Mary, Our Model in Prayer

https://sites.google.com/site/mosaicocorpusdomini/home/il-naufragio-di-san-paolo
6.IL NAUFRAGIO DI SAN PAOLO
La scena rappresenta il Naufragio di San Paolo durante il suo viaggio in catene verso Roma con 14 giorni di tempesta, durante i quali egli riceve un messaggio da un angelo che gli dice di non temere e che Dio ha voluto conservare tutti i suoi compagni di navigazione. Paolo quindi invita i suoi compagni di viaggio a prendere cibo. Prese un pane, rese grazie, lo spezzò e lo mangiò. Tutti mangeranno e nessuno perse la vita. Così accadde e tutti i 276 gentili presenti sulla barca e furono salvi.
Parola di Dio
Dal libro degli Atti degli Apostoli (At 27)
1Quando fu deciso che ci imbarcassimo per l’Italia, consegnarono Paolo, insieme ad alcuni altri prigionieri, a un centurione di nome Giulio, della coorte Augusta. 2Salimmo su una nave della città di Adramitto, che stava per partire verso i porti della provincia d’Asia, e salpammo, avendo con noi Aristarco, un Macèdone di Tessalònica. 3Il giorno dopo facemmo scalo a Sidone, e Giulio, trattando Paolo con benevolenza, gli permise di recarsi dagli amici e di riceverne le cure. 4Salpati di là, navigammo al riparo di Cipro a motivo dei venti contrari 5e, attraversato il mare della Cilìcia e della Panfìlia, giungemmo a Mira di Licia.6Qui il centurione trovò una nave di Alessandria diretta in Italia e ci fece salire a bordo. 7Navigammo lentamente parecchi giorni, giungendo a fatica all’altezza di Cnido. Poi, siccome il vento non ci permetteva di approdare, prendemmo a navigare al riparo di Creta, dalle parti di Salmone; 8la costeggiammo a fatica e giungemmo in una località chiamata Buoni Porti, vicino alla quale si trova la città di Lasèa.
9Era trascorso molto tempo e la navigazione era ormai pericolosa, perché era già passata anche la festa dell’Espiazione; Paolo perciò raccomandava 10loro: «Uomini, vedo che la navigazione sta per diventare pericolosa e molto dannosa, non solo per il carico e per la nave, ma anche per le nostre vite». 11Il centurione dava però ascolto al pilota e al capitano della nave più che alle parole di Paolo. 12Dato che quel porto non era adatto a trascorrervi l’inverno, i più presero la decisione di salpare di là, per giungere se possibile a svernare a Fenice, un porto di Creta esposto a libeccio e a maestrale.
13Appena cominciò a soffiare un leggero scirocco, ritenendo di poter realizzare il progetto, levarono le ancore e si misero a costeggiare Creta da vicino. 14Ma non molto tempo dopo si scatenò dall’isola un vento di uragano, detto Euroaquilone. 15La nave fu travolta e non riusciva a resistere al vento: abbandonati in sua balìa, andavamo alla deriva. 16Mentre passavamo sotto un isolotto chiamato Cauda, a fatica mantenemmo il controllo della scialuppa. 17La tirarono a bordo e adoperarono gli attrezzi per tenere insieme con funi lo scafo della nave. Quindi, nel timore di finire incagliati nella Sirte, calarono la zavorra e andavano così alla deriva. 18Eravamo sbattuti violentemente dalla tempesta e il giorno seguente cominciarono a gettare a mare il carico; 19il terzo giorno con le proprie mani buttarono via l’attrezzatura della nave. 20Da vari giorni non comparivano più né sole né stelle e continuava una tempesta violenta; ogni speranza di salvarci era ormai perduta.
21Da molto tempo non si mangiava; Paolo allora, alzatosi in mezzo a loro, disse: «Uomini, avreste dovuto dar retta a me e non salpare da Creta; avremmo evitato questo pericolo e questo danno. 22Ma ora vi invito a farvi coraggio, perché non ci sarà alcuna perdita di vite umane in mezzo a voi, ma solo della nave. 23Mi si è presentato infatti questa notte un angelo di quel Dio al quale io appartengo e che servo, 24e mi ha detto: “Non temere, Paolo; tu devi comparire davanti a Cesare, ed ecco, Dio ha voluto conservarti tutti i tuoi compagni di navigazione”. 25Perciò, uomini, non perdetevi di coraggio; ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato detto. 26Dovremo però andare a finire su qualche isola».
27Come giunse la quattordicesima notte da quando andavamo alla deriva nell’Adriatico, verso mezzanotte i marinai ebbero l’impressione che una qualche terra si avvicinava. 28Calato lo scandaglio, misurarono venti braccia; dopo un breve intervallo, scandagliando di nuovo, misurarono quindici braccia. 29Nel timore di finire contro gli scogli, gettarono da poppa quattro ancore, aspettando con ansia che spuntasse il giorno. 30Ma, poiché i marinai cercavano di fuggire dalla nave e stavano calando la scialuppa in mare, col pretesto di gettare le ancore da prua, 31Paolo disse al centurione e ai soldati: «Se costoro non rimangono sulla nave, voi non potrete mettervi in salvo». 32Allora i soldati tagliarono le gómene della scialuppa e la lasciarono cadere in mare.
33Fino allo spuntare del giorno Paolo esortava tutti a prendere cibo dicendo: «Oggi è il quattordicesimo giorno che passate digiuni nell’attesa, senza mangiare nulla. 34Vi invito perciò a prendere cibo: è necessario per la vostra salvezza. Neanche un capello del vostro capo andrà perduto». 35Detto questo, prese un pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare. 36Tutti si fecero coraggio e anch’essi presero cibo. 37Sulla nave eravamo complessivamente duecentosettantasei persone. 38Quando si furono rifocillati, alleggerirono la nave gettando il frumento in mare.
39Quando si fece giorno, non riuscivano a riconoscere la terra; notarono però un’insenatura con una spiaggia e decisero, se possibile, di spingervi la nave.
40Levarono le ancore e le lasciarono andare in mare. Al tempo stesso allentarono le corde dei timoni, spiegarono la vela maestra e, spinti dal vento, si mossero verso la spiaggia. 41Ma incapparono in una secca e la nave si incagliò: mentre la prua, arenata, rimaneva immobile, la poppa si sfasciava sotto la violenza delle onde. 42I soldati presero la decisione di uccidere i prigionieri, per evitare che qualcuno fuggisse a nuoto; 43ma il centurione, volendo salvare Paolo, impedì loro di attuare questo proposito. Diede ordine che si gettassero per primi quelli che sapevano nuotare e raggiungessero terra; 44poi gli altri, chi su tavole, chi su altri rottami della nave. E così tutti poterono mettersi in salvo a terra.
