The sweet mother and we

BENEDETTO XVI: L’AVVENTO PER PERCEPIRE LA PRESENZA DI DIO (28 NOVEMBRE 2009)
Papa Benedetto XVI ha presieduto nel pomeriggio di sabato 28 novembre 2009 nella Basilica di San Pietro in Vaticano la celebrazione dei Primi Vespri della I Domenica di Avvento, inizio del nuovo anno liturgico per la la Chiesa Cattolica.
Durante l’omelia, Papa Benedetto XVI si è soffermato sul significato della parola “Avvento”, che “i cristiani adottarono per esprimere la loro relazione con Gesù Cristo” e che può tradursi con “presenza”, “arrivo”, “venuta”. Il Papa ha invitato a comprendere in profondità anche il significato di “visita”. In questo caso, evidentemente, di tratta di una visita di Dio, che entra nella mia vita e vuole rivolgersi a me”.
Ecco il testo integrale dell’omelia tenuta dal Papa.
Cari fratelli e sorelle,
con questa celebrazione vespertina entriamo nel tempo liturgico dell’Avvento. Nella lettura biblica che abbiamo appena ascoltato, tratta dalla Prima Lettera ai Tessalonicesi, l’apostolo Paolo ci invita a preparare la “venuta del Signore nostro Gesù Cristo” (5,23) conservandoci irreprensibili, con la grazia di Dio. Paolo usa proprio la parola “venuta”, in latino adventus, da cui il termine Avvento.
Corona d’Avvento Riflettiamo brevemente sul significato di questa parola, che può tradursi con “presenza”, “arrivo”, “venuta”. Nel linguaggio del mondo antico era un termine tecnico utilizzato per indicare l’arrivo di un funzionario, la visita del re o dell’imperatore in una provincia. Ma poteva indicare anche la venuta della divinità, che esce dal suo nascondimento per manifestarsi con potenza, o che viene celebrata presente nel culto. I cristiani adottarono la parola “avvento” per esprimere la loro relazione con Gesù Cristo: Gesù è il Re, entrato in questa povera “provincia” denominata terra per rendere visita a tutti; alla festa del suo avvento fa partecipare quanti credono in Lui, quanti credono nella sua presenza nell’assemblea liturgica. Con la parola adventus si intendeva sostanzialmente dire: Dio è qui, non si è ritirato dal mondo, non ci ha lasciati soli. Anche se non lo possiamo vedere e toccare come avviene con le realtà sensibili, Egli è qui e viene a visitarci in molteplici modi.
Il significato dell’espressione “avvento” comprende quindi anche quello di visitatio, che vuol dire semplicemente e propriamente “visita”; in questo caso si tratta di una visita di Dio: Egli entra nella mia vita e vuole rivolgersi a me. Tutti facciamo esperienza, nell’esistenza quotidiana, di avere poco tempo per il Signore e poco tempo pure per noi. Si finisce per essere assorbiti dal “fare”. Non è forse vero che spesso è proprio l’attività a possederci, la società con i suoi molteplici interessi a monopolizzare la nostra attenzione? Non è forse vero che si dedica molto tempo al divertimento e a svaghi di vario genere? A volte le cose ci “travolgono”. L’Avvento, questo tempo liturgico forte che stiamo iniziando, ci invita a sostare in silenzio per capire una presenza. E’ un invito a comprendere che i singoli eventi della giornata sono cenni che Dio ci rivolge, segni dell’attenzione che ha per ognuno di noi. Quanto spesso Dio ci fa percepire qualcosa del suo amore! Tenere, per così dire, un “diario interiore” di questo amore sarebbe un compito bello e salutare per la nostra vita! L’Avvento ci invita e ci stimola a contemplare il Signore presente. La certezza della sua presenza non dovrebbe aiutarci a vedere il mondo con occhi diversi? Non dovrebbe aiutarci a considerare tutta la nostra esistenza come “visita”, come un modo in cui Egli può venire a noi e diventarci vicino, in ogni situazione?
Altro elemento fondamentale dell’Avvento è l’attesa, attesa che è nello stesso tempo speranza. L’Avvento ci spinge a capire il senso del tempo e della storia come “kairós”, come occasione favorevole per la nostra salvezza. Gesù ha illustrato questa realtà misteriosa in molte parabole: nel racconto dei servi invitati ad attendere il ritorno del padrone; nella parabola delle vergini che aspettano lo sposo; o in quelle della semina e della mietitura. L’uomo, nella sua vita, è in costante attesa: quando è bambino vuole crescere, da adulto tende alla realizzazione e al successo, avanzando nell’età, aspira al meritato riposo. Ma arriva il tempo in cui egli scopre di aver sperato troppo poco se, al di là della professione o della posizione sociale, non gli rimane nient’altro da sperare. La speranza segna il cammino dell’umanità, ma per i cristiani essa è animata da una certezza: il Signore è presente nello scorrere della nostra vita, ci accompagna e un giorno asciugherà anche le nostre lacrime. Un giorno, non lontano, tutto troverà il suo compimento nel Regno di Dio, Regno di giustizia e di pace.
Ma ci sono modi molto diversi di attendere. Se il tempo non è riempito da un presente dotato di senso, l’attesa rischia di diventare insopportabile; se si aspetta qualcosa, ma in questo momento non c’è nulla, se il presente cioè rimane vuoto, ogni attimo che passa appare esageratamente lungo, e l’attesa si trasforma in un peso troppo grave, perché il futuro rimane del tutto incerto. Quando invece il tempo è dotato di senso, e in ogni istante percepiamo qualcosa di specifico e di valido, allora la gioia dell’attesa rende il presente più prezioso. Cari fratelli e sorelle, viviamo intensamente il presente dove già ci raggiungono i doni del Signore, viviamolo proiettati verso il futuro, un futuro carico di speranza. L’Avvento cristiano diviene in questo modo occasione per ridestare in noi il senso vero dell’attesa, ritornando al cuore della nostra fede che è il mistero di Cristo, il Messia atteso per lunghi secoli e nato nella povertà di Betlemme. Venendo tra noi, ci ha recato e continua ad offrirci il dono del suo amore e della sua salvezza. Presente tra noi, ci parla in molteplici modi: nella Sacra Scrittura, nell’anno liturgico, nei santi, negli eventi della vita quotidiana, in tutta la creazione, che cambia aspetto a seconda che dietro di essa ci sia Lui o che sia offuscata dalla nebbia di un’incerta origine e di un incerto futuro. A nostra volta, noi possiamo rivolgergli la parola, presentargli le sofferenze che ci affliggono, l’impazienza, le domande che ci sgorgano dal cuore. Siamo certi che ci ascolta sempre! E se Gesù è presente, non esiste più alcun tempo privo di senso e vuoto. Se Lui è presente, possiamo continuare a sperare anche quando gli altri non possono più assicurarci alcun sostegno, anche quando il presente diventa faticoso.
Cari amici, l’Avvento è il tempo della presenza e dell’attesa dell’eterno. Proprio per questa ragione è, in modo particolare, il tempo della gioia, di una gioia interiorizzata, che nessuna sofferenza può cancellare. La gioia per il fatto che Dio si è fatto bambino. Questa gioia, invisibilmente presente in noi, ci incoraggia a camminare fiduciosi. Modello e sostegno di tale intimo gaudio è la Vergine Maria, per mezzo della quale ci è stato donato il Bambino Gesù. Ci ottenga Lei, fedele discepola del suo Figlio, la grazia di vivere questo tempo liturgico vigilanti e operosi nell’attesa. Amen!
SCOLA: «L’AVVENTO: ATTESA BELLA E SPERANZA AFFIDABILE» 16.11.2014
In Duomo, di fronte a migliaia di fedeli, il cardinale Scola ha presieduto la Celebrazione eucaristica della I Domenica dell’Avvento ambrosiano, dando avvio al percorso della sua predicazione in Cattedrale intitolato, quest’anno, “Un bambino è nato per noi”
di Annamaria BRACCINI
Un’attesa bella perché si fonda sulla speranza affidabile della venuta certa del Signore.
