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«LAVORANDO CON LE NOSTRE MANI» (1COR 4,12). – IL LAVORO NEL PENSIERO DI SAN PAOLO

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SETTIMANA BIBLICA DIOCESANA

12 marzo 2014

«LAVORANDO CON LE NOSTRE MANI» (1COR 4,12). – IL LAVORO NEL PENSIERO DI SAN PAOLO

DI ROSALBA MANES, DOCENTE DI ESEGESI PRESSO L’ISTITUTO TEOLOGICO SAN PIETRO DI VITERBO
E PRESSO LA FACOLTÀ DI MISSIOLOGIA DELLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA

Introduzione
Attraverso questo intervento, ci è dato di entrare in un’area particolare della “terra sacra” della Scrittura che è l’epistolario paolino da dove attingeremo elementi per una riflessione sulla dimensione del lavoro nell’esperienza dell’Apostolo. Nel corpo paolino c’è teologia perché Paolo ci fa conoscere chi è Dio, ma c’è anche antropologia perché Paolo ci fa conoscere chi è l’uomo. Presentando Cristo, potenza e sapienza di Dio, come colui che giustifica il peccatore rendendolo capace di giustizia, Paolo vuole rivelare l’uomo all’uomo. Nelle parole dell’apostolo delle genti, dove pulsa la parola di Dio viva ed energica (cf. Eb 4,12), scopriremo ancora una volta una verità profonda: non siamo fatti per essere isole, ma siamo un popolo, siamo un corpo. La storia di ognuno è strettamente intrecciata alla storia degli altri e nessuno di noi vive per se stesso (cf Rm 14,7). Tutta la rivelazione biblica infatti si incentra sulla relazione. Entrare nell’epistolario paolino è come gettare lo sguardo nell’interiorità di Paolo. Egli, prima di essere un teologo, è un uomo pieno di vitalità e di sentimenti, 2 teso tra due amori, a Dio e al prossimo, in una dimensione polifonica di ascolto e donazione. Paolo nelle sue lettere ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore davanti ai lettori di tutti i tempi e rivela quale sia la molla più intima della sua vita: «vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro, dall’esperienza vibrante di essere amato da Gesù Cristo in modo del tutto personale: «la sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore» (Benedetto XVI, Apertura dell’anno paolino, 28 giugno 2008). È sulla pietra angolare di questo amore che Paolo costruisce il suo pensiero teologico e quindi anche la sua riflessione sul lavoro.
La visione del lavoro nel Nuovo Testamento
Il lavoro appare come una realtà molto positiva nel Nuovo Testamento. Gli operai che non trovano lavoro nel Vangelo di Matteo (20,1-16) rappresentano una vera e propria preoccupazione per il padrone della vigna che li impiega a più riprese nel lavoro stile per la vigna. L’operosità è percepita come un valore. Nella sua predicazione Gesù insegna ad apprezzare il lavoro e descrive la sua stessa missione come un lavorare (il verbo è ἐργάζομαι): «Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco» (Gv 5,17). I discepoli stessi del Signore sono da Lui designati come «operai (il sostantivo è ἐργάτης) nella messe» (cf. Mt 9,37-38). Il loro lavoro si collega a quello di altri che hanno lavorato (il verbo è κοπιάω che rimanda alla fatica) prima di loro (cf. Gv 4,38). Per Gesù l’operaio ha diritto al suo cibo (Mt 10,10).Gesù però insegna anche a non lasciarsi asservire dal lavoro: la priorità va data alla dimensione interiore, perché guadagnare il mondo intero non è lo scopo della vita (cf. Mc 8,36). Il lavoro non deve mettere in ansia: se è preso da molte cose, l’uomo trascura i valori prioritari e fondanti, come il regno di Dio e la giustizia di Dio (cf. Mt 6,25-34) e il suo cuore si allontana dal vero tesoro che non si consuma.3
Il sabato, giorno di liberazione, illumina la comprensione del lavoro nell’esistenza umana. Esso è riaffermato da Gesù nel suo valore originario: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!» (Mc 2,27). Liberare dal male, praticare la fraternità e la condivisione è conferire al lavoro il suo significato più nobile, ciò che permette all’umanità di incamminarsi verso il Sabato eterno. Qui il riposo diventa la festa cui l’uomo interiormente aspira. Proprio in quanto orienta l’umanità a fare esperienza del sabato di Dio e della sua vita conviviale, il lavoro inaugura sulla terra la nuova creazione. L’attività umana di arricchimento e di trasformazione dell’universo può e deve far emergere le perfezioni in esso nascoste, che nel Verbo increato hanno il loro principio e modello. Il lavoro consente non solo di partecipare all’opera della creazione, ma anche a quella della redenzione. Esso trova il suo senso pieno nella logica pasquale: chi sostiene la fatica del lavoro unendosi a Cristo, in qualche modo coopera con Lui alla
sua opera redentrice partecipando alla costruzione di «nuovi cieli e terra nuova» (Ap
21,1).
L’operosità di Paolo
San Giovanni Crisostomo nel suo Panegirico di san Paolo (Om. 2; PG 50,477- 480) ha sostenuto che Paolo «preferiva la morte alla vita, la povertà alla ricchezza e desiderava assai di più la fatica che non il riposo». In questo elogio viene sottolineata l’operosità di Paolo, caratteristica che lo ha portato ad abbracciare tutte le sorprese apparse lungo il suo cammino, e in modo speciale le fatiche che ha dovuto affrontare per avanzare nella corsa del Vangelo. Una testimonianza assai eloquente di ciò appare nella Seconda Lettera ai Corinzi dove l’Apostolo, stilando una lista di prove e difficoltà, mostra il valore e il prezzo del suo personale ministero: Tuttavia, in quello in cui qualcuno osa vantarsi – lo dico da stolto – oso vantarmi anch’io. 22Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! 23Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso4 in pericolo di morte. 24Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; 25tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascoro un giorno e una notte in balìa delle onde. 26Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; 27disagi e fatiche, veglie
senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. 28Oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. 29Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? 30Se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza. 31Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei
secoli, sa che non mentisco. 32A Damasco, il governatore del re Areta aveva posto delle guardie nella città dei Damasceni per catturarmi, 33ma da una finestra fui calato giù in una cesta, lungo il muro, e sfuggii dalle sue mani…Paolo non tace l’entità delle prove affrontate, non fa sconti. Predicare il Vangelo costa rifiuto, stanchezza e… lavoro duro.
Il valore del lavoro nell’esperienza di Paolo
Anche se «passa la figura di questo mondo» (1Cor 7,31), l’uomo non è esonerato dal suo impegno storico, tanto meno dal lavoro. S. Ambrogio afferma che ciascun lavoratore è la mano di Cristo che continua a creare e a fare del bene. Nella seconda lettera ai Tessalonicesi pertanto Paolo viene presentato come esempio di laboriosità, sia per non essere di peso ad alcuno, sia per soccorrere chi si trova nel bisogno: 7Sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, 8 né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. 9Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. 10E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi (3,7-10). Il cristiano è chiamato a lavorare non solo per procurarsi il pane, ma anche per
