juan Diego se ne torna a casa, il vescovo lo fa seguire discretamente da due domestici. Sul ponte di Tepeyac, Juan Diego scompare ai loro occhi, e, malgrado tutte le ricerche effettuate sulla collina e nei dintorni, essi non lo ritrovano più. Furenti, dichiarano al vescovo che egli è un impostore e che non bisogna assolutamente credergli. Durante il medesimo tempo, Juan Diego riferisce alla bella Signora, che lo aspettava sulla collina, il nuovo colloquio avuto con il vescovo: «Torna domattina a prendere il segno che reclama», risponde l’Apparizione.
Rose, in pieno inverno!
Tornando a casa, l’Indiano trova lo zio malato e il giorno seguente deve rimanere al suo capezzale per curarlo. Poiché la malattia si aggrava, lo zio chiede al nipote di andare a cercare un sacerdote. All’alba, il martedì 12 dicembre, Juan Diego si avvia verso la città. Quando si avvicina alla collina di Tepeyac, giudica preferibile fare una deviazione per non incontrare la Signora. Ma, improvvisamente, la vede venirgli incontro. Tutto confuso, le espone la situazione e promette di tornare non appena avrà trovato un sacerdote per dare l’olio santo allo zio. «Figliolo caro, replica l’Apparizione, non affliggerti per la malattia di tuo zio, perché egli non morirà. Ti assicuro che guarirà… Va’ fin in cima alla collina, cogli i fiori che ci vedrai e portameli». Arrivato in cima, l’Indiano è stupefatto di trovarvi un gran numero di fiori sbocciati, rose di Castiglia, che spandono un profumo quanto mai soave. In questa stagione invernale, infatti, il freddo non lascia sussistere nulla, ed il luogo è troppo arido per permettere la coltura dei fiori. Juan Diego coglie le rose, le deposita nel mantello, o tilma, poi ridiscende dalla collina. «Figlio caro, dice la Signora, questi fiori sono il segno che darai al vescovo… Questo lo disporrà a costruire il tempio che gli ho chiesto». Juan Diego corre al vescovado.
Quando arriva, i domestici lo fanno aspettare per lunghe ore. Stupiti che sia tanto paziente, e incuriositi da quel che porta nella tilma, finiscono per avvertire il vescovo, il quale, malgrado si trovi in compagnia di parecchie persone, lo fa entrare immediatamente. L’Indiano racconta la sua avventura, apre la tilma e lascia sparpagliarsi per terra i fiori ancora brillanti di rugiada. Con le lacrime agli occhi, Monsignor Zumárraga cade in ginocchio, ammirando le rose del suo paese. Ad un tratto, scorge, sulla tilma, il ritratto di Nostra Signora. Vi è Maria, come impressa sul mantello, bellissima e piena di dolcezza. I dubbi del vescovo lasciano il posto ad una solida fede e ad una speranza incantata. Prende la tilma e le rose, e le deposita rispettosamente nel suo oratorio privato. Il giorno dopo, si reca con Juan Diego sulla collina delle apparizioni. Dopo aver esaminato i luoghi, lascia che il veggente torni dallo zio. Juan Bernardino è effettivamente guarito. La guarigione si è prodotta all’ora stessa in cui Nostra Signora appariva a suo nipote. Racconta: «L’ho vista anch’io. È venuta proprio qui e mi ha parlato. Vuole che le si eriga un tempio sulla collina di Tepeyac e che si chiami il suo ritratto «Santa Maria di Guadalupe». Ma non mi ha spiegato perché». Il nome di Guadalupe è ben noto agli Spagnoli, poiché esiste nel loro paese un antichissimo santuario consacrato a Nostra Signora di Guadalupe.
La notizia del miracolo si sparge rapidamente; in poco tempo, Juan Diego diventa popolare: «Accrescerò la tua fama», gli aveva detto Maria; ma l’Indiano rimane sempre altrettanto umile. Per facilitare la contemplazione dell’Immagine, Monsignor Zumárraga fa trasportare la tilma nella cattedrale. Poi intraprende la costruzione di una chiesetta e di un eremo, per Juan Diego, sulla collina delle apparizioni. Il 25 dicembre seguente, il vescovo consacra la cattedrale alla Santissima Vergine, al fine di ringraziarla per i favori insigni di cui Ella ha ricolmato la diocesi; poi, in una magnifica processione, l’Immagine miracolosa viene portata verso il santuario di Tepeyac, che è appena stato ultimato. Per manifestare la loro gioia, gli Indiani tirano frecce. Una di esse, lanciata senza precauzioni, trafigge la gola di uno dei presenti che cade a terra, ferito mortalmente. Subentra un silenzio impressionante ed una supplica intensa sale verso la Madre di Dio. Improvvisamente, il ferito, che è stato depositato ai piedi dell’Immagine miracolosa, riprende i sensi e si rialza, pieno di vigore. L’entusiasmo della folla è al colmo.
Milioni d’Indiani diventati Cristiani
Juan Diego si sistema nel piccolo eremo e veglia alla manutenzione ed alla pulizia del luogo. La sua vita rimane molto modesta: coltiva con cura un campo messo a sua disposizione presso il santuario. Riceve i pellegrini, sempre più numerosi, parlando loro con molto piacere della Santa Vergine e raccontando senza stancarsi i particolari delle apparizioni. Gli vengono affidate intenzioni di preghiere di ogni genere. Ascolta, compatisce, conforta. Passa una gran parte del suo tempo libero in contemplazione davanti all’immagine della sua Signora; i suoi progressi sulla via della santità sono rapidi. Un giorno dopo l’altro, compie la sua missione di testimone, fino alla morte che avverrà il 9 dicembre 1548, diciassette anni dopo la prima apparizione.
Quando gli Indiani appresero la notizia delle apparizioni di Nostra Signora, si sparsero fra loro un entusiasmo ed una gioia indicibili. Rinunciando agli idoli, alle superstizioni, ai sacrifici umani ed alla poligamia, molti chiesero il Battesimo. Nei nove anni che seguirono le apparizioni, nove milioni di loro furono convertiti alla fede cristiana, vale a dire 3000 al giorno!
I particolari dell’Immagine di Maria colpiscono profondamente gli Indiani: quella donna è più grande del “dio-sole”, poiché appare in piedi davanti al sole; supera il “dio-luna”, poiché tiene la luna sotto ai suoi piedi; non è più di questo mondo, poiché è circondata di nuvole ed è tenuta al di sopra del mondo da un angelo; le mani giunte la mostrano in preghiera, il che significa che c’è qualcuno di più grande di lei…
Ma, ancora oggi, il mistero dell’Immagine miracolosa è grande. La tilma, vasto grembiule tessuto a mano con fibre di cactus, porta l’Immagine sacra di un’altezza di 1,43 m. Il viso della Vergine è perfettamente ovale e di un color grigio che tende al rosa. Gli occhi hanno un’intensa espressione di purezza e di dolcezza. La bocca sembra sorridere. La bellissima faccia, simile a quella di un’Indiana meticcia, è incorniciata da una chioma nera che, vista da vicino, comporta capelli di seta. Un’ampia tunica, di un rosa incarnato che non si è mai potuto riprodurre, la copre fino ai piedi. Il mantello, azzurro-verde, è bordato di un gallone d’oro e cosparso di stelle. Un sole di vari toni forma uno sfondo magnifico in cui brillano raggi d’oro.