All’inizio del «tempo liturgico benedetto», tempo di Avvento, è il cardinale Scola a dare voce e a interpretare un sentire comune che si fa quasi palpabile, in Duomo, dove arrivano in migliaia per la Celebrazione Eucaristica della I domenica dell’Avvento ambrosiano, con cui prende avvio anche il percorso proposto a tutta la Diocesi attraverso, appunto, la predicazione domenicale dell’Arcivescovo in Cattedrale. E sono così tanti i giovani, le famiglie con i bimbi, ma anche gli anziani e la gente di tutte le età – sono stati in particolare invitati, questa domenica, gli aderenti al Movimento apostolico e ad Alleanza Cattolica – che si ritrova per un momento importante, sentito fortemente dall’intera comunità ambrosiana, chiamata a condividere il cammino di queste sei settimane che ci separano dal Natale, nella logica di quella che l’Arcivescovo chiama «la tensione buona dell’attesa».
Tutto, dalle Orazioni al Prefazio e alle Letture del giorno, invitano, d’altra parte, a cogliere la venuta del Signore come evento definitivo della salvezza. Intorno a una tale certezza si articola la riflessione del Cardinale che invita guardare con speranza il presente e il futuro: «Non con un ottimismo acritico, non con un forzoso ‘tutto va bene’ ma con una speranza affidabile perché Colui che viene mostra che la storia personale e la storia della famiglia umana hanno un senso cioè un significato, un valore, una direzione».
In questo contesto, anche il dialogo tra il Signore e i discepoli, narrato dalla pagina evangelica di Marco 13, è un monito chiaro: «Di fronte al dilagare del male e delle circostanze avverse, alle contraddizioni gravi e alla fatiche che anche noi europei stiamo portando, l’interrogativo più radicale è se possiamo ancora attendere la venuta di Qualcuno che spezzi questa angosciante impotenza». Qui è l’importanza dell’Avvento, suggerisce.
Sgomenti come i discepoli «di fronte all’imperversare del male, fuori ma anche dentro di noi», tentati di cedere al lamento sterile e senza pietà verso l’umano, occorre, tuttavia, vedere nel travaglio, che richiama la nascita attraverso i dolori del parto, una preparazione positiva alla vera nascita.
«Per questo – spiega Scola – abbiamo voluto dare all’intero percorso delle sei domeniche di Avvento, lo stesso titolo della Lettera alle famiglie per il Natale “Un bambino è nato per noi”. Attendiamo la fine del mondo come la nascita piena, adulta, definitiva, matura: la nascita all’abbraccio paterno del Padre.
L’invito è a non dimenticare che siamo “eletti” in quanto seguaci di Gesù e attraverso coloro che Lui sceglie, non per i loro meriti, ma per il mistero della Sua misericordia, Dio raggiunge tutti gli uomini. E questo vale «anche per l’uomo postmoderno, sofisticato, ma pur sempre fragile come l’uomo di ogni tempo, anche per gli abitanti delle nostre terre ambrosiane, che in troppa misura si sono allontanati dalla pratica eucaristica e che tuttavia hanno ancora un riferimento nella nostra grande storia di cattolicesimo popolare».
E se la «fine del tempo e della storia svelerà ai nostri occhi, il fine della vita dell’uomo e della storia, che “Dio sia tutto in tutti”», la conseguenza è decisiva ed evidente. «La solidarietà col “Dio con noi” ci fa responsabili gli uni degli altri e contraddice Caino. Uniti nell’attesa di Colui che sta venendo, siamo chiamati all’esperienza bella della comunione effettiva tra cristiani e a condividere, come sorelle e fratelli, le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri e soprattutto di tutti coloro che soffrono». Il dolore del Cardinale è per le recenti tragedie causate dal maltempo «Siamo vicini a quanti piangono le vittime e a chi soffre per i danni dell’alluvione», sottolinea.