sollecitudine verso il prossimo più povero, al quale il Signore comanda di dare da mangiare, da bere, da vestire, accoglienza, cura e compagnia (cf. Mt 25). Paolo non ci fornisce una esposizione esauriente sul tema del lavoro. Egli scrive in risposta a difficoltà concrete, personali o delle comunità da lui fondate, e perciò si limita solo agli aspetti del tema richiesti da precise circostanze. La sua riflessione sul lavoro non è tanto una teologia del lavoro, perché contingente e frammentaria, ma 5una forte valorizzazione dell’attività lavorativa umana che acquista anche un significato altamente spirituale. Dopo la partenza da Atene, avvenuta dopo l’insuccesso della sua predicazione sulla risurrezione di Gesù dinanzi all’Areopago (At 17,32-33), l’Apostolo approda a Corinto, dove incontra Aquila e Priscilla. Essi si erano trasferiti a Corinto dopo essere stati espulsi da Roma (dove con molta probabilità avevano abbracciato la fede) in
seguito a un editto dell’imperatore Claudio (cf. At 18,2). Se l’editto di Claudio colpiva solo i capi e gli attivisti, di certo la coppia si era distinta nella capitale dell’impero per il suo zelo per il Signore. I coniugi arrivati a Corinto, grazie alla loro fede in Dio e alla loro operosità, riescono ad aprire un laboratorio. Ciò lascia dedurre che fossero rappresentanti di un ceto medio-alto, perché inoltre solo se benestanti potevano accogliere nella loro abitazione una domus ecclesiae (cf. 1Cor 16,19). Avendo in comune con i coniugi la stessa attività professionale, quella di skenopoiói (in latino tabernacularii), cioè lavoratori del cuoio o fabbricatori di tende, Paolo trova nel loro atelier non solo un lavoro per procurarsi da vivere, ma anche l’accoglienza e l’amicizia di una coppia il cui contributo si rivelerà assai prezioso per la propagazione del Vangelo.
L’Apostolo a Corinto non si avvale del diritto di farsi mantenere dalle comunità e lavora per non essere di intralcio al Vangelo, come dichiara egli stesso in 1Cor 9,11-18: 11Se noi abbiamo seminato in voi beni spirituali, è forse gran cosa se raccoglieremo beni materiali? 12Se altri hanno tale diritto su di voi, noi non l’abbiamo di più? Noi però non abbiamo voluto servirci di questo diritto, ma tutto sopportiamo per non mettere ostacoli al vangelo di Cristo. 13Non sapete che quelli che celebrano il culto, dal culto traggono il vitto, e quelli che servono all’altare, dall’altare ricevono la loro parte? 14Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il Vangelo vivano del Vangelo. 15Io invece non mi sono avvalso di alcuno di questi diritti, né ve ne scrivo perché si faccia in tal modo con me; preferirei piuttosto morire. Nessuno mi toglierà questo vanto!16Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! 17Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. 18Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.
Il valore del lavoro nell’insegnamento di Paolo6
Paolo non svolge la missione come un’isola. Egli ama annettere a sé dei synergoi, collaboratori. Paolo crea nelle sue lettere una teologia degli affetti: instaura cioè all’interno delle sue comunità una nuova architettura di rapporti. Cura le relazioni, è attento agli altri, si paragona a una madre, a una nutrice, che ama e che non vuole dare ai Tessalonicesi solo il vangelo, ma la propria stessa vita. L’amore per questi credenti – che Paolo chiama «nostra speranza», «nostra gioia», «corona» di cui vantarsi, «nostra gloria» (1Ts 2,19-20) – è così grande che suscita nei responsabili un’estrema delicatezza: l’accortezza a non pesare sulla comunità, ma ad assumere il duro lavoro e la fatica, a lavorare giorno e notte, come appare in 1Ts 2,1-9: 1Voi stessi infatti, fratelli, sapete bene che la nostra venuta in mezzo a voi non è stata inutile. 2Ma, dopo aver sofferto e subito oltraggi a Filippi, come sapete, abbiamo trovato nel nostro Dio il coraggio di annunciarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte. 3E il nostro invito alla fede non nasce da menzogna, né da disoneste intenzioni e neppure da inganno; 4ma, come Dio ci ha trovato degni di affidarci il Vangelo così noi lo annunciamo, non cercando di piacere
agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori. 5Mai infatti abbiamo usato parole di adulazione, come sapete, né abbiamo avuto intenzioni di cupidigia: Dio ne è testimone. 6E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, 7pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. 8Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari. 9Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio. Il lavoro dell’Apostolo è frutto della coscienza di essere simile a un genitore che deve provvedere ai figli. Come mostra in 2Cor 12,14: 14Ecco, è la terza volta che sto per venire da voi, e non vi sarò di peso, perché non cerco i vostri beni, ma voi. Infatti non spetta ai figli mettere da parte per i genitori, ma ai genitori per i figli. 15Per conto mio ben volentieri mi prodigherò, anzi consumerò me stesso per le vostre anime. Paolo ha sempre coscienza del peso e del prezzo alto della sua missione. Sa, proprio come lo sanno i genitori nei confronti dei loro figli, che per farli crescere bene è necessario sacrificarsi. Il sacrificio è azione sacra, offerta di sé. E Paolo lo spiega in 1Cor 4,9-15 dove si autopresenta come padre della comunità di Corinto (lui
è stato l’architetto che ha posto il fondamento della comunità!):79Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo dati in spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. 10Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. 11Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo percossi, andiamo vagando di luogo in luogo, 12ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; 13calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi. 14Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. 15Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo.Tutto quello che Paolo fa lo fa per il vangelo: questa espressione totalizzante che si legge in 1Cor 9 è illuminante. Essa poggia su principio di immedesimazione. Paolo è l’apostolo che vuole immedesimarsi nella vita degli altri al fine di attirarli al Vangelo. Egli ripristina nella sua vita una dinamica propria del Cristo: l’incarnazione, che i Padri spiegano come synkatabasis, condiscendenza divina.13Non sapete che quelli che celebrano il culto, dal culto traggono il vitto, e quelli che servono all’altare, dall’altare ricevono la loro parte? 14Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il Vangelo vivano del Vangelo. 15Io invece non mi sono avvalso di alcuno di questi diritti, né ve ne scrivo perché si faccia in tal modo con me; preferirei piuttosto morire. Nessuno mi toglierà questo vanto!16Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! 17Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. 18Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo. 19Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: 20mi sono fatto come Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei. Per coloro che sono sotto la Legge – pur non essendo io sotto la Legge – mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge. 21Per coloro che non hanno Legge – pur non essendo io senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo – mi sono fatto come uno che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge. 22Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. 23Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