La conservazione della tilma, dal 1531 ad oggi, rimane inspiegabile. In capo a più di quattro secoli, la stoffa, di qualità mediocre, conserva la stessa freschezza, la stessa vivacità di toni che aveva in origine. In confronto, una copia dell’Immagine di Nostra Signora di Guadalupe, dipinta con gran cura nel secolo XVIII e conservata nelle stesse condizioni climatiche di quella di Juan Diego, si è completamente degradata in pochi anni. All’inizio del secolo XX, periodo doloroso di rivoluzioni per il Messico, una carica di dinamite fu depositata da miscredenti sotto l’Immagine, in un vaso pieno di fiori. L’esplosione ha distrutto i gradini di marmo dell’altare maggiore, i candelabri, tutti i portafiori; il marmo dell’altare fu fatto a pezzi, il Cristo di ottone del tabernacolo si piegò in due. I vetri della maggior parte delle case circostanti la basilica si ruppero, ma quello che proteggeva l’Immagine non fu nemmeno incrinato; l’Immagine rimase intatta.
Le proprietà straordinarie dell’immagine
Nel 1936, uno studio realizzato su due fibre della tilma, una rossa ed una gialla, giunse a conclusioni stupefacenti.
Le fibre non contengono nessun colorante noto. L’oftalmologia e l’ottica confermano la natura inspiegabile dell’immagine: essa assomiglia ad una diapositiva proiettata sul tessuto. Un esame approfondito mostra che non vi è nessuna traccia di disegno o di schizzo sotto il colore, anche se ritocchi perfettamente riconoscibili sono stati realizzati sull’originale, ritocchi che, del resto, si degradano con l’andar del tempo; inoltre, il supporto non ha ricevuto nessun appretto, il che sembrerebbe inspiegabile se si trattasse veramente di una pittura, poiché, anche su una tela più fine, si mette sempre un rivestimento, non fosse che per evitare che la tela assorba la pittura e che i fili affiorino alla superficie. Non si distingue nessuna pennellata. A seguito di un esame a raggi infrarossi, effettuato il 7 maggio 1979, un professore della NASA scrive: «Non c’è nessun modo di spiegare la qualità dei pigmenti utilizzati per la veste rosa, il velo azzurro, il volto e le mani, né la persistenza dei colori, né la freschezza dei pigmenti in capo a parecchi secoli durante i quali avrebbero dovuto normalmente degradarsi… L’esame dell’Immagine è stata l’esperienza più sconvolgente della mia vita».
Certi astronomi hanno constatato che tutte le costellazioni presenti nel cielo nel momento in cui Juan Diego apre la tilma davanti al vescovo Zumárraga, il 12 dicembre 1531, si trovano al loro posto sul mantello di Maria. Si è anche scoperto che, applicando una carta topografica del Messico centrale sulla veste della Vergine, le montagne, i fiumi ed i laghi principali coincidono con l’ornamentazione della veste medesima.
Esami oftalmologici giungono alla conclusione che l’occhio di Maria è un occhio umano che sembra vivo, ivi inclusa la retina in cui si riflette l’immagine di un uomo con le mani aperte: Juan Diego. L’immagine nell’occhio ubbidisce alle leggi note dell’ottica, in particolare a quella che afferma che un oggetto in piena luce può riflettersi tre volte nell’occhio (legge di Purkinje-Samson). Uno studio posteriore ha permesso di scoprire nell’occhio, oltre al veggente, Monsignor Zumárraga e parecchi altri personaggi, presenti quando l’immagine di Nostra Signora è apparsa sulla tilma. Infine, la rete venosa normale microscopica sulle palpebre e la cornea degli occhi della Vergine è perfettamente riconoscibile. Nessun pittore umano avrebbe potuto riprodurre simili particolari.
Una donna incinta di tre mesi
Misure ginecologiche hanno stabilito che la Vergine dell’Immagine ha le dimensioni fisiche di una donna incinta di tre mesi. Sotto la cintura che trattiene la veste, al posto stesso dell’embrione, spicca un fiore con quattro petali: il Fiore solare, il più familiare dei geroglifici degli Aztechi che simboleggia per loro la divinità, il centro del mondo, del cielo, del tempo e dello spazio. Dal collo della Vergine pende una spilla il cui centro è adorno di una piccola croce, che ricorda la morte di Cristo sulla Croce per la salvezza di tutti gli uomini. Vari altri particolari dell’Immagine di Maria fanno di essa uno straordinario documento per la nostra epoca, che li può constatare grazie alle tecniche moderne.
Così la scienza, che ha spesso servito quale pretesto per l’incredulità, oggi ci aiuta a mettere in evidenza segni che erano rimasti sconosciuti per secoli e secoli e che non può spiegare. L’immagine di Nostra Signora di Guadalupe porta un messaggio di evangelizzazione: la Basilica di Città del Messico è un centro «dal quale scorre un fiume di luce del Vangelo di Cristo, che si diffonde su tutta la terra attraverso l’Immagine misericordiosa di Maria» (Giovanni Paolo II, 12 dicembre 1981).
Inoltre, con il suo intervento in favore del popolo azteco, la Vergine ha contribuito alla salvezza di innumerevoli vite umane, e la sua gravidanza può esser interpretata come un appello speciale in favore dei nascituri e della difesa della vita umana; tale appello è di grande attualità ai giorni nostri, in cui si moltiplicano e si aggravano le minacce contro la vita delle persone e dei popoli, soprattutto quando si tratta di una vita debole ed inerme. Il Concilio Vaticano II ha deplorato con forza i crimini contro la vita umana: “Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario, TUTTO CIÒ CHE VIOLA L’INTEGRITÀ’ DELLA PERSONA UMANA… (…); tutte queste cose, e altre simili, sono certamente VERGOGNOSE. Mentre GUASTANO LA CIVILTÀ UMANA, disonorano coloro che così si comportano più ancora che quelli che le subiscono e ledono grandemente l’onore del Creatore” (« Gaudium et Spes », n.27).
Di fronte a tali flagelli, che si sviluppano grazie ai progressi scientifici e tecnici, e che beneficiano di un ampio consenso sociale e di riconoscimenti legali, invochiamo Maria con fiducia. Essa è un «modello incomparabile di accoglienza della vita e di sollecitudine per la vita… Mostrandoci suo Figlio, ci assicura che in Lui le forze della morte sono già state vinte» (Giovanni Paolo II, Evangelium vitæ, 25 marzo 1995, nn. 102, 105). «In gigantesco duello si sono battute la morte e la vita. Il Signore della vita, già morto, ora vive e regna» (Sequenza di Pasqua).
Domandiamo a San Juan Diego, canonizzato da Papa Giovanni Paolo II il 31 luglio 2002, di ispirarci una vera devozione per la nostra Madre Celeste, poiché «la compassione di Maria si estende a tutti coloro che la chiedono, non fosse che con un semplice saluto: “Ave, Maria…”» (Sant’Alfonso de Liguori). Lei, che è Madre di Misericordia, ci otterrà la Misericordia di Dio, specialmente se saremo caduti in peccati gravi.