Descrizione della scena
La scena della parete di destra rappresenta un episodio rarissimo nell’iconografia e non presente nella liturgia eucaristica. Si tratta del viaggio di San Paolo verso Roma, quando la barca su cui viaggia, dopo 14 giorni di tempesta, naufraga in una isola del Mediterraneo. Durante il viaggio egli riceve un messaggio da un angelo che gli dice di non temere e che dovrà arrivare a Roma per essere giudicato dall’imperatore. L’angelo lo rassicura che Dio vuole conservargli tutti i suoi compagni di navigazione. Paolo quindi invita i suoi compagni di viaggio a non temere e li convince a prendere cibo. In questo brano del libro degli Atti degli Apostoli (At 27) l’autore, Luca evangelista, scrive quindi che Paolo prese un pane, rese grazie, lo spezzò e lo mangiò. Poi tutti mangiarono e nessuno perse la vita: tutti i 276 gentili presenti sulla barca furono salvi. L’autore dell’opera musiva ha qui voluto esprimere come l’Eucaristia celebrata possa diventare Eucaristia vissuta, pensando la Chiesa, qui rappresentata da San Paolo, come lo strumento del quale si serve Dio per la salvezza del mondo, diventando essa stessa Corpo di Cristo per la salvezza dell’umanità.
http://www.rivistazetesis.it/Pace_file/AT.htm
PACE NELL’ANTICO TESTAMENTO
In ebraico i valori fondamentali di šalôm si articolano in tre direzioni specifiche: 1. ‘salvezza, incolumità’ (sia come salvezza dei singoli sia come prosperità di poli e regni); 2. ‘pace’ (sia fra singoli sia fra popoli); 3. ‘pace come sommo bene divino’. Il termine per ‘pace’ ha nel mondo semitico una connotazione materiale quasi completamente assente nelle corrispondenti parole del mondo pagano. Per ripetere le parole di von Rad, « è difficile trovare nell’AT un altro concetto così trito e comune nella lingua quotidiana, e tuttavia non di rado carico di pregnante contenuto religioso e capace di elevarsi al di sopra del piano delle immagini comuni, come šalôm … il significato fondamentale della parola è quello di ‘benessere’, con una chiara preponderanza dell’aspetto materiale » (art. cit., 195-196). La parola indica spesso la salute fisica e materiale o la soddisfazione che ne consegue. Questo suo valore ne favorisce l’uso nelle formule di saluto, di augurio e di benedizione (« Va in pace »). Cfr. p.es. Ps. 122, 6 ss. « Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: « Su di te sia pace! ». Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene ». In alcuni testi šalom passa dal valore di ‘benessere (materiale e spirituale)’ a quello puro e semplice di ‘buon augurio’. Ad es. in I Sam. 16, 4 gli anziani di Betleem chiedono a Samuele le sue intenzioni dicendo: « è šalom la tua venuta? » e Samuele risponde semplicemente « šalôm », che qui indica non tanto uno stato attuale quanto la prefigurazione di un’intenzione. Ancora più interessante Ier. 6, 14 « Essi curano la ferita del mio popolo, ma solo alla leggera, dicendo: « Bene, bene! » ma bene non va » (le parole in corsivo sono la traduzione di ebr. šalom). A partire da questo valore si capisce il senso della formula ‘morire in pace (bešalom)’, che ricorre p.es. in Ier. 34, 5; Gen. 15, 15 e altrove, ed è alla base dell’espressione formulare cristiana requiescat in pace.
All’interno della vasta gamma di valori di šalom sta anche quello di ‘accordo fra due contraenti’, analogo insomma a quello riscontrato nell’equivalente latino, e col termine berît šalôm si indica il trattato che dà inizio alla pace: cfr. p.es. I Re 5, 26 « Fra Chiram e Salomone regnò la pace e i due conclusero un’alleanza ».
È stato notato che questo uso del termine è minoritario e appare soprattutto in testi recenti, perché l’AT « non parla della pace tra gli uomini, ma della Signoria di Dio ». Ma più che accordo fra gli uomini o scopo da raggiungere la pace è intesa nell’AT soprattutto come dono divino.
[Sono stati studiati con molto interesse i rapporti che esistono fra la concezione veterotestamentaria della pace e l’idea della pace che emerge nei testi egiziani o mesopotamici (si veda per esempio il capitolo iniziale di H. Schmid). In questi testi spesso la pace è intesa come "qualcosa di divino a cui è ammesso il mondo" (Schmid, p. 41). Nel testo sumerico in cui si descrive la costruzione di un tempo da parte del re Gudea, è il diretto intervento divino che porta a una condizione di pace, i cui contenuti specifici sono l’assenza di ostilità, il benessere materiale e lo stato di uguaglianza tra tutti i cittadibni, senz<a più distinzioni sociali. Tra i compiti del re vi è anche quello di assicurare pace al popolo. Nel prologo del suo codice Hammurabi scrive "io lo ho sempre governati in pace, sempre li ho protetti nella mia sapienza": ma al dovere di garantire benessere e sicurezza ai propri sudditi si contrappone la necessità di mostrarsi inflessibili coi nemici, ed è questa l’altra faccia dell’antico re orientale, che nelle iscrizioni spesso si presenta come "terrore dei nemici", sui quali non esiterà a scatenare la distruzione e dai quali riscuoterà pesanti tributi.]
Basti citare, fra i molti, I Re 2, 33
Su Davide e sulla sua discendenza, sul suo casato e sul suo trono si riversi per sempre la pace da parte del Signore.
Lo stretto collegamento che si ha nell’AT fra pace, benessere e giustizia appare da luoghi come i seguenti: Is. 32, 17 ss.
Effetto della giustizia sarà la pace, frutto del diritto una perenne sicurezza. Il mio popolo abiterà in una dimora di pace, in abitazioni tranquille, in luoghi sicuri, anche se la selva cadrà e la città sarà sprofondata.
o Is. 9, 5-6
Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre; questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.
o Ps. 72, 1-7
Dio, da al re il tuo giudizio, al figlio del re la tua giustizia; regga con giustizia il tuo popolo e i tuoi poveri con rettitudine. Le montagne portino pace al popolo e le colline giustizia. Ai miseri del suo popolo renderà giustizia, salverà i figli dei poveri e abbatterà l’oppressore. Il suo regno durerà quanto il sole, quanto la luna, per tutti i secoli. Scenderà come pioggia sull’erba, come acqua che irrora la terra. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna.
La giustizia, o addirittura la correzione del prossimo, come condizione necessaria per la pace è ribadita ad es. in Prov. 10, 10
Chi chiude un occhio causa dolore, chi riprende a viso aperto procura pace,
da cui la conclusione radicale che « non vi è pace per i malvagi » come afferma con forza Is. 48, 22, e anche Ps. 28, 3 avvertono: « Non travolgermi con gli empi, con quelli che operano il male. Parlano di pace al loro prossimo, ma hanno la malizia nel cuore ». L’uomo di pace (šalom) è l’esatto contrario dell’empio, e soltanto il primo ha un futuro, perché l’empio è inesorabilmente avviato verso la distruzione (Ps. 37, 37). Anche il collegamento fra pace e verità ha un rilievo importante nell’AT: la formula šalom we-’emet s’incontra p.es. in 2 Re 20, 19; Is. 39, 8; Jer. 33, 6; Est. 9, 30. E poiché in ’emet è compresa l’idea della verità come cosa stabilita in maniera definitiva e stabile, nell’espressione šalom we-’emet può affermarsi l’idea della stabilità anche materiale: con « pace e sicurezza » sono tradotte queste parole ebraiche nella versione italiana corrente.
Ancora, šalom viene ad assumere un’importanza rilevante nel contesto messianico. Il patto tra YHWH e l’uomo viene definito come immutabile patto di pace: Ez. 34, 25 e 37, 26 usa il termine tecnico berît šalom per indicare quest’alleanza fra Dio e l’uomo; Is. 54, 10 (« Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace; dice il Signore che ti usa misericordia ») aggiunge all’espressione qualcosa di ancora più intenso affettivamente con l’uso del possessivo (berît šelômî ‘il patto della mia pace’). Principe della pace è il futuro Messia (Is. 9, 5 nel testo ebr. sar šalom: come scrive von Rad, art. cit., col. 206, « il Messia, in quanto mandato da Dio, è il garante e custode della pace nel futuro regno messianico »), e « disciplina per la nostra pace » la sua passione (Is. 53, 4 môsar šelômnû nel testo ebraico, paideía eêrÔnhj (paideía eirenes) nella versione dei LXX: un’espressione pregnante ed efficace, che purtroppo è andata completamente perduta nella versione italiana della Bibbia approvata dalla CEI: « Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti »).