L’invito al lavoro per le comunità
Nella società greco-romana il lavoro “manuale” era disprezzato e veniva riservato a coloro che appartenevano agli strati sociali più bassi della popolazione, in 8 modo particolare agli schiavi. È quindi assai rivoluzionario il fatto che Paolo provveda al suo sostentamento lavorando con le proprie mani (1Cor 4,12; cf. At 18,3; 20,34-35; 2Ts 3,8). Egli non contesta il fatto che altri missionari si facciano finanziare dalle comunità, anzi lo giustifica, ma afferma che la sua scelta è stata diversa (1Cor 9,6-14; cf. 2Ts 3,8-9). Questa scelta gli provoca critiche e incomprensioni, e addirittura il sospetto che egli non sia un vero apostolo come gli altri (cf. 2Cor 11,7). I motivi per cui Paolo lavorava con le sue mani erano molteplici. Certamente questa prassi lo rendeva più libero nei suoi spostamenti, lo metteva a contatto con un gran numero di persone e gli permetteva di non sentirsi troppo dipendente dalle comunità appena fondate. Emerge anche un’altra motivazione: quella di dare un esempio affinché anche i cristiani si impegnino a lavorare con le proprie mani al fine di condurre una vita decorosa di fronte agli estranei [quelli di
fuori] e di non avere bisogno di nessuno. Come appare in 1Ts 4,9-12: Riguardo all’amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri, 10e questo lo fate verso tutti i fratelli dell’intera Macedonia. Ma vi esortiamo, fratelli, a progredire ancora di più 11e a fare tutto il possibile per vivere in pace, occuparvi delle vostre cose e lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ordinato, 12e così condurre una vita decorosa di fronte agli estranei e non avere bisogno di nessuno.E in 2Ts 3,6-13: 6Fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, vi raccomandiamo di tenervi lontani da ogni fratello che conduce una vita disordinata, non secondo l’insegnamento che vi è stato trasmesso da noi. 7Sapete in che modo dovete
prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, 8né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. 9Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. 10E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. 11Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. 12A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità. 13Ma voi, fratelli, non stancatevi di fare il bene. L’esortazione di 2Ts 3,10 (chi non vuol lavorare neppure mangi!) era rivolta a quanti si astenevano dal lavoro nella convinzione che parousia del Signore fosse imminente, ma doveva suonare anche come monito ai benestanti della comunità, i quali ritenevano disdicevole per loro il lavoro manuale.9Il senso ultimo del lavoro: il servizio fraterno Nelle comunità paoline non si praticava il costume della comunione dei beni, quale appare nella prima comunità di Gerusalemme (cf. At 2,44-45; 4,34-35). Tuttavia esistevano anche in esse occasioni in cui si mettevano in comune soldi e beni materiali. Il più importante era la celebrazione della cena del Signore, nella quale si consumavano insieme degli alimenti portati da tutti ma in modo speciale (e a volte esclusivo!) dai più abbienti (cf. 1Cor 11,20-22). Ma esistevano anche circostanze in cui venivano fatte raccolte di denaro. Paolo ricorda che, nonostante il suo impegno per autofinanziarsi, alcune comunità lo hanno aiutato in momenti di bisogno (cf. Fil 4,14-18; 2Cor 11,9). C’erano poi le collette per la chiesa di Gerusalemme (cf. Gal 2,10; 2Cor 8–9; Rm 15,26), per le quali Paolo dà disposizioni ben precise (cf. 1Cor 16,1-2). Per fare ciò i cristiani dovevano autotassarsi. Il contributo era versato regolarmente nel momento dell’assemblea settimanale, sia perché la raccolta fosse progressiva, sia perché apparisse più chiaramente la dimensione comunitaria del contributo versato.Il lavoro manuale e la messa in comune degli alimenti e di denaro erano in funzione di un’educazione all’impegno per gli altri, al servizio fraterno e alla solidarietà, due atteggiamenti necessari per uno sviluppo autonomo e partecipato, che non poteva non avere un forte impatto anche nella società a cui le comunità appartenevano.
«Nel Signore»: Paolo architetto di relazioni nuove
Nei 15.000 chilometri percorsi per annunciare il vangelo di Cristo, Paolo incontra l’uomo con le sue luci e le sue ombre, con le sue gioie e le sue fatiche. Egli, per amore di Cristo con il quale si sente un tutt’uno tanto da dirsi concrocifisso, si fa carico pienamente della condizione umana e si fa tutto per tutti così da sviluppare una10forte esperienza di paternità spirituale. Alla luce di questa Paolo desidera instaurare rapporti nuovi tra i credenti, come appare per esempio nella Lettera a Filemone. Paolo non si propone di demolire le strutture sociali esistenti predicando la liberazione degli schiavi e attuando un programma di riforma, ma scende fino alle radici dell’annuncio cristiano per provocare una conversione di mentalità. Egli propone l’uguaglianza di tutti gli uomini, non solo come frutto della legislazione umana, ma come conseguenza necessaria della sottomissione di tutti all’unico Signore Gesù Cristo. In virtù di questa identità l’Apostolo suggerisce il balsamo della riconciliazione, esperienza fatta di accoglienza e amore. In questo dinamismo Paolo innesta anche la componente del lavoro. Onesimo, schiavo di Filemone, che si occupa del lavoro nella sua casa, dopo essere partito per raggiungere Paolo e da lui ricevere il Vangelo e rinascere, sta per tornare a lavorare in casa del suo padrone. Il suo padrone, Filemone, però non dovrà più vederlo come schiavo, cioè come qualcuno che produce qualcosa, ma come un figlio di Dio e quindi come un fratello «nel
Signore» (cf. Fm 16). È questo per Paolo il valore aggiunto del credente: vivere «nel Signore» e fare ogni cosa «nel Signore», anche il lavoro. Il lavoro, infatti, vissuto nel Signore, non è un optional; ma diventa opera di misericordia, fedeltà alla propria storia sacra, ai propri doni, promozione dell’umano nel mondo, esperienza profonda di umanizzazione. In un tempo di crisi come il nostro, Paolo ci ricorda la necessità di diffondere una cultura rinnovata del lavoro. Anche il lavoro può diventare missione e apostolato. L’uomo che lavora è come un sacerdote che offre a Dio non tanto delle cose, ma se stesso come sacrificio vivente a lui gradito (cf Rm 12,1), prolungando l’opera creatrice di Dio, curando il bene dei fratelli, concorrendo a compiere il disegno salvifico divino. Il lavoro in questo ottica non è esperienza di umiliazione o di sottrazione di umano, ma apprendistato di santificazione e crescita nella passione per la vita e per la storia.

18th century rendition of a Guardian Angel.

18th century rendition of a Guardian Angel. dans immagini sacre 640px-%C3%81ngel_de_la_Guarda
http://en.wikipedia.org/wiki/Guardian_angel

Publié dans:immagini sacre |on 1 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

IL MONDO DEGLI ANGELI (Rav Luciano Meìr Caro)

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IL MONDO DEGLI ANGELI

(Rav Luciano Meìr Caro)

Nella tradizione ebraica la figura dell’angelo compare molto spesso, anche a partire dal testo biblico; ma si continua a parlare molto degli angeli anche nella letteratura post-biblica, nel Talmud e soprattutto nella mistica.
Che cos’è l’angelo? Intanto diciamo che in lingua ebraica angelo si dice malach.
Di solito, quando nel testo biblico ci si trova davanti un malach, non si tratta di un essere soprannaturale, ma di un essere incaricato di una missione, che può essere semplicemente un uomo qualsiasi. Angelo, dunque, è colui che ha una missione da compiere; missione che può essere consapevole o no. Può capitare che Dio si rivolga a un uomo e gli affidi il compito di una missione particolare, ma può anche capitare che qualcuno sia malach senza saperlo. Qualche volta noi compiamo delle azioni o abbiamo dei comportamenti e crediamo di rispondere a delle esigenze personali, oppure siamo convinti che quello che stiamo facendo sia dovuto semplicemente alle circostanze; ma può darsi che noi siamo intervenuti proprio nel momento giusto nei confronti di chi in quel momento aveva bisogno. Quindi non è che siamo esseri angelici, ma siamo sollecitati a compiere una missione senza rendercene conto; da questo punto di vista siamo come gli angeli. Il discorso è molto più complesso, ovviamente. Comunque, quando nel testo biblico troviamo il termine malach, di solito, – non sempre, ma di solito -, il riferimento è a un essere che si presenta con sembianze umane e deve fare qualche cosa, ha una missione da compiere, oppure deve dire, annunciare qualche cosa.
Può essere utile tentare di spiegare l’etimologia di questo termine. Malach proviene da una radice che non è ebraica. La mem iniziale dà l’idea di essere una lettera servile, che costruisce il sostantivo; ma la radice potrebbe essere lamed, alef, kaf, che però in ebraico non esiste, o quanto meno non si trova da nessuna parte. Gli studiosi dicono che c’è una radice simile nel proto-arabo, nell’ugaritico e anche nella lingua abissina: sarebbe formata da un suono elle, seguito da una muta e poi da una ch aspirata. Questa radice avrebbe il significato di « fare un servizio » o « fare una missione »; quindi il sostantivo indica qualcuno che compie un servizio, una missione.
Qualche volta il testo biblico fa delle confusioni di terminologia; questi esseri, infatti, vengono chiamati sia malach, malachìm, sia navì, cioè « profeta » e così si crea confusione.
Qualche volta si trova anche il termine « figli di Dio », come appare nella Genesi, in un passo stranissimo: quando l’uomo cominciò a diffondersi sulla terra, i figli di Dio videro le figlie dell’uomo che erano belle (tovòt – o buone?) e si unirono a loro. Chi sono questi figli di Dio? Si sta parlando di qualcosa di positivo o negativo? Si dice ancora che in quel tempo c’erano i nefilìm sulla terra – nefilìm deriva da una radice ebraica che vuol dire « cadere »; allora sono « i cadenti » – e dopo che i figli di Dio si erano uniti alle figlie dell’uomo e queste avevano partorito, da essi nacquero eroi molto famosi. Qualcuno dice che questi « figli di Dio » sono degli esseri angelici che si sono uniti alle donne e da questa unione sono nati degli uomini particolarmente dotati. Qualcuno dice che sono i potenti della terra che chiamano se stessi « figli di Dio » e con la forza si sono presi le donne normali.
Non è senza significato che la Vulgata traduca il termine malach qualche volta con angelus e qualche volta nuntius.
Qualcuno ha osservato che ci sono alcuni libri biblici in cui non appare nessun riferimento agli angeli; ad es. nel Levitico, in Amos e in Rut.
La Bibbia non ci dà mai definizioni precise e perciò noi conosciamo la natura e la funzione degli angeli mettendo insieme le diverse informazioni che ci vengono dai vari passi in cui essi appaiono. Non si presentano mai come messaggeri di una volontà propria, ma compiono qualcosa da parte di un altro. Non hanno possibilità di agire indipendentemente. Ci sono delle espressioni caratteristiche, come ad es: « Io non posso fare niente, se non quello che ha deciso Dio ».
Non sono mai oggetto di preghiera; nessuno si rivolge all’angelo per chiedere qualcosa. Non si presentano mai come intermediari tra l’uomo e Dio. Hanno il compito di comunicare decisioni di Dio. Spesso hanno il compito di aumentare la gloria di Dio; una specie di corte che fa da coronamento alla gloria di Dio.
La dottrina su questi angeli si è diffusa abbastanza presto in Israele, qualcuno dice per influenze esterne da parte del mondo orientale. Secondo i miti che circolavano, la divinità è circondata da questi esseri strani, che sono metà uomo e metà divinità.
Torno alle fonti ebraiche. Talvolta gli angeli si presentano non tanto come esseri viventi, persone, ma piuttosto come personificazioni di determinate idee. L’angelo è visto come supporto dell’idea della giustizia, ad es. o di altre realtà. Quindi secondo qualcuno, si adopera il termine malach nel testo biblico non per indicare un essere che fa qualcosa di speciale, ma per evitare di attribuire a Dio delle azioni che sono umane.
Esodo 33: « L’Eterno si rivolse a Mosè dicendo: Vattene di qua tu e il popolo che hai tratto fuori dall’Egitto e manderò davanti a te un malach e caccerò il cananeo… ». Qualcuno dice che si può intendere che il popolo ebraico, nel suo viaggio verso la terra di Israele, è preceduto da un inviato, che deve provvedere a spianare la strada perché il popolo raggiunga la sua terra e a cacciare i nemici ivi presenti. Qualcuno dice che questo malach è Mosè, perché è lui che ha la missione di condurre il popolo. Qualcuno dice che il testo usa quel termine per dire che è Dio stesso in persona che guiderà il popolo e caccerà i nemici; si tratta di un artificio, per evitare di collocare Dio come protagonista di un’azione umana.
Quest’operazione di identificare Dio con un malach, la troviamo anche nella prima traduzione ufficiale della Bibbia, che è quella in aramaico; lì, tutte le volte che ci sono delle azioni umane, ad es. quando si dice che Dio stende la sua mano, che Dio parla, fa, ecc., il traduttore aramaico rende il testo così: « La parola di Dio fece, disse.. ».
Torniamo all’Esodo. Mosè vive il suo primo incontro con Dio: « Gli apparve l’angelo di Dio in una vampata di fuoco da dentro il cespuglio… »; Mosè si avvicina e sente la voce di Dio che gli parla. Anche qui non è detto che gli apparve Dio, ma l’inviato di Dio, il malach. O Mosè ha visto Dio, ha avuto la percezione di Dio, ma non si poteva dire che gli apparve Dio; oppure Mosè ha interpretato che quel roveto che bruciava fosse uno strumento inventato da Dio per sollecitare la sua curiosità. Allora era un angelo, era Dio, ma il testo non ce lo vuol dire, oppure era una sollecitazione?
Nel libro della Genesi il termine malach si trova molte volte; molti angeli compaiono. L’apparizione più famosa è quella dei tre malachìm che si presentano ad Abramo. Ma chi sono questi tre personaggi? Ognuno è libero di leggerlo nella chiave che gli è più congeniale; ci mancherebbe altro! Ma il testo è ambiguo, perché dice che Dio apparve ad Abramo, ma poi afferma che egli alzò gli occhi ed ecco, tre uomini erano davanti a lui. Cos’è successo? Appare Dio e poi vede tre uomini. Questi sono la rappresentazione di Dio; sono la stessa cosa o due cose diverse? Era Dio che gli parlava, o no? C’è una bella interpretazione, molto moderna, che dice che Dio è apparso ad Abramo, egli ha un incontro con Dio, ma quando alza gli occhi e vede i tre uomini, pianta in asso Dio e si occupa degli uomini. Abramo come simbolo di ospitalità, cioè dell’uomo che lascia il colloquio con Dio, per soccorrere degli uomini che potrebbero essere nel bisogno. Di fronte all’esecuzione di precetti che riguardano il nostro approccio con Dio, ha più importanza l’esecuzione di precetti che riguardano l’amore verso l’uomo; quasi fossimo invitati ad occuparci prima degli uomini, che in sé contengono in qualche modo Dio. Qualcuno dice invece che Dio era apparso ad Abramo sotto la sembianza di tre uomini.
Un altro esempio è quello del malach di Dio che si presenta due volte ad Agàr, concubina di Abramo, dalla quale egli ebbe Ismaele; l’angelo invita la donna a ritornare dalla sua padrona Sara, dalla quale stava cercando di fuggire, non sopportando più le sue angherie causate dalla gelosia. Ma chi era questo angelo? Dio in persona, o uno qualsiasi che passava di lì e l’ha invitata a tornare a casa? Ancora una volta appare un malach, quando Agàr viene cacciata da Abramo e si trova nel deserto col bambino che sta morendo di sete. I maestri dicono che una delle cause dell’esilio di Israele è la punizione per questo comportamento di Abramo verso Agàr.
Un’altra volta in cui appare un angelo è nella storia di Bilàm, uno stregone che i moabiti fecero chiamare per maledire Israele, invece di far guerra. Qualcuno vede in questa vicenda la storia successiva del popolo ebraico; nel corso della storia del popolo ebraico c’è stato qualcuno che ci ha combattuto con le armi, ma anche qualcuno che ha cercato di combatterci con le parole e qualche volta le parole sono ancora più dannose. Se voi guardate l’azione delle Nazioni Unite negli ultimi 50, 60 anni, vedete che 8/10 delle risoluzioni intraprese, sono contro Israele, fino ad arrivare ad affermare che il sionismo è sinonimo di razzismo.
Comunque, per tornare al testo biblico, questo stregone, invece di maledire, benedice Israele. Egli parte a cavallo di un asina e, lungo il cammino, gli si fa presente un malach di Dio con una spada sguainata nella mano; lui, però, non lo vede, ma l’asina sì e si ferma intestardita. Dopo varie percosse, l’animale si volta e comincia a parlare: « Perché mi picchi? Non sono io la tua asina con cui viaggi sempre? Se mi comporto così, ci dev’essere un motivo ». Lui risponde: « Se io avessi una spada in mano, ti ucciderei! ». Ma come? Il grande indovino, che doveva imprecare contro Israele e sterminare un popolo intero con le sue parole, ha bisogno di una spada per uccidere una povera asina! Alla fine anche Bilàm vede l’angelo di Dio, che parla a nome di Dio e lo avvisa che comunque lui farà solo quello che dirà l’angelo. Questo malach è un essere materiale, o solo qualcosa di minaccioso che si rende presente?
Ancora. Nella storia di Sansone c’è un angelo che compare alla madre, prima della sua nascita e le annuncia che avrà un figlio che sarà un consacrato di Dio. La donna comunica la cosa al marito, che non le crede. Il giorno dopo l’angelo ricompare e lei corre a chiamare il marito, che alla presenza del malach, si spaventa. Sembrava un essere umano qualsiasi, ma si sentiva la presenza di Dio, tanto che Manòach vuole offrirgli un sacrificio, ma l’angelo dice: « Se vuoi fare un sacrificio, offrilo a Dio » e poi sparisce. Al che i due personaggi rimangono molto spaventati, perché erano convinti di aver visto e vedere Dio significava morire.
Questi malachìm ritornano più volte ai tempi di Davide, ai tempi di Giosuè.
Torno indietro. Anche nella lotta di Giacobbe al fiume Jabbok, c’è un malach. Dopo una notte di lotta, al sorgere dell’alba, l’angelo annuncia che deve partire, ma Giacobbe vuole trattenerlo, perché ha capito che ha lottato contro qualcosa di divino e vuole una benedizione. Qui riceve il nome nuovo di Israele, che contiene delle radici che significano « hai combattuto con Dio ». Tutto il racconto è molto bello. Una delle interpretazioni dei nostri maestri è che l’angelo che aveva combattuto contro Giacobbe era l’angelo protettore di Esaù. Ognuno di noi ha un angelo protettore; Giacobbe si è scontrato contro quello che rappresentava il punto di vista di Esaù. C’è una lotta fisica tra Giacobbe e le idee di suo fratello. La bellezza di quella frase: « Ferma, perché sta per venire il mattino », è intesa in senso messianico: noi, nella notte dei tempi, lottiamo, ma quando si comincia a intravedere la luce, basta, la lotta cessa. Giacobbe si sarà domandato: « Ma io come ho speso la mia vita? Esaù aveva ragione o aveva torto? Io portatore di una cultura, lui di un’altra… »; quasi un confronto profondo tra lui e il fratello. Sapete che la conseguenza di questa lotta è stata fisica: Giacobbe è rimasto leso al nervo sciatico e perciò claudicante per tutta la vita; qualcuno interpreta questo fatto, come l’insorgere di una malattia psicosomatica. Aveva talmente lottato, che ricevette una ferita fisica. C’è una simbologia ben precisa: nell’ebraico biblico si dice che uno nasce dalla coscia di un altro. Questa lotta tra Giacobbe ed Esaù ha avuto delle conseguenze sulle generazioni successive.
Risulterebbe, leggendo con attenzione, che succede sempre che un malach compie una sola missione; se ci sono due missioni da compiere, si chiamano due malachìm e così via. E’ un bell’insegnamento per noi: ognuno ha un incarico da portare avanti. Quindi i tre malachìm che sono apparsi ad Abramo avevano tre scopi diversi: uno quello di comunicargli che sua moglie avrebbe partorito un figlio. Infatti nel capitolo successivo si parla più solo di due malachìm; il terzo, terminata la sua missione, se n’era andato. I due malachìm rimasti, che vanno a Sodoma, hanno due incarichi diversi: uno di salvare Lot e l’altro di sollecitare la distruzione della città.
Apro un altro capitolo molto rapido. C’è tutto un altro settore che lascia spaventosamente perplessi. Qualcuno stabilisce un nesso tra questi malachìm e i famosi cherubini, cherubìm. Nella Bibbia si dice che gli Ebrei nel deserto ebbero l’incarico di costruire il tabernacolo, cioè una specie di santuario portatile, con una serie di dispositivi, con al centro una tenda e dentro una cassetta e dentro di essa le tavole dei comandamenti; sopra questa cassetta c’era un coperchio d’oro e sopra il coperchio due cherubìm. Nessuno sa cosa sono. Siccome il testo dice che i due si guardano l’uno con l’altro e hanno delle ali che si incontrano al di sopra di loro, si deduce che sono figure di angeli. Questo ci lascia molto perplessi, scandalizzati: ma come ? proprio in quel contenitore dove sono le tavole della Legge, che dice di non farsi sculture, ci sono due sculture che sembrano quasi umane! Qualcuno dice che sono due figure umane, che si guardano l’una con l’altra, quasi a sottolineare che il fulcro della norma sta nel fatto che un uomo non può vivere da solo, ma deve vivere in società e dobbiamo guardarci in faccia col nostro prossimo, non possiamo girar le spalle. Qualcun altro dice, invece, che queste statue sono un’indicazione pesante che ci è assolutamente proibito fare atti di idolatria, cioè attribuire valore soprannaturale a cose che, invece, sono fisiche. Questa idolatria va interpretata in modo talmente amplificato, che non si deve nemmeno fare un’idolatria dell’idolatria. Qualcun altro ancora dice che non è vero che si tratti di statue di esseri umani, perché, in realtà, non si sa che cosa significhi cherubìm. Si parla di due elementi che si guardano l’uno con l’altro, ma non necessariamente hanno forma umana; potrebbero essere due pietre una di fronte all’altra. Guardarsi può anche voler dire solo stare uno di fronte all’altro. Le ali farebbero pensare a una struttura a noi sconosciuta, che dovrebbero evocare le nuvole. Una delle denominazioni con cui è chiamato Dio è « colui che cavalca sui cherubini » e l’espressione ebraica rochèv hacherubìm, presenta la stessa radice resh, caf e bet, con metatesi. Ciò significa che Dio è colui che sta al di sopra di tutto; nell’immaginario dell’uomo antico, al di sopra di tutto ci sono le nubi e perciò Dio è Colui che sta al di sopra anche delle nubi e sovrintende al mondo. Perciò quelle figure ricordavano il cielo, quasi a ricordare che la Legge è straordinariamente difficile.
La letteratura post-biblica è ricchissima di elementi riguardanti gli angeli, molto spesso inventati. Si sono dati anche dei nomi: ad es. Michaèl, Rafaèl, Metatròn, Razièl. Chi più ne ha, più ne metta. Questi personaggi sono interpretati come esseri che sovrintendono, per conto di Dio, a determinate situazioni del genere umano. E’ il discorso degli intermediari, cioè il pensare che tra gli uomini e Dio ci siano degli intermediari; ma siamo nella fantasia.
Si dice addirittura che questi esseri siano stati creati prima dell’uomo; anche qui il discorso è difficile. Dal testo biblico si sa che l’uomo è stato l’ultima creazione di Dio, nell’ambito della sua opera creativa, nel sesto giorno. Perché nel sesto giorno e non prima? Qualcuno dice che sia per tenerlo in umiltà, visto che le formiche, ad es. sono state create prima di lui; l’uomo non deve darsi tante arie. Qualcuno dice che l’uomo sia stato creato per ultimo, perché fino alla fine Dio ha avuto dei dubbi se creare l’uomo o no e siccome si rendeva conto che la creazione dell’uomo poteva mettere in forse la creazione di tutto il resto, nella sua infinita sapienza, prima di creare l’uomo, avrebbe interpellato i malachìm, quegli esseri precedenti, forse intesi come tutto il resto del creato, per chiedere se avrebbe dovuto creare l’uomo o no. Il testo talmudico dice che gli angeli si sono divisi in partiti e, conteggiati i voti, è risultata una metà favorevole e l’altra metà contraria; Dio ha messo il suo voto a favore della creazione ed è nato l’uomo. Questi malachìm, allora, sono il prototipo dell’uomo, oppure si tratta delle altre cose create; le stelle, la luna, le piante, la natura, le galassie, che sono strumenti nelle mani di Dio?
Uno dei compiti di questi malachìm, che circondano la gloria di Dio, è quello di lodare Dio e di porgere a Dio le preghiere che facciamo noi.
Qualcuno si domanda se Dio preferisca gli uomini o gli angeli e la risposta è favorevole a noi uomini, perché gli angeli pregano Dio una volta al giorno, mentre noi Lo preghiamo più volte al giorno.
Visto che sono gli angeli a portare le nostre preghiere a Dio, si sollecita a pregare in lingua ebraica, perché gli angeli capiscono solo l’ebraico. Quando preghiamo per la guarigione di un malato, possiamo farlo anche in un’altra lingua, perché noi presupponiamo che al capezzale del malato ci sia Dio in persona, che capisce tutte le lingue.
Qualcuno dice che un altro compito degli angeli è quello di accompagnare i giusti in paradiso.
Il Maimonide, grande filosofo, nel suo trattato filosofico « La guida dei perplessi », parla dei malachìm e dice che non è vero che siano esseri umani, pseudoumani o sovraumani, ma sono idee intellettuali che partono dal nostro corpo. Quando io penso a qualcosa di non materiale; ad es. a Dio, alla giustizia, alla presenza, alla bontà di Dio, queste cose sono degli esseri che hanno la loro vita indipendente, ma non pensate che abbiano la forma di messaggeri, ecc. Sono il prodotto delle nostre considerazioni intellettuali e queste idee si presentano continuamente sotto aspetti diversi. Quando penso a un’ideologia, non è che la penso sempre allo stesso modo, ma, a seconda della mia preparazione, del mio stato d’animo, ecc. la considero da angolature diverse. Maimonide fa riferimento a una famosa frase della Genesi, con cui Dio caccia Adamo ed Eva dal giardino di Eden, perché non mangiassero il frutto della vita e diventassero immortali. Dio mette a guardia del giardino i cherubìm e « il filo della spada affilata che si rivolta », per custodire la strada dell’albero della vita. Questa spada, che si cambia, si sovverte, sono i malachìm, cioè queste idee che noi abbiamo e che si possono presentare in forma diversa. I malachìm sono parti del nostro pensiero e raziocinio.
Si dice che quando Adamo è stato creato, aveva accanto a sé due malachìm; è l’idea secondo la quale noi siamo sempre accompagnati da un malach. Adamo ne aveva due; uno aveva il compito di arrostirgli la carne (non risulta che l’uomo fosse carnivoro allora!) e l’altro aveva il compito di versargli il vino. Questo è uno scherzo, ma il problema è rispondere alla domanda che cosa facesse Adamo dentro questo giardino, come passava il tempo. A contemplare? Tenuto conto che il testo dice che Dio ha messo l’uomo lì dentro allo scopo di lavorarlo e custodirlo; ma come lavorarlo? E custodirlo da che cosa?
Ritorna la faccenda dell’angelo che interviene nei momenti cruciali.
Un midrash racconta che quando Mosè era piccolo ed era stato allevato alla corte di Faraone, gli stregoni avevano detto a Faraone che quel ragazzino gli sarebbe costato il trono. Avendo creduto a questo, faraone prese Mosè e lo pose davanti a una corona e a un tizzone ardente: se Mosè avesse preso la corona, voleva dire che tendeva al regno, al contrario, significava che i maghi avevano torto. Si dice che Mosè stava per prendere la corona, il che gli sarebbe costato la vita; ma è venuto un angelo, che gli ha spostato la mano e gli ha fatto prendere il tizzone ardente e se l’è messo in bocca, come fanno i bambini con tutto quello che prendono in mano. Così Mosè è rimasto balbuziente, ma si è salvato la vita. La stessa cosa sarebbe capitata alla regina Ester. Quando si trovò davanti al re, che le chiedeva cosa volesse da lui, lei voleva dirgli che lui si era comportato nei confronti degli Ebrei come un uomo crudele e nemico, perché aveva firmato i decreti antiebraici e che lei voleva sopprimere questo uomo crudele e nemico; mentre diceva queste cose, Ester puntava il dito contro il re, ma venne un angelo e gli ha spostato il dito verso Amàn.
Questo vuole dirci che tante volte anche noi sentiamo l’istinto di fare una certa cosa, ma poi ci viene un’ispirazione per fare in altro modo; è casuale, è un istinto, oppure c’è qualcosa che ci guida?

Publié dans:ANGELI ED ARCANGELI, EBRAISMO |on 1 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

02 OTTOBRE – ANGELI CUSTODI

http://liturgia.silvestrini.org/santo/127.html

02 OTTOBRE – ANGELI CUSTODI

BIOGRAFIA
La festa dei Santi Angeli custodi per molto tempo ha formato un tutt’uno con quella di San Michele Arcangelo. Dal secolo XVI si è cominciata a celebrare una festa distinta per i Santi Angeli custodi, estesa da Paolo V nel 1608 a tutta la Chiesa universale ed è stata fissata al 2 ottobre. Il ruolo tutto particolare nella nascita della festa liturgica hanno avuto i monaci del nostro Ordine Silvestrino e precisamente del Monastero di Santo Stefano in Roma, presso il quale vi era molto fervente la Confraternita dedita al culto dell’Angelo Custode. Proprio alla richiesta del Priore del monastero il papa acconsentì all’istituzione della celebrazione liturgica, estendendola a tutta la Chiesa.
Gli angeli hanno come scopo principale l’adorazione della divinità; anche la Chiesa ci fa chiedere a Dio, nel prefazio, di permetterci di unire le nostre voci alle loro, per lodarlo. Ma, come indica il loro nome, essi sono anche i messaggeri di Dio, incaricati di vegliare sopra di noi e di eseguire i suoi comandi. Per questo motivo sono chiamati angeli custodi. Ogni essere battezzato ha il suo angelo custode. Egli (esso) ha la missione di proteggerci e di difenderci, di metterci al riparo dagli assalti del demonio e dei nemici della nostra anima affinché noi possiamo giungere alla vita eterna. Questo fedele compagno merita la nostra riconoscenza e la venerazione che conviene ad un santo che gode della visione di Dio in cielo.

MARTIROLOGIO
Memoria dei santi Angeli Custodi, che, chiamati in primo luogo a contemplare il volto di Dio nel suo splendore, furono anche inviati agli uomini del Signore, per accompagnarli e assisterli con la loro invisibile ma premurosa presenza.

DAGLI SCRITTI…
Dai «Discorsi» di san Bernardo, abate
Ti custodiscano in tutti i tuoi passi

«Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi» (Sal 90, 11). Ringrazino il Signore per la sua misericordia e per i suoi prodigi verso i figli degli uomini. Ringrazino e dicano tra le genti: grandi cose ha fatto il Signore per loro. O Signore, che cos’é l’uomo, per curarti di lui o perché ti dai pensiero per lui? Ti dai pensiero di lui, di lui sei sollecito, di lui hai cura. Infine gli mandi il tuo Unigenito, fai scendere in lui il tuo Spirito, gli prometti anche la visione del tuo volto. E per dimostrare che il cielo non trascura nulla che ci possa giovare, ci metti a fianco quegli spiriti celesti, perché ci proteggano, e ci istruiscano e ci guidino. «Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi». Queste parole quanta riverenza devono suscitare in te, quanta devozione recarti, quanta fiducia infonderti! Riverenza per la presenza, devozione per la benevolenza, fiducia per la custodia. Sono presenti, dunque, e sono presenti a te, non solo con te, ma anche per te. Sono presenti per proteggerti, sono presenti per giovarti.
Anche se gli angeli sono semplici esecutori di comandi divini, si deve essere grati anche a loro perché ubbidiscono a Dio per il nostro bene. Siamo dunque devoti, siamo grati a protettori così grandi, riamiamoli, onoriamoli quanto possiamo e quanto dobbiamo. Tutto l’amore e tutto l’onore vada a Dio, dal quale deriva interamente quanto é degli angeli e quanto é nostro. Da lui viene la capacità di amare e di onorare, da lui ciò che ci rende degni di amore e di onore. Amiamo affettuosamente gli angeli di Dio, come quelli che saranno un giorno i nostri coeredi, mentre nel frattempo sono nostre guide e tutori, costituiti e prepositit a noi dal Padre. Ora, infatti, siamo figli di Dio.
Lo siamo, anche se questo attualmente non lo comprendiamo chiaramente, perché siamo ancora bambini sotto amministratori e tutori e, conseguentemente, non differiamo per nulla dai servi. Del resto, anche se siamo ancora bambini e ci resta un cammino tanto luogo e anche tanto pericoloso, che cosa dobbiamo temere sotto protettori così grandi? Non possono essere sconfitti né sedotti e tanto meno sedurre, essi che ci custodiscono in tutte le nostre vie. Sono fedeli, sono prudenti, sono potenti. Perché trepidare? Soltanto seguiamoli, stiamo loro vicini e restiamo nella protezione del Dio del cielo.(Disc. 12 sul salmo 90: Tu che abiti, 3, 6-8; Opera omnia, ed. Cisterc. 4 [1966] 458-462)

COLLETTA
O Dio, che nella tua misteriosa provvidenza mandi dal cielo i tuoi Angeli a nostra custodia e protezione, fà che nel cammino della vita siamo sempre sorretti dal loro aiuto per essere uniti con loro nella gioia eterna. Per il nostro Signore…

PREFAZIO
E’ veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno.
Noi proclamiamo la tua gloria che risplende negli Angeli e negli Arcangeli; onorando questi tuoi messaggeri, esaltiamo la tua bontà infinita; negli spiriti beati tu ci riveli quanto sei grande e amabile al di sopra di ogni creatura, per Cristo nostro Signore.
Per mezzo di lui tutti gli angeli proclamano la tua gloria; al loro canto si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode:

PREGHIERA
Angelo di Dio. Angelo di Dio, che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me, che ti fui affidato dalla pietà celeste. Amen.

 

Publié dans:Angeli Custodi |on 1 octobre, 2014 |Pas de commentaires »
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