Dom Antoine Marie OSB

 

Publié dans:FESTE DI MARIA |on 11 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

LA VERGINE DI GUADALUPE: IL MIRACOLO CHE CAMBIO’ IL CORSO DEGLI EVENTI IN AMERICA

http://bibbiacattolicaeresieaconfronto.blogspot.it/2012/12/la-vergine-di-guadalupe-il-miracolo-che.html

LA VERGINE DI GUADALUPE: IL MIRACOLO CHE CAMBIO’ IL CORSO DEGLI EVENTI IN AMERICA

Messico 9 Dicembre 1531: la Vergine di Guadalupe, patrona delle Americhe, appare all’indio Juan Diego. E lascia un segno impressionante: una “tilma” su cui è prodigiosamente impressa la sua immagine. La scienza non sa spiegare l’origine di questa effigie miracolosa.
“Vìrgen morenita, Virgen milagrosa…”. Inizia così la celeberrima canzone “Virgen India”, conosciuta in tutto il Messico e in America Latina, dedicata alla Madonna di Guadalupe, patrona del Messico, Imperatrice e Madre delle Americhe, apparsa ad un povero indio messicano nell’anno 1531.
Un’apparizione importante per tutti i popoli delle Americhe. Da quel momento prende slancio la conversione del Messico al Cristianesimo. E di tutta l’America Latina. Malgrado le calunnie (la cosiddetta “leyenda negra”), che storici anticattolici hanno lanciato contro il processo di evangelizzazione dell’America Latina, resta il fatto che la conversione al Cattolicesimo portò i popoli americani a cambiare radicalmente i loro usi sanguinari, legati alle religioni precolombiane. Usi che prevedevano crudelissimi sacrifici umani, offerti a divinità feroci e assetate di sangue. Scrive lo studioso Giulio Dante Guerra: “Nel giro di pochi anni tutti si sono convinti che l’unico sacrificio dell’Uomo-Dio aveva reso inutili, e condannabili, i sacrifici umani; che non era vero che la fine di quei sacrifici avrebbe fatto oscurare il sole, perché il sole si era, questo sì, oscurato durante il sacrificio di Cristo sulla croce, ma era poi riapparso quando, compiutosi il sacrificio, l’umanità era stata riconciliata con Dio”.

LA STORIA

Veniamo alla storia che, lo diciamo senza paura di smentita, cambiò il corso degli eventi in America. Sabato 9 dicembre 1531, solo dieci anni dopo la conquista del Messico, l’indio Cuauhtlatòhuac (ribattezzato cinquant’anni dopo la nascita Juan Diego), di professione coltivatore diretto, si sta recando alla chiesa francescana di Santiago. È l’alba. All’improvviso una voce dolcissima lo chiama sul colle Tepeyac: “Juantzin, Juan Diegotzin” (cioè il diminutivo di Juan Diego in lingua nàhuatl). Viene da una bellissima donna che si presenta come “la perfetta sempre vergine Maria, la Madre del verissimo e unico Dio” (la tonantzin “la nostra venerata Madre” come gli indios chiameranno poi la Vergine di Guadalupe).
La Madonna gli ordina di recarsi dal vescovo locale e di costruire una chiesa! ai piedi del colle. Per un paio di volte, il vescovo, comprensibilmente dubbioso, non vuole credere alle parole del povero indio. Tre giorni dopo la prima apparizione Juan Diego è chiamato ad assistere uno zio, Juan Bernardino, gravemente ammalato. Alla ricerca di un sacerdote che accompagni lo zio nel trapasso alla vita eterna, aggira la collina su cui era apparsa la Vergine “morenita” per evitare di incontrarla nuovamente. Ma la Signora lo intercetta, gli appare lungo la strada, lo rassicura sulla salute dello zio e quindi gli chiede di salire nuovamente sulla collina per raccogliere dei fiori. Juan Diego esegue gli ordini e trova la cima del colle ricoperta di bellissimi fiori di Castiglia, evento assolutamente straordinario dal momento che siamo in pieno inverno e che il luogo è una desolata pietraia. L’indio li raccoglie e li depone nella sua tilma, cioè nel mantello, per portarli al vescovo Juan de Zumarraga, come prova delle apparizioni.
Appena Juan Diego spiega il mantello e fa cadere i fiori raccolti davanti all’alto prelato, avviene un vero miracolo: sul mantello si disegna l’immagine della Madonna. È la prova che Juan Diego non è un visionario, un mentitore e che Maria è veramente scesa dal Cielo per parlare all’umile indio. La Tilma e l’immagine si conservano intatte ancora oggi, a distanza di oltre quattro secoli e mezzo, e si possono vedere nella grandiosa basilica di Guadalupe, costruita ai piedi del colle Tepeyac, secondo i desideri della Vergine. Da questo segno prodigioso nasce la sintesi tra la cultura azteca e la fede cristiana: l’evangelizzazione del Messico si compie in modo pacifico e rispettoso delle tradizioni locali.

