Archive pour décembre, 2014

Madre di Dio del Conforto o della Consolazione – Monte Athos

Madre di Dio del Conforto o della Consolazione - Monte Athos dans immagini sacre gioia-consolazione

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Publié dans:immagini sacre |on 17 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

LA BENEDIZIONE DELLA RICONOSCENZA (Ef 5,20; Eb 13,15)

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LA BENEDIZIONE DELLA RICONOSCENZA (Ef 5,20; Eb 13,15)

by Tempo di Riforma

« ..ringraziando continuamente per ogni cosa Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo » (Efesini 5:20). « …Per mezzo di Gesù, dunque, offriamo continuamente a Dio un sacrificio di lode: cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome » (Ebrei 13:15).

Alcune persone sembrano nate con un temperamento scontroso e febbrile ed è molto difficile per loro illuminarsi nel sorriso e nel canto. Qualunque, però, possa essere la nostra naturale disposizione, se apparteniamo a Cristo è nostro preciso dovere coltivare un cuore riconoscente. Una persona malinconica (che presenta, cioè, una stato d’animo di vaga tristezza, di struggente inquietudine e depressione costanti, caratterizzato dalla propensione al pessimismo, alla chiusura in se stessi e alla meditazione) ha un cattivo effetto sugli altri. E’ miserevole dover lavorare accanto o sotto una persona sempre pessimista. Non c’è nulla che vada bene, nulla che la soddisfi, non ha mai parole di lode e di incoraggiamento. Vi sono persone, invece, che per quanto la loro condizione sia umile e disgraziata, sono sempre d’animo lieto, sanno trovare in ogni cosa un aspetto positivo, e sono loro ad incoraggiarti quando sei triste. Se noi, invece che trovare sempre da criticare o da lamentarci, cercassimo cose per cui lodarli e ringraziarli, vedremmo miracolosamente cambiare il loro atteggiamento. Il vantaggio della gioia e della serenità è che sono fonti di forza per la nostra anima e per tutti coloro che ci circondano e, cosa da non sottovalutare, sarebbe di buona testimonianza per la fede che professiamo.

Un sito web che insegna la forza dell’ottimismo afferma: « Una persona che ha la mentalita’ rivolta all’ottimismo sa vivere alla grande!!! Considera i problemi delle opportunita’, è difficile che si lamenti, ha sempre una parola buona per tutti e soprattutto ha perennemente il sorriso sulle labbra. Un ottimista è ben visto e ben considerato dal mondo esterno »; « Vuoi vivere con entusiasmo e da protagonista la tua vita? Vuoi evitare che gli eventi ti travolgano, influenzando il tuo stato d’animo? Impara le tecniche per avere sempre un atteggiamento postivo! »; « Il linguaggio che usiamo con gli altri ma anche e soprattutto quando “parliamo” con noi stessi è veramente importante per far arrivare continuamente messaggi positivi al nostro cervello. Abituiamoci ad usare sempre termini positivi, motivazionali, che diano degli imput alla nostra mente. Una persona ottimista sa trovare sempre la parola giusta in ogni situazione, che sappia stimolare aiutando il nostro benessere psicofisico »; « La concezione filosofica dell’ottimismo dice che il mondo ha una prevalenza dei fattori positivi e quindi il bene prevale sul male. L’ottimismo in pratica è la tendenza di coloro che in una particolare situazione sono portati a vedere le cose favorevolmente. Avere una concezione ottimistica della vita aiuta quindi le persone ad uscire da situazioni sfavorevoli facendosi aiutare anche dal pensiero positivo ».

La psicologia secolare è consapevole degli effetti positivi dell’ottimismo e nemmeno conosce Cristo! Quanto più dovrebbe avere un atteggiamento raggiante e ottimista chi ha compreso l’amore di Dio in Cristo, lo vive e lo diffonde. Il mondo è triste e deve pagarsi i suoi comici, umoristi ed esperti di « pensiero positivo »: il cristiano (autentico) vive la sua vita nello spirito espresso dall’Apostolo Paolo quando scrive: « Noi non diamo nessun motivo di scandalo affinché il nostro servizio non sia biasimato; ma in ogni cosa raccomandiamo noi stessi come servitori di Dio, con grande costanza nelle afflizioni, nelle necessità, nelle angustie, nelle percosse, nelle prigionie, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, con conoscenza, con pazienza, con bontà, con lo Spirito Santo, con amore sincero; con un parlare veritiero, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nell’umiliazione, nella buona e nella cattiva fama; considerati come impostori, eppure veritieri; come sconosciuti, eppure ben conosciuti; come moribondi, eppure eccoci viventi; come puniti, eppure non messi a morte; come afflitti, eppure sempre allegri; come poveri, eppure arricchendo molti; come non avendo nulla, eppure possedendo ogni cosa! » (2 Corinzi 6:3-10).

PREGHIERA

Aiutaci, o Signore, a rallegrarci sempre, a pregare incessantemente e, in ogni cosa, a rendere grazie. Amen.

