OMELIA XXIX DOMENICA A: « RENDETE A CESARE QUELLO CHE È DI CESARE E A DIO QUELLO CHE È DI DIO »
19 OTTOBRE 2014 | 29A DOMENICA A | T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO
« RENDETE A CESARE QUELLO CHE È DI CESARE E A DIO QUELLO CHE È DI DIO »
« Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio » (Mt 22,21). È una delle espressioni evangeliche più conosciute e più citate, ma forse anche più difficili a spiegare e, nello stesso tempo, più espressive del « radicalismo » evangelico.
Non è soltanto indicativa di un determinato comportamento « politico », ma soprattutto del « primato » di Dio sulle azioni di ogni uomo, anche quelle che potrebbero sembrare semplicemente « laiche »: il regno di Dio afferra tutte le dimensioni dell’uomo, ivi inclusa quella sociale e « politica », senza però identificarsi con nessuna di esse.
« Dice il Signore del suo eletto, di Ciro… «
Sotto il segno di questa universale « signoria » di Dio, che non si arresta neppure davanti ai troni o alle regge dei sovrani, è da porre la prima lettura, in cui il Secondo Isaia, dopo aver preannunciato la ricostruzione di Gerusalemme e del tempio (Is 44,24-28), ci presenta anche lo « strumento » che Dio si è scelto per compiere un’opera così straordinaria: Ciro il Grande, re di Persia (557-529 a.C.). « Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: / « Io l’ho preso per la destra, / per abbattere davanti a lui le nazioni, / per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, / per aprire davanti a lui i battenti delle porte, / e nessun portone rimarrà chiuso. / Per amore di Giacobbe mio servo / e di Israele mio eletto / io ti ho chiamato per nome, / ti ho dato un titolo sebbene tu non mi conosca. / Io sono il Signore, e non vi è alcun altro; / fuori di me non c’è dio; / ti renderò spedito nell’agire, anche se tu non mi conosci, / perché sappiano dall’oriente fino all’occidente / che non esiste dio fuori di me. / Io sono il Signore e non c’è alcun altro »" (Is 45,1.4-6).
Quello che sorprende di più, in questo testo, è che a Ciro si attribuiscano titoli che, nella tradizione biblica, vengono riservati solo al Messia futuro: così il titolo di « eletto » (v. 1), che in ebraico è precisamente mashìach, cioè « messia »; oppure quello di « pastore » (Is 44,28). Questo, ovviamente, vuol significare che Ciro, permettendo a Israele di ritornare dall’esilio nella terra dei padri (538 a.C.), di fatto faciliterà il misterioso disegno di Dio, che culminerà proprio nella venuta del Messia dal seno del popolo eletto.
Oltre a questo, sorprende il fatto che Dio si serva per i suoi fini di un re straniero, che neppure lo « conosce » (vv. 4.5). Questo, anzi, contribuirà a rendere maggior « gloria » al Dio d’Israele, che in tal modo dimostra come la sua potenza e anche il suo amore non siano legati né da confini geografici, né da peculiarità di cultura o di razza, e neppure dal fatto religioso, almeno inteso come mera connotazione di appartenenza a una determinata confessione: « Perché sappiano dall’oriente fino all’occidente che non esiste dio fuori di me » (v. 6).
Dio agisce dunque anche al di fuori di Israele. E perché no? Anche al di fuori della Chiesa. Lo scopo, però, è sempre quello di incrementare e di dilatare la missione salvifica del suo « popolo »: il punto di riferimento di Dio, anche quando si apre ai lontani, è sempre Israele!
Questo sta a dimostrare due cose: primo, che una misteriosa teologia della storia rotea attorno a Cristo e al « popolo » eletto che deve esprimerlo e per il quale è mandato; secondo, che ci sono valori nelle cose, nelle istituzioni, nelle persone che nascono dalla loro intrinseca costituzione e significatività, in quanto operano e corrispondono al disegno di Dio. Così Ciro il grande, pur senza saperlo, col suo senso di equità e di saggezza politica si inserisce e, addirittura, porta avanti il progetto salvifico di Dio.
La « politica » è valida nella misura in cui, chiunque la faccia, anche non credente, cerca di farla secondo le regole proprie della politica, realizzando il « bene comune », di tutti e di ciascuno.
« Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo »
Ma veniamo adesso alla pagina di Vangelo (Mt 22,15-21), che in parte riprende questa tematica, ampliandola però in una forma originalissima. È il noto episodio del « tributo » a Cesare, che è comune ai tre Sinottici,1 sia pure con piccole varianti che non stiamo qui ad analizzare.