È stato osservato che nei libri dell’AT la cui redazione originaria è in greco eêrÔnh (eirene) ha un valore più attenuato, e viene a significare solamente ‘assenza di guerra’. Si è pensato anche a un possibile influsso del pensiero ellenistico su questi testi, ma è più naturale pensare che le cose siano andate diversamente, e che si abbia a che fare con una serie incrociata di interferenze che ha agito sui due termini. Da una parte l’utilizzazione di eêrÔnh per tradurre šalom rappresenta in qualche modo un ripiego, in quanto l’opposto di eêrÔnh nel parlante greco di epoca ellenistica è pólemoj (pólemos), mentre l’opposto di šalom è il male in tutte le sue possibili accezioni. Siamo insomma di fronte a un processo di calco semantico che porta ad ampliare considerevolmente la sfera di significati connessa originariamente con eêrÔnh. Ma se la sovrapposizione, peraltro non del tutto completa, fra le due parole ha finito per conferire al termine greco una serie di significati che non gli appartenevano in precedenza e che si svilupperanno pienamente nella successiva letteratura cristiana: d’altronde, non è possibile pensare che ei;rh[nh in ambienti di lingua aramaica (e soprattutto nelle sfere più colte di questi ambienti) sia servita esclusivamente per come riproduzione passiva di šalom senza alcun rapporto con gli usi che la parola aveva in greco: si tratta di vicende del tutto comprensibili in individui e comunità linguistiche bilingui o plurilingui (ad esempio nelle opere di Filone l’uso di ei;rh[nh corrisponde pienamente a quello del greco ellenistico: cfr. Foerster, art. cit., col. 219). Il diretto riflesso di quest’evoluzione si coglie anche negli usi rabbinici di šalom, che spesso viene a significare ‘assenza di discordia (fra individui o fra popoli)’: cfr. Foerster, art. cit., col. 215.
Nei testi giudaico-ellenistici eêrÔnh viene ad assumere un significato che tramezza fra quello di ‘perdono’ e quello di Þgáph (agápe) ‘amore (che Dio ha nei confronti degli uomini)’, come appare dal seguente passo di un apocrifo dell’AT, il cosiddetto Enoch etiopico 1, 7 s.:
Tutto ciò che vi è sulla terra perirà, e vi sarà il giudizio di ogni cosa e (il Signore) porrà la pace sui giusti, e per gli eletti vi sarà il perdono e la pace, e per l ro vi sarà la pietà e tutti saranno di Dio e darà loro la sua benevolenza e tutti benedirà e ricambierà ogni cosa e ci aiuterà e apparirà loro la luce e opererà su di loro pace.
Per quanto fra idea della pace semitica e idea della pace greca si abbia l’impressione di cogliere qualche affinità, in realtà la distanza che le tiene separate è enorme. Per riassumere le conclusioni a cui perviene E. Bellini in un breve, ma penetrante esame dei due termini greco ed ebraico (nello scritto collocato in appendice, pp. 129 e ss., al vol. G. di Nazianzo, Teologia e chiesa, Milano, Jaca Book, 1971), due sono fondamentalmente i caratteri che li rende diversi: mentre per i Greci la pace è uno stato di tranquillità, e il benessere è visto come una sua filiazione, sia pure spontanea e naturale, nell’AT la pace è innanzitutto uno stato di benessere o addirittura di perfezione; ancora, mentre per i Greci la pace rappresenta una conquista dell’uomo, nell’AT la pane è un dono divino. Soprattutto potremmo aggiungere con von Rad (art. cit., col. 206) che « non si saprebbe indicar nessun testo in cui la parola šalom designi lo specifico atteggiamento spirituale della ‘pace interiore’. Anzi si può constatare facilmente che šalom vien riferito molto più spesso a più persone che non al singolo ». E ancora richiamiamo quanto scrive H. Schmid, a proposito dei riflessi che la lettura dell’AT può avere sul dibattito attuale circa la pace: « Oggi si sente dire che quello della pace appare come il problema per eccellenza, o anche il problema teologico del nostro tempo. Invece nella Bibbia il tema della pace non sta al centro delle riflessioni, come lo è per noi … Che peculiare del mondo sia o debba essere, la condizione di pace, e che l’uomo sia chiamato a realizzarla, è detto in tutti i modi, sia pure con differenze nei particolari. La cosa non è specificamente biblica o cristiana, ma risponde a un postulato umano generale, come sarebbe facile mostrare dando uno sguardo ad altre civiltà. … La pace di Dio e la pace e del mondo, dunque, per l’antico Oriente coincidono e sono divise allo stesso tempo. Questa difficile determinazione delle loro rapporto si può considerare come un prodotto degno di attenzione dello spirito dell’antichità. » (pp. 98 ss.).
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 11 ottobre 2006
SIMONE IL CANANEO E GIUDA TADDEO – 28 OTTOBRE
Cari fratelli e sorelle,
oggi prendiamo in considerazione due dei dodici Apostoli: Simone il Cananeo e Giuda Taddeo (da non confondere con Giuda Iscariota). Li consideriamo insieme, non solo perché nelle liste dei Dodici sono sempre riportati l’uno accanto all’altro (cfr Mt 10,4; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13), ma anche perché le notizie che li riguardano non sono molte, a parte il fatto che il Canone neotestamentario conserva una lettera attribuita a Giuda Taddeo.
Simone riceve un epiteto che varia nelle quattro liste: mentre Matteo e Marco lo qualificano “cananeo”, Luca invece lo definisce “zelota”. In realtà, le due qualifiche si equivalgono, poiché significano la stessa cosa: nella lingua ebraica, infatti, il verbo qanà’ significa “essere geloso, appassionato” e può essere detto sia di Dio, in quanto è geloso del popolo da lui scelto (cfr Es 20,5), sia di uomini che ardono di zelo nel servire il Dio unico con piena dedizione, come Elia (cfr 1 Re 19,10). E’ ben possibile, dunque, che questo Simone, se non appartenne propriamente al movimento nazionalista degli Zeloti, fosse almeno caratterizzato da un ardente zelo per l’identità giudaica, quindi per Dio, per il suo popolo e per la Legge divina. Se le cose stanno così, Simone si pone agli antipodi di Matteo, che al contrario, in quanto pubblicano, proveniva da un’attività considerata del tutto impura. Segno evidente che Gesù chiama i suoi discepoli e collaboratori dagli strati sociali e religiosi più diversi, senza alcuna preclusione. A Lui interessano le persone, non le categorie sociali o le etichette! E la cosa bella è che nel gruppo dei suoi seguaci, tutti, benché diversi, coesistevano insieme, superando le immaginabili difficoltà: era Gesù stesso, infatti, il motivo di coesione, nel quale tutti si ritrovavano uniti. Questo costituisce chiaramente una lezione per noi, spesso inclini a sottolineare le differenze e magari le contrapposizioni, dimenticando che in Gesù Cristo ci è data la forza per comporre le nostre conflittualità. Teniamo anche presente che il gruppo dei Dodici è la prefigurazione della Chiesa, nella quale devono avere spazio tutti i carismi, i popoli, le razze, tutte le qualità umane, che trovano la loro composizione e la loro unità nella comunione con Gesù.