CHANUKKAH – INIZIA IL 25 DICEMBRE (IL 25 DI KISLEV) E DURA 8 GIORNI – GAVRIEL LEVI

http://www.nostreradici.it/chanukkah.htm

CHANUKKAH – INIZIA IL 17 DICEMBRE (IL 25 DI KISLEV) E DURA 8 GIORNI – GAVRIEL LEVI

(altre notizie su questa pagina: http://www.nostreradici.it/hanukkah05.htm )

Nel giorno di chanukkà che capita di shabbath, i lumi di chanukkà si accendono assieme con quelli dello shabbath e, la sera dopo assieme con quello dell’avdalà1. La vigilia di shabbath si accende prima la chanukkà e dopo i lumi dello shabbath; alla fine dello shabbath si accende prima la torcia dell’avdalà e dopo i lumi della chanukkà.
È evidente che questa regola è collegata con il divieto di accendere il fuoco durante lo shabbath: non si può accendere nessun fuoco dopo che è cominciato lo shabbath; non si può accendere nessun fuoco finché lo shabbath non è veramente finito. Tuttavia, se ci riflettiamo sopra, questa regola collega, con un significato più ampio e più profondo, i tre fuochi e le tre luci che accendiamo nelle nostre case e che, in modi diversi, rappresentano la forza creativa dell’uomo e la vita di Israele.

Solo se si è acceso il lume di chanukkà si può accendere il lume dello shabbath; solo se si è acceso il lume dell’avdalà si può accendere il lume di chanukkà.

Se si è lottato per rimanere ebrei, se ci si è conquistati il miracolo, allora si può rinunciare ad accendere ogni fuoco e si può godere del lume che deriva direttamente dai giorni della creazione e che riassume, già in sé, la luce del Mashiach.

Se si è acceso il fuoco che permette di accendere ogni fuoco nella settimana, che è stato regalato da Dio al primo uomo e che ci aiuta a distinguere, con i nostri mezzi, la luce dal buio, allora si può accendere, senza più divieti, il fuoco del miracolo.

Le luci della chanukkià devono rimanere divise e distinguibili l’una dall’altra: ogni giorno è un giorno completo di vita; ogni generazione è completa in se stessa ed è necessaria perché la generazione precedente possa vivere nella successiva.

Le luci dell’avdalà devono essere unite e indistinguibili l’una dall’altra: ogni giorno, anche il più banale, è parte del giorno completo che è tutto shabbath.

La luce dell’avdalà è la luce di un fuoco che si accende dopo lo shabbath; la sua benedizione è centrata nella creazione delle « luci » del fuoco e sulla nostra azione di guardarsi le mani, nel buio e alla luce.

La luce di chanukkà è la luce che si accende per rendere manifesto il miracolo; la sua benedizione riguarda l’obbligo di ripetere il miracolo e di preparare la luce di un giorno per farla ardere otto giorni.

Non può esistere la festa di chanukkà senza dentro una vigilia di shabbath, senza uno shabbath e senza un’uscita di shabbath.

Il miracolo di chanukkà (e cioè la luce di un giorno che deve durare fino al termine dei giorni, ed ancora un giorno di più) contiene dentro di sé: a) la luce del fuoco che esiste quando nessun fuoco può essere acceso dall’uomo; b) la luce di un fuoco che deve essere ricreato, per dividere il giorno umano dalla notte umana; il giorno di shabbath dai sei giorni dell’azione; le mani dell’uomo dalla creazione di Dio.

Il miracolo di chanukkà contiene anche due luci: la luce di un fuoco che non esiste (perché è stato acceso prima); la luce di un fuoco creato da D-o (ma acceso dagli uomini) perché l’uomo possa uscire, senza paura, nel mondo degli uomini.

Tra l’inizio di chanukkà e l’inizio dello shabbath esiste un momento di intervallo: noi ebrei abbiamo compiuto il nostro miracolo, quando il sole non è ancora calato; a D-o viene lasciato il tempo per compiere il suo miracolo, finire la creazione e portare il Mashiach.

Tra la fine dello shabbath e l’inizio di chanukkà esiste un altro momento di intervallo: la storia di tutti i giorni si è ripetuta; l’ebreo può accettare il dono del fuoco direttamente da D-o e, ancora una volta, ripetere il miracolo.

Se noi riusciamo a conservare l’olio per un giorno, anche quando ci sembra che il buio durerà più a lungo e quando ci sembra che non ci sia nessun posto per accendere una luce, D-o vedrà questa luce per otto giorni.

Se non conserviamo l’olio nel buio (ma questo è impossibile perché in fondo lo conserviamo anche senza saperlo) allora D-o dovrà fare il miracolo da solo e dovrà riprendere il fuoco di chanukkà da quello donatoci per l’avdalà.

Un cieco adempie al precetto di chanukkià partecipando, se ne ha la possibilità, con una perutà, all’accensione di un altro ebreo e, se non può perché è solo, accendendo la chanukkià, con qualunque aiuto, da solo.

