Archive pour décembre, 2014

LA TREGUA DI NATALE 1914 -GRANDE GUERRA

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LA TREGUA DI NATALE 1914 -GRANDE GUERRA

La notte di Natale 1914, nelle trincee del fronte occidentale (Francia e Belgio) ci fu una tregua. Si trattò di una eccezionale circostanza dettata dalla spontaneità di un sentimento di fratellanza universale, più forte persino del rombo dei cannoni. Non la ordinarono i comandi supremi che, di contro, fecero di tutto per condannarla ed accertarsi che mai più si ripetesse in futuro.
I soldati di entrambe le fazioni uscirono allo scoperto, si abbracciarono, fumarono, cantarono insieme, si scambiarono doni e organizzarono persino delle estemporanee partite di calcio. Gli Stati Maggiori coinvolti nel conflitto fecero di tutto anche per nascondere l’accaduto e cancellarne ogni traccia o memoria – recentemente però sono emerse dagli archivi militari di tutta Europa, lettere, diari e persino fotografie che sanciscono inequivocabilmente che la tregua, anche se non ufficiale, avvenne realmente e si protrasse addirittura per più giorni, nel periodo Natalizio del 1914.
Di recente sono apparsi anche alcuni saggi sull’argomento ed è stato anche realizzato un lugometraggio dal titolo « Joeux Noel » (« Merry Christmas » nella versione Internazionale), che ha vinto il Leone d’Oro al Festival del cinema di Berlino.

Una preziosa testimonianza di un soldato inglese
che ebbe modo di assistere di persona a questo evento.
« Janet, sorella cara, sono le due del mattino e la maggior parte degli uomini dormono nelle loro buche, ma io non posso addormentarmi se prima non ti scrivo dei meravigliosi avvenimenti della vigilia di Natale. In verità, ciò che è avvenuto è quasi una fiaba, e se non l’avessi visto coi miei occhi non ci crederei. Prova a immaginare: mentre tu e la famiglia cantavate gli inni davanti al focolare a Londra, io ho fatto lo stesso con i soldati nemici qui nei campi di battaglia di Francia! « Le prime battaglie hanno fatto tanti morti, che entrambe le parti si sono trincerate, in attesa dei rincalzi. Sicché per lo più siamo rimasti nelle trincee ad aspettare.
Ma che attesa tremenda! Ci aspettiamo ogni momento che un obice d’artiglieria ci cada addosso, ammazzando e mutilando uomini. E di giorno non osiamo alzare la testa fuori dalla terra, per paura del cecchino. E poi la pioggia: cade quasi ogni giorno. Naturalmente si raccoglie proprio nelle trincee, da cui dobbiamo aggottarla con pentole e padelle.
E con la pioggia è venuto il fango, profondo un piede e più. S’appiccica e sporca tutto, e ci risucchia gli scarponi. Una recluta ha avuto i piedi bloccati nel fango, e poi anche le mani quando ha cercato di liberarsi…» «Con tutto questo, non potevamo fare a meno di provare curiosità per i soldati tedeschi di fronte noi. Dopo tutto affrontano gli stessi nostri pericoli, e anche loro sciaguattano nello stesso fango. E la loro trincea è solo cinquanta metri davanti a noi. » « Tra noi c’è la terra di nessuno, orlata da entrambe le parti di filo spinato, ma sono così vicini che ne sentiamo le voci. Ovviamente li odiamo quando uccidono i nostri compagni.
Ma altre volte scherziamo su di loro e sentiamo di avere qualcosa in comune. E ora risulta che loro hanno gli stessi sentimenti. Ieri mattina, la vigilia, abbiamo avuto la nostra prima gelata. Benché infreddoliti l’abbiamo salutata con gioia, perché almeno ha indurito il fango. » « Durante la giornata ci sono stati scambi di fucileria.
Soldati che fraternizzano durante la tregua di Natale 1914Ma quando la sera è scesa sulla vigilia, la sparatoria ha smesso interamente. Il nostro primo silenzio totale da mesi! Speravamo che promettesse una festa tranquilla, ma non ci contavamo. » soldati che fraternizzano fuori dalle trincee « Di colpo un camerata mi scuote e mi grida: ?Vieni a vedere! Vieni a vedere cosa fanno i tedeschi! Ho preso il fucile, sono andato alla trincea e, con cautela, ho alzato la testa sopra i sacchetti di sabbia». «Non ho mai creduto di poter vedere una cosa più strana e più commovente. Grappoli di piccole luci brillavano lungo tutta la linea tedesca, a destra e a sinistra, a perdita d’occhio. Che cos’è?, ho chiesto al compagno, e John ha risposto: ‘alberi di Natale!’. Era vero. I tedeschi avevano disposto degli alberi di Natale di fronte alla loro trincea, illuminati con candele e lumini. » « E poi abbiamo sentito le loro voci che si levavano in una canzone: ‘ stille nacht, heilige nacht…’. Il canto in Inghilterra non lo conosciamo, ma John lo conosce e l’ha tradotto: ‘notte silente, notte santa’.
Non ho mai sentito un canto più bello e più significativo in quella notte chiara e silenziosa. Quando il canto è finito, gli uomini nella nostra trincea hanno applaudito. Sì, soldati inglesi che applaudivano i tedeschi! Poi uno di noi ha cominciato a cantare, e ci siamo tutti uniti a lui: ‘the first nowell (1) the angel did say…’. Per la verità non eravamo bravi a cantare come i tedeschi, con le loro belle armonie. Ma hanno risposto con applausi entusiasti, e poi ne hanno attaccato un’altra: ‘o tannenbaum, o tannenbaum…’. A cui noi abbiamo risposto: ‘o come all ye faithful…’. (2) E questa volta si sono uniti al nostro coro, cantando la stessa canzone, ma in latino: ‘adeste fideles…’». «Inglesi e tedeschi che s’intonano in coro attraverso la terra di nessuno! » « Non potevo pensare niente di più stupefacente, ma quello che è avvenuto dopo lo è stato di più. ‘Inglesi, uscite fuori!’, li abbiamo sentiti gridare, ‘voi non spara, noi non spara!’.
Nella trincea ci siamo guardati non sapendo che fare. Poi uno ha gridato per scherzo: ‘venite fuori voi!’. Con nostro stupore, abbiamo visto due figure levarsi dalla trincea di fronte, scavalcare il filo spinato e avanzare allo scoperto. » « Uno di loro ha detto: ‘Manda ufficiale per parlamentare’. Ho visto uno dei nostri con il fucile puntato, e senza dubbio anche altri l’hanno fatto – ma il capitano ha gridato ‘non sparate!’. Poi s’è arrampicato fuori dalla trincea ed è andato incontro ai tedeschi a mezza strada. Li abbiamo sentiti parlare e pochi minuti dopo il capitano è tornato, con un sigaro tedesco in bocca! » « Nel frattempo gruppi di due o tre uomini uscivano dalle trincee e venivano verso di noi.
Alcuni di noi sono usciti anch’essi e in pochi minuti eravamo nella terra di nessuno, stringendo le mani a uomini che avevamo cercato di ammazzate poche ore prima». «Abbiamo acceso un gran falò, e noi tutti attorno, inglesi in kaki e tedeschi in grigio. Devo dire che i tedeschi erano vestiti meglio, con le divise pulite per la festa. Solo un paio di noi parlano il tedesco, ma molti tedeschi sapevano l’inglese. Ad uno di loro ho chiesto come mai. ‘Molti di noi hanno lavorato in Inghilterra’, ha risposto. ‘Prima di questo sono stato cameriere all’Hotel Cecil. » « Forse ho servito alla tua tavola!’ ‘Forse!’, ho risposto ridendo. Mi ha raccontato che aveva la ragazza a Londra e che la guerra ha interrotto il loro progetto di matrimonio. E io gli ho detto: ‘non ti preoccupare, prima di Pasqua vi avremo battuti e tu puoi tornare a sposarla’. Si è messo a ridere, poi mi ha chiesto se potevo mandare una cartolina alla ragazza, ed io ho promesso. Un altro tedesco è stato portabagagli alla Victoria Station.
Mi ha fatto vedere le foto della sua famiglia che sta a Monaco. Anche quelli che non riuscivano a parlare si scambiavano doni, i loro sigari con le nostre sigarette, noi il tè e loro il caffè, noi la carne in scatola e loro le salsicce. Ci siamo scambiati mostrine e bottoni, e uno dei nostri se n’è uscito con il tremendo elmetto col chiodo! Anch’io ho cambiato un coltello pieghevole con un cinturame di cuoio, un bel ricordo che ti mostrerò quando torno a casa. » « Ci hanno dato per certo che la Francia è alle corde e la Russia quasi disfatta.
Noi gli abbiamo ribattuto che non era vero, e loro. ‘Va bene, voi credete ai vostri giornali e noi ai nostri’». «E’ chiaro che gli raccontano delle balle, ma dopo averli incontrati anch’io mi chiedo fino a che punto i nostri giornali dicano la verità. Questi non sono i ‘barbari selvaggi’ di cui abbiamo tanto letto. Sono uomini con case e famiglie, paure e speranze e, sì, amor di patria. Insomma sono uomini come noi. Come hanno potuto indurci a credere altrimenti? Siccome si faceva tardi abbiamo cantato insieme qualche altra canzone attorno al falò, e abbiamo finito per intonare insieme – non ti dico una bugia – ‘Auld Lang Syne’. Poi ci siamo separati con la promessa di rincontraci l’indomani, e magari organizzare una partita di calcio.
E insomma, sorella mia, c’è mai stata una vigilia di Natale come questa nella storia? Per i combattimenti qui, naturalmente, significa poco purtroppo. Questi soldati sono simpatici, ma eseguono gli ordini e noi facciamo lo stesso. A parte che siamo qui per fermare il loro esercito e rimandarlo a casa, e non verremo meno a questo compito. » « Eppure non si può fare a meno di immaginare cosa accadrebbe se lo spirito che si è rivelato qui fosse colto dalle nazioni del mondo. » « Ovviamente, conflitti devono sempre sorgere. Ma che succederebbe se i nostri governanti si scambiassero auguri invece di ultimatum? Canzoni invece di insulti? Doni al posto di rappresaglie? Non finirebbero tutte le guerre?