Esso fa parte del gruppo delle quattro « controversie » del periodo gerosolimitano, dopo quella relativa al problema dell’autorità con cui Gesù aveva cacciato i venditori dal tempio (21,23-27), separata da queste dall’inserzione delle tre parabole (21,28-22,14) già commentate nelle Domeniche precedenti: la nostra controversia (22,15-22), quella sulla risurrezione dei morti (22,23-33), sul massimo comandamento (22,34-40), e l’ultima sul Figlio di Davide (22,41-46).
L’atmosfera è molto pesante e carica di tensione: si vuole a tutti i costi trovare un pretesto contro Gesù per « perderlo ». Il trabocchetto più pericoloso, in questo senso, è proprio quello « politico »: da esso, infatti, si incomincia per « compromettere » in qualche maniera Gesù. La cosa assume anche più valore, se si pensa che proprio l’accusa di sovvertimento « politico » avrà un ruolo determinante nel processo, che di fatto lo porterà alla morte.
Nell’episodio si noti, prima di tutto, la doppiezza dei farisei, che almeno qui ben corrisponde a quella connotazione di falsità che diamo al termine ormai classico di « fariseismo ». È il tentativo di mascherarsi dietro le parole belle, buone, rispettose, per nascondere il proprio pensiero, le vere e torbide intenzioni del proprio cuore: « Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno, perché non guardi in faccia ad alcuno » (v. 16).
Nella loro macchinazione queste parole adulatrici dovevano servire a smuovere più facilmente Gesù dal suo naturale riserbo circa un problema così scottante come quello del tributo a Cesare: una volta poi rotto il ghiaccio, avrebbero pensato loro a dirottare il discorso verso gli approdi già calcolati!
Nonostante la loro falsità, però, essi fanno l’elogio più grande di Gesù: egli non è un opportunista, un calcolatore, più che piacere agli uomini intende piacere a Dio. E in realtà tutta la sua vita sta a dimostrarlo; soprattutto lo dimostrerà il suo atteggiamento durante il processo, che lo porterà alla morte di croce. Lo dichiarerà solennemente davanti a Pilato: « Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità » (Gv 18,37).
Questa sua estrema lealtà e « veridicità » Gesù la dimostra anche in questo episodio, prima di tutto smascherando la falsità dei suoi avversari: « Ipocriti, perché mi tentate? » (v. 18); e in secondo luogo, dando loro una risposta estremamente franca e imprevista, che risolveva alla radice il problema senza cadere nella « casistica » politica, che fatalmente lo avrebbe costretto a schierarsi o fra i collaborazionisti di Roma, o fra gli irredentisti fanatici.
In questo caso, infatti, per i suoi avversari il gioco sarebbe stato estremamente facile: se avesse detto che bisognava pagare il tributo a Cesare, lo avrebbero screditato presso il popolo che fremeva sotto il giogo romano e, manovrato dagli Zeloti, stava meditando tentativi di rivolta e di sovversione; se avesse detto di no, lo avrebbero accusato presso le autorità come ribelle e ostile al governo di Roma. La trappola avrebbe funzionato alla perfezione!
« Di chi è questa immagine e l’iscrizione? »
Se non che Gesù, come abbiamo detto, imposta il problema in termini molto più radicali: non si tratta di dire un « sì » o un « no », ma di vedere in che misura gli ordinamenti politici e sociali corrispondano al disegno di Dio nella storia concreta che vivono gli uomini, e permettano di servirlo con fedeltà.
Ora, proprio partendo dalla situazione in cui si trovavano gli Ebrei del suo tempo, Gesù dice che « di fatto » essi si riconoscono sudditi di Roma, dal momento che accettano di commerciare con la « moneta » coniata dall’imperatore. Non era questo un implicito riconoscimento della sovranità imperiale, a prescindere dalla questione se fosse legittima o meno?
È questo il significato della richiesta di Gesù: « »Mostratemi la moneta del tributo ». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: « Di chi è questa immagine e l’iscrizione? ». Gli risposero: « Di Cesare »" (vv. 19-21). È quindi più che giusto che si debba anche « rendere a Cesare quello che è di Cesare », come dice immediatamente dopo Gesù.
Però se la sua risposta si fosse fermata qui, non avrebbe niente di originale, salvo il dimostrare un senso di grande equilibrio e di grande saggezza, che certamente non ebbero gli Zeloti, i quali di lì a poco portarono Israele al massacro sollevandolo contro Roma.
« Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio » (v. 21). La portata rivoluzionaria di questa frase sta tutta nella seconda parte, però correlata con la prima: si può e si deve partire da Cesare, per arrivare a Dio!