Per quale luce accende la chanukkià, un cieco?
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Fonte: morasha.it

La giornata dello Shabbat si apre e si chiude con un’ accensione di lumi. All’imbrunire del venerdì si accendono due candele (in teoria ne basterebbe una) recitando la benedizione che termina con « e ci hai comandato di accendere il lume dello Shabbat ». Al termine dello Shabbat, nella cerimonia dell’Avdalà, la separazione tra il giorno di festa e quello feriale si accende una torcia formata da più luci che intrecciandosi formano un’unica fiamma. Su questo lume si benedice il Signore « creatore dei luminari di fuoco ». Nel Talmud Jeruscialmì (citato anche dal compendio « Torà Temimà » ai primi versi della Genesi) si ricerca la fonte del fatto che nella Avdalà si dice la benedizione sul lume solo dopo che il lume è acceso. Questo lascia supporre che nell’altro caso, l’accensione dei lumi dello Shabbat, prima si dica la benedizione e poi si accenda. In effetti ciò avviene quasi esclusivamente secondo il rito di Roma (quasi tutti gli altri oggi prima accendono e poi dicono la benedizione).

Publié dans:EBRAISMO: LE FESTIVITÀ |on 17 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

Simeone e Gesù

Simeone  e Gesù dans immagini sacre simeonssong-001

https://chrisgnanakan.wordpress.com/2011/12/14/simeons-sight-insight-foresight-vision-4-mission/

Publié dans:immagini sacre |on 16 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI: SAN PAOLO (9). L’IMPORTANZA DELLA CRISTOLOGIA: PREESISTENZA E INCARNAZIONE

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20081022_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 22 ottobre 2008