Il tuo caro fratello Tom. »"

ANTICHE PROFESSIONI DI FEDE CRISTIANE – (tre testi di San Paolo)

http://www.storico.org/nascita_cristianesimo/professioni_fede.html

ANTICHE PROFESSIONI DI FEDE CRISTIANE -

(in esame: la Prima Lettera ai Corinzi 15, 1-11, che riveste un’importanza tutta particolare, la Lettera ai Romani 1, 3-4, che è una «formula di fede», quasi un «credo» in miniatura, e la Prima Lettera a Timoteo 3, 16)

Formule di fede, acclamazioni, inni contenuti in particolare nell’epistolario paolino ci informano su quale fosse la fede delle prime comunità cristiane

di Simone Valtorta

In che cosa credevano i primi Cristiani? Per saperlo, è inutile riferirsi – come fanno purtroppo molte persone, anche di buona cultura – a quanto è scritto in romanzi di basso o nullo valore culturale, o in pseudo-saggi composti non da storici ma da «professionisti della penna», giornalisti, uomini politici, attori che spacciano per rivelazioni clamorose notizie inventate di sana pianta; chiunque sia interessato all’argomento (ma questo vale per qualsiasi ricerca storica) deve «in primis» riferirsi ai testi dell’epoca, inserendoli nel contesto culturale e religioso della società che li ha prodotti. È quello che faremo in questo breve articolo.
Numerosi passi del Nuovo Testamento, principalmente nelle Lettere di Paolo, contengono frammenti antichissimi (pre-paolini) di confessioni di fede vere e proprie, acclamazioni, inni e tramandano «la fede apostolica comune, precedente la riflessione paolina. Non sono la teologia paolina, ma la base da cui Paolo parte per costruirla. Numerosi indizi lo provano» (Bruno Maggioni in Introduzione alla storia della salvezza, Torino 1973, pagina 223). Questi frammenti non vogliono semplicemente fare una «cronaca» di certi avvenimenti, bensì destare una fede che è accettazione personale e vissuta dell’azione salvifica di Dio a favore degli uomini, nella storia.
Tra i vari passi che si possono citare, ne esamineremo tre: la Prima Lettera ai Corinzi 15, 1-11, che riveste un’importanza tutta particolare, la Lettera ai Romani 1, 3-4, che è una «formula di fede», quasi un «credo» in miniatura, e la Prima Lettera a Timoteo 3, 16, un «inno», il cui contesto originario è quello delle celebrazioni liturgiche.

Prima Lettera ai Corinzi 15, 1-11
«Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano!
Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è stato risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli Apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come all’aborto. Io infatti sono l’infimo degli Apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato Apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la Sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto».
Il brano è stato scritto nell’anno 56 dopo Cristo, e rappresenta una delle pagine più antiche (forse addirittura la più antica in assoluto) che abbiamo sulla risurrezione di Gesù; Paolo inoltre richiama la sua precedente predicazione a Corinto (anni 51-52), ma anche allora egli aveva semplicemente trasmesso «alla lettera» ciò che lui stesso aveva ricevuto, quindi bisogna risalire o al tempo della sua permanenza ad Antiochia (verso il 40), o addirittura al tempo della sua conversione (35 circa). Questa data è la più probabile, per ragioni sia linguistiche che stilistiche, e si colloca ad un tempo vicinissimo all’«evento fondatore» della Chiesa (Gesù viene ucciso nell’anno 30).
Ciò che fa problema agli abitanti di Corinto non è tanto la risurrezione di Gesù, quanto la risurrezione dei morti: probabilmente i Corinzi, di cultura greca, sono debitori della mentalità dualistica del tempo, in base alla quale la morte è considerata come il momento della separazione dell’anima dal corpo, quest’ultimo visto come prigione perché tutto ciò che ha a che fare con la materia è caduco, è destinato alla dissoluzione, è fonte di male e di infelicità; ciò che alcuni di essi rifiutano è la risurrezione dei corpi.
Paolo fa notare, citando Menandro, proprio un noto esponente della cultura greca, che «se i morti non risorgono, allora “mangiamo e beviamo, ché domani morremo”» (Prima Lettera ai Corinzi 15, 32): se non v’è risurrezione dei morti, viene meno un elemento fondamentale della speranza cristiana, non c’è più vera salvezza, per cui tanto vale dedicarsi allo stile di vita pagano, alla cura di sé e del proprio piacere, prima che tutto si dissolva. L’annuncio di Paolo è invece incentrato sull’affermazione che Gesù, quel medesimo Gesù che è morto sulla croce, è vivo, è risorto (in tutta la Sua realtà personale, quindi anche con il Suo corpo, benché trasformato), aprendo così per chi crede in Lui un futuro di vita e di speranza.
Il brano inizia con una dichiarazione solenne: Paolo precisa qual è il fulcro della fede cristiana, che lui non ha inventato, ma ricevuto: che Gesù è morto (un fatto storico, che accomuna la Sua sorte a quella di tutti gli uomini) per i nostri peccati – è finito sulla croce perché, pur essendosi fatto uomo per portare la salvezza agli uomini immersi nel peccato, è stato respinto e ha scelto di condividere fino alle estreme conseguenze la sorte degli uomini, legata al peccato e alla morte, mostrando così fino a che punto giunge la volontà di salvezza di Dio nei confronti dell’umanità peccatrice continuamente proclamata dalle Scritture, già nel Primo (o Antico) Testamento (Dio è Colui che è alleato del Suo popolo, che non lo abbandona nonostante le sue infedeltà, che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva). Paolo inoltre precisa che Gesù fu sepolto: per gli Ebrei, chi è sepolto è definitivamente morto, diviene polvere e non appartiene più alla comunità dei viventi.
Ma Gesù «è stato risuscitato»: l’immagine è quella del «risveglio» di un dormiente o del «rizzarsi» di uno che giace a terra, ma la risurrezione di Cristo non è la semplice rianimazione di un cadavere, il ritorno allo stato di vita precedente (come Lazzaro, o il giovane di Nain) – il Risorto dopo la Sua morte è in uno stato di vita del quale noi non abbiamo esperienza, per cui non ne possiamo parlare se non per immagini, che vogliono far intuire una realtà, non certo descriverla. E la menzione che è avvenuto il terzo giorno (nel Primo Testamento il terzo giorno era spesso considerato come il giorno della liberazione, della salvezza, della vittoria sulla morte e su ogni forma di schiavitù, dopo un intervallo di smarrimento, di crisi, di «prova»: il terzo giorno Giuseppe libera i suoi fratelli dal carcere, il terzo giorno Dio appare sul Sinai e stringe un’alleanza con il Suo popolo, il terzo giorno Giona viene liberato dal ventre della balena…), questa menzione, dicevamo, non intende precisare una data, ma suggerisce che la risurrezione di Gesù è l’evento decisivo di salvezza, di liberazione: Dio interviene a salvare chi si è affidato alla Sua volontà fino a dare la vita, non lascia il giusto nella morte, ma lo fa risorgere, inaugurando così il tempo della salvezza definitiva. Anche la risurrezione di Gesù è quindi secondo le Scritture: la Bibbia parla della potenza di Dio come di una potenza di vita e di salvezza che non si arresta di fronte a nessun ostacolo, che anche dalla morte e dal nulla sa far scaturire la vita.
Poi Gesù «si è fatto vedere», «si mostrò», «apparve»: non si tratta di un semplice farsi vedere, ma di un andare incontro all’uomo, di un entrare in dialogo con lui. Il Risorto si mostra nelle apparizioni come una persona che prende l’iniziativa di un contatto personale, in vista di un compito da svolgere da parte dei discepoli ai quali si richiede il coinvolgimento personale, la testimonianza vitale. Il linguaggio è quello narrativo, quello che si riferisce a fatti reali, ad avvenimenti fuori discussione quanto a veridicità ed a controllabilità storica: in questo senso si muove anche la lista dei personaggi che vengono citati, tutti testimoni oculari, la cui attendibilità è fuori discussione, alcuni conosciuti personalmente da Paolo.
Abbiamo innanzitutto Cefa (Simon Pietro) e i Dodici, il gruppo di discepoli che Gesù aveva costituito attorno a Sé durante la Sua vita terrena, e la cui testimonianza godeva di particolare autorità all’interno della prima comunità cristiana; poi sono menzionati cinquecento «fratelli» (qui «fratelli» sta per «Cristiani», «credenti»), molti dei quali sono ancora viventi, quindi possono essere direttamente interpellati (con tutta evidenza, erano persone di cui si sapeva il nome). Questa apparizione non è ricordata altrove nel Nuovo Testamento; viceversa, Paolo non menziona le donne (citate nei Vangeli) come destinatarie delle apparizioni: per i dubbiosi di Corinto erano necessarie testimonianze sicure, indiscutibili, e la testimonianza femminile, allora, non godeva di questi requisiti. Si menzionano quindi Giacomo (evidentemente «Giacomo, il fratello [cugino] del Signore»), che occupava una posizione influente in particolare nella Chiesa di Gerusalemme, di cui con Pietro e Giovanni era una delle «colonne», e «tutti gli Apostoli», non solo i Dodici già precedentemente ricordati ma anche altre persone, soprattutto, sembra, alcune figure di missionari, note nella Chiesa primitiva, che hanno particolarmente contribuito alla diffusione del vangelo di Cristo nel mondo di allora. Paolo cita se stesso come ultimo, riferendosi verosimilmente al suo incontro con il Cristo sulla via di Damasco: un incontro «fisico», a «tu per tu», non un’«illuminazione»; dal momento che Paolo era stato, fino a quel momento, un persecutore dei Cristiani, la sua chiamata e l’efficacia della sua predicazione mostrano con particolare evidenza la forza e la gratuità della potente azione di Dio.
«Nella Prima Lettera ai Corinzi, scritta molto prima dei nostri Vangeli, ci è dunque tramandata un’antica testimonianza sulla risurrezione, che Paolo già a Corinto predicò come “vangelo” (annuncio di gioia), che egli stesso precedentemente aveva “ricevuto” e che “trasmise” fedelmente, in accordo con la predicazione degli altri Apostoli (versetto 11). Contenuto di questo vangelo è un evento unico, straordinario e non esprimibile adeguatamente nel nostro linguaggio: Cristo morì e fu sepolto; Egli è stato risuscitato poco dopo la Sua morte secondo le promesse di salvezza dell’Antico Testamento ed è apparso a persone di cui si fa il nome e la cui attendibilità per i Corinzi era fuori discussione. Solo la fedeltà a questa “parola”, predicata fin dall’inizio nella Chiesa, porta, secondo Paolo, la salvezza» (J. Kremer, La testimonianza di 1 Cor 15, 3-8 sulla risurrezione di Cristo, in Autori Vari, Dibattito sulla risurrezione di Gesù, Brescia 1969).
La risurrezione di Cristo apre un futuro di vita per tutto l’uomo, in tutta la sua realtà personale (compreso il corpo); è inoltre una salvezza che riguarda tutti gli uomini: il destino di Gesù è il nostro stesso destino. L’ultima parola di Dio è una parola di vita, non di morte: la vicenda dell’umanità intera non è nelle mani del caso o del destino, ma ha un senso, e un senso di vita, di salvezza; chi non ha capito questo, non ha capito l’elemento centrale della fede cristiana, anzi, non conosce Dio, quel Dio di cui parlano le Scritture e che non lascia nella morte coloro che fino alla morte si sono impegnati ad eseguire la Sua volontà: alla morte segue la risurrezione. Questo è il vangelo che Paolo annuncia!

Lettera ai Romani 1, 3-4
«…riguardo al Figlio Suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità dalla risurrezione dei morti, Gesù Cristo, nostro Signore».
Si tratta di una formula di fede antichissima, che Paolo ha inserito nella solenne apertura di questa sua lettera di presentazione ai Cristiani di Roma: la sua fede ha al centro «Gesù Cristo, nostro Signore», che manifesta pienamente Se stesso e tutta l’azione salvifica di Dio nei confronti degli uomini con la Sua risurrezione. Chi risorge non è però semplicemente un Dio in forma umana, ma un uomo preciso, vissuto in un certo modo, dotato di una inconfondibile individualità storica. Il Figlio si è fatto veramente uomo, è diventato uno di noi, partecipe della nostra vicenda terrena; è nato alla vita come nascono tutti i figli dell’uomo e in un popolo preciso, destinatario delle promesse di Dio: è della stirpe di Davide, e «Davide è tutta la storia di Israele e la speranza che un giorno possa trovare il proprio coronamento glorioso» (F. J. Leenhardt, L’épître de Saint Paul aux Romains, Neuchâtel-Paris 1957, pagina 22). L’esistenza umana e terrestre di Gesù sbocca sulla risurrezione che dà inizio alla vita che più non muore, quella alla destra del Padre.
L’idea è quella dell’esaltazione: secondo le promesse del Primo Testamento, il Messia viene riconosciuto come tale ed esaltato, intronizzato come dominatore sui popoli e sulla storia; la risurrezione di Gesù apre per tutti i popoli del mondo, per tutti gli uomini, un futuro di vita e di salvezza. Gesù, il Figlio, nascendo tra noi come uno di noi, rivela la potenza di Dio, la forza con la quale Dio sconfigge la morte, ed anche dal nulla sa far sorgere la vita.

Prima Lettera a Timoteo 3, 16
«Dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà:
Colui che si è manifestato nella carne,
è stato giustificato nello Spirito,
è stato presentato agli angeli,
è stato annunziato alle nazioni,
è stato creduto dal mondo,
è stato elevato nella gloria».
Nella vita della primitiva comunità cristiana, uno dei luoghi caratteristici dell’annuncio è la liturgia: nell’assemblea di culto la comunità dei discepoli sperimenta e vive quello che predica, celebra quello che crede; le formule usate traducono la fede comune dei partecipanti alla celebrazione liturgica, e costituiscono quindi un’espressione significativa del modo con il quale i primi Cristiani leggevano il mistero da essi creduto ed annunciato. Ha scritto C. H. Dodd, in La predicazione apostolica e il suo sviluppo (Brescia 1973, pagina 83), che «quando la Chiesa diede un assetto stabile alla propria vita, il contenuto del kerygma [annuncio] entrò a far parte della “regola di fede” riconosciuta dai teologi del II e III secolo come presupposto della teologia cristiana. Dalla “regola di fede” a sua volta venne fuori il “credo”… Nello stesso tempo il kerygma esercitò un influsso moderatore sulla formazione della liturgia. Mentre la teologia progrediva oltre le posizioni stabilite da Paolo e Giovanni, la forma e il linguaggio della Chiesa orante restarono più aderenti al modello del kerygma. Forse proprio in alcuni punti delle grandi liturgie della Chiesa ci troviamo maggiormente vicini alla predicazione apostolica originaria».
È interessante allora accostare anche testi originariamente liturgici, rintracciabili nella produzione neotestamentaria; questo è il caso della Prima Lettera a Timoteo 3, 16, un inno (o frammento di inno) celebrativo-liturgico inserito solo in un secondo tempo nella lettera al discepolo e collaboratore di Paolo, Timoteo.
L’inno è tutto giocato sul parallelismo antitetico terra-cielo: il mistero della glorificazione di Cristo si realizza tra due sfere contrapposte («carne», «nazioni», «mondo» da un lato; «Spirito», «angeli», «gloria» dall’altro: mondo terrestre e mondo celeste), che accostate alludono al creato preso nella sua interezza. Si parla della manifestazione di Gesù nell’umiliazione della carne e nella gloria dello Spirito.
Questi pregnanti versetti, che coinvolgono il cielo e la terra, sono espressione dell’universalità della rivelazione salvifica di Dio in Gesù Cristo: in Lui si riconciliano il cielo e la terra.
Questo è il kerygma che viene annunziato: la sua diffusione trascende i confini angusti di una cultura e di una razza, per essere universale («nazioni» non abbraccia solo i pagani in quanto differenziati da Israele, unico «popolo di Dio», ma l’intera umanità, includendo perciò anche Israele, attraverso cui è giunta la promessa e la benedizione).
Al centro del «mistero della pietà» c’è il Cristo glorificato: dimorante nella gloria di Dio, ma la cui azione di salvezza penetra nel profondo tutto il mondo e tutta la storia.

Conclusione
Dai testi esaminati emerge chiaramente la centralità della Pasqua di Cristo nella vita di fede della prima comunità cristiana; questa centralità è evidente nella testimonianza della predicazione, nelle professioni di fede, nelle celebrazioni liturgiche… ciò cui si rivolge la fede degli Apostoli e dei primi discepoli non è la vicenda storica di Gesù, ma è la conclusione, la morte e risurrezione: quel Gesù che è stato crocifisso è risuscitato ed è vivo, per la nostra salvezza. Il Signore Gesù non ha abbandonato i Suoi discepoli dopo la Sua morte: Egli è ancora in mezzo a loro, e si è mostrato vivo in diversi modi. Ciò che i primi Cristiani credono nella fede, annunciano nella predicazione, celebrano nella liturgia e testimoniano nella vita, non è un coacervo inestricabile di verità astratte o una serie di avvenimenti slegati tra loro, ma ha un suo punto di riferimento originario, preciso e inconfondibile: la Pasqua di Cristo.
La «buona notizia» che ci è testimoniata è che Gesù, morendo, non è scomparso nel nulla, ma è giunto a Dio: Egli è vivo, assunto con tutta la Sua realtà personale in quella pienezza di vita che supera ogni nostra aspettativa, che sfugge ad ogni nostro tentativo di comprensione esaustiva. È con il Padre.
Ed ha aperto per noi la strada: là dove è Lui, saremo anche noi.

Santa Lucia

Santa Lucia dans immagini sacre
http://knittingkonrad.com/2013/12/13/december-13-saint-lucy/

Publié dans:immagini sacre |on 12 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

SANTA LUCIA VERGINE E MARTIRE – 13 DICEMBRE

http://digilander.libero.it/santigeremiaelucia/storiasantalucia.htm

SANTA LUCIA VERGINE E MARTIRE – 13 DICEMBRE

(segue a questa biografia la storia del culto che non metto, se volete leggerla al link)

PREMESSA
Numerosi sono i devoti che vengono a peregrinare fino alle Reliquie della Santa Siracusana. Alcuni giungono persino dal Nord-Europa, altri dall’America.
Ma spesso la pietà non si appaga nel visitare l’Urna o nel recitare delle preci. Vuol conoscere da vicino la Santa protettrice degli occhi.
Esaurita la « Vita di S. Lucia » del compianto prof. don Enrico Lacchin (valoroso docente di storia dell’arte nel Se­minario Patriarcale), s’è pensato di prepararne una di nuova, che pur nella brevità tenesse conto degli studi più recenti compiuti dall’agiografia.
La non lieve fatica venne generosamente portata a ter­mine dal carissimo prof. don Antonio Niero (insegnante nel Seminario).
Una piccola ricerca nel nostro archivio parrocchiale diede modo di inserire nel testo alcune stampe illustrative.
Possa ora questo piccolo libro sulla vita di S. Lucia correre nelle mani di molti per accendere nei cuori quella luce soprannaturale di cui la nostra Martire era mirabilmente dotata.

Don Aldo Fiorin
Parroco dei Ss. Geremia e Lucia
Docente di S. Scrittura nel Seminario

LA FAMIGLIA DI LUCIA
Sul finire del III secolo (anno 281?) nacque a Siracusa S. Lucia. La città natale era famosa per essere stata fiorente centro di vita greca prima e poi d’importante commercio, intimamente legata alle vi­cende delle guerre puniche: conquistata da Roma nel 212 a. C. assolse una funzione notevole tra le città della provincia di Sicilia.
Diffusosi il cristianesimo in età apostolica per merito del vescovo S. Marziano, inviato a Siracusa da
S. Pietro stesso secondo la tradizione, ospitò l’apo­stolo S. Paolo per tre giorni nel viaggio verso Roma, come testimoniano gli Atti degli Apostoli. La fede di Cristo, nonostante le varie persecuzioni, si era potuta diffondere notevolmente: quando nacque S. Lu­cia la colonia cristiana era assai numerosa con le sue chiese e le sue catacombe cimiteriali.
Secondo la tradizione, la famiglia della nostra santa era di nobile stirpe e ricca di possedimenti ter­rieri: ci è lasciato il nome della madre: Eutichia; del padre è detto che morì quando Lucia era quin­quenne appena. Probabilmente egli poteva chiamarsi Lucio, data la norma romana di porre alle figliuole il nome del padre. Anche la famiglia forse era già cristiana se consideriamo il nome imposto a Lucia, tipicamente cristiano secondo qualcuno, ispirato al testo paolino « siete figli della luce ». Lucia significa senz’altro Luce per il dotto Tillemont.

LA GIOVINEZZA
Cresceva bella e buona la bimba siracusana, sot­to lo sguardo vigile della madre: soprattutto era bella nella modestia del portamento, onde la madre già pensava per lei la soluzione di un felice matri­monio.
Invece Lucia aveva ben altro proposito nella sua vita: si era consacrata perennemente al Signore con voto di verginità. Neanche la madre fu a conoscen­za di questo.
Soltanto un insieme di circostanze fortuite resero manifesta la sua consacrazione al Signore.
Alla vicina città di Catania, ogni anno solevano andare in folla i cristiani per venerare il corpo del­la vergine martire S. Agata, morta per la fede di Cristo nel 231, durante la persecuzione di Decio. I miracoli, che avvenivano presso il suo sepolcro, ne avevano diffuso la fama in tutta la Sicilia cristiana.
Il 5 febbraio del 301, festa della Santa, tra i pellegrini c’erano anche Lucia ed Eutichia sua madre.
Da oltre quarant’anni Eutichia soffriva di gravi emorragie, per le quali nessun rimedio era stato uti­le: ormai aveva perduto ogni speranza di guarire.
In quel giorno, durante i sacri misteri, fu letto il tratto evangelico, che narrava l’episodio dell’emo­roissa: una malattia identica alla sua. Il testo evan­gelico fu compreso bene dalle due donne. Una fi­ducia insperata di poter guarire provò Eutichia e viva fede ebbe Lucia nella potenza miracolosa di S. Agata. L’emoroissa era guarita appena aveva toc­cato la veste del Signore: la madre di Lucia sareb­be stata risanata se invece avesse toccato il sepolcro della santa martire. Così Lucia suggerì a sua madre.
Sul far della sera, quando tutti ebbero lasciato la chiesa, le due donne rimasero nella penombra in fiduciosa preghiera accanto al sepolcro di S. Agata. Le loro parole alla Santa erano di intensa richiesta di guarigione. A lungo però non poterono pregare ché il sonno ebbe il sopravvento e Lucia si addor­mentò profondamente lì nella penombra della chiesa, accanto al sepolcro della martire catanese.
Nel sonno le parve di aver presente una visione nitida: schiere e schiere di angeli circondavano la ver­gine S. Agata, che sorrideva a Lucia e le diceva:
« Lucia sorella mia, vergine di Dio, perché chiedi a me ciò che tu stessa puoi concedere ? Infatti la tua fede ha giovato a tua madre ed ecco che è divenuta sana ».
Quando Lucia si svegliò, rivelò alla madre la visione serena e le parole risanatrici di S. Agata. Era guarita la madre. Inoltre era questo il momento opportuno .di farle conoscere il suo voto di vergi­nità. Così in realtà fece. Nessun rammarico mostrò la donna per questo proposito santo: anzi le disse che ogni sua cosa personale, dopo la morte, le sareb­be stata lasciata.
Il momento era adatto per Lucia per suggerire alla madre propositi di maggiore perfezione, giac­ché manifestava così vivamente il distacco dai beni della terra; onde la consigliò di vendere tutte le sue sostanze e darle ai poveri.
Per allora Eutichia non fece alcun progetto, ma poi, ritornate, a Siracusa, Lucia riprese ancora a parlarle dell’ideale di perfetta povertà. Ben presto si decise di vendere i suoi beni e distribuire il rica­vato ai poveri, seguendo gli esempi della primitiva chiesa di Gerusalemme.
Una tale elargizione se era esemplare nella fer­vente comunità cristiana di Siracusa, destava senz’al­tro lo stupore dei pagani, per i quali i beni di que­sto mondo erano le cose migliori della vita. Ordina­riamente un gesto del genere era sintomo evidente di fede cristiana: solo i seguaci di Cristo giungevano a disprezzare i beni della terra al punto da ven­derli e darli ai poveri. E così pensò uno a cui molto interessavano i beni di Lucia: un giovane del quale la tradizione non ha conservato il nome e che desi­derava vivamente di farla sua sposa.
Dalla madre di Lucia volle sapere perché la fi­gliuola vendeva le vesti preziose e gli ornamenti; per quale ragione distribuiva il ricavato ai poveri, alle vedove ed ai ministri del culto cristiano. Eutichia diede una risposta evasiva, che per il momento lo rese tranquillo.
Ma in seguito il sospetto che Lucia fosse cri­stiana divenne certezza: visto fallire il suo desiderio di averla come sposa, poiché ella lo aveva respinto, decise di denunciarla al prefetto della città come cristiana e di conseguenza fossero applicati a lei i decreti imperiali.

LA PERSECUZIONE DI DIOCLEZIANO
Allora per la chiesa cattolica non erano tempi tranquilli: l’imperatore Diocleziano nel vano tenta­tivo di arrestare l’inevitabile crisi dell’Impero roma­no stava attuando varie riforme, da quella ammi­nistrativa a quella economica, fiducioso di riportare lo Stato romano ai tempi migliori. Nel suo vasto piano di rinnovamento generale, anche la riforma religiosa doveva avere la sua importanza, come ri­forma delle coscienze: il culto imperiale doveva es­sere il veicolo di penetrazione interiore del senso della romanità e della potenza dell’impero. Appro­fittando di un complesso di circostanze, emanò i suoi editti di persecuzione contro i cristiani il 24 feb­braio del 303. Fu la più feroce persecuzione la sua, soprattutto nelle province, dove funzionari zelantis­simi la applicarono ciecamente. Lattanzio (de mort. persec. 10) ha scritto pagine celebri sulla furia di codesta persecuzione.

IL DIALOGO CON PASCASIO
A Siracusa era prefetto della città (meglio era correttore) Pascasio, succeduto da pochi mesi a Cal­visiano, che nell’agosto del 303 aveva condannato a morte il vescovo S. Euplo.
Quando Lucia gli fu portata innanzi sotto l’im­putazione di essere cristiana, egli le ordinò di sa­crificare agli dei. Allora Lucia disse: Sacrificio puro presso Dio consiste nel visitare le vedove, gli orfani e i pellegrini, che versano nell’afflizione e nella ne­cessità, ed è già il terzo anno da che io offro a Cristo Dio tali sacrifici erogando tutto il mio patrimonio.
Pascasio l’interruppe con senso d’ironia: Va a con­tare queste ciance agli stolti come te, poiché io eseguo i comandi dei Cesari e perciò non posso udire sif­fatte stoltezze.
Lucia disse: Tu osservi i decreti dei Cesari co­me anch’io curo la legge del mio Dio giorno e notte; temi pure le loro leggi, mentre io riverisco il mio Dio: tu non vuoi mancare di rispetto a quelli ed io come mai oserò di contraddire il mio Dio? Tu t’ingegni di piacere a loro ed io mi ingegno di piacere a Dio: tu dunque fa come credi ti torna comodo ed io opero secondo è grato all’animo mio.
Pascasio continuò: Tu hai prodigato le tue so­stanze ad uomini vani e dissoluti.
Presso i pagani, secondo quanto testimoniano le apologie di Minucio Felice e Tertulliano, vigeva l’ac­cusa che i cristiani praticassero riti dissoluti come si notavano in altri culti misterici. Ma Lucia subito smen­tisce Pascasio dicendogli: Io ho riposto al sicuro il mio patrimonio e la mia persona non ha gustato la dissolutezza.
Pascasio soggiunse: Tu sei la stessa dissolutezza in anima e corpo.
Lucia rispose: Siete voi che costituite la corru­zione del mondo.
Pascasio disse: Cessi la tua loquacità; passiamo ai tormenti.
Lucia replicò: E’ impossibile porre silenzio ai detti del Signore.
Pascasio riprese: Tu adunque sei Dio?
Lucia rispose: Io sono serva del Dio eterno, poi­ché Egli ha detto: quando sarete dinanzi ai re ed ai principi non vi date pensiero del come o di ciò che dovete dire, poiché non siete voi che parlate ma lo Spirito Santo che parla in voi.
Pascasio disse: Dentro di te c’è adunque lo Spirito Santo?
Lucia rispose: Coloro che vivono castamente e piamente sono tempio di Dio e lo Spirito Santo abita in essi.
Pascasio disse: Ti farò condurre in un luogo turpe e così fuggirà da te lo Spirito Santo.
Anche per piegare altre vergini cristiane il giu­dice romano spesso era ricorso a simili mezzi: tant’è vero che Tertulliano scriveva, con i suoi tipici giuochi di parole, che esse temevano più il lenone che il leone: la prova cioè contro la loro virtù piuttosto che le belve feroci.
Innanzi alla fermezza della santa di non piega­re agli ordini di Pascasio, questi raduna della gen­taglia per costringere Lucia ad obbedirgli. Ogni suo tentativo riesce vano: neppure i soldati, neppure le paia di buoi riescono a smuovere Lucia che sta im­mobile come una roccia (l’episodio è narrato, tra gli altri, con potenza d’arte da Lorenzo Bassano in una pala della Basilica di S. Giorgio Maggiore di Venezia).
Tutti codesti prodigi furono ritenuti da Pascasio opera di magia, onde ordina che attorno a lei si pre­pari il rogo e sì accenda la fiamma, secondo quanto si usava contro i sospetti di arti magiche.
Vengono tosto portate pece e resina, legname ed olio; tutto viene gettato contro la Santa. Divampano le fiamme,. ma lei non ne è toccata. Anzi dice a Pascasio: Pregherò il mio Signore perché questo fuoco non si impadronisca di me.
Pascasio non si conteneva più dall’ira. Allora al­cuni dei suoi amici per impedire che fosse ancor più deriso dalla Santa e gli sforzi suoi risultassero del tutto vani, tirarono giù Lucia dal rogo perché fosse finita con la spada.

IL MARTIRIO
Lucia comprese che ormai era giunto il momento di confessare Cristo con il martirio: si pose in ginoc­chio pronta a ricevere il colpo mortale.
Prima però volle parlare alla gran folla che nel frattempo si era radunata attorno a lei: disse che la persecuzione contro i Cristiani stava terminando e la pace per la Chiesa era imminente con la caduta del­l’imperatore Diocleziano. Ricordò loro che Siracusa l’avrebbe sempre onorata così come la vicina Cata­nia aveva in venerazione S. Agata. Quando ebbe terminato di parlare, venne il colpo mortale che le recise il capo consacrandone la verginità con il mar­tirio.
Era il 13 dicembre del 304, secondo quanto narra la tradizione.

COMMENTI DI MARIA NOELLE THABUT 14 DICEMBRE : 1 TESSALONICESI 5: 16-24

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COMMENTI DI MARIA NOELLE THABUT 14 DICEMBRE

SECONDA LETTURA – 1 TESSALONICESI 5: 16-24

OCCHIO FISSI SULL’ORIZZONTE

Faccio un paragone, quando viaggiamo, è l’obiettivo (la destinazione finale) del viaggio che determina il percorso da intraprendere; Paolo, la meta del cammino cristiano è la costituzione del Regno di Dio alla fine dei tempi. E in tutte le sue lettere, si scopre come il ritorno di Cristo è l’orizzonte di tutti i suoi pensieri.
Questo è ciò che giustifica tutte le raccomandazioni qui indicate ai Tessalonicesi. Vivere gli occhi fissi sull’orizzonte (vale a dire, l’istituzione del Regno di Dio) è pregare è agire e tutta questa gioia.
Non c’è alcuna gioia, naturalmente: non è un cieco ottimismo, e poi, se San Paolo deve specificare « sempre rallegrarsi, » è che Tessalonicesi a volte faticano a rimanere gioiosi; quello che si capisce perché sappiamo che già conoscevano la persecuzione; e Paolo ha dovuto lasciare in fretta Salonicco, dopo solo poche settimane di presenza e di predicazione, perché l’insediamento ebraico ha denunciato il potere romano come un piantagrane.
Ancora oggi, a volte è difficile gioire quando pensiamo tutte le guerre assassine che hanno funestato troppi paesi ogni giorno, il terrorismo e la persecuzione religiosa che i fiori qua e là, o problemi economici e vita miserabile di tanti uomini e donne del pianeta.
Ma agli occhi di Paolo, la gioia è possibile e anche consigliata: è la profonda gioia di incontrare credere; gioia di accogliere la Buona Novella della Parola di Dio; gioia della lettura nella nostra vita i segni dello Spirito; gioia della vita fraterna …

E ‘FEDELE, IL DIO CHE TI CHIAMA
Gioia di vedere nascere, forse lentamente, ma sicuramente il regno di Dio. Gioia per non fare affidamento sulle nostre forze, ma sulla roccia della fedeltà di Dio. Avete notato nel nostro testo le ultime parole di Paolo: « Egli è Dio fedele che vi chiama: tutto ciò che ha compiuto »; in questa frase, ho letto almeno tre cose:
In primo luogo, ha compiuto; vale a dire, l’architetto capo del Regno di Dio è Dio stesso.
In secondo luogo, Egli è fedele a interlocutori ebrei, era la loro fede, la loro certezza in un lungo periodo di tempo; perché la loro storia era solo pieno di esperienza questa fedeltà di Dio, qualunque siano le infedeltà del suo popolo; ma per controparti non-ebrei, era un altro straordinario scoprire che tutta la storia dell’umanità è accompagnata dalla fedeltà di Dio; di un Dio che non ha altro scopo che la felicità di tutta l’umanità. Ricordate ciò che Paolo scrive nella lettera a Timoteo: « Raccomando soprattutto che noi facciamo richieste, preghiere, suppliche, azioni Grazia, per tutti gli uomini … Questo è ciò che è bello e piacevole da davanti a Dio, nostro Salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. « (1 Tim 2: 1-4).
Se solo tutti i nostri contemporanei erano consapevoli del fatto che Dio non ha altro scopo che la salvezza e la felicità di tutti gli uomini … Penso che il mondo intero sarebbe cambiato!
In terzo luogo, Dio vi chiama: questa espressione controbilancia quello che ho detto sopra; Da un lato, è vero che Dio è il primo architetto della venuta del Regno … Ma egli ci chiama a contribuire.
Attraverso la preghiera, prima: avete sentito nella lettera a Timoteo, ma all’inizio del testo di oggi: « Pregate continuamente, rendere grazie in ogni circostanza, ma è ciò che Dio vuole te. « Per tutto il nostro lavoro, quindi … perché pregate, non sbarazzarsi di Dio di compiti impegnati a noi, si sta attingendo alle risorse del suo Spirito, forza e fantasia per realizzare che la partecipazione si aspetta da noi.

SPEGNERE LO SPIRITO
Ed è per questo che Paolo dice: « Non spegnete lo Spirito », come diremmo noi non spegnere un incendio, una fiamma che illumina la notte; il che significa che lo Spirito è una fiamma che arde dentro di noi e già il mondo. Ricordate questa bella frase del quarto preghiera eucaristica: « Lo Spirito continua il suo lavoro nel mondo e completa tutta la santificazione. »
Paul ha fatto due raccomandazioni: « Non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa »; quando sappiamo come i Greci erano appassionati di manifestazioni carismatiche (dono delle lingue, della profezia …) possiamo capire questa doppia: da un lato, rispettare i doni che si manifestano fra voi: se qualcuno profetizza c ‘vale a dire, è la voce di Dio, accetta di lasciare che si sfida: non correre il rischio di rifiutare di ascoltare Dio stesso; ma sa discernere; non seguire nessuno ciecamente.
Come riconoscere ciò che viene dallo Spirito Santo? E ‘semplice: come ha detto più tardi, nella lettera ai Corinzi, che proviene dallo Spirito Santo è quella che edifica la comunità.
Mi sembra che qui il test diamo Paolo è « scegliere ciò che guida il Regno ».
Nelle parole di mons Coffy « Reintrodurre nei nostri pensieri, i nostri giudizi, il nostro comportamento un riferimento al Regno di Dio che viene oggi è un compito fondamentale della Chiesa, non perché la cultura si concentra sul futuro – ragione significativa – ma perché la fedeltà alla Rivelazione richiede « . (« Chiesa, la salvezza segno tra gli uomini », la Conferenza episcopale a Lourdes, 1971).
————–
complemento
Tradizionalmente, questa Domenica di Domenica chiesto « Gaudete », che significa in latino « rallegrati » e ornamenti erano rosa. La parola «gaudete » è il primo di questa seconda lettura, tratta dalla Prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi

OMELIA III DOMENICA DI AVVENTO ANNO B

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/3-Avvento-B/12-3a-Domenica-Avvento-B-2014-SC.htm

14 DICEMBRE 2014| 3A DOMENICA AVVENTO ANNO B | APPUNTI PER LA LECTIO

« Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni »

La nota dominante della Liturgia di questa 3ª Domenica di Avvento è senz’altro quella della « gioia ». Anche se non esplicita, la ritroviamo perfino in quelle così secche risposte del Battista agli inviati dei « Giudei », in cui egli volutamente allontana da sé la loro attenzione per concentrarla soltanto in colui che « viene dopo » e che già sta « in mezzo » a loro senza che essi « lo conoscano » (Gv 1,26-27).
Questa è precisamente la sua missione: in questo « si compie la sua gioia », nel fatto cioè che ci si interessi a Cristo, anche se lui personalmente dovrà « diminuire » e scomparire dalla scena.

« Siate sempre lieti »
« Rallegratevi nel Signore sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi… Il Signore è vicino » (Fil 4,4-5), cantiamo gioiosamente nell’antifona iniziale. Il tema ritorna nella prima lettura: « Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza » (Is 61,10). Il salmo responsoriale ci fa pregare con le parole stesse di Maria nel Magnificat, ispirate certamente anche dal brano di Isaia appena citato: « L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore » (Lc 1,46-47).
Anche nella seconda lettura c’è un altro invito di Paolo alla gioia: « Siate sempre lieti » (1 Ts 5,16).
La colletta poi riassume tutti questi sentimenti di giubilo collegandoli alla loro motivazione diretta e immediata, che è la celebrazione delle imminenti festività natalizie: « Guarda, o Padre, il tuo popolo che attende con fede il Natale del Signore, e fa’ che giunga a celebrare con rinnovata esultanza il grande mistero della salvezza ».
In tutti i testi sopra citati è anche espresso il motivo della « gioia », che è collegato al fatto della « salvezza »: « Mi ha rivestito delle vesti di salvezza », ci ricordava Isaia; « Il Signore è vicino », rimarcava san Paolo; e Maria giustifica la sua gioia perché Dio « ha guardato l’umiltà della sua serva » (Lc 1,48), concedendole il privilegio incredibile di diventare la madre del « Salvatore ».
Una dimensione essenziale, quella della « gioia », al nostro credere e al nostro vivere cristiano, che dovremmo saper testimoniare di fronte al mondo, affogato nella « tristezza » e addirittura nella « nausea », in forma più convincente. In realtà, non sempre noi cristiani sappiamo mostrare agli altri una faccia da « salvati » o da « redenti », come si esprimeva causticamente F. Nietzsche, per invogliarli ad essere, anche loro, dei « salvati » dall’amore di Cristo.
Ci voleva un uomo « gioioso » come san Francesco per riscoprire tutta la poesia del Natale e per inventare, per la felicità nostra e dei nostri figli, il presepe!

Giovanni « venne come testimone per rendere testimonianza alla luce »
Forse però il sorriso non c’era sulle labbra riarse di Giovanni il Battista, quel giorno in cui « i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti » (Gv 1,19) per inquisire su di lui e sulla sua attività; ma doveva esserci tanta gioia egualmente nel suo cuore nell’annunciare Cristo e nel rendergli testimonianza. Più tardi si paragonerà lui stesso addirittura all’ »amico dello sposo », che « esulta di gioia » nell’ascoltare « la voce dello sposo » (Gv 3,29).
Il brano del Vangelo odierno è tutto centrato sulla figura del Battista. Ed è giusto: lui, che ha « rivelato » Gesù a Israele, può e deve « rivelarlo » anche a noi in questo Natale che ormai già sta bussando alle porte.
Perché di autentica « rivelazione » si tratta, cioè di capacità di intuire e penetrare il « senso » delle cose e del mistero. Altrimenti, può capitare anche a noi quello di cui il Battista rimproverava ai Giudei che erano andati ad interrogarlo: « …in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete » (Gv 1,26). Potremo forse anche cantare le canzoni di Natale e visitare il presepe; ma, se non avremo una fede fresca e luminosa, anche noi non riusciremo a vedere Gesù, che pur « ritorna » e sta « in mezzo a noi ».
Isolando dal « prologo » del quarto Vangelo tre versetti relativi al Battista (Gv 1,6-8) e cucendoli con la successiva « testimonianza » che egli darà al Cristo quale suo precursore, la Liturgia ne fa emergere tutta la grandezza e anche la missione nella storia della salvezza: la sua « testimonianza » continua tuttora nella fede della Chiesa e nell’annuncio liturgico.
« Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce » (Gv 1,6-8).
Due idee fondamentali mi sembrano affermate in questi versetti. La prima è che Giovanni è un « mandato da Dio » (v. 6): la sua missione perciò è una missione « profetica », che si riallaccia al profetismo classico, ormai morto da tempo, e fa rifiorire le speranze dei tempi messianici. La seconda idea, poi, è relativa alla « natura » della sua missione: egli ha il compito di « rendere testimonianza alla luce », pur non essendo lui « la luce » (vv. 7-8), cioè il Messia, come forse lo ritenevano alcuni suoi fanatici discepoli.
Quello della « testimonianza » è un concetto molto importante nel quarto Vangelo: essa ha sempre come oggetto la persona di Gesù, il suo significato profondo, perciò è essenzialmente « cristologico »; rimanda alla storia, perché presuppone una conoscenza ed un’esperienza diretta, un aver « visto » con i propri occhi e « toccato » con le proprie mani: Cristo non lo si conosce mai se non lo si afferra dal di dentro, nella totalità e densità del suo mistero! Infine, la « testimonianza » presuppone sempre un contesto conflittuale, di opposizione, di giudizio. Si tratta, in un modo o in un altro, di un processo: fra verità e menzogna, fra luce e tenebre, fede e incredulità.
Proprio questo aspetto di « processo » è evidente nell’ambasceria ufficiale mandata da Gerusalemme per inquisire sull’operato e sulla figura di Giovanni: essi non vengono con l’animo ben disposto, pronti a lasciarsi illuminare dal Battista. Infatti il testo dice che furono i « Giudei » a inviare « sacerdoti e leviti per interrogarlo » (v. 19). Ora è risaputo che nel quarto Vangelo il termine « Giudei » (al plurale) è quasi tecnico per esprimere le autorità religiose giudaiche in quanto ostili a Gesù.
E anche tutto l’interrogatorio ha più l’aria di una discettazione inquisitoriale che non di una umile ricerca della verità: « Chi sei tu?… Sei Elia?… Sei tu il profeta?… Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso? » (vv. 19.21.22). Si interroga per riferire, per far prendere delle decisioni alle autorità centrali, non per « decidersi » personalmente davanti alla verità. Proprio per questo la « verità » che già sta « in mezzo » a loro, cioè Gesù, essi non la « conoscono » (v. 26), anzi non la conosceranno mai.

« Io sono voce di uno che grida nel deserto »
Totalmente diverso è l’atteggiamento di Giovanni Battista. Egli poteva essere anche adulato per il fatto che si pensassero cose tanto alte di lui; ma sarebbe venuto meno alla sua funzione di « testimone della luce », qualora non avesse aiutato i suoi interroganti, anche se mal disposti, a cercarla.
Prima e più che un atteggiamento di umiltà, il suo è un atteggiamento di sincerità e di rispetto della « verità ». Egli davvero non era « il Cristo », come si poteva sospettare da alcuni, dato il suo insegnamento e il movimento di opinione che si era creato attorno a lui; non era neppure Elia, che pur richiamava con il suo modo di vestire e con lo stile di vita e che secondo un testo di Malachia (3,1-3.23-25) avrebbe dovuto preparare il « giorno del Signore »; non era neppure « il profeta », che avrebbe dovuto succedere a Mosè, rinnovando e superando i prodigi dell’Esodo.
Nello stesso tempo, però, c’era in lui anche qualcosa di Elia e del « profeta »: Cristo stesso ha presentato più di una volta Giovanni come il novello Elia, mandato a « preparare le strade ». Questo, però, non era il momento di parlare di sé: egli doveva soltanto « rendere testimonianza alla luce » che era Cristo (vv. 7.8).
Per quanto lo riguardava personalmente, dice soltanto quello che era necessario per far capire il suo rapporto con Gesù: « Io sono voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, come disse il profeta Isaia » (v. 23). È interessante notare che nessuno dei Sinottici mette queste parole in bocca al Battista: essi le riportano solo per dire che in lui si è verificata la profezia di Isaia (40,3). È chiaro che qui è più la teologia che la storia che interessa all’evangelista: egli ci presenta Giovanni come già lo interpretava la tradizione cristiana, più che come si potesse interpretare da se stesso.

« Io battezzo con acqua… »
E anche l’ultima affermazione di Giovanni, in risposta alla domanda perché battezzasse se non era « né il Cristo, né Elia, né il profeta » (v. 25), si muove su questa linea: « Io battezzo con acqua, ma in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, uno che viene dopo di me, al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio dei sandali » (vv. 26-27). Dichiarando la sua « indegnità » a fare perfino il « servo » al Cristo già presente « in mezzo » a loro, ma che i « Giudei » purtroppo mai « conosceranno » con gli occhi della fede, vuole affermare la grandezza di colui che egli annuncia e vuol far nascere nel cuore dei suoi ascoltatori come un desiderio, un anelito verso di lui. Di nuovo, un gesto di umiltà che non è fine a se stesso, ma vuol fare spazio a Cristo.
È solo con questi atteggiamenti di sincerità, di lealtà e di umiltà che anche noi potremo andare incontro al Signore che ritorna in mezzo a noi nel mistero del Natale. San Giovanni Battista è il grande « pedagogista » dell’Avvento cristiano.

« Lo spirito del Signore è su di me »
Ma anche la prima lettura è piena di insegnamenti per una degna preparazione al Natale.
Al di là di quel meraviglioso invito alla « gioia », evocata con l’immagine delle « nozze » (Is 61,10) e a cui abbiamo già fatto riferimento, è importante la parte iniziale del brano, in cui Isaia preannuncia la venuta e la missione di un misterioso personaggio, che si rivolgerà soprattutto ai poveri, ai deboli, agli oppressi: « Lo spirito del Signore Dio è su di me, / perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; / mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai poveri, / a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, / a proclamare la libertà degli schiavi, / la scarcerazione dei prigionieri, / a promulgare l’anno di misericordia del Signore » (Is 61,1-2).
Secondo il Vangelo di Luca, Gesù iniziò la sua vita pubblica proprio leggendo, nella sinagoga di Nazaret, ed applicando a sé questo meraviglioso testo di Isaia: « Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi » (Lc 4,21). Con questo voleva dire che la profezia si era compiuta in lui: lui era il misterioso personaggio, di cui aveva parlato Isaia. Però i suoi concittadini non erano disposti ad accettarlo in quella nuova veste con cui si presentava a loro, e tentarono addirittura di assassinarlo.
Cristo non ha mai avuto « facile » accoglienza fra gli uomini: la gente è prevenuta nei suoi riguardi e si inganna nel decifrarne la fisionomia più vera ed autentica, come i suoi concittadini di Nazaret e come gli inquisitori mandati da Gerusalemme presso Giovanni. C’è chi vuole un Cristo potente e operatore di prodigi; c’è chi vuole un Cristo col berretto frigio e che canti « l’Internazionale » per incitare alla rivoluzione; c’è chi vuole un Cristo tutto buono e pacifico, che rimanga solo nella penombra delle sue chiese e lasci il mondo e le piazze ai demagoghi e agli agitatori politici. E così via. La storia delle « deformazioni » di Gesù di Nazaret non è ancora finita!
Invece Gesù è soltanto quello che lui ha detto veramente di essere: cioè « l’Unto » del Signore (« mi ha consacrato con l’unzione »), che Iddio ha « mandato » a salvare tutti, e specialmente i più « poveri » a cui nessuno pensa, a « liberare » gli schiavi e i prigionieri, dovunque si trovino, all’Est e all’Ovest della nostra terra, a guarire i « cuori spezzati ». E Dio solo sa quanti « cuori spezzati » ci sono nel mondo, fra i piccoli e fra i grandi, fra gli innocenti e gli assassini, fra quelli che mancano di tutto e quelli che sono soffocati dall’abbondanza di ogni bene!
Gesù è venuto, e ritornerà per il Natale, per celebrare con noi e in noi questa « liberazione » degli spiriti e dei corpi, di cui tutti gli uomini, senza nessuna eccezione, hanno bisogno. La « rivoluzione » cristiana, annunciata dal Natale, è l’unica rivoluzione che non è rivolta contro nessuno, perché deve farsi « nel » cuore di tutti!

Da CIPRIANI S., Convocati dalla Parola

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 12 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

LA GUADALUPANA (tradizionale)

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(metto il canto in spagnolo, ma messicano, credo antico, comunque io lo sento cantare da decine di anni nella Basilica dove vado a messa perché ci sono molti frati di origine sud americana, io lo spagnolo lo capisco un poco, ma non l’ho mai studiato, metto il testo in lingua spagnola sotto questo, con un buon traduttore si capisce, per me Google o Reverso)

Publié dans:MUSICA SACRA |on 11 décembre, 2014 |Pas de commentaires »
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