Per quanto riguarda poi Giuda Taddeo, egli è così denominato dalla tradizione, unendo insieme due nomi diversi: infatti, mentre Matteo e Marco lo chiamano semplicemente “Taddeo” (Mt 10,3; Mc 3,18), Luca lo chiama “Giuda di Giacomo” (Lc 6,16; At 1,13). Il soprannome Taddeo è di derivazione incerta e viene spiegato o come proveniente dall’aramaico taddà’, che vuol dire “petto” e quindi significherebbe “magnanimo”, oppure come abbreviazione di un nome greco come “Teodòro, Teòdoto”. Di lui si tramandano poche cose. Solo Giovanni segnala una sua richiesta fatta a Gesù durante l’Ultima Cena. Dice Taddeo al Signore: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?»”. E’ una questione di grande attualità, che anche noi poniamo al Signore: perché il Risorto non si è manifestato in tutta la sua gloria ai suoi avversari per mostrare che il vincitore è Dio? Perché si è manifestato solo ai suoi Discepoli? La risposta di Gesù è misteriosa e profonda. Il Signore dice: “Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,22-23). Questo vuol dire che il Risorto dev’essere visto, percepito anche con il cuore, in modo che Dio possa prendere dimora in noi. Il Signore non appare come una cosa. Egli vuole entrare nella nostra vita e perciò la sua manifestazione è una manifestazione che implica e presuppone il cuore aperto. Solo così vediamo il Risorto.
A Giuda Taddeo è stata attribuita la paternità di una delle Lettere del Nuovo Testamento che vengono dette ‘cattoliche’ in quanto indirizzate non ad una determinata Chiesa locale, ma ad una cerchia molto ampia di destinatari. Essa infatti è diretta “agli eletti che vivono nell’amore di Dio Padre e sono stati preservati per Gesù Cristo” (v. 1). Preoccupazione centrale di questo scritto è di mettere in guardia i cristiani da tutti coloro che prendono pretesto dalla grazia di Dio per scusare la propria dissolutezza e per traviare altri fratelli con insegnamenti inaccettabili, introducendo divisioni all’interno della Chiesa “sotto la spinta dei loro sogni” (v. 8), così definisce Giuda queste loro dottrine e idee speciali. Egli li paragona addirittura agli angeli decaduti, e con termini forti dice che “si sono incamminati per la strada di Caino” (v .11). Inoltre li bolla senza reticenze “come nuvole senza pioggia portate via dai venti o alberi di fine stagione senza frutti, due volte morti, sradicati; come onde selvagge del mare, che schiumano le loro brutture; come astri erranti, ai quali è riservata la caligine della tenebra in eterno” (vv. 12-13).
Oggi noi non siamo forse più abituati a usare un linguaggio così polemico, che tuttavia ci dice una cosa importante. In mezzo a tutte le tentazioni che ci sono, con tutte le correnti della vita moderna, dobbiamo conservare l’identità della nostra fede. Certo, la via dell’indulgenza e del dialogo, che il Concilio Vaticano II ha felicemente intrapreso, va sicuramente proseguita con ferma costanza. Ma questa via del dialogo, così necessaria, non deve far dimenticare il dovere di ripensare e di evidenziare sempre con altrettanta forza le linee maestre e irrinunciabili della nostra identità cristiana. D’altra parte, occorre avere ben presente che questa nostra identità richiede forza, chiarezza e coraggio davanti alle contraddizioni del mondo in cui viviamo. Perciò il testo epistolare continua così: “Ma voi, carissimi – parla a tutti noi -, costruite il vostro edificio spirituale sopra la vostra santissima fede, pregate mediante lo Spirito Santo, conservatevi nell’amore di Dio, attendendo la misericordia del Signore nostro Gesù Cristo per la vita eterna; convincete quelli che sono vacillanti…” (vv. 20-22). La Lettera si conclude con queste bellissime parole: “A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire davanti alla sua gloria senza difetti e nella letizia, all’unico Dio, nostro salvatore, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore: gloria, maestà, forza e potenza prima di ogni tempo, ora e sempre. Amen” (vv. 24-25).
Si vede bene che l’autore di queste righe vive in pienezza la propria fede, alla quale appartengono realtà grandi come l’integrità morale e la gioia, la fiducia e infine la lode, essendo il tutto motivato soltanto dalla bontà del nostro unico Dio e dalla misericordia del nostro Signore Gesù Cristo. Perciò, tanto Simone il Cananeo quanto Giuda Taddeo ci aiutino a riscoprire sempre di nuovo e a vivere instancabilmente la bellezza della fede cristiana, sapendone dare testimonianza forte e insieme serena.
http://www.istitutogp2.it/public/Chiesa%20corpo%20sposa.pdf
CHIESA COME CORPO E CHIESA COME SPOSA NELLE LETTERE DI PAOLO AI CORINZI (Pdf)
Il tema della Chiesa corpo di Cristo secondo l’apostolo Paolo è stato abbondantemente studiato. Assai meno copiosa è la letteratura, sia esegetica che teologica, sulla Chiesa come sposa di Cristo secondo il medesimo apostolo. La simbolica1 del corpo e la simbolica della sposa non sono quasi mai, a mia conoscenza, state poste in relazione. Il mio proposito nella presente comunicazione è precisamente di indagare i rapporti che intercorrono, se davvero intercorrono, nel linguaggio di
Paolo tra le simboliche corporale e sponsale applicate alla realtà della Chiesa. La tesi che sto per esporre poggia essenzialmente sull’esegesi di un passo della prima lettera ai Corinzi: 1 Cor 6,12-20. Il passo è obiettivamente difficile, e la sua esegesi controversa, come spesso accade con le parole di Paolo, che tra tutti i carismi non possedeva quello della chiarezza. La mia esegesi non è che un tentativo, che mi auguro non appaia del tutto privo di fondamento.
Un’osservazione preliminare. Il fatto che i cristiani siano membra (e quindi collettivamente corpo) di Cristo è nella prima lettera ai Corinzi introdotto nel seguente modo:
Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? (1 Cor 6,15)
La frase è un’interrogativa retorica di senso positivo: non sapete? = certamente sapete. L’apostolo fa dunque appello a qualcosa che i Corinzi conoscono già. L’idea della comunità come corpo di Cristo non era per loro una cosa nuova: Paolo ne aveva evidentemente parlato nel corso del suo primo soggiorno a Corinto, o eventualmente in qualche lettera successiva che non ci è stata conservata. Il tema era dunque per lui abbastanza importante perchè lo includesse nel suo insegnamento come fondatore di comunità. Non è un tema secondario od occasionale.
Altre due volte nella prima lettera ai Corinzi i cristiani sono detti costituire un corpo. La prima volta nel contesto di un’esortazione a fuggire l’idolatria: Paolo dichiara che i cristiani, poiché mangiano di un solo pane, sono un solo corpo pur essendo molti (cfr. 1 Cor 10,17). La seconda volta il contesto è quello dei vari carismi esistenti nella comunità di Corinto. Qui l’apostolo parla del corpo in quanto costituito da una molteplicità di membra tra di loro interdipendenti; analogamente la comunità è costituita da una molteplicità di persone che non svolgono tutte la medesima funzione, ma hanno tutte bisogno le une delle altre (cfr. 1 Cor 12,12-30). Nel primo caso l’accento cade sul fatto che le molte membra formano un’unità, nel secondo piuttosto sul fatto che la differenza di funzione delle parti non lede in alcun modo l’unità del tutto. Ciò che del fenomeno empirico noto come “corpo umano” è simbolicamente utilizzato è la relazione tra le membra che lo compongono.