SAN PAOLO (9). L’IMPORTANZA DELLA CRISTOLOGIA: PREESISTENZA E INCARNAZIONE

Cari fratelli e sorelle,

nelle catechesi delle scorse settimane abbiamo meditato sulla ‘conversione’ di san Paolo, frutto dell’incontro personale con Gesù crocifisso e risorto, e ci siamo interrogati su quale sia stata la relazione dell’Apostolo delle genti con il Gesù terreno. Oggi vorrei parlare dell’insegnamento che san Paolo ci ha lasciato sulla centralità del Cristo risorto nel mistero della salvezza, sulla sua cristologia. In verità, Gesù Cristo risorto, “esaltato sopra ogni nome”, sta al centro di ogni sua riflessione. Cristo è per l’Apostolo il criterio di valutazione degli eventi e delle cose, il fine di ogni sforzo che egli compie per annunciare il Vangelo, la grande passione che sostiene i suoi passi sulle strade del mondo. E si tratta di un Cristo vivo, concreto: il Cristo – dice Paolo – “che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2, 20). Questa persona che mi ama, con la quale posso parlare, che mi ascolta e mi risponde, questo è realmente il principio per capire il mondo e per trovare la strada nella storia.
Chi ha letto gli scritti di san Paolo sa bene che egli non si è preoccupato di narrare i singoli fatti in cui si articola la vita di Gesù, anche se possiamo pensare che nelle sue catechesi abbia raccontato molto di più sul Gesù prepasquale di quanto egli scrive nelle Lettere, che sono ammonimenti in situazioni precise. Il suo intento pastorale e teologico era talmente teso all’edificazione delle nascenti comunità, che gli era spontaneo concentrare tutto nell’annuncio di Gesù Cristo quale “Signore”, vivo adesso e presente adesso in mezzo ai suoi. Di qui la caratteristica essenzialità della cristologia paolina, che sviluppa le profondità del mistero con una costante e precisa preoccupazione: annunciare, certo, il Gesù vivo, il suo insegnamento, ma annunciare soprattutto la realtà centrale della sua morte e risurrezione, come culmine della sua esistenza terrena e radice del successivo sviluppo di tutta la fede cristiana, di tutta la realtà della Chiesa. Per l’Apostolo la risurrezione non è un avvenimento a sé stante, disgiunto dalla morte: il Risorto è sempre colui che, prima, è stato crocifisso. Anche da Risorto porta le sue ferite: la passione è presente in Lui e si può dire con Pascal che Egli è sofferente fino alla fine del mondo, pur essendo il Risorto e vivendo con noi e per noi. Questa identità del Risorto col Cristo crocifisso Paolo l’aveva capita nell’incontro sulla via di Damasco: in quel momento gli si rivelò con chiarezza che il Crocifisso è il Risorto e il Risorto è il Crocifisso, che dice a Paolo: “Perché mi perseguiti?” (At 9,4). Paolo sta perseguitando Cristo nella Chiesa e allora capisce che la croce è “una maledizione di Dio” (Dt 21,23), ma sacrificio per la nostra redenzione.
L’Apostolo contempla affascinato il segreto nascosto del Crocifisso-risorto e attraverso le sofferenze sperimentate da Cristo nella sua umanità (dimensione terrena) risale a quell’esistenza eterna in cui Egli è tutt’uno col Padre (dimensione pre-temporale): “Quando venne la pienezza del tempo – egli scrive -, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,4-5). Queste due dimensioni, la preesistenza eterna presso il Padre e la discesa del Signore nella incarnazione, si annunciano già nell’Antico Testamento, nella figura della Sapienza. Troviamo nei Libri sapienziali dell’Antico Testamento alcuni testi che esaltano il ruolo della Sapienza preesistente alla creazione del mondo. In questo senso vanno letti passi come questo del Salmo 90: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, Dio” (v. 2); o passi come quello che parla della Sapienza creatrice: “Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra” (Prv 8, 22-23). Suggestivo è anche l’elogio della Sapienza, contenuto nell’omonimo libro: “La Sapienza si estende vigorosa da un’estremità all’altra e governa a meraviglia l’universo” (Sap 8,1).
Gli stessi testi sapienziali che parlano della preesistenza eterna della Sapienza, parlano anche della discesa, dell’abbassamento di questa Sapienza, che si è creata una tenda tra gli uomini. Così sentiamo echeggiare già le parole del Vangelo di Giovanni che parla della tenda della carne del Signore. Si è creata una tenda nell’Antico Testamento: qui è indicato il tempio, il culto secondo la “Thorà”; ma dal punto di vista del Nuovo Testamento possiamo capire che questa era solo una prefigurazione della tenda molto più reale e significativa: la tenda della carne di Cristo. E vediamo già nei Libri dell’Antico Testamento che questo abbassamento della Sapienza, la sua discesa nella carne, implica anche la possibilità che essa sia rifiutata. San Paolo, sviluppando la sua cristologia, si richiama proprio a questa prospettiva sapienziale: riconosce in Gesù la sapienza eterna esistente da sempre, la sapienza che discende e si crea una tenda tra di noi e così egli può descrivere Cristo, come “potenza e sapienza di Dio”, può dire che Cristo è diventato per noi “sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione” (1 Cor 1,24.30). Similmente Paolo chiarisce che Cristo, al pari della Sapienza, può essere rifiutato soprattutto dai dominatori di questo mondo (cfr 1 Cor 2,6-9), cosicché può crearsi nei piani di Dio una situazione paradossale, la croce, che si capovolgerà in via di salvezza per tutto il genere umano.
Uno sviluppo ulteriore di questo ciclo sapienziale, che vede la Sapienza abbassarsi per poi essere esaltata nonostante il rifiuto, si ha nel famoso inno contenuto nella Lettera ai Filippesi (cfr 2,6-11). Si tratta di uno dei testi più alti di tutto il Nuovo Testamento. Gli esegeti in stragrande maggioranza concordano ormai nel ritenere che questa pericope riporti una composizione precedente al testo della Lettera ai Filippesi. Questo è un dato di grande importanza, perché significa che il giudeo-cristianesimo, prima di san Paolo, credeva nella divinità di Gesù. In altre parole, la fede nella divinità di Gesù non è una invenzione ellenistica, sorta molto dopo la vita terrena di Gesù, un’invenzione che, dimenticando la sua umanità, lo avrebbe divinizzato; vediamo in realtà che il primo giudeo-cristianesimo credeva nella divinità di Gesù, anzi possiamo dire che gli Apostoli stessi, nei grandi momenti della vita del loro Maestro, hanno capito che Egli era il Figlio di Dio, come disse san Pietro a Cesarea di Filippi: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Ma ritorniamo all’inno della Lettera ai Filippesi. La struttura di questo testo può essere articolata in tre strofe, che illustrano i momenti principali del percorso compiuto dal Cristo. La sua preesistenza è espressa dalle parole: “pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio” (v. 6); segue poi l’abbassamento volontario del Figlio nella seconda strofa: “svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo” (v. 7), fino a umiliare se stesso “facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (v. 8). La terza strofa dell’inno annuncia la risposta del Padre all’umiliazione del Figlio: “Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome” (v. 9). Ciò che colpisce è il contrasto tra l’abbassamento radicale e la seguente glorificazione nella gloria di Dio. E’ evidente che questa seconda strofa è in contrasto con la pretesa di Adamo che da sé voleva farsi Dio, è in contrasto anche col gesto dei costruttori della torre di Babele che volevano da soli edificare il ponte verso il cielo e farsi loro stessi divinità. Ma questa iniziativa della superbia finì nella autodistruzione: non si arriva così al cielo, alla vera felicità, a Dio. Il gesto del Figlio di Dio è esattamente il contrario: non la superbia, ma l’umiltà, che è realizzazione dell’amore e l’amore è divino. L’iniziativa di abbassamento, di umiltà radicale di Cristo, con la quale contrasta la superbia umana, è realmente espressione dell’amore divino; ad essa segue quell’elevazione al cielo alla quale Dio ci attira con il suo amore.
Oltre alla Lettera ai Filippesi, vi sono altri luoghi della letteratura paolina dove i temi della preesistenza e della discesa del Figlio di Dio sulla terra sono tra loro collegati. Una riaffermazione dell’assimilazione tra Sapienza e Cristo, con tutti i connessi risvolti cosmici e antropologici, si ritrova nella prima Lettera a Timoteo: “Egli si manifestò nella carne, fu giustificato nello Spirito, apparve agli angeli, fu annunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria” (3,16). E’ soprattutto su queste premesse che si può meglio definire la funzione di Cristo come Mediatore unico, sullo sfondo dell’unico Dio dell’Antico Testamento (cfr 1 Tm 2,5 in relazione a Is 43,10-11; 44,6). E’ Cristo il vero ponte che ci guida al cielo, alla comunione con Dio.
E, finalmente, solo un accenno agli ultimi sviluppi della cristologia di san Paolo nelle Lettere ai Colossesi e agli Efesini. Nella prima, Cristo viene qualificato come “primogenito di tutte le creature” (1,15-20). Questa parola “primogenito” implica che il primo tra tanti figli, il primo tra tanti fratelli e sorelle, è disceso per attirarci e farci suoi fratelli e sorelle. Nella Lettera agli Efesini troviamo una bella esposizione del piano divino della salvezza, quando Paolo dice che in Cristo Dio voleva ricapitolare tutto (cfr. Ef 1,23). Cristo è la ricapitolazione di tutto, riassume tutto e ci guida a Dio. E così ci implica in un movimento di discesa e di ascesa, invitandoci a partecipare alla sua umiltà, cioè al suo amore verso il prossimo, per essere così partecipi anche della sua glorificazione, divenendo con lui figli nel Figlio. Preghiamo che il Signore ci aiuti a conformarci alla sua umiltà, al suo amore, per essere così resi partecipi della sua divinizzazione.

L’INCARNAZIONE E LA REDENZIONE G. Florovskij

http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/dogmatica/incarnflorovsky.htm

L’INCARNAZIONE E LA REDENZIONE

G. Florovskij

“Il Logos si è fatto Carne”: in queste parole è espressa la gioia definitiva della fede cristiana; in esse c’è la pienezza della Rivelazione. Il Signore incarnatosi è nello stesso tempo perfetto Dio e perfetto Uomo. Il completo significato ed il fine ultimo dell’esistenza umana è rivelato e realizzato nell’Incarnazione e per mezzo di essa. Egli scese dal Cielo per redimere la terra, per congiungere per sempre l’uomo con Dio. “E divenne uomo”. È così iniziata la nuova epoca. Noi infatti calcoliamo il tempo secondo gli “anni Domini”. Come scrisse sant’Ireneo, “il Figlio di Dio è diventato figlio dell’uomo, perché quest’ultimo diventasse figlio di Dio”. Non solo la pienezza originaria della natura umana è restaurata e ristabilita nell’Incarnazione. Non solo la natura umana ritorna alla sua comunione con Dio ormai perduta. L’Incarnazione è anche la nuova Rivelazione, un nuovo ed ulteriore passo. Il primo Adamo era un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo è il Signore che viene dal Cielo (1 Corinti 15, 47). E nell’Incarnazione del Logos l’umana natura non fu solo unta da una sovrabbondanza di Grazia, ma fu assunta in un’unione intima ed ipostatica con Dio stesso. In questa elevazione della natura umana ad una eterna comunione con la vita divina, i Padri della Chiesa primitiva videro unanimi l’essenza della Salvezza, la base di tutta l’opera redentrice del Cristo. “È salvato ciò che è unito a Dio”, dice san Gregorio di Nazianzo. E ciò che non era unito non poteva essere salvato. Questa era la sua principale ragione per insistere, contro Apollinare, sulla pienezza dell’umana natura dall’Unigenito nell’Incarnazione. Questo è il motivo fondamentale ricorrente in tutta la teologia antica, in sant’Ireneo, sant’Atanasio, nei Padri della Cappadocia, in san Cirillo di Alessandria, in san Massimo il Confessore. Tutta la storia del dogma cristologico è determinata da questa fondamentale concezione: l’Incarnazione del Logos intesa come Redenzione. Nell’Incarnazione la storia umana riceve il suo completamento. L’eterna volontà di Dio si realizza, “il mistero nascosto dell’eternità e sconosciuto agli Angeli”. I giorni dell’attesa sono passati. Colui che era promesso è venuto. E da questo momento, per usare la frase di san Paolo, la vita dell’uomo “è nascosta con il Cristo in Dio” (Colossesi 3, 3)…
L’Incarnazione del Logos fu un’assoluta manifestazione di Dio. E soprattutto fu una rivelazione della vita. Il Cristo è il Logos della Vita… “e la Vita si manifestò e noi l’abbiamo vista e ne testimoniamo ed annunciamo a voi la vita, la Vita eterna, che era con il Padre e che si manifestò a noi” (1 Giovanni 1, 1-2). L’Incarnazione è la rinascita dell’uomo, per così dire, la resurrezione della natura umana. Ma il punto culminante dell’Evangelo è la Croce, la morte del Logos incarnato. La vita è stata rivelata nella sua pienezza attraverso la morte. Questo è il mistero paradossale del Cristianesimo: la vita attraverso la morte, la vita dalla tomba ed oltre la tomba, il mistero della tomba apportatrice di vita. Noi siamo nati ad una vita reale ed eterna solo grazie alla nostra morte battesimale ed alla nostra sepoltura nel Cristo; noi siamo rigenerati con il Cristo nel fonte battesimale. Questa è la legge immutabile della vera vita. “Nessun seme rivive se prima non muore” (1 Corinti 15, 36).
“Grande è il mistero della fede: Dio s’è manifestato nella Carne” (1 Timoteo 3, 16). Ma Dio non si manifestò per ricreare il mondo improvvisamente grazie alla sua onnipotenza, o per illuminarlo e trasfigurarlo con l’immensa luce della sua gloria. Fu nell’estrema umiliazione che la rivelazione della divinità si realizzò. La volontà divina non distrugge la condizione originale della libertà umana, la libertà di disporre di se stessi, non distrugge né abolisce l’antica legge della libertà umana. In ciò si manifesta una certa autolimitazione o “kènosis” della potenza divina. E quel che più conta, una certa “kènosis” dell’amore divino stesso. Quest’ultimo, per così dire, restringe e limita se stesso nel rispettare la libertà della creatura. L’amore non impone la guarigione con la costrizione, come avrebbe potuto fare. Non c’era un’evidenza costrittiva in questa manifestazione di Dio. Non tutti riconobbero il Signore della gloria “sotto la forma del servo”, che egli deliberatamente assunse. E chi lo riconobbe non lo fece grazie all’intuito personale, ma grazie alla rivelazione del Padre (cfr. Matteo 16, 17). Il Logos incarnato apparve sulla terra come uomo tra gli uomini. Ciò significava assumere tutta la pienezza umana per redimere gli uomini, pienezza non solo della natura umana, ma anche di tutta la vita umana. L’Incarnazione doveva manifestarsi in tutta la pienezza della vita, nella pienezza dell’età dell’uomo, poiché tutta questa pienezza potesse essere santificata. Questo è uno degli aspetti del concetto della “ricapitolazione” di tutto in Cristo, che con tanta enfasi sant’Ireneo riprese da san Paolo. Era questa l’umiliazione del Logos (cfr. Filippesi 2, 7). Ma questa “kènosis” non era una riduzione della divinità, che nell’incarnazione sussiste immutata. Al contrario era un’elevazione dell’uomo, la deificazione della natura umana, la “thèosis”. Come afferma san Giovanni Damasceno, nell’Incarnazione “tre cose furono realizzate in una sola volta: l’assunzione, l’esistenza e la deificazione dell’umanità per mezzo del Logos”. Bisogna sottolineare che nell’Incarnazione il Logos assume l’originale natura umana, innocente e libera dal peccato originale, senza alcuna macchia. Questo fatto non viola la pienezza della natura umana né diminuisce la somiglianza del Salvatore nei confronti di noi peccatori. Infatti il peccato non è proprio della natura umana, ma è un prodotto parassitico ed anormale. Questo aspetto fu sottolineato da san Gregorio Nisseno e particolarmente da san Massimo il Confessore in relazione alla teoria della volontà come sede del peccato. Nell’Incarnazione il Logos assume la primitiva natura umana, creata “ad immagine di Dio”, per cui quest’ultima è ristabilita nell’uomo. Ciò non era ancora l’assunzione della sofferenza umana o dell’umanità sofferente. Era l’assunzione della vita umana, ma non ancora della morte. La libertà del Cristo dal peccato originale significa anche libertà dalla morte, che è il “compenso del peccato”. Il Cristo è libero dalla corruzione e dalla morte già dalla sua nascita. E, simile al primo Adamo anteriormente alla caduta egli può non morire affatto, sebbene naturalmente egli possa anche morire. Egli era libero dalla necessità della morte, poiché la sua umanità era pura ed innocente. Perciò la morte del Cristo era e non poteva non essere volontaria, non frutto della natura decaduta, ma risultato di una libera scelta ed accettazione.
