OMELIA XXVIII DOMENICA A: « IL REGNO DEI CIELI È SIMILE A UN RE CHE FECE UN BANCHETTO DI NOZZE PER SUO FIGLIO »
12 OTTOBRE 2014 | 28A DOMENICA A | T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO
« IL REGNO DEI CIELI È SIMILE A UN RE CHE FECE UN BANCHETTO DI NOZZE PER SUO FIGLIO »
La parabola degli invitati a nozze sviluppa il tema teologico già affrontato nelle due parabole immediatamente precedenti: quella dei due figli (Mt 21,2-32) e quella dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-45).
Anche qui abbiamo riferimenti concreti non solo alla storia di Gesù, ma a quella della Chiesa primitiva e dello stesso popolo d’Israele, che si autoesclude dalla salvezza: Matteo, più degli altri Evangelisti, ha il senso della drammaticità del « giudizio » di Dio che si esprime già negli atteggiamenti concreti che gli uomini, siano essi Ebrei o membri già facenti parte della comunità cristiana, assumono davanti all’appello di Cristo e alle esigenze del suo Vangelo. Tutto questo lo vedremo anche meglio quando commenteremo la parabola degli invitati.
Per il momento ci interessa sottolineare lo stretto rapporto fra la prima lettura e il brano del Vangelo: Gesù l’ha tenuta certamente presente nel comporre la sua parabola, almeno nella forma tramandataci da Matteo.
« Preparerà il Signore per tutti i popoli un banchetto »
La prima lettura, infatti, ripresa da quella che gli studiosi chiamano comunemente « l’Apocalisse di Isaia » e che dovrebbe essere stata composta in epoca piuttosto tardiva (V secolo a.C.), descrive, con immagini fresche e vivaci, un grandioso « banchetto », a cui Dio invita non solo Israele, ma « tutti i popoli » della terra. È l’idea del banchetto « messianico », che intende esprimere la gioia, la « convivialità », la salvezza che Dio offre abbondantemente a tutti gli uomini, e che diventerà corrente nella tradizione giudaica e sfocerà poi nel Nuovo Testamento.
Il quadro è veramente affascinante. E non solo per la fastosità del banchetto ma soprattutto per ciò che esso, al di là del simbolismo pur così trasparente, intende esprimere.
Prima di tutto, è la « universalità » dell’invito che colpisce: esso è rivolto a tutti « i popoli » (vv. 6-7), che però debbono confluire verso il monte Sion (vv. 7-10), che diventerà così il centro di raccoglimento di tutte le genti e di adorazione dell’unico vero Dio. Si pensi alla grande visione di Isaia 2,2-6: « Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà elevato sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti… ». È la Chiesa, « madre » di tutti gli uomini, che viene come in anticipo indicata a dito dal Profeta.
In secondo luogo, c’è da osservare che il banchetto non è fine a se stesso: esso è ordinato a creare intimità, conoscenza e amicizia fra il grande « convitatore », che è Iddio, e i suoi « ospiti ». Sembra essere questo il senso di quelle espressioni piuttosto misteriose: Dio « strapperà il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti » (v. 7). Il « velo », che « copre la faccia », sta a rappresentare l’ignoranza di Dio e la cecità spirituale, che vengono appunto fugate da quell’incontro di reciproca conoscenza e di scambievole fiducia che si realizza quando si partecipa alla stessa mensa.
Oltre a questo, il banchetto è destinato a produrre « gioia », vitalità, senso di sicurezza e di serenità. Di qui il riferimento alla « morte » che sarà eliminata per sempre, alle « lacrime » che verranno asciugate (v. 8). In altre parole, con l’immagine di questo grande incontro conviviale il Profeta preannuncia la « salvezza » escatologica che Dio offrirà a tutte le genti. È quanto risulta in maniera esplicita dalle parole conclusive, invitanti alla gioia, del nostro brano: « Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza » (v. 9).
Anche il Salmo responsoriale evoca, nella seconda parte, con tocchi delicatissimi la premura di Jahvè, che non solo invita, ma « prepara » lui stesso, per i suoi fedeli, il banchetto dell’amicizia (Sal 23,5). È la pienezza della gioia e della sicurezza nello stesso tempo (« sotto gli occhi dei miei nemici »), che il Salmista vuol qui esprimere con l’immagine del « convito », dopo averci già presentato Dio sotto l’affettuosa allegoria del « pastore ».
« Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati, ma questi non vollero venire »
Nella parabola degli invitati a nozze (Mt 22,1-14) Gesù ha certamente presente tutto questo sfondo di immagini e di realtà da esse significate: la benevolenza di Dio, che invita tutti a partecipare al grande « banchetto » in occasione delle « nozze » del suo « figlio ».
A differenza, però, dei testi dell’Antico Testamento, Gesù sposta la sua attenzione dalle premure di Jahvè al « modo » con cui gli invitati si comportano davanti al gesto così munifico del « re », che vuol far partecipare tanti altri alla sua gioia e a quella del « figlio ».
Anche qui è evidente che Matteo, al di là del velo dell’allegoria, vuol descrivere una « storia » vera e drammatica: la storia d’Israele che respinge la salvezza, che si chiude davanti al disegno di Dio, rifiutando il Vangelo.
A differenza della precedente parabola (quella dei vignaioli omicidi), con cui ha diversi punti di contatto, questa parabola è riportata anche da Luca (14,16-24) però con notevoli differenze, dovute certamente alle diverse intenzioni teologiche degli Evangelisti.
In Luca si parla soltanto di una « cena » preparata da un uomo qualunque; in Matteo, invece, si parla di un « re », che organizza la festa « nuziale » per il suo « figlio ». In Luca i servi sono mandati una sola volta; in Matteo invece due volte, prima dell’invito rivolto a tutti.
Inoltre, in Matteo c’è l’aggiunta, piuttosto incoerente sul piano dell’ordine letterario, ma trasparente su quello del significato, del « re » che manda le sue truppe e distrugge l’intera « città » dove abitavano quegli « assassini ». Se la città viene « data alle fiamme » (v. 7), è ancora possibile trovare gente che se ne sta tranquilla « ai crocicchi delle strade » (v. 8), in attesa dell’ulteriore invito del re?
È evidente, pertanto, che Matteo ha forzato la parabola per farle dire, oltre che un insegnamento, anche una « storia » vera che in alcune parti si è come sovrapposta alla parabola stessa, rendendola un po’ disorganica, come abbiamo or ora accennato.
Proprio partendo da questo ultimo particolare, è possibile dare l’interpretazione giusta della parabola. L’incendio della città allude quasi certamente alla distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C., interpretata dall’Evangelista come un gesto di punizione per avere non soltanto respinto l’invito dei « servi » del re, ma addirittura per averne « uccisi » alcuni e altri maltrattati (v. 6).
In questa prospettiva è chiaro che i « servi » sono i Profeti dell’Antico Testamento, ma anche gli Apostoli che Gesù ha inviato prima di tutto agli Ebrei, che sono qui raffigurati dagli invitati scortesi. Quelli poi che vengono invitati per ultimi, a prendere il posto dei primi, sono « i pubblicani e le prostitute », che, come abbiamo sentito nella parabola dei due figli, « precederanno » le persone, così dette « perbene », nel « regno di Dio » (Mt 21,31), ma soprattutto i pagani.
« Il re entrò per vedere i commensali e scorse uno che non aveva l’abito nuziale »
Però anche per questi il problema della salvezza non è già risolto: non basta essere invitati, accettare anche l’invito e assidersi nella festosa sala del banchetto per essere definitivamente salvi. Bisogna corrispondere a certe esigenze di « comportamento » richieste dal Vangelo, per essere degni di partecipare alla mensa nella casa del Signore, cioè nella Chiesa.
Sembra questo il significato dell’ultima parte della parabola, che manca in Luca, e in realtà contiene elementi che, in parte, contrastano con quanto precede: ad esempio, il fatto che uno dei tanti invitati, raccolti alla rinfusa all’ultimo momento, non abbia la veste nuziale e sia perciò allontanato. È per questo che più d’uno studioso ritiene che qui saremmo davanti a una seconda parabola, che Matteo avrebbe parzialmente rielaborato per accordarla con la precedente.