tutte bisogno le une delle altre (cfr. 1 Cor 12,12-30). Nel primo caso l’accento cade sul fatto che le molte membra formano un’unità, nel secondo piuttosto sul fatto che la differenza di funzione delle parti non lede in alcun modo l’unità del tutto. Ciò che del fenomeno empirico noto come “corpo umano” è simbolicamente utilizzato è la relazione tra le membra che lo compongono.2 Di una sposa di Cristo l’apostolo Paolo parla non nella prima, ma nella seconda lettera ai Corinzi. Riporto il versetto come appare nella nuova Bibbia CEI: Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina: vi ho promessi infatti a un unico sposo, per presentarvi a Cristo come vergine casta. (2 Cor 11,2) Dal contesto si evince che Paolo è preoccupato che la comunità di Corinto presti orecchio a persone che predicano un Gesù diverso da quello che ha predicato lui. Di queste persone non fa il nome, tacciandoli di “falsi apostoli, lavoratori fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo” (2 Cor 12,13). L’accettazione di un vangelo diverso dal suo è da lui rappresentata come un atto di violazione della fedeltà coniugale da parte di una figlia che il padre ha concesso in matrimonio ad un determinato uomo. L’obbligo di fedeltà non scattava infatti per le ragazze dal giorno delle nozze, ma dal giorno in cui erano date in matrimonio. Compito e responsabilità del padre era di consegnare la figlia al marito in stato di verginità.3 L’apostolo parla qui come un padre,4 geloso custode della castità della figlia e attivamente impegnato a tenere lontano da lei ogni altro pretendente. Il matrimonio è qui utilizzato come paradigma di appartenenza esclusiva. In tale funzione era già stato utilizzato dai profeti Osea, Geremia ed Ezechiele. Nel diritto dell’antico Israele, e non solo di Israele, il matrimonio comportava infatti l’obbligo per la moglie di riservare in esclusiva al marito l’uso del proprio corpo.5 Precisamente per questa sua caratteristica esso si prestava eccellentemente a rappresentare la relazione tra il Signore e il suo popolo, che secondo questi profeti comportava anch’essa l’obbligo di appartenenza esclusiva da parte del popolo, tale da permettere loro di bollare come adulterio il culto prestato ad altre divinità. Per l’apostolo Paolo pure la Chiesa è tenuta ad un’appartenenza assolutamente esclusiva a colui che ha verso di lei gli stessi diritti che il Signore ha nei confronti di Israele. E’ vero che i profeti rappresentano Israele come una moglie convivente con il marito, mentre l’apostolo rappresenta la Chiesa come una già sposata ma non ancora convivente: simbolicamente ciò non ha tuttavia importanza, dato che, come abbiamo detto, la donna era tenuta alla fedeltà da quando era stata concessa in matrimonio, senza attendere il momento del suo ingresso nella casa del marito. La simbolica sponsale, come è qui impiegata da Paolo, è infatti una simbolica essenzialmente giuridica, non certo sentimentale-affettiva. Da un altro punto di vista la differenza è invece importante, in quanto introduce l’elemento dell’attesa dell’evento dell’unione con Cristo, bollare come adulterio il culto prestato ad altre divinità. Per l’apostolo Paolo pure la Chiesa è tenuta ad un’appartenenza assolutamente esclusiva a colui che ha verso di lei gli stessi diritti che il Signore ha nei confronti di Israele. E’ vero che i profeti rappresentano Israele come una moglie convivente con il marito, mentre l’apostolo rappresenta la Chiesa come una già sposata ma non ancora convivente: simbolicamente ciò non ha tuttavia importanza, dato che, come abbiamo detto, la donna era tenuta alla fedeltà da quando era stata concessa in matrimonio, senza attendere il momento del suo ingresso nella casa del marito. La simbolica sponsale, come è qui impiegata da Paolo, è infatti una simbolica essenzialmente giuridica, non certo sentimentale-affettiva. Da un altro punto di vista la differenza è invece importante, in quanto introduce l’elemento dell’attesa dell’evento dell’unione con Cristo,6 rappresentata, come nel vangelo di Matteo, 7 come unione dello sposo con la sua sposa. L’intervallo di tempo che separa la stipulazione giuridica (gli sponsali) dall’inizio della convivenza (le nozze) si presta eccellentemente a rappresentare il tempo della Chiesa, già sposata ma non ancora dimorante in casa del suo Signore.
Alla luce di queste premesse passiamo ad esaminare 1 Cor 6,12-20. Il suo contenuto tematico di fondo è sinteticamente espresso dal comando con cui si apre il v. 18:
Fuggite la fornicazione. (1 Cor 6,18)
La nuova Bibbia CEI traduce: “state lontani dall’impurità”. Io preferisco usare il termine italiano “fornicazione”, semanticamente più vicino al greco porneía. La maggior parte dei commentatori ritiene che qui l’apostolo si riferisca alla frequentazione di prostitute.8 Vorrei però ricordare che nel capitolo precedente della stessa lettera Paolo aveva preso posizione in merito ad un caso che si era verificato nella comunità di Corinto, di uno che, presumibilmente dopo la morte del padre, aveva preso in moglie la sua matrigna;9 unione che l’apostolo aveva designato proprio con il termine
porneía (cfr. 1 Cor 5,1), decretando che questo tale10 fosse espulso dalla comunità, della quale non hanno diritto di fare parte i pórnoi, ovvero coloro che intrattengono una relazione matrimoniale contraria alla volontà di Dio. L’uso di questa terminologia ha intento manifestamente cacofemistico: il matrimonio è una realtà santa,11 l’unione con una donna che Dio ha proibito di sposare non è cosa diversa dall’unione con una prostituta, e merita di essere chiamata fornicazione.12 Di per sé è perfettamente plausibile che Paolo, dopo essere intervenuto sul caso dell’uomo che viveva con la matrigna, passi ad occuparsi di un altro abuso che si commetteva nella comunità di Corinto, vale a ire la frequentazione di prostitute, che in quella città sicuramente non mancavano. Io ritengo tuttavia più probabile che egli torni sull’argomento precedentemente trattato, quello dell’unione illegittima, per spiegare più compiutamente le ragioni biblico-teologiche della decisione disciplinare da lui imposta alla comunità. 13 In ogni caso, che la porneía di 1 Cor 6 indichi la medesima o una diversa azione che quella di 1 Cor 5, ciò che più conta è l’argomentazione che Paolo impiega per dissuadere i suoi fedeli dal
commetterla. Soffermiamoci su un’affermazione, di importanza capitale: I cibi sono per lo stomaco e lo stomaco per i cibi … Il corpo non è per la fornicazione, ma per il Signore, e il Signore per il corpo. (1 Cor 6,13)
La nuova Bibbia CEI pone delle virgolette prima e dopo la frase sullo stomaco e i cibi, per fare intendere che si tratta di una citazione.intendere che si tratta di una citazione.14 Paolo riporterebbe qui una frase che veniva spesso ripetuta
a Corinto, a sostegno del principio che è lecito mangiare ogni genere di cibo, senza distinzioni. Paolo la citerebbe per ribattere che il corpo al contrario non è per ogni genere di rapporto sessuale, ma per il Signore. Ma che cosa vorrebbe precisamente dire “il Signore è per il corpo”? Secondo J. Murphy-O’Connor,15 questa frase ha “a purely formal function”, quella di fare da pendant alla precedente “il corpo è per il Signore”. La frase in sè stessa sarebbe dunque priva di senso, e non servirebbe ad altro che a bilanciare il parallelismo cibi-stomaco // corpo-Signore. Mi è difficile accettare l’idea che Paolo dica parole senza senso, unicamente per tenere in piedi una costruzione stilistica. Secondo me, Paolo vuole dire che il corpo e il Signore sono destinati l’uno all’altro come lo sono nel loro ordine i cibi e lo stomaco. I cibi sono fatti per essere mangiati, non per altro; lo stomaco è fatto per digerire i cibi, non per altro. La reciproca destinazione di due realtà periture