LA TILMA MIRACOLOSA

Nell’immagine impressa sul mantello di Juan Diego, la Vergine Maria è alta 143 centimetri, ha la carnagione meticcia (da qui l’appellativo di Virgen Morenita), segno di una perfetta commistione tra le razze europee e indios; è circondata da raggi di sole e con la luna sotto i suoi piedi, esattamente come la Donna dell’Apocalisse; una cintura le cinge il ventre, simbolo, presso gli Aztechi, di una donna incinta.
Dal 1666 sono iniziati gli esami scientifici per stabilire la vera natura dell’immagine. Non si tratta di un dipinto, perché non v’è traccia di colore sulla tela ed è come se le fibre fossero state impresse con un procedimento “naturale”.
Inoltre, tenendo conto che l’ayate, il tipico, rozzo tessuto di fibre d’agave popotule, usato in Messico dagli indios più poveri per fabbricare abiti, è un materiale estremamente deteriorabile, non si riesce a spiegare come abbia potuto conservarsi la tilma di Juan Diego, su cui è effigiata la Virgen Morenita e che risulta così essere l’unico ayate del XVI secolo ancora oggi intatto. E a nulla può valere la protezione dei cristalli per fermare lo sgretolarsi del tessuto, come hanno dimostrato diversi esperimenti. In aggiunta, si è constatato – di nuovo inspiegabilmente – che il mantello di Juan Diego respinge gli insetti e la polvere, che invece si accumulano in abbondanza sul vetro e sulla cornice. Nel 1791 si verificò un incidente: alcuni operai lasciarono cadere una soluzione detergente di acido nitrico sulla tela, ma essa, anziché deteriorarsi irreparabilmente, rimase inspiegabilmente integra e, anzi, si vede bene che le due macchie giallastre della reazione chimica stanno sbiadendo con il passare del tempo.
In passato vi furono anche tentativi di ritoccare “pittoricamente” l’immagine della Vergine, dovuti probabilmente alla esagerata devozione dei fedeli, ma i colori si sono dissolti quasi subito. I risultati più strabilianti ottenuti da analisi scientifiche provengono dall’osservazione degli occhi della Madonna. Le pupille, il cui diametro originale misura appena otto millimetri, sono state elaborate elettronicamente mediante computer e ingrandite fino a 2500 volte, con un sistema identico a quello impiegato per decifrare le immagini inviate sulla Terra dai satelliti orbitanti nello Spazio. Bene, nelle iridi della Vergine di Guadalupe è riflessa distintamente ed inequivocabilmente la scena di Juai Diego che apre la sua tilma davanti a vescovo Juan de Zumarraga e agli alti testimoni del miracolo. Siamo di fronte ad una vera e propri fotografia, infinitamente minuscola invisibile all’occhio umano, di ciò che accadde il 12 dicembre 1531 nel vescovado di Città del Messico. Poiché l’immagine ritrae la scena con occhi “estranei” ad essa, Josè Aste Tonsmann (l’ingegnere peruviano che nel 1979 analizzò a computer l’istantanea) ipotizza che la Madonna fosse presente, sebbene invisibile, al fatto e abbia “proiettato” sulla tilma la propria immagine avente negli occhi il riflesso di ciò che stava vedendo.
Poiché è materialmente impossibile dipingere tutte queste figure in cerchietti di soli 8 millimetri, si deve ammettere che nella sua infinita bontà Dio ha lasciato, oltre quattro secoli orsono, nel lontano Messico, un segno che ora, grazie alla modernissima strumentazione scientifica, riusciamo decifrare sempre meglio. Il segno riguarda la potente intercessione della Vergine Maria, dunque la conferma di una verità di fede cattolica, che rafforza la nostra fede e confonde agnostici ed atei contemporanei.

Fonte: IL TIMONE – Gennaio – Febbraio 2000 (pag. 24-25)

Publié dans:FESTE DI MARIA, STORIA DELLA FESTA |on 11 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

Rembrandt’s Two old men disputing, 1628. This painting has been thought to depict Peter and Paul.[12]

 Rembrandt's Two old men disputing, 1628. This painting has been thought to depict Peter and Paul.[12] dans immagini sacre 640px-Rembrandt_van_Rijn_185

http://en.wikipedia.org/wiki/Paul_the_Apostle_and_Judaism

Publié dans:immagini sacre |on 10 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

HO LAVORATO CON QUESTE MIE MANI – (Atti 20,34) (2000)

http://www.piccoloeremodellequerce.it/Pagine_Bibliche/Ho_lavorato.doc.

Contributo della Comunità
al sussidio per l’evangelizzazione dei giovani lavoratori
Le mani del giovane e il cuore del Cristo,
pubblicato dall’Ufficio Nazionale CEI e dall’Ufficio Regionale della Calabria
per i Problemi Sociali e il Lavoro,

Maggio 2000.

HO LAVORATO CON QUESTE MIE MANI – (Atti 20,34)

1. Il fatto
« Sarebbe assurdo che, mentre tutti gli altri uomini provvedono a mantenere mogli e figli a costo di grandi fatiche e patimenti, ed inoltre pagano le tasse, offrono a Dio le primizie e per quel che possono alleviano la miseria dei mendicanti; sarebbe assurdo, dicevo, che i monaci non debbano procurarsi il necessario con il loro lavoro… e debbano invece restarsene seduti, a braccia conserte, sfruttando il lavoro degli altri » .
Sapete dove ho sentito queste ‘opinioni’? No, non in piazza, mentre passava il prete con la macchina sportiva e il cellulare in mano. Questi discorsi provengono da molto lontano nel tempo, quando, nei primi secoli del cristianesimo, si cominciavano a vedere uomini di chiesa che avevano fatto « dell’ozio un’arte di vivere » . E la gente ne era giustamente scandalizzata e indispettita.
E sapete perché?
In principio non era così. I primi cristiani sapevano bene quanto fosse necessario « mangiare il proprio pane », vivere cioè lavorando, e non alle spalle degli altri. E questo valeva non solo per i cristiani della domenica, ma anche per gli apostoli.
Prendiamo il caso di san Paolo.
Sulla via di Damasco fa un’esperienza travolgente: gli appare Gesù (At 9,1-19). Ne rimane folgorato e cambia vita: da persecutore dei cristiani diventa apostolo delle genti e fondatore di nuove comunità cristiane. Siamo intorno al 36 d.C.
Dal 46 comincia a viaggiare in lungo e in largo per tutto il Mediterraneo orientale. Obiettivo: dare testimonianza a Cristo e costruire la sua Chiesa. Si calcola che i suoi itinerari abbiano raggiunto gli oltre diecimila miglia (più di 15000 km: un’impresa, per quei tempi!), fra pericoli d’ogni genere, fatiche e persecuzioni. Ed è grazie a lui che noi occidentali siamo diventati cristiani!
Ma cos’è che ci lascia stupiti di quest’uomo infaticabile che ha saputo trovare il tempo per pregare e predicare, fondare nuove comunità e seguire il loro cammino, scrivere lettere d’incoraggiamento e discutere questioni difficili con gli altri apostoli, affrontando persino la tensione di processi ingiusti, i trasferimenti da un carcere all’altro ed, infine, la condanna a morte?
Che, pur facendo tutto questo, abbia voluto a tutti i costi guadagnarsi da vivere, lavorando con fatica e sforzo notte e giorno. Per non essere di peso a nessuno. E dare l’esempio.
Come hanno fatto Gesù e Giuseppe, in quell’umile bottega di Nazareth.