In gioco c’è la méta buona che illumina il cammino quotidiano, nel cui vortice spesso dimentichiamo «chi siamo e di Chi siamo», osserva l’Arcivescovo, che raccomanda a tutti «il segno di croce al risveglio e prima di coricarsi così come la preghiera del mattino e della sera, possibilmente in famiglia, come modalità semplice, ma potente, anche per rigenerare le relazioni tra gli sposi e con i figli. In questo tempo, partecipiamo almeno – aggiunge – a una Messa infrasettimanale».
Non dimentica, il Cardinale, anche i gesti concreti di condivisione verso i più poveri ed emarginati: «In particolare, prendiamo sul serio le iniziative di solidarietà proposte dalla Chiesa italiana verso i cristiani provati dalla persecuzione. Pensiamo alle più di 150.000 persone che hanno dovuto abbandonare le loro case solo in Kurdistan».
E, a conclusione della Celebrazione, il pensiero va al Paese: «bisogna pregare perché cresca l’amicizia civica e perché il confronto tra diverse visoni del mondo e posizioni, tra diversi nobili interessi, sia sempre teso verso questa amicizia di cui la Nazione ha tanto bisogno per potere vivere in pace e poter affrontare, italiani e immigrati, questo tempo di crisi restando uniti».
http://www.zenit.org/it/articles/l-amore-di-cristo-ci-spinge
« L’AMORE DI CRISTO CI SPINGE »
DISCORSO DI BARTOLOMEO I AL TERMINE DELLA DIVINA LITURGIA NEL FANAR
Roma, 30 Novembre 2014 (Zenit.org) Redazione
Al termine della “Divina Liturgia” nella Cattedrale ortodossa, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, ha ringraziato papa Francesco con il seguente discorso.
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Santissimo ed amatissimo Fratello in Cristo, vescovo della Antica Roma, Signor Francesco.
Rendiamo gloria e lode al nostro Dio Trino, che ci ha resi degni della ineffabile gioia dell’appropriato onore della presenza di persona di Vostra Santità quest’anno per la festività della santa memoria del fondatore della nostra Chiesa, grazie alla sua predicazione, San Andrea Apostolo, il Primo Chiamato. Ringraziamo dal cuore Vostra Santità per l’onoratissimo dono della Vostra benedetta presenza in mezzo a noi, con il Vostro venerabile Seguito. Con profondo amore e grande onore Vi abbracciamo, rivolgendo a Voi il bacio di pace e di amore: « Grazia a Voi e pace da Dio, nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo » (Ro. 1,7). « Infatti l’amore di Cristo ci spinge ». (2 Cor. 14-15).
Conserviamo ancora fresco nel nostro cuore il ricordo del nostro incontro con Vostra Santità in Terra Santa, in devota comune adorazione del luogo ove è nato, ha vissuto, ha insegnato, ha patito, è risorto ed è asceso dove era in precedenza, il Maestro della nostra fede, ma anche in memoria riconoscente dello storico evento, che lì si sono incontrati i nostri predecessori di beata memoria Papa Paolo VI ed il Patriarca Ecumenico Atenagora. Grazie al loro incontro in Terra Santa, cinquanta anni orsono, il corso della storia ha cambiato direzione, i cammini paralleli e talvolta contrastanti delle nostre Chiese si sono incontrati nel comune sogno del ritrovamento della loro unità perduta, l’amore raffreddato sì è riacceso e si è ritemprata la nostra volontà di fare tutto ciò che possiamo, affinché spunti di nuovo la nostra comunione, nella stessa fede e nel Calice comune. Da allora si è aperta la via verso Emmaus, una via magari lunga e talvolta ardua, senza ritorno, mentre il Signore ci accompagna in modo invisibile fino a che Egli si riveli a noi: « nello spezzare del pane » (Lc. 24,35).
Tutti i successori di quelle guide ispirate hanno percorso da allora e percorrono tale via, istituendo, benedicendo e sostenendo il dialogo di amore e di verità tra le nostre Chiese per la rimozione degli ostacoli che per un intero millennio si sono accumulati nelle relazioni tra di esse, dialogo tra fratelli e non come un tempo tra rivali, con sincerità, dispensando rettamente la parola di verità, ma anche rispettandosi a vicenda come fratelli.