serve a illustrare analogicamente la reciproca destinazione di due realtà imperiture, una già risorta (il Signore) e l’altra (il corpo) in attesa di risorgere. Il problema è capire quale corpo. Se Paolo ha in mente soltanto il corpo del singolo individuo,
risulta effettivamente difficile trovare un senso all’affermazione “il Signore è per il corpo”. Paolo potrebbe però avere in mente anche un altro corpo, non individuale ma comunitario, quello di cui parla più avanti, nel versetto sopra citato: “non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?” (1 Cor 6,16). Chi dice membra dice corpo: “membra di Cristo” non è altro che una brachilogia per “membra del corpo di Cristo”. E’ a questo corpo che il Signore è destinato per volontà di Dio a
congiungersi. Non è individualmente che il corpo di un singolo cristiano appartiene al Signore, ma in quanto membro di un corpo più grande. Il senso in cui questo più grande corpo, che è la Chiesa, è “di Cristo” è bene spiegato da C.K. Barrett: “not the body which is Christ, of which Christ consists, but the body that belongs to Christ and over which he rules”.16
In che modo appartiene un corpo? Al tempo di Paolo i modi di appartenenza erano due. Uno è l’acquisto, l’altro la consacrazione sponsale. Il primo è evocato più avanti, alla fine della pericope: “voi non appartenete a voi stessi, infatti siete stati comprati a prezzo” (1 Cor 6,19-20). Comprati va senz’altro inteso nel senso di ricomprati, cioè riscattati. L’altro modo è la relazione matrimoniale, che l’apostolo concepiva come reciproco possesso: “la moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo il marito non è padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie” (1 Cor 7,4). Ha ragione perciò G. Baldanza, quando scrive: “non è da escludere che Paolo già veda la relazione reciproca tra corpo e Signore e Signore e corpo sotto l’angolazione di un’appartenenza sponsale”.-20). Comprati va senz’altro inteso nel senso di ricomprati, cioè riscattati. L’altro modo è la relazione matrimoniale, che l’apostolo concepiva come reciproco possesso: “la moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo il marito non è padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie” (1 Cor 7,4). Ha ragione perciò G. Baldanza, quando scrive: “non è da escludere che Paolo già veda la
relazione reciproca tra corpo e Signore e Signore e corpo sotto l’angolazione di un’appartenenza sponsale”.17 Non solo non è da escludere, ma è, secondo me, probabile. I cristiani formano tutti insieme un corpo unico, riservato in esclusiva a Cristo come il corpo della moglie è riservato in esclusiva al marito. Consideriamo in questa prospettiva l’ipotesi che Paolo formula e respinge con orrore: Dovrei forse prendere le membra di Cristo e farne membra di una prostituta? Non sia mai! (1 Cor 6,15)
Abbiamo qui la contrapposizione di due appartenenze, a Cristo e alla prostituta (= qualsiasi donna che non sia la moglie legittima), che secondo l’apostolo si escludono reciprocamente. O uno è unito a Cristo o è unito alla prostituta, tertium non datur. Perché mai? Perchè, spiega Paolo, chi si unisce alla prostituta diventa un solo corpo con lei, mentre chi si unisce con Cristo diventa un solo spirito con lui. Pessima argomentazione, verrebbe da rispondere: se una unione avviene a livello del corpo e l’altra a livello dello spirito, se ne evince che le due possono benissimo coesistere. Se Paolo non trae questa conclusione, vuol dire che per lui corpo e spirito non sono due realtà incomunicanti. Lo spirito di cui egli parla in 1 Cor 6,17 è lo spirito che rende vitale il corpo;18 unione corporale e unione spirituale si toccano, per così dire. Se uno è membro di un corpo che nella sua totalità è consacrato a Cristo, non può unirsi ad un corpo che è al di fuori di questo.19 Se lo fa, il suo corpo personale cessa ipso facto di essere membro del corpo di Cristo. Queste considerazioni mi conducono a suggerire, sia pure con molta esitazione, una nuova (almeno parzialmente) spiegazione di un altro versetto difficile di questa pericope: parzialmente) spiegazione di un altro versetto difficile di questa pericope: Qualsiasi peccato commetta un uomo è fuori dal corpo, colui che commette la fornicazione pecca contro il proprio corpo. (1 Cor 6,18) Gli esegeti hanno sempre trovato difficoltà a spiegare la prima frase: come si può dire che tutti i peccati ad eccezione della fornicazione sono fuori dal corpo? Il peccato di ubriachezza ad esempio, che Paolo menziona espressamente in questa stessa lettera (cfr. 1 Cor 5,11 e 6,10), non si commette anch’esso nel corpo? Una soluzione che è stata proposta è di pensare che l’apostolo non intenda l’eccezione in senso rigoroso:20 egli intenderebbe solo dire che la fornicazione coinvolge il corpo in misura incomparabilmente superiore a tutti gli altri peccati. Diversa la soluzione escogitata da J. Murphy O’Connor, il quale spiega21 la frase in questione come uno slogan dei Corinzi, che si situerebbe nella stessa linea di pensiero di quello sui cibi e lo stomaco: nessun peccato può essere commesso nel corpo. I cristiani di Corinto, o un gruppo di loro, sosterrebbe che le azioni commesse con il corpo, come il mangiare, bere e fare sesso con prostitute, sono moralmente indifferenti. A
loro Paolo ribatterebbe che colui che commette la fornicazione pecca contro il suo corpo. 22 Sulla spiegazione di Murphy-O’Connor emetterò la stessa riserva metodologica di principio del mio collega J.-B. Édart: “le recors à un élément extérieur au texte pour en expliquer une difficulté est toujours très délicat. En effet, construire une preuve conduit généralement à faire en sorte qu’elle soit cohérente avec l’hypothèse soutenue. Déduire de cette cohérence la validité de la solution est alors une tentation où l’on ne peut manquer de tomber”.23 Il rischio di circolarità argomentativa è in effetti forte. Che cosa sappiamo di ciò che pensavano e dicevano i cristiani di Corinto? Io personalmente sono convinto che l’esegesi della prima lettera ai Corinzi abbia sofferto della tendenza a ricostruire più o meno inventivamente le opinioni teologiche dei Corinzi per usarle come chiave interpretativa per comprendere le affermazioni di Paolo. Condivido ad esempio tutti i dubbi di M.D. Goulder sull’esistenza di libertini nella comunità di Corinto. 24 R. Kempthorne ha proposto di intendere il “proprio corpo” di 1 Cor 6,18 come un doppio senso: “he is committing a sin both against the Body of which he is a member, and against his own self by removing himself from the Body”.25 Kempthorne ammette che è difficile dare senso corporativo al “proprio corpo”, che in 1 Cor 7,4 designa inequivocabilmente il corpo individuale, ma fa notare che
nella lettera di papa Clemente ai Corinzi, scritta negli ultimi anni del primo secolo d.C., si incontra l’espressione “il proprio corpo” proprio con senso corporativo. Questo argomento ha molta forza ai miei occhi. La frase di papa Clemente infatti suona: Perché strappiamo e laceriamo le membra di Cristo e ci rivoltiamo contro il proprio corpo, giungendo a tanta
pazzia da dimenticare che siamo membra gli uni degli altri? (1 Clemente 46,7) Qui è evidente che il “proprio corpo” non è il corpo individuale di ogni cristiano, ma il corpo collettivo. Il fatto che nella stessa frase troviamo “le membra di Cristo” e “il proprio corpo” non può essere una coincidenza: Clemente ha in mente la prima lettera dell’apostolo Paolo ai Corinzi, e
precisamente la pericope 6,12-20. Abbiamo dunque una testimonianza del fatto che in epoca molto antica, circa cinquanta anni dopo la lettera dell’apostolo, “il proprio corpo” di 1 Cor 6,18 era compreso in senso ecclesiale-comunitario. Come dovremmo intendere allora la frase precedente sui peccati commessi fuori dal corpo? Ma siamo sicuri che sia detto proprio questo? Rileggiamo 1 Cor 6,18: abbiamo una frase relativa-indefinita (“qualsiasi peccato commetta un uomo”) e una frase reggente (“è fuori del corpo”). Qual è il soggetto di quest’ultima? Non è detto che sia “il peccato”; grammaticalmente potrebbe essere “un uomo”. La frase “un uomo è fuori dal corpo” appare però priva di senso in questo contesto.26
Ma se “corpo” avesse senso ecclesiale-comunitario? Il predicato “è” potrebbe avere il senso di “viene ad essere”, designando lo stato conseguente all’azione, come ai vv. 6 e 17. Chi commette un peccato si trova in stato di separazione dal corpo di Cristo. Naturalmente dovremmo pensare ad un peccato come quelli che Paolo elenca in 1 Cor 5,11 e 6,9-10, a poca distanza dunque dal brano che stiamo esaminando; peccati che situano coloro che li commettono fuori dalla comunità cristiana, e impediscono loro di ereditare il regno di Dio. Rileviamo che in ambedue questi elenchi compare la fornicazione, dalla quale infatti l’apostolo vuole che i Corinzi si tengano lontani. Paolo quindi non intenderebbe opporre tutti gli altri peccati alla fornicazione,27 ma piuttosto includere quest’ultima in una serie più vasta, quasi a difendersi dall’accusa di fare della fornicazione l’unico peccato capitale. Il fornicatore pecca nei confronti del proprio corpo, o meglio contro il proprio corpo. Se tale corpo fosse il corpo del fornicatore stesso, si tratterebbe in un peccato di autolesionismo;fosse il corpo del fornicatore stesso, si tratterebbe in un peccato di autolesionismo;28 se fosse invece il corpo di Cristo, in che modo il fornicatore peccherebbe contro di lui? La risposta a tale domanda mi sembra trovarsi nel v. 15, dove è detto che non deve assolutamente accadere che una delle membra di Cristo diventi membro di una prostituta. Tutti i peccati gravi hanno come effetto di situare chi li commette fuori dal corpo santo di Cristo, ma la fornicazione ne costituirebbe un’offesa più diretta.
Soffermiamoci infine sulla frase finale della pericope:
Glorificate Dio nel vostro corpo. (1 Cor 6,20)
Rileviamo innanzittutto che “glorificate” in greco è un imperativo aoristo, non un imperativo presente come il “fuggite” del v. 18. Non designa quindi propriamente un’azione continuata nel tempo, ma un’azione puntuale. Si tratta di un’iniziativa che i Corinzi devono prendere, non di un comportamento che devono continuare a tenere. Kempthorne29 ha ragione di porre in relazione questa frase con quella che conclude il capitolo precedente: “togliete30 il malvagio di mezzo a voi” (1 Cor 5,3).
“Nel vostro corpo” può intendersi come complemento di luogo o di mezzo. Se di luogo, è evidente il riferimento al versetto precedente, dove è detto che il corpo dei Corinzi è tempio dello Spirito Santo.31 Quale corpo è luogo della glorificazione di Dio? Il corpo personale di ogni singolo cristiano, o il corpo formato da tutti i membri della comunità? Penso si possa rispondere: tutti e due. La Chiesa è infatti un corpo di corpi. Abbiamo qui un’ecclesiologia corporale e sponsale allo stesso
tempo. Se in 1 Cor 10 e 12 la simbolica del corpo è utile all’apostolo per la sua capacità di illustrare efficacemente il legame vitale e l’interdipendenza delle membra, in 1 Cor 6 mi sembra sia impiegata in un’altra chiave. Qui la Chiesa è detta corpo perchè il corpo serve ad appartenere, come soprattutto la relazione coniugale mette in evidenza. La simbolica sponsale da parte sua evoca in primo luogo l’esclusività dell’appartenenza. In 1 Cor 7,2 Paolo raccomanda che “ognuno abbia sua moglie e ognuna suo marito”; non più di una moglie, e non più di un marito: uno e una. Il marito mette a disposizione della moglie il suo corpo, la moglie mette il suo a disposizione del marito: il corpo non è una proprietà privata, di cui uno fa quello che
vuole. Il corpo è strumento di appartenenza, ed è per questa ragione che è mezzo di santificazione. Santità non è infatti ultimamente altro che consacrazione, appartenenza esclusiva. La Chiesa è santa nella misura in cui si riserva in esclusività al suo unico marito, il Cristo, al quale è già sposata e del quale attende la venuta per unirsi a lui compiutamente. 7,2 Paolo raccomanda che “ognuno abbia sua moglie e ognuna suo marito”; non più di una moglie, e non più di un marito: uno e una. Il marito mette a disposizione della moglie il suo corpo, la moglie mette il suo a disposizione del marito: il corpo non è una proprietà privata, di cui uno fa quello che vuole. Il corpo è strumento di appartenenza, ed è per questa ragione che è mezzo di santificazione. Santità non è infatti ultimamente altro che consacrazione, appartenenza esclusiva. La Chiesa è santa
nella misura in cui si riserva in esclusività al suo unico marito, il Cristo, al quale è già sposata e del quale attende la venuta per unirsi a lui compiutamente. In quanto corpo e sposa di Cristo, la Chiesa è chiamata a mantenersi santa, e ciò non può farsi che attraverso la santità dei corpi che la costituiscono. La santità del corpo totale non può non essere pure santità dei singoli corpi che lo compongono. Il motivo ultimo per cui l’unione coniugale di due cristiani deve essere santa (= conforme alla volontà di Dio) è la santità dell’unione che lega Cristo alla Chiesa. Gesù aveva citato Gen 2,24 per insegnare che nessuno ha l’autorità di separare ciò che Dio ha unito; Paolo cita lo stesso passo per insegnare che un uomo non può unirsi con qualsiasi donna gli piaccia.32 Il matrimonio non è un affare privato di due persone, che vivono una storia affettiva più o meno riuscita. Nella visione di Paolo, e più ampiamente della Chiesa apostolica, il matrimonio è invece un affare quanto mai pubblico, o meglio ecclesiale. L’unione coniugale è luogo in cui si manifesta la santità della Chiesa, che è sposa tanto quanto è corpo. 33 Un’ultima osservazione. Per trovare un fondamento biblico alla sacramentalità del matrimonio, i teologi si rivolgono generalmente alla lettera agli Efesini, in particolare a Ef 5,31-32. Io ritengo che anche 1 Cor 6,12-20, se l’interpretazione qui proposta vale qualcosa, possa fornire una buona base biblica per sviluppare la teologia del matrimonio come sacramento.
NOTE
1 Uso il termine nel senso di “insieme di simboli”. 2 La stessa cosa si riscontra in Rm 12,3-8.
3 Si vedano le disposizioni in questa materia della legge deuteronomica (cfr. Dt 22,13-21). 4 Non come un pronubo, come non pochi invece opinano. Sulla paternità di Paolo, vorrei segnalare la tesi dottorale di C. Pellegrino: Paolo, servo di Cristo e padre dei Corinzi. Analisi retorico-letteraria di 1Cor 4, Roma 2006 (Tesi Gregoriana. Serie Teologica 139).
5 Si veda in proposito il fondamentale studio di A. Tosato: Il matrimonio israelitico. Una teoria generale, Roma 1982 (Analecta biblica 100).
6 Segnalo l’articolo di R. Infante: «Immagine nuziale e tensione escatologica nel Nuovo Testamento. Note a 2 Cor 11,2 e Eph 5,25-27», Rivista biblica 33 (1985), 46-61.
7 Nella parabola delle nozze del figlio del re (Mt 22,2-14) e delle vergini sagge e stolte (Mt 25,1-13). Mi permetto di segnalare il mio articolo: «El simbolismo nupcial en los evangelios», Reseña bíblica 57 (2008), 51-64.
8 C’è chi pensa alle prostitute che offrivano i loro servizi nei templi, come B. Rosner: cfr. «Temple Prostitution in 1 Corinthians 6:12-20», Novum Testamentum 40 (1988), 336-351; altri invece alle prostitute che si mettevano a disposizione degli invitati ai banchetti, come B. Winter: cfr. After Paul Left Corinth, Grand Rapids 2001, 86-88.
9 Oppure viveva con lei more uxorio. Dal fatto che Paolo parla solo di lui, alcuni deducono che lei non faceva parte della comunità.
10 Il cui nome è significativamente passato sotto silenzio, come di uomo non degno di essere nominato.
11 In lingua ebraica il matrimonio è denominato qiddušîn, santificazione o consacrazione.
12 Questo uso linguistico non è di conio paolino. Il matrimonio proibito è denominato zenût (l’equivalente ebraico di porneía) in un’ampia area letteraria (ad esempio nel Documento di Damasco, che si ricollega alla setta di Qumran). La porneía da cui gli apostoli decretarono che dovevano astenersi i pagani che si convertivano (cfr. At 15,20.29; 21,25)
non era verisimilmente la frequentazione di prostitute, ma il matrimonio proibito.
13 Un argomento a mio parere valido a favore di questa ipotesi è la citazione di Gen 2,24 al v. 16. Sappiamo che Gesù ha citato Gen 2,24 a sostegno della dottrina dell’indissolubilità dell’unione coniugale (cfr. Mc 10,8-9 e Mt 19,5-6); tutta la tradizione giudica comprendeva del resto quel versetto come attestante l’istituzione del matrimonio. Il divenire una
sola carne si comprende meglio come designazione di una convivenza stabile, come quella di un marito e di una moglie, piuttosto che di una congiunzione carnale occasionale, come quella che si ha con una prostituta. In questa prospettiva appare più naturale che la pórne
del v. 16 sia la moglie illegittima (come la propria matrigna), anzichè una qualsiasi prostituta.
4 Questa è peraltro l’opinione della maggioranza dei commentatori. Io preferisco l’interpretazione di R. Kirchoff (cfr. Die Sünde gegen den eigenen Leib. Studien zu pórne
und porneía in 1 Kor 6,12-20 und dem sozio-kulturellem Kontext der paulinischen Adressaten, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottinga 1994, 109).
15 Cfr. «Corinthians Slogans in 1 Cor 6:12-20», Catholic Biblical Quarterly 40 (1978), 395.
16 Commentary on the First Letter to the Corinthians, Londra 1968, 292.
17 «L’uso della metafora sponsale in 1 Cor 6,12-20. Riflessi sull’ecclesiologia», Rivista biblica 46 (1998), 323.
18 Così come in Cor 5,5, dove salvezza dello spirito (= risurrezione) si contrappone a rovina della carne (= morte).
19 Sappiamo che in 1 Cor 7,14 Paolo dichiara che il coniuge non credente è reso santo dal coniuge credente. Non è quindi la mancanza di fede il fatto che rende peccaminosa l’unione coniugale, ma la non conformità all’ordine oggettivo stabilito da Dio. Io sono convinto, in forza della coerenza del pensiero paolino, che la condizione posta alla vedova di risposarsi “solo nel Signore” (1 Cor 7,39) non deve essere compresa come obbligo di sposare un altro membro della 17 «L’uso della metafora sponsale in 1 Cor 6,12-20. Riflessi sull’ecclesiologia», Rivista biblica 46 (1998), 323.
18 Così come in Cor 5,5, dove salvezza dello spirito (= risurrezione) si contrappone a rovina della carne (= morte).
19 Sappiamo che in 1 Cor 7,14 Paolo dichiara che il coniuge non credente è reso santo dal coniuge credente. Non è quindi la mancanza di fede il fatto che rende peccaminosa l’unione coniugale, ma la non conformità all’ordine oggettivo stabilito da Dio. Io sono convinto, in forza della coerenza del pensiero paolino, che la condizione posta alla vedova di risposarsi “solo nel Signore” (1 Cor 7,39) non deve essere compresa come obbligo di sposare un altro membro della comunità cristiana, ma di rispettare la volontà di Dio sul matrimonio, cioè i limiti da Dio posti alla libertà di scegliere il marito o la moglie.
20 Cfr. E.-B. Allo, Première épître aux Corinthiens, Parigi 1934 (Etudes bibliques), 148.
21 Nell’articolo precedentemente citato. J.E. Smith ha indagato le radici culturali di questo supposto slogan corinzio: «The Roots of a Libertine Slogan in 1 Corinthians 6:18», Journal of Theological Studies 59 (2008), 63-95.
22 Affermazione che non sarebbe altro che un “rhetorical flourish” secondo J. Murphy-O’Connor: «The Fornicator Sins Against His Own Body (1 Cor 6:18c)», Revue biblique 115 (2008), 101.
23 «Pécher contre son corps ou communio et corporéité», L’esperienza sorgiva. Studi offerti al prof. Stanislaw Grygiel, Città del Vaticano 2007, 188 nota.
24 Cfr. «Libertines? (1 Cor 5-6)», Novum Testamentum 41 (1999), 334-338.
25 «Incest and the Body of Christ: a Study of 1 Corinthians VI. 12-20», New Testament Studies14 (1968), 572.
26 Diversamente in 2 Cor 12,2, dove Paolo dice di non sapere se quando fu rapito fino al terzo cielo era nel corpo o fuori dal corpo.
27 La particella dè davanti al participio porneúon non ha necessariamente significato avversativo.
28 Questa è la tesi di B.N. Fisk, che si appoggia su vari paralleli tratti dall’Antico Testamento: cfr. «Porneúein as Body Violation. The Unique Nature of Sexual Sin in 1 Corinthians 6:18», New Testament Studies 42 (1996), 540-558. Per una diversa interpretazione, vedi il già citato contributo di J.-B. Édart.
29 Art. cit., 573.
30 Anche questo imperativo aoristo.
31 La metafora del tempio, già usata dall’apostolo in 1 Cor 3,16-17, avvalora l’ipotesi che il corpo del v. 18 e del v. 20 abbia senso comunitario, e non solo individuale.
32 L’autore della lettera agli Efesini lo citerà per insegnare che il marito deve amare la moglie come la sua stessa carne. Sono convinto che in questa sua visione egli abbia preso ispirazione dal Paolo di 1 Cor 6.
33 La trattazione della Chiesa come corpo di Cristo ignora generalmente l’aspetto sponsale. Una eccezione è la tesi dottorale di E. Best, One Body in Christ: A Study in the Relationship of the Church to Christ in the Epistles of the Apostle Paul, Londra 1955, che contiene un capitolo sulla Chiesa sposa.