Una distinzione deve essere fatta tra l’assunzione della natura umana da parte del Cristo ed il fatto che egli prese su di sé i nostri peccati. Il Cristo è “l’agnello di Dio che prende su di sé i peccati del mondo” (Giovanni 1, 29). Ma egli non prende su di sé i peccati del mondo nell’Incarnazione. Prendere su di sé i peccati del mondo è un atto della volontà, non una necessità della natura. Il Salvatore prende su di sé i peccati del mondo per una libera scelta d’amore. Egli li porta in tale modo che ciò non diventa una sua colpa o viola la purezza della sua natura (…) l’assunzione dei peccati ha un valore di redenzione, in quanto è un libero atto di compassione e d’amore. Né si tratta solo di compassione. In questo mondo, che è in preda al peccato, anche la purezza stessa è sofferenza, è una fonte e causa di sofferenza. Perciò un cuore giusto soffre e si addolora per l’ingiustizia che patisce per opera della malvagità di questo mondo. La vita del Salvatore, come quella di un essere giusto e puro, come una vita pura e senza peccato, deve essere stata inevitabilmente su questa terra quella di uno che soffrì. Il bene è oppressivo per il mondo e questo mondo è oppressivo per il bene. Questo mondo si oppone al bene e non volge lo sguardo alla luce. Ed esso non accetta il Cristo e respinge sia lui che il Padre suo (Giovanni 15, 23 sg). Il Salvatore si sottopone all’ordine di questo mondo, sopporta, e l’opposizione di questo mondo è coperta da suo amore che perdona: “Essi non sanno quel che fanno” (Luca 23, 34). Tutta la vita di nostro Signore è una Croce. Ma la sofferenza non è ancora tutta la Croce. Quest’ultima è più che la semplice sofferenza di un giusto. Il sacrificio del Cristo non si esaurisce nella sua obbedienza, sopportazione, pazienza, compassione e perdono. L’unità dell’opera redentrice del Cristo non può essere suddivisa in parti. La vita terrena del Signore è un’unità organica e la sua opera redentrice non può essere connessa esclusivamente con un momento particolare della sua vita. Comunque il punto culminante della sua vita è la morte. Ed il Cristo stesso lo afferma nell’ora della morte: “Ma è proprio per quest’ora che sono venuto” (Giovanni 12, 27). La morte redentrice è lo scopo definitivo per l’Incarnazione.
Il mistero della Croce supera le nostre capacità intellettive. Questa “terribile visione” sembra estranea ed allarmante. Tutta la vita del Cristo fu un grande atto di pazienza, di grazia e di amore. Ed è tutta illuminata dallo splendore eterno della divinità, sebbene questo splendore sia invisibile nel mondo di carne e del peccato. Ma la salvezza si realizza completamente sul Golgotha, non sul Tabor (cfr. Luca 9, 31). Il Cristo venne non solo per insegnare con autorità e parlare al popolo in nome del Padre, non solo per compiere opere di grazia. Egli venne per soffrire per morire e risorgere. Egli stesso più che una volta lo dichiarò ai discepoli perplessi ed allarmati. Non solo preannunciò l’approssimarsi della passione e della morte, ma chiaramente affermò che egli doveva soffrire ed essere irriso. Egli esplicitamente disse che “doveva”, non semplicemente che “si apprestava a morire”. “E cominciò a spiegare loro che il Figlio dell’Uomo dovrà soffrire molto. Gli anziani del popolo, i capi dei sacerdoti ed i maestri della legge lo condanneranno; egli sarà ucciso, ma dopo tre giorni risusciterà” (Marco 8, 31; Matteo 16, 21; Luca 9, 22; 24; 26). È necessario, non secondo la legge di questo mondo, in cui il bene e la verità sono perseguitati e respinti, non secondo la legge dell’odio e del male. La morte di nostro Signore era una decisione presa in piena libertà. Nessuno gli toglie la vita, ma egli stesso offre la sua anima con un supremo atto di volontà ed autorità. “Io ho l’autorità” (Giovanni 10, 18). Egli soffrì e non morì “non perché non potesse sfuggire alla sofferenza, ma perché scelse di soffrire”, come è detto nel Catechismo Russo. Scelse non semplicemente nel senso di una volontaria sofferenza e non resistenza, non semplicemente perché permise che la rabbia del peccato e dell’ingiustizia si sfogasse su di lui. Non solo permise, ma lo volle. Egli doveva morire secondo la legge della verità e dell’amore. In alcun modo la crocifissione fu un suicidio passivo o semplicemente un assassinio. Era un sacrificio ed un’oblazione. Era necessario che egli morisse, ma non secondo la necessità di questo mondo, bensì secondo la necessità del divino Amore. Il mistero della Croce comincia nell’eternità, nel santuario della santissima Trinità, ed è inaccessibile per le creature. Ed il mistero trascendente della sapienza e dell’amore di Dio si rivela e si compie nella storia. Perciò il Cristo è chiamato l’Agnello “che Dio aveva destinato a questo sacrificio già prima della creazione” (Pietro 1, 9) e “che è stato sgozzato dall’eternità” (Apocalisse 13, 8). La Croce di Gesù, frutto dell’ostilità dei Giudei e della violenza dei Gentili, è in realtà solo l’immagine terrena e l’ombra di questa Croce celeste di amore. Questa “necessità divina” della morte sulla Croce supera in realtà ogni capacità dell’intelletto umano. E la Chiesa non ha mai tentato una definizione razionale di questo supremo mistero. Formule scritturali sono apparse, ed ancora appaiono, le più adeguate. In ogni caso non lo saranno semplici categorie etiche. L’interpretazione morale, o ancor più quella legale o giuridica, non possono essere altro che antropomorfismo scolorito. Ciò è vero anche riguardo all’idea del sacrificio. Il sacrificio di Cristo non può essere considerato come una pura offerta o resa. Ciò non spiegherebbe la necessità della morte, poiché tutta la vita del Logos Incarnato era un continuo sacrificio. Com’è che la sua vita purissima era insufficiente per la vittoria sulla morte? Ed era la morte realmente una prospettiva terrificante per il Giusto, per il Logos Incarnato, tanto più che già precedentemente sapeva che sarebbe giunta la Resurrezione il terzo giorno? Ma anche i comuni martiri cristiani hanno accettato tutti i loro tormenti e sofferenze e la morte stessa con piena calma e gioia, come una corona ed un trionfo. Il capo dei martiri, il Protomartire Gesù Cristo, non era inferiore a loro. E per loro stesso “decreto divino”, per la “stessa necessità divina”, egli “doveva” non solo essere sottoposto all’esecuzione capitale ed ingiuriato e morire, ma anche risorgere il terzo giorno. Quale che sia la nostra interpretazione dell’agonia del Gethsemani, un punto è perfettamente chiaro: il Cristo non era una vittima passiva, ma il conquistatore anche nella sua estrema umiliazione. Egli sapeva che questa umiliazione non era semplicemente sofferenza o obbedienza, ma il vero sentiero della gloria, della vittoria suprema. Né la sola idea della giustizia divina, la “iustitia vindicativa” può rivelare il profondo significato del sacrificio della Croce. Il mistero di quest’ultima non può essere adeguatamente interpretato in termini di una transazione, di una ricompensa, di un riscatto. Se il valore della morte del Cristo fu infinitamente accresciuto dalla sua divina persona, lo stesso si applica anche a tutta la sua vita. Tutte le sue azioni hanno un valore infinito in quanto frutto del Logos di Dio incarnatosi. Ed esse coprono in maniera sovrabbondante sia gli errori che i difetti del genere umano decaduto. Infine, difficilmente ci potrebbe essere una giustizia retributiva nella passione e nella morte del Signore, quale poteva esserci anche nella morte di un qualsiasi giusto. Infatti non si trattava della sofferenza e della morte di un semplice uomo, sopportata con l’aiuto divino a causa della sua fede e pazienza. Questa morte era la sofferenza del Figlio di Dio stesso incarnatosi, la sofferenza di una natura umana senza macchia, già deificata per essere stata unita all’ipostasi del Logos. Né ciò si può spiegare con l’idea di una soddisfazione sostitutiva, la satisfactio vicaria degli scolastici. Non perché la sostituzione non sia possibile. In realtà il Cristo prese su di sé i peccati del mondo, ma Dio non desidera la sofferenza di alcuno, egli ne soffre. Come la pena di morte del Logos Incarnato, purissimo e senza macchia, poteva essere l’abolizione del peccato, se la morte stessa ne è il compenso e se essa esiste solo nel mondo sottoposto al peccato? (…). La Croce non è il simbolo della giustizia, ma dell’amore divino. San Gregorio Nazianzeno esprime con grande enfasi tutti i suoi dubbi a questo proposito nella sua celebre Orazione Pasquale.
“A che e perché questo sangue è stato versato per noi, il preziosissimo sangue di Dio, il Sommo Sacerdote e Vittima?… Noi eravamo schiavi del maligno, venduti al peccato ed abbiamo portato su noi stessi questo danno a causa della nostra animalità. Se il prezzo del riscatto fu dato a nessun altro che a colui di cui ci trovavamo in potere, mi chiedi a chi e perché questo prezzo è stato pagato. Se è stato versato al maligno, allora è veramente insultante! Il ladro riceve il prezzo del riscatto; non lo riceve solo da Dio, ma addirittura riceve Dio stesso. Per la sua tirannide egli riceve un così abbondante prezzo, che era in dovere di aver pietà di noi… Se è stato versato al Padre, in primo luogo, ci chiediamo in che modo. Non eravamo in suo potere?… Ed in secondo luogo per qual ragione? Per qual motivo il Sangue dell’Unigenito era gradito al Padre, il quale non accettò neppure il sacrificio d’Isacco, ma mutò l’offerta sostituendo la vittima razionale con un agnello?…”. Con tutte queste domande san Gregorio cerca di chiarire come sia inesplicabile la Croce in termini di giustizia vendicatrice e così conclude: “Da tutto ciò è evidente che il Padre accettò il sacrificio non perché egli lo richiedesse o ne avesse bisogno, ma per l’economia e perché l’uomo deve essere santificato dall’umanità di Dio”.
La Redenzione non è affatto il perdono dei peccati né la riconciliazione dell’uomo con Dio. Essa è l’abolizione completa del peccato, la liberazione dal peccato e dalla morte. E la Redenzione fu compiuta sulla Croce, con il sangue della sua Croce (Colossesi 1, 20; cfr. Atti 20, 28; Romani 5, 9; Efesini 1, 7; Colossesi 1, 14; Ebrei 9, 22; 1 Giovanni 1, 7; Apocalisse 1, 5-6; 5, 9). Non solo grazie alle sofferenze sulla Croce, ma precisamente con la morte in Croce. E la vittoria definitiva è opera non delle sofferenze o della pazienza, ma della morte e della resurrezione. Entriamo con ciò nella profondità ontologica dell’esistenza umana. La morte del Signore era la vittoria sulla morte non la remissione dei peccati, né semplicemente la giustificazione di un uomo, né la soddisfazione di una giustizia astratta. E la vera chiave del mistero può essere offerta unicamente da una coerente dottrina della morte umana.

G. Florovskij

Da “Creation and Redemption”, 1976, Nordland Publisking compagny, 95-104. trad. T. Ch.
In “Messaggero Ortodosso”, n. dicembre-gennaio Roma 1981-1982, 14-25.

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA, NATALE 2014, TEOLOGIA |on 16 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

Lorenzo Lotto, Natività, 1523, Washington, National Gallery of Art

Lorenzo Lotto, Natività, 1523, Washington, National Gallery of Art dans immagini sacre img01
http://www.gliscritti.it/arte_fede/llotto/llotto.htm

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