In questo clima caratterizzato da un comune cammino, nel ricordo dei nostri predecessori, accogliamo oggi anche Voi, Santissimo Fratello, quale latore dell’amore dell’Apostolo Pietro, verso il suo proprio fratello, l’Apostolo Andrea, il Primo Chiamato, del quale oggi celebriamo festosamente la sacra memoria.
Secondo una sacra consuetudine, stabilitasi e osservatasi già da decenni dalle Chiese della Antica e della Nuova Roma, le loro rappresentanze ufficiali si scambiamo visite l’un l’altra durante le feste patronali, affinché anche in questo modo sia manifesta la fraternità dei due Apostoli Corifei, i quali assieme hanno conosciuto Gesù e hanno creduto in Lui come Dio e Salvatore. Gli stessi hanno trasmesso tale fede comune alle Chiese, che hanno fondato grazie alla loro predicazione e che hanno santificato con il loro martirio. Tale fede comune è stata vissuta e dogmatizzata dai comuni Padri delle nostre Chiese, riunitisi da oriente e occidente nei Concili ecumenici, dandola in eredità alle nostre Chiese, come incrollabile fondamenta della nostra unità. Questa fede, che abbiamo conservato in comune in oriente ed in occidente per un millennio, siamo chiamati di nuovo a porre come base della nostra unità, cosicché « rimanendo unanimi e concordi » (Fil. 2,2-3) passiamo più oltre con Paolo « dimenticando ciò che sta alle spalle e protesi verso ciò che sta di fronte » (Fil. 3,14).
Perché, veramente, Santissimo Fratello, il nostro dovere non si esaurisce nel passato, ma principalmente si estende, soprattutto ai nostri giorni, al futuro.
Perché, a cosa serve la nostra fedeltà al passato, se questo non significa nulla per il futuro? A cosa giova il nostro vanto per quanto abbiamo ricevuto, se tutto ciò non si traduce nella vita per l’uomo e per il mondo di oggi e di domani? « Gesù Cristo è sempre lo stesso , ieri e oggi e nei secoli » (Eb. 13, 8-9). E la sua Chiesa è chiamata ad avere il suo sguardo volto non tanto all’ieri, quanto all’oggi e al domani. La Chiesa esiste per il mondo e per l’uomo e non per se stessa.
Volgendo il nostro sguardo all’oggi, non possiamo sfuggire l’ansia per il domani. « Battaglie all’esterno, timori all’interno » (2 Cor. 7,6) – Questa constatazione dell’Apostolo per la sua epoca, vale nella sua interezza per l’oggi e per noi. Perché, per tutto il tempo che noi siamo impegnati nelle nostre dispute, il mondo vive la paura della sopravvivenza e l’ansia del domani. Come sopravvivrà l’umanità dilaniata oggi da svariate divisioni, scontri ed inimicizie, molte volte addirittura nel nome di Dio? Come sarà distribuita la ricchezza della terra in modo più equo, cosicché domani la umanità non viva la schiavitù più esecrabile, che abbia mai conosciuto? Quale pianeta troveranno le prossime generazioni per abitarvi, quando l’uomo contemporaneo nella sua cupidigia lo distrugge senza pietà ed in modo irrimediabile?
Molti pongono oggi le loro speranze nella scienza. Altri nella politica, altri ancora nella tecnologia. Ma nessuno di loro è in grado di garantire il futuro, se l’uomo non accoglie il messaggio della riconciliazione, dell’amore e della giustizia, il messaggio dell’accettazione dell’altro, del diverso, persino anche del nemico. La Chiesa di Cristo, che per primo ha insegnato e vissuto questo messaggio, ha il dovere per prima cosa di applicarlo a se stessa, « affinché il mondo creda » (Gv. 17,21). Ecco perché urge più che mai il cammino verso l’unità di quanti invocano il nome del grande Operatore di pace. Ecco perché la responsabilità di noi cristiani è maggiore davanti a Dio, all’uomo e alla Storia.
Santità,
Il Vostro ancora breve cammino alla guida della Vostra Chiesa, Vi ha consacrato nella coscienza dei nostri contemporanei, araldo dell’amore, della pace e della riconciliazione. Insegnate con i Vostri discorsi, ma soprattutto e principalmente con la semplicità, la umiltà e l’amore verso tutti, per i quali esercitate il Vostro alto ufficio. Ispirate fiducia agli increduli, speranza ai disperati, attesa a quanti attendono una Chiesa amorevole verso tutti. Tra le altre cose, offrite ai Vostri fratelli Ortodossi, la speranza che durante il Vostro tempo, l’avvicinamento delle nostre due grandi antiche Chiese continuerà a edificarsi sulle solide fondamenta della nostra comune tradizione, la quale da sempre rispettava e riconosceva nel corpo della Chiesa un primato di amore, di onore e di servizio, nel quadro della sinodalità, affinché « con una sola bocca ed un sol cuore » si confessi il Dio Trino e si effonda il Suo amore nel mondo.
Santità,
La Chiesa delle Città di Costantino, che accoglie Voi oggi innanzitutto con amore e grande onore, ma anche con profonda riconoscenza, porta sulle proprie spalle una pesante eredità, ma anche una responsabilità sia per il presente che per il futuro. In questa Chiesa, la Divina Provvidenza attraverso l’ordine costituito dai Santi Concili Ecumenici, ha assegnato la responsabilità del coordinamento e della espressione della omofonia delle Santissime Chiese Ortodosse Locali. Con questa responsabilità lavoriamo già accuratamente per la preparazione del Santo e Grande Sinodo della Chiesa Ortodossa, che si è deciso di convocare qui, a Dio piacendo, entro l’anno 2016. Già le commissioni competenti lavorano alacremente alla preparazione di questo grande evento nella storia della Chiesa Ortodossa, per il cui successo, chiediamo anche le Vostre preghiere. Purtroppo, la rottura millenaria della comunione eucaristica tra le nostre Chiese non permette ancora la convocazione di un grande comune Concilio Ecumenico. Preghiamo dunque che, ristabilita la piena comunione tra di esse, non tardi a sorgere anche questo grande ed importante giorno. Fino a quel benedetto giorno, la partecipazione di entrambe le nostre Chiese alla vita sinodale dell’altra, si esprimerà attraverso l’invio di osservatori, come già succede, su Vostro cortese invito, durante i Sinodi della Vostra Chiesa e come – speriamo -, vogliamo succeda, con l’aiuto di Dio, anche durante la realizzazione del nostro Santo e Grande Sinodo.
Santità,
I problemi, che la congiuntura storica innalza davanti alle Chiese, impongono a noi il superamento della introversione e il fatto di affrontarli per quanto possibile con più strette collaborazioni. Non abbiamo più il lusso per agire da soli. Gli odierni persecutori dei Cristiani non chiedono a quale Chiesa appartengono le loro vittime. L’unità, per la quale ci diamo molto da fare, si attua già in alcune regioni, purtroppo, attraverso il martirio. Tendiamo dunque insieme la mano all’uomo contemporaneo, la mano del solo che è in grado di salvarlo per mezzo della Croce e della Sua Resurrezione.
Con questi pensieri e sentimenti, esprimiamo di nuovo la gioia della presenza di Vostra Santità in mezzo a noi, ringraziando Voi e pregando il Signore che, per intercessione dell’Apostolo Primo Chiamato che oggi festeggiamo, e del suo fratello Pietro il Protocorifeo, protegga la Sua Chiesa e la guidi al compimento della Sua volontà.
Dunque, buona permanenza in mezzo a noi, fratello prediletto!
VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO IN TURCHIA – DIVINA LITURGIA
(28-30 NOVEMBRE 2014)
PAROLE DEL SANTO PADRE
Chiesa Patriarcale di San Giorgio, Istanbul
Domenica, 30 novembre 2014
Santità, carissimo fratello Bartolomeo,
molte volte, come arcivescovo di Buenos Aires, ho partecipato alla Divina Liturgia delle comunità ortodosse presenti in quella città, ma trovarmi oggi in questa Chiesa Patriarcale di San Giorgio per la celebrazione del santo Apostolo Andrea, primo dei chiamati e fratello di san Pietro, patrono del Patriarcato Ecumenico, è davvero una grazia singolare che il Signore mi dona.
Incontrarci, guardare il volto l’uno dell’altro, scambiare l’abbraccio di pace, pregare l’uno per l’altro sono dimensioni essenziali di quel cammino verso il ristabilimento della piena comunione alla quale tendiamo. Tutto ciò precede e accompagna costantemente quell’altra dimensione essenziale di tale cammino che è il dialogo teologico. Un autentico dialogo è sempre un incontro tra persone con un nome, un volto, una storia, e non soltanto un confronto di idee.
Questo vale soprattutto per noi cristiani, perché per noi la verità è la persona di Gesù Cristo. L’esempio di sant’Andrea, il quale insieme con un altro discepolo accolse l’invito del Divino Maestro: «Venite e vedrete», e «quel giorno rimasero con lui» (Gv 1,39), ci mostra con chiarezza che la vita cristiana è un’esperienza personale, un incontro trasformante con Colui che ci ama e ci vuole salvare. Anche l’annuncio cristiano si diffonde grazie a persone che, innamorate di Cristo, non possono non trasmettere la gioia di essere amate e salvate. Ancora una volta l’esempio dell’apostolo Andrea è illuminante. Egli, dopo avere seguito Gesù là dove abitava ed essersi intrattenuto con Lui, «incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: “Abbiamo trovato il Messia” – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù» (Gv 1,40-42). È chiaro, pertanto, che neanche il dialogo tra cristiani può sottrarsi a questa logica dell’incontro personale.
Non è un caso, dunque, che il cammino di riconciliazione e di pace tra cattolici ed ortodossi sia stato, in qualche modo, inaugurato da un incontro, da un abbraccio tra i nostri venerati predecessori, il Patriarca Ecumenico Atenagora e Papa Paolo VI, cinquant’anni fa, a Gerusalemme, evento che Vostra Santità ed io abbiamo voluto recentemente commemorare incontrandoci di nuovo nella città dove il Signore Gesù Cristo è morto e risorto.
Per una felice coincidenza, questa mia visita avviene qualche giorno dopo la celebrazione del cinquantesimo anniversario della promulgazione del Decreto del Concilio Vaticano II sulla ricerca dell’unità di tutti i cristiani, Unitatis redintegratio. Si tratta di un documento fondamentale con il quale è stata aperta una nuova strada per l’incontro tra i cattolici e i fratelli di altre Chiese e Comunità ecclesiali.
In particolare, con quel Decreto la Chiesa cattolica riconosce che le Chiese ortodosse «hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, il Sacerdozio e l’Eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora unite con noi da strettissimi vincoli» (n. 15). Conseguentemente, si afferma che per custodire fedelmente la pienezza della tradizione cristiana e per condurre a termine la riconciliazione dei cristiani di oriente e occidente è di somma importanza conservare e sostenere il ricchissimo patrimonio delle Chiese d’Oriente, non solo per quello che riguarda le tradizioni liturgiche e spirituali, ma anche le discipline canoniche, sancite dai santi padri e dai concili, che regolano la vita di tali Chiese (cfr nn. 15-16).
Ritengo importante ribadire il rispetto di questo principio come condizione essenziale e reciproca per il ristabilimento della piena comunione, che non significa né sottomissione l’uno dell’altro, né assorbimento, ma piuttosto accoglienza di tutti i doni che Dio ha dato a ciascuno per manifestare al mondo intero il grande mistero della salvezza realizzato da Cristo Signore per mezzo dello Spirito Santo. Voglio assicurare a ciascuno di voi che, per giungere alla meta sospirata della piena unità, la Chiesa cattolica non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune, e che siamo pronti a cercare insieme, alla luce dell’insegnamento della Scrittura e della esperienza del primo millennio, le modalità con le quali garantire la necessaria unità della Chiesa nelle attuali circostanze: l’unica cosa che la Chiesa cattolica desidera e che io ricerco come Vescovo di Roma, “la Chiesa che presiede nella carità”, è la comunione con le Chiese ortodosse. Tale comunione sarà sempre frutto dell’amore «che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5), amore fraterno che dà espressione al legame spirituale e trascendente che ci unisce in quanto discepoli del Signore.
Nel mondo d‘oggi si levano con forza voci che non possiamo non sentire e che domandano alle nostre Chiese di vivere fino in fondo l’essere discepoli del Signore Gesù Cristo.
La prima di queste voci è quella dei poveri. Nel mondo, ci sono troppe donne e troppi uomini che soffrono per grave malnutrizione, per la crescente disoccupazione, per l’alta percentuale di giovani senza lavoro e per l’aumento dell’esclusione sociale, che può indurre ad attività criminali e perfino al reclutamento dei terroristi. Non possiamo rimanere indifferenti di fronte alle voci di questi fratelli e sorelle. Essi ci chiedono non solo di dare loro un aiuto materiale, necessario in tante circostanze, ma soprattutto che li aiutiamo a difendere la loro dignità di persone umane, in modo che possano ritrovare le energie spirituali per risollevarsi e tornare ad essere protagonisti delle loro storie. Ci chiedono inoltre di lottare, alla luce del Vangelo, contro le cause strutturali della povertà: la disuguaglianza, la mancanza di un lavoro degno, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. Come cristiani siamo chiamati a sconfiggere insieme quella globalizzazione dell’indifferenza che oggi sembra avere la supremazia e a costruire una nuova civiltà dell’amore e della solidarietà.
Una seconda voce che grida forte è quella delle vittime dei conflitti in tante parti del mondo. Questa voce la sentiamo risuonare molto bene da qui, perché alcune nazioni vicine sono segnate da una guerra atroce e disumana. Penso con profondo dolore alle tante vittime del disumano e insensato attentato, che in questi giorni ha colpito i fedeli musulmani, che pregavano nella moschea di Kano, in Nigeria. Turbare la pace di un popolo, commettere o consentire ogni genere di violenza, specialmente su persone deboli e indifese, è un peccato gravissimo contro Dio, perché significa non rispettare l’immagine di Dio che è nell’uomo. La voce delle vittime dei conflitti ci spinge a procedere speditamente nel cammino di riconciliazione e di comunione tra i cattolici ed ortodossi. Del resto, come possiamo annunciare credibilmente il Vangelo di pace che viene dal Cristo, se tra noi continuano ad esistere rivalità e contese? (cfr Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 77).
Una terza voce che ci interpella è quella dei giovani. Oggi purtroppo sono tanti i giovani che vivono senza speranza, vinti dalla sfiducia e dalla rassegnazione. Molti giovani, poi, influenzati dalla cultura dominante, cercano la gioia soltanto nel possedere beni materiali e nel soddisfare le emozioni del momento. Le nuove generazioni non potranno mai acquisire la vera saggezza e mantenere viva la speranza se noi non saremo capaci di valorizzare e trasmettere l’autentico umanesimo, che sgorga dal Vangelo e dall’esperienza millenaria della Chiesa. Sono proprio i giovani – penso ad esempio alle moltitudini di giovani ortodossi, cattolici e protestanti che si incontrano nei raduni internazionali organizzati dalla comunità di Taizé – sono loro che oggi ci sollecitano a fare passi in avanti verso la piena comunione. E ciò non perché essi ignorino il significato delle differenze che ancora ci separano, ma perché sanno vedere oltre – sanno vedere oltre – sono capaci di cogliere l’essenziale che già ci unisce, che è tanto Santità.
Caro fratello, carissimo fratello, siamo già in cammino, in cammino verso la piena comunione e già possiamo vivere segni eloquenti di un’unità reale, anche se ancora parziale. Questo ci conforta e ci sostiene nel proseguire questo cammino. Siamo sicuri che lungo questa strada siamo sorretti dall’intercessione dell’Apostolo Andrea e di suo fratello Pietro, considerati dalla tradizione i fondatori delle Chiese di Costantinopoli e di Roma. Invochiamo da Dio il grande dono della piena unità e la capacità di accoglierlo nelle nostre vite. E non dimentichiamoci mai di pregare gli uni per gli altri.