2. Il testo
Molte volte san Paolo tira fuori la questione del lavoro nelle sue lettere. E lo fa per esortare chi già lavora, per mettere in guardia i cristiani dall’insidia dell’ozio e bacchettare i perditempo che vivevano disordinatamente. Ed ogni volta si pone sempre come esempio per far capire che l’apostolo non deve essere un professionista ‘pagato’ della religione, ma un uomo a servizio di tutti, che vive come tutti. E se questo lo deve fare un apostolo, che in fondo avrebbe anche il diritto di essere ‘sostenuto’ nel suo ministero, a maggior ragione il cristiano ‘semplice’…
Da queste lettere abbiamo estratto alcune frasi per dare un’idea di questa sua insistenza sulla necessità del lavoro.
« Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. » (At 20,34)
« Ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. » (1Cor 4,12)
« Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità. » (Ef 4,28)
« Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il vangelo di Dio. »(1Ts 2,9)
« Ma vi esortiamo, fratelli, …a farvi un punto di onore: vivere in pace, attendere alle cose vostre e lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ordinato, al fine di condurre una vita decorosa di fronte agli estranei e di non aver bisogno di nessuno. » (1Ts 4,11.12)
« 7 …noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, 8 né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. 9 Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. 10 E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi. 11 Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. 12 A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. 13 Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene. » (2Ts 3,7-13)
« Sfòrzati di presentarti davanti a Dio come un uomo degno di approvazione, un lavoratore che non ha di che vergognarsi,… » (2Tm 2,15)

3. La spiegazione
Come abbiamo visto da questi testi, l’apostolo Paolo ci tiene a far sapere alle sue comunità che egli non dipende da nessuno, ma che si sostiene con il lavoro delle sue mani:  » Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani » (At 20,34).
Dal libro degli Atti degli Apostoli sappiamo inoltre che il suo mestiere era quello di fabbricatore di tende. Anzi nel testo troviamo quest’altra notizia: a Corinto era stato ospitato in casa di Aquila e Priscilla e, « siccome faceva lo stesso mestiere, rimase con loro e li aiutava a fabbricare tende » (At 18,3). Erano, insomma, in sintonia l’uno con l’altro, nello stile dell’accoglienza reciproca e della condivisione, mettendo sulla stessa tavola il pane della cooperazione e il vino della solidarietà.
Fabbricatore di tende: un mestiere duro, che richiedeva abilità manuale. Non solo, bisognava maneggiare strumenti di lavoro pesanti. E le mani a sera erano così intorpidite che non riusciva neanche a scrivere. A quei tempi, poi, dato che di solito si scriveva sul papiro, mettere nero su bianco era così lento e faticoso che si impiegava un’ora per buttar giù 72 parole. E a quanto pare l’apostolo, non riuscendo per la stanchezza, dettava le sue lettere ai discepoli o agli amici e, alla fine, firmava di suo pugno, aggiungendo appena un saluto.
Quelle sue mani malferme, le dita stanche… secondo voi, poteva evitarseli certi fastidi, visto che già faceva molto per le sue comunità? Oppure faceva bene ad agire così, dato che quello era una specie di ingrediente educativo, indispensabile per poter dire con libertà e senza mezzi termini: « Chi non vuol lavorare, neppure mangi »?
In ogni caso, ciò che deve farci riflettere è che in diverse occasioni egli sottolinea l’aspetto lavorativo della sua vita e, pur avendo a disposizione alcuni fondi o contributi delle comunità, decide di farne a meno. Perché agisce così? Ce lo dice lui stesso: per non compromettere l’annuncio del vangelo, innanzi tutto (cfr. 1Ts 2,9); per essere d’esempio; perché è questo che dà decoro all’uomo, cioè dignità. Anzi, condivide il suo guadagno con i poveri, con la spontaneità del padre attento alle necessità dei figli e con la tenacia dell’uomo che ha fatto una scelta chiara di ben-essere e non di bene-stare, che vuol dire dare precedenza assoluta all’essere (dignità, solidarietà, sobrietà) e non all’avere (denaro, potere e piacere!).
Qual è allora il messaggio?
Semplice: « non mangiare gratuitamente il pane », ma vivere del lavoro delle proprie mani.
E per voi giovani vuol dire non dipendere dalla famiglia e cominciare a darsi da fare. Non continuare a chiedere a papà la paghetta settimanale né a far diventare lo studio una giustificazione perenne alla pigrizia.
In pratica, anche se state ancora sui libri, trovatevi, magari part-time (o d’estate, come fanno in molti), un lavoretto da fare per dare una mano a far quadrare i conti di casa. E se già lavorate, mettetevi nelle condizioni di poter fare del bene, condividendo ciò che guadagnate con chi non riesce ancora a spuntarla. Condividere è ciò che dà senso al vostro produrre. E non solo per una questione di solidarietà. Nella logica della condivisione, infatti, sia pur a lungo termine, si finisce per produrre di più e quindi guadagnare di più, perché si crea una forza-lavoro più numerosa, compatta, solidale, unita e quindi più capace di proporsi efficacemente.
Ecco il senso del cooperare, che continuamente rimbalza in queste nostre riflessioni. Certo, bisogna credere che la « perseveranza nella carità non è ingenuità »; pagare di persona, buttarsi con gratuità, sognare con semplicità. Ma bisogna anche riconoscere i propri limiti, preventivare con lucidità e…, alla fine, azzardare il rischio di vie nuove, custodendo sempre la convinzione che la provvidenza aiuta gli audaci e che tutto quanto abbiamo seminato, anche se con qualche lacrima, tutto raccoglieremo nella gioia .
Non mancherà la fatica. E la fatica esige costanza. San Paolo ce lo ricorda, con la saggezza di chi l’ha già sperimentato in prima persona. Ecco perché dice con forza persuasiva: « Non stancatevi di fare del bene ».
Questa espressione – « Non stancatevi » – deriva da un verbo che, nella lingua originale greca, descrive l’atteggiamento del lottatore che si trova in palestra o sul ring. Non riuscendo più a sostenere la violenza dell’avversario, si lascia andare, rinuncia alla lotta, si rassegna a perdere. Nel nostro contesto, « non stancatevi » è in un invito a non mollare dinanzi ad un lavoro duro, a non rassegnarsi ad una occupazione precaria, ma allo stesso tempo suona come un ammonimento tagliente, senza peli sulla lingua: non lasciarti prendere dall’avidità dell’avere, ma tieni aperta la porta alle esigenze degli altri, perché ognuno possa sentirti amico lungo il cammino, e tu possa sperimentare l’amicizia di chi, nella vita, si è fatto già strada.
Ascoltiamo Graziella, una giovane lavoratrice della cooperativa « Neilos » di Rossano (Cs). La sua esperienza è un esempio tipico di cooperazione, in cui il bene comune si sposa felicemente con quello individuale, e ognuno riesce a tirar fuori il meglio di sé, vincendo timidezze e paure.
« Insieme ai miei amici del gruppo parrocchiale abbiamo fatto una revisione di vita sulla nostra condizione di disoccupazione, è nata così l’idea di fare una cooperativa di servizi turistici per la nostra città.
Ci siamo preparati cercando di conoscere a fondo la storia della nostra città, ci siamo divisi i compiti e abbiamo iniziato le attività. Questo lavoro mi dà molte soddisfazioni. A volte non penso che il mio sia un lavoro, perché lo vivo così bene che non mi pesa. Le decisioni le prendiamo tutti insieme, mi sento sempre partecipe. A volte mi stupisco di me stessa; riesco a parlare davanti a tante persone quando faccio la guida turistica. E pensare che prima ero timida! Il lavoro sicuramente mi ha fatto crescere come persona. Mi sento realizzata. Sento che questa è la mia vocazione ».

4. È vero che…
 » Cosa si cerca di solito nel lavoro: guadagno, carriera, realizzazione personale, collaborazione…?
 » Quali sono per te gli aspetti più importanti del lavoro?
 » In che modo nel lavoro entrano in gioco i rapporti con gli altri? Come attraverso il lavoro possiamo costruire relazioni nuove con gli altri?
 » Attraverso l’esperienza di Paolo scopriamo che il lavoro non è una dimensione staccata dalla vita di fede. Che significato ha oggi la fede cristiana rispetto al lavoro ed ai problemi ad esso collegati (disoccupazione, giustizia, rispetto della dignità, costruzione di un mondo nuovo…)?

5. Impegni da prendere
Cerca, insieme con le persone che ti stanno accanto e che con te lavorano o come te cercano lavoro, spazi di dialogo, d’informazione e di formazione.
Dialogo: per entrare in sintonia l’uno con l’altro, accogliersi, acquisire insieme la capacità di analisi, imparare a programmare con responsabilità e verificarsi con schiettezza e ricerca sincera della verità.
Informazione: per diventare competenti in ciò che si fa, correggere il tiro se è il caso, e saper valorizzare opportunità e risorse.
Formazione: per dare un’anima a ciò che si fa e scoprire « le cose nuove per le quali il Signore ci chiama a operare in fedeltà » .

6. Preghiamo insieme
Signore, sono un giovane lavoratore; da quando ho 16 anni sono operaio in una piccola azienda. Ti ringrazio, perché per me il lavoro è una cosa molto importante, perché mi sento utile e posso aiutare la mia famiglia ad andare avanti.
Nel lavoro condivido la mia vita con altri lavoratori, e in loro ho la possibilità di incontrarti. Ti ringrazio, perché attraverso l’ascolto della tua Parola ho imparato a scorgere i segni del Regno nella fatica quotidiana dei miei compagni. Da quando ho cominciato a lavorare ho la fortuna, con un gruppo di giovani del mio quartiere, di confrontare la mia esperienza con la Tua Parola, Questo mi aiuta a vivere la mia fede nella realtà del mondo del lavoro, dove sento di poter partecipare alla costruzione del Tuo progetto di vita piena e gioiosa per l’uomo. In questi anni ho scoperto che non per tutti il lavoro è un’esperienza positiva. Spesso, sperimentiamo la solitudine, e molti di noi, lavorando in piccole aziende dove il sindacato non può entrare, vivono situazioni pesanti, ritmi massacranti, costretti a fare tante ore dl straordinario che lasciano pochissimo tempo al riposo, all’incontro con gli amici e allo stare in famiglia. Dove lavoro io, siamo a contatto con acidi e vernici, ma i controlli sulla salute e sugli impianti sono inesistenti. Non sempre siamo solidali tra noi, anche perché abbiamo paura di pagare di persona e dì rimetterci del nostro. Signore, aiutaci a non cedere davanti alle difficoltà; aiutaci a capire che il lavoro, come il sabato, deve essere a servizio dell’uomo; aiutaci a continuare a lottare, seguendo il tuo esempio, perché queste situazioni di sofferenza e di ingiustizia trovino sempre più dei militanti credenti che se ne facciano carico in un progetto di liberazione e di costruzione del Regno.

Publié dans:LETTURE DAGLI ATTI DEGLI APOSTOLI |on 10 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

ATTI DEGLI APOSTOLI 15,1-35: LA CHIESA A CONCILIO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/04-05/9-Concilio_Gerusalemme.html

ATTI DEGLI APOSTOLI 15,1-35: LA CHIESA A CONCILIO

Quanto viene narrato nel capitolo 15 si trova intenzionalmente al centro degli Atti e costituisce un punto di svolta nel racconto lucano. Il Collegio apostolico e presbiterale di Gerusalemme riconosce ufficialmente l’evangelizzazione dei pagani iniziata da Pietro e portata avanti su ampia scala da Barnaba e Paolo. Essa porta la Chiesa alla rottura definitiva dalla sua matrice giudaica.
Ma come si è arrivati a queste decisioni? I cristiani d’origine pagana e quelli di origine ebraica sentivano che non avevano le stesse idee. Alcuni, come i giudeo-cristiani continuavano a considerare la Legge di Mosè e le loro tradizioni come mezzi necessari alla salvezza. Paolo invece insegnava che «in Gesù abbiamo la salvezza, cioè il perdono dei peccati, e quella giustizia che la Legge di Mosè non può dare ma che ora è possibile a chiunque crede in Gesù» (13,38). È il valore assoluto della Legge e delle tradizioni ebraiche che viene annullato; è l’identità ebraica che viene messa in discussione. Questo il grande contrasto tra chi crede in Gesù e gli Ebrei, un contrasto che è fortemente latente tra i cristiani di origine pagana e i giudeo-cristiani, anche se esteriormente sembra dibattersi su cose più secondarie. Si pensi a Pietro quando ritornò a Gerusalemme da Cesarea; la comunità gli rinfacciò: «Sei stato nella casa di persone incirconcise e hai mangiato con loro» (1l,3). Secondaria è pure la questione sollevata da quei «giudeo-cristiani che sono scesi da Gerusalemme ad Antiochia di Siria e che insegnavano ai fratelli: “Se non vi fate circoncidere secondo la Legge di Mosè non potete essere salvi”».
Ci si chiede: «È vero quanto ha detto Pietro di fronte al Sinedrio: “Non c’è altro nome in cielo e sulla terra nel quale possiamo essere salvi” o è vero quanto dicono gli ebrei cristiani: “Se non vi fate circoncidere non potete essere salvi”? Per essere cristiani e avere la salvezza in Cristo, è proprio necessario diventare prima Ebrei e accettare le tradizioni ebraiche? Il contrasto tra Paolo e Barnaba con quelli che erano discesi dalla Giudea fu assai duro. Però nessuno voleva una rottura nella Chiesa, perché sentivano l’unità della Chiesa come un bene da salvare a ogni costo, ma qual è la via per risolvere i loro contrasti? Risposta:
Andiamo a Gerusalemme! (15,1-3)
Le due parti in contrasto stabilirono che «Paolo e Barnaba e alcuni di loro (cioè i contrari a Paolo) andassero a Gerusalemme dagli Apostoli per discutere tale questione». La Chiesa Madre continua con gli Apostoli a svolgere il ruolo di guida di tutta la cristianità. Paolo in particolare sente il bisogno di un incontro con gli Apostoli. Egli non va a Gerusalemme solo come un inviato della Chiesa di Antiochia, ma anche in forza di una rivelazione. Ce la racconta lui stesso: «Dopo quattordici anni salii di nuovo a Gerusalemme insieme con Barnaba, vi andai però a motivo di una rivelazione ed esposi privatamente alle persone più autorevoli il Vangelo che io predicavo ai pagani per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano» (Gal 2,2). Paolo sapeva che il suo modo di predicare il Vangelo poteva sembrare una rottura nella Chiesa e sentiva personalmente il bisogno di un’approvazione ufficiale. Anche per Paolo l’unità della Chiesa era un bene massimo.

Eccoci a Gerusalemme (15,4-12)
«Giunti a Gerusalemme furono accolti dalla Chiesa, dagli Apostoli e dai presbiteri ed essi riferirono tutto ciò che Dio aveva fatto per mezzo loro» (v. 4). Ci sembra ovvio che abbiano anche raccontato di avere insegnato che la salvezza è solo in Gesù e non nella Legge di Mosè. Questo dato, taciuto qui da Luca, ci sembra che crei meglio il contrasto con quanto dicono quei cristiani che provengono dalla setta dei farisei: «È necessario circonciderli e ordinare loro di osservare la Legge di Mosè»
(v. 5). L’opposizione è radicale. Qui c’è solo da stabilire quale posizione sia valida. La discussione dev’essere stata assai dura se Paolo nella lettera ai Galati dice: «Ad essi non cedemmo in nulla, neppure un istante, perché la verità del Vangelo continuasse salda tra di voi» (2,5).
Dopo lunga discussione ecco riapparire Pietro, nella pienezza del suo potere, il quale parla di “quello che Dio ha fatto per mezzo suo”. La stessa frase usata da Paolo e Barnaba, una frase che gli oppositori non possono usare perché ripiegati su un passato che oramai è giunto al suo compimento. La parola di Pietro è incisiva. Traduciamola letteralmente: «Fratelli, voi sapete che fin dai giorni antichi tra noi Dio ha scelto di far ascoltare per mezzo della mia bocca la parola del Vangelo ai pagani e di farli diventare credenti. E Dio che legge nei cuori ha reso testimonianza concedendo anche a loro lo Spirito Santo come a noi. E non ha fatto nessuna discriminazione tra loro e noi e “ha purificato i loro cuori con la fede”, sottinteso: senza la Legge di Mosè». E qui, rivolgendosi ai giudeo-cristiani morbosamente attaccati alla Legge e alle loro tradizioni, dice: «Perché tentate Dio imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo riusciti a portare?».
Sembra di sentire Gesù che dice ai farisei: «Legano pesi gravi e insopportabili e li accollano sulle spalle degli uomini, ma essi non li vogliono toccare neppure con un dito» (Mt 23,4). Bello se Pietro continuasse a dire: “Buttiamo via il passato e viviamo la libertà in Cristo”. Ma è troppo presto per dire questo e lo toccheremo subito con mano. In Paolo c’è questa voglia, ma forse anche lui non riesce ancora a formularla bene, un giorno però nella Lettera ai Filippesi lo dirà con parole chiare: «Ho ubbidito alla Legge di Mosè con lo scrupolo di un fariseo, fui zelante fino a perseguitare la Chiesa di Dio; mi consideravo giusto perché seguivo la Legge di Mosè in modo irreprensibile. Ma tutte queste cose che avevano per me un grande valore, ora che ho conosciuto Cristo, le vedo come iattura, le ritengo da buttar via» (3,5-7). Sentendo Pietro, Paolo accetta senz’altro la sua conclusione: «Noi crediamo che è per la grazia del Signore Gesù che siamo salvati, e allo stesso modo anche loro». Paolo ha capito di aver raggiunto lo scopo per cui era andato a Gerusalemme. Ma anche tutti i presenti si sentirono in sintonia con Pietro e «stettero ad ascoltare Paolo e Barnaba che raccontavano quanti segni e prodigi Dio aveva compiuto tra i pagani per mezzo loro». L’autore di ogni cosa continua ad essere Dio.

La Parola a Giacomo (15,13-21)
La fede di tutti è ora chiara, ma la messa in pratica non è facile. È assai difficile per i giudeo-cristiani buttar via in un giorno le tradizioni in cui sono stati educati sin dall’infanzia; e di questo debbono tener conto i cristiani di origine pagana. Si pensi a quale conversione è stato chiamato Pietro nella visione di Ioppe. Lui, che aveva udito gli insegnamenti di Gesù che rendeva puro ogni cibo (Mc 7,19) e che diceva ai farisei: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate le tradizioni degli uomini» (Mc 7,8). Ebbene, Giacomo, che sente profondamente e anche personalmente queste stesse difficoltà che vengono da una lunga educazione, cerca un punto di equilibrio.
Innanzitutto, come tutti gli altri, approva pienamente quanto ha detto Pietro, dicendo: «Da molto tempo Dio si è scelto tra i pagani un popolo per consacrarlo al suo nome», una frase già usata nell’A.T. per indicare che Israele, il popolo di Dio, era stato scelto tra i pagani (Dt 14,2). Il senso è chiaro: ora il popolo di Dio è formato da coloro che nella fede hanno accolto Gesù, e tra costoro, anche se il testo non lo dice, ci sono pure quei giudeo-cristiani che sono stati scelti per grazia (Rm 11,15). Giacomo, con fine intuito, commenta questa scelta dei pagani come compimento della profezia di Amos 9,11-14. In essa si parla della ricostruzione della casa di Davide totalmente distrutta e che Dio ora, in Cristo discendente di Davide, ha ricostruito «perché il resto degli uomini cerchino il Signore e anche tutte le genti su cui è stato invocato il mio nome». È chiaro che qui il nuovo popolo di Dio appare come continuazione dell’antico e nasce perché parte della ricostruita casa o famiglia di Davide.
Dopo questo, Giacomo, rispondendo ai giudeo-cristiani dice «che non si debbono importunare quelli che tra i pagani si convertono a Dio», quindi parlando a questi convertiti dal paganesimo dice di «astenersi dalle carni sacrificate agli idoli e da quelle di animali soffocati, dal mangiare sangue e dall’immoralità». Queste disposizioni si fondano su una precisa costatazione. Come Pietro a Cesarea è entrato nella casa di un incirconciso e ha mangiato con lui, così ad Antiochia i cristiani tante volte si riuniscono per un pasto comune o per l’Eucaristia, che allora si celebrava durante una comune cena. In questo caso è bene che la libertà ottenuta in Cristo sia vissuta nella carità, tenendo conto che i giudeo-cristiani sin da piccoli sono stati educati a sentire ripugnanza per i cibi indicati come impuri e che, anche se vogliono, non è loro facile superare in poco tempo questa difficoltà. Si parla anche di evitare “l’immoralità”, traduzione di un termine che può essere reso anche diversamente, ma che sempre indica qualcosa che tutti debbono evitare.

Il decreto conciliare (15,22-29)
La narrazione di Luca è molto lineare: all’inizio (15,4) si è detto che la Chiesa di Gerusalemme, gli apostoli e i presbiteri hanno accolto gli inviati dalla Chiesa di Antiochia. Ora, dopo aver vagliato a lungo la loro problematica e aver preso posizione con gli interventi di Pietro e Giacomo, «gli apostoli e i presbiteri insieme a tutta la comunità decidono di eleggere alcuni di loro e di inviarli ad Antiochia insieme a Paolo e Barnaba. Furono eletti Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini tenuti in grande considerazione tra i fratelli. A loro diedero una lettera» che inizia sullo stile di ogni lettera antica: «Gli Apostoli e i presbiteri, vostri fratelli, ai fratelli di origine pagana di Antiochia, di Siria e della Cilicia, salute!». Chiamano “fratelli” i cristiani di origine pagana perché oramai li sentono parte viva del popolo di Dio. E poi affrontano il motivo di ciò che è avvenuto e condannano coloro che, senza alcun mandato, sono scesi dalla Giudea ad Antiochia e hanno turbato la vita dei fratelli sostenendo che la circoncisione è necessaria per la salvezza. Quindi dicono: «abbiamo pensato bene di inviarvi alcune persone insieme a Paolo e Barnaba uomini che hanno votato la loro vita al nome del Signore nostro Gesù Cristo». Non è una semplice lode, ma un riconoscimento ufficiale della loro missione e del contenuto del loro annuncio che Pietro ha bene evidenziato quando ha detto: «Noi crediamo che è per la grazia del Signore Gesù che siamo salvati» (15,11). La lettera continua così: «Vi mandiamo dunque Barsabba e Sila che vi riferiranno anche a voce quanto abbiamo deciso».
L’inizio del decreto: «Allo Spirito Santo e a noi» è straordinario. Esso continua a farci toccare con mano come i credenti siano convinti e – direi – vivano l’esperienza dello Spirito Santo nella vita della Chiesa. Ripetiamo: «Allo Spirito Santo e a noi è parso bene di non imporvi alcun altro obbligo al di fuori di ciò che è strettamente necessario: astenersi dalle carni sacrificate agli idoli, dalle carni di animali soffocati, dal mangiare sangue e dall’immoralità».
Il decreto ha destinatari ben precisi: i cristiani di origine pagana di Antiochia di Siria e quelli delle province della Siria e della Cilicia. Essi formano fin dall’inizio delle comunità miste che hanno sempre saputo camminare insieme come ha fatto per alcuni giorni Pietro a Cesarea, poi contestato dalla comunità di Gerusalemme (11,1). Non sappiamo con certezza quando ciò sia avvenuto, ma ad Antiochia a Pietro successe anche il contrario. La lettera ai Galati (2,11-14) afferma che «Cefa prima che giungessero alcuni del partito di Giacomo mangiava con i cristiani di origine pagana, ma dopo la loro venuta cominciò ad evitarli e a tenersi in disparte per timore dei circoncisi e così fecero anche gli altri credenti di origine ebraica, compreso Barnaba. Paolo affrontò Pietro e gli disse: “Se tu che sei ebreo vivi come i non ebrei, come puoi costringere i pagani a vivere da ebrei”».
Forse questo è il contesto giusto per capire il decreto conciliare. Esso non vuole obbligare i cristiani di origine pagana a diventare ebrei e neppure affermare che l’osservanza delle quattro norme sia necessaria alla salvezza. Il decreto si limita a dire: «Farete bene a osservare queste cose» (15,29). In tal modo inculca una distinzione cruciale che i cristiani di ogni epoca debbono ricordare: ci sono delle esigenze della vita cristiana che sono essenziali e alcune, come queste quattro, che pur non essendo essenziali possono contribuire a conservare l’armonia e la pace e a vivere una vera comunione di vita. E che queste norme non siano mai state veramente essenziali appare dai manoscritti antichi. Nei più recenti, quelle norme hanno assunto una natura etico morale e sono state espresse con i termini: idolatria, adulterio, omicidio, norme che hanno un valore perenne. Nel codice occidentale poi sono state interpretate alla luce della “regola aurea”: non fare agli altri quanto non si vuole fatto a noi. Lo scopo del decreto conciliare è proprio questo: vivere la libertà che si ha in Cristo nella carità.

Di nuovo ad Antiochia (15,30-35)
Quando gli inviati dalla Chiesa di Gerusalemme giunsero ad Antiochia consegnarono la lettera e appena l’ebbero letta, “tutti si rallegrarono per l’incoraggiamento che infondeva”. Bastano queste parole per capire che il decreto conciliare lancia la chiesa cristiana sull’autonomia dalla sua matrice giudaica: la Legge di Mosè e le tradizioni ebraiche non sono necessarie per essere cristiani e per salvarsi. Allo stesso tempo capirono che la libertà che essi hanno in Cristo esige un atteggiamento di vera carità e di comunione fraterna.
Barsabba e Sila vissero questi momenti di gioia e di grazia; incoraggiarono i fedeli e li esortavano a rendere in loro salda la fede. Poi tornarono a Gerusalemme, mentre Paolo e Barnaba continuarono ad Antiochia a insegnare e annunziare insieme a molti altri la Parola del Signore.

Preghiamo
O Signore, dopo aver percorso questa lunga pagina degli Atti, sgorga dal cuore una sola preghiera:
Fa’, o Signore, che i cristiani di oggi sentano la bellezza dell’unità della tua Chiesa e sappiano costruirla con un serio confronto delle loro differenza dando importanza al molto che hanno in comune e che non può essere oscurato da ciò che divide. Il cammino non è certo facile, ma quando si sceglie di vivere la libertà che abbiamo in Cristo nella carità, allora tutto si appiana e ognuno capisce che per ottenere l’unità bisogna un po’ morire a se stessi e non essere morbosamente attaccati all’identità della propria chiesa.
È l’unità che conta e questa si ottiene solo se ogni comunità cristiana sa davvero convertirsi a Gesù, come ha detto Papa Luciani. O Signore fa’ che queste verità entrino profondamente nel cuore di ogni cristiano, perché solo se saranno “una sola cosa”, come tu hai detto, il mondo crederà che il Padre ti ha mandato. Amen!

Mario Galizzi

Publié dans:LETTURE DAGLI ATTI DEGLI APOSTOLI |on 10 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

The Virgin and Child with Saint Anne

The Virgin and Child with Saint Anne dans immagini sacre 640px-Ignoto_del_XV_secolo_Santa_Anna_Metterza_Boccioleto_Alpe_Seccio

http://en.wikipedia.org/wiki/Virgin_and_Child_with_Saint_Anne

Publié dans:immagini sacre |on 9 décembre, 2014 |Pas de commentaires »
1...5678910

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01