Ecco, dunque, che « il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senza abito nuziale? Ed egli ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre: là sarà pianto e stridore di denti. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti » (vv. 11-14).
Il fatto che il servo « ammutolisca » (v. 12) e non tenti di difendersi, vuol dire che si sente in colpa. D’altra parte, la punizione inflitta al colpevole è gravissima e, nel linguaggio apocalittico, esprime la esclusione definitiva dal regno della salvezza, cioè la dannazione eterna (cf Mt 8,12). Questo indica che non avere la veste « nuziale » è molto più che una, sia pur grande, scorrettezza di carattere sociale!
E allora, che cosa vuol significare « l’abito nuziale » in questo preciso contesto? Già l’osservazione precedente che nella sala del banchetto furono accolti tutti, « buoni e cattivi » (v. 10), ci orienta nella soluzione del problema: l’ospite che non aveva la veste nuziale è da porre certamente fra i « cattivi ». Il tutto allora ci riporta al mistero della Chiesa, nella quale la zizzania lussureggia tra il buon grano: il « giudizio » di Dio passa non solo in mezzo ai Giudei, oppure fra i Giudei e i pagani, ma all’interno stesso della Chiesa, nella quale non basta essere « invitati » per essere anche « salvati ».
È il senso drammatico della sentenza che conchiude la parabola: « Molti sono chiamati, ma pochi eletti » (v. 14). La frase non contiene indicazioni circa il numero grande o piccolo di quelli che si salveranno: vuol semplicemente dire che la sola « chiamata » alla fede non garantisce la « salvezza » finale. Però l’esclusione dal regno dipende integralmente dalla incapacità umana di cooperare con la grazia di Dio, « il quale desidera che ogni uomo si salvi » (l Tm 2,4).
La « veste nuziale », perciò, non può esprimere « che la stessa realtà che nella parabola dei vignaioli era stata indicata con i frutti del regno: cioè la giustizia concretata nella vita e nell’azione. Solo colui che ha compiuto la volontà del Padre celeste può sperare di essere nel numero degli eletti, portando con sé ciò che lo rende pronto a partecipare all’eterno banchetto. Ma davanti agli occhi suoi e nostri sta il destino di colui che, non avendo portato frutto, sarà strappato e gettato nel fuoco come l’albero infruttuoso ».1
Questo impegno a portare i « frutti » delle opere buone dovrebbe essere per un cristiano tanto più forte quanto più grande è stato l’amore di Dio verso di lui. A questo maggiore « amore » di Dio rimanda, infatti, tutta l’allusività « nuziale » della parabola: non è un invito a una cena qualsiasi, come abbiamo in Luca, ma a un « banchetto di nozze del figlio » del re (v. 2), per il quale appunto si richiede anche il conveniente « abito » nuziale. Tutto rimanda, dunque, a un impegno di amore aperto e generoso come risposta all’amore immensamente più grande che Dio ha dimostrato verso di noi, donandoci il suo « Figlio » nell’incarnazione e nella morte di croce.
« Ho imparato ad essere povero e ad essere ricco »
La breve lettura paolina esprime, in termini affettuosi, la gratitudine dell’Apostolo ai Filippesi per l’aiuto pecuniario inviatogli per mezzo di Epafrodito (Fil 4,18). Nello stesso tempo, però, Paolo rivendica l’indipendenza della sua missione apostolica da qualsiasi condizionamento esterno: i « frutti » del suo apostolato nascono tutti dalla sua capacità di affidarsi al Cristo, dal quale soltanto viene la sua « forza » (Fil 4,13). Tutto il resto gli è indifferente, anche se in qualche misura può contribuire alla causa della fede. « Ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui (Cristo) che mi dà forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alla mia tribolazione. Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza in Cristo Gesù » (Fil 4,12-14.19).
Il « frutto », come si vede, qui è duplice: quello dei fedeli, che dànno con generosità al loro maestro; quello di Paolo che, pur essendo grato per la carità dei suoi fedeli, non rallenta per niente il suo impegno apostolico, essendo « iniziato » veramente a tutto, ad « abbondare » e ad essere « indigente », a vivere e a morire per il suo Signore.
Da: CIPRIANI S.Convocati dalla Parola
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