« Cesare » e « Dio » nella vita dei cristiani
Mettendo accanto a Cesare Dio, Gesù distingue nettamente due realtà e due spazi di azione, che è sempre fatale confondere o mescolare. Si pensi alle antiche ideologie orientali, soprattutto a quella egiziana, secondo la quale il re era considerato un dio a tutti gli effetti, e che erano arrivate perfino a Roma, dove gli imperatori erano chiamati « signori » (kyrioi), o « divini » (cf 1 Cor 8,5). Si pensi anche a certe ideologie moderne « totalizzanti », che fanno fonte di ogni verità e di ogni moralità lo Stato, o il partito, o una classe sociale, o un qualsiasi leader « carismatico », perfino la moda. Sembra che la storia non insegni niente agli uomini!
Cristo tiene a distinguere le due realtà e i due diversi comportamenti che esse esigono. Non pensa, come gli Zeloti, che Dio abbia bisogno di una specie di « teocrazia » terrena in cui soltanto egli possa attuare la sua presenza: abbiamo già visto che Ciro, il pagano, può essere addirittura chiamato il suo « eletto ».
Questo sta a significare che l’impegno politico, anche il più generoso, non esaurisce la dimensione dell’uomo, che ha orizzonti che vanno infinitamente al di là. Proprio per questo il « regnum hominis » non potrà mai identificasi con il « regnum Dei ».
Però, pur essendo due realtà distinte, sono anche fra di loro « coordinate » o « coordinabili »; il mio dovere verso lo Stato e chi lo rappresenta vale nella misura in cui esso mi permette di realizzare il rapporto autenticamente religioso con Dio, che è preminente nella vita di ogni uomo. È per questo che la frase culmina nell’affermazione inattesa e sconvolgente: « E rendete a Dio quello che è di Dio », che getta una luce nuova sullo stesso « servizio » politico che deve attuare lo Stato nella molteplice articolazione delle sue funzioni e dei suoi apparati.
Non si tratta infatti, da parte dell’organizzazione politica, di rispettare certi spazi religiosi per la coscienza dei credenti: il che è ovvio! Si tratta di molto di più: lo stesso servizio « politico », che fatalmente coinvolge il discepolo di Cristo sia come semplice cittadino, sia anche come possibile responsabile delle leggi dello Stato e delle varie sue attività, deve essere da lui sentito come un culto « reso a Dio », attuandone le esigenze di giustizia, di equità, di fraternità, di rispetto per tutti, di « bene comune », come appunto si dice.
Solo in questo caso il « regnum hominis », pur non potendo mai diventare il « regnum Dei », ne favorirà indubbiamente la crescita: e questo, al limite, può realizzarlo anche il non credente, come abbiamo già accennato, purché abbia quella radicale « onestà » del cuore che induce sempre a cercare « quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode », come ci insegna san Paolo (Fil 4,8).
È evidente come tutto questo ponga problemi brucianti alla coscienza « civile » dei cristiani oggi, qualunque responsabilità essi abbiano nella società: si pensi solo al problema della legalizzazione dell’aborto, per fare un esempio. Gesù ci ha insegnato a rispettare e a valorizzare il servizio politico, purché esso rispetti ed attui le esigenze di Dio. Davanti a qualsiasi possibile « aberrazione » o « perversione » del potere, anche democratico, Gesù ha eretto la barriera inviolabile dei diritti di Dio e della « coscienza » cristiana che deve annunciarli e testimoniarli al mondo, anche a costo della « disubbidienza » civile.
Ecco la novità « rivoluzionaria » di quella frase, apparentemente così semplice e innocua: « Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio » (v. 21).
« Ringraziamo sempre Dio per tutti voi »
Evidentemente questo presuppone una coscienza cristiana matura, illuminata dalla fede, animata dalla carità, tesa nella speranza di realizzazioni sempre più grandi.
Era quanto san Paolo scriveva ai cristiani di Tessalonica, di cui ricordava con affetto e simpatia la pronta adesione al messaggio evangelico: « Ringraziamo sempre Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere, continuamente memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo » (1 Ts 1,2-3).
Cristiani che vivano in un clima di così intima tensione religiosa, non possono non dare un senso « nuovo » anche alla convivenza civile, nella quale verranno a contatto con tanti altri fratelli, anche di fede diversa, ai quali dovranno a testimoniare » che Dio sta accanto, ma anche al di sopra di Cesare, e che lui soltanto è il valore « ultimo » e il criterio definitivo per « giudicare » la rettitudine di ogni nostro agire, ivi incluso quello sociale e politico.
Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola
