OMELIA XXVII SETTIMANA DEL T.O. – C’ERA UN PADRONE CHE PIANTÒ UNA VIGNA…

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5 ottobre 2014 | 27a Domenica A | T. Ordinario | Omelia di approfondimento

« C’era un padrone che piantò una vigna
e l’affidò a dei vignaioli »

La Liturgia odierna è decisamente dominata dall’immagine piena di poesia campestre, ma anche di drammaticità, della « vigna ».
Nella tradizione biblica, infatti, la « vigna » sta a simboleggiare Israele, che Dio circonda di ogni premura e delicatezza perché porti abbondanza di frutto gustoso e inebriante.1 Il « vino », poi, per un popolo di agricoltori come ormai era diventato Israele, era simbolo di gioia, di festosità, di ebbrezza e anche di amore, e perciò era ingrediente indispensabile per tutte le celebrazioni nuziali. Si ricordi soltanto il miracolo delle nozze di Cana (Gv 2), o l’inizio giubilante del Cantico dei Cantici: « Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino » (Ct 1,2).

« Dio degli eserciti, volgiti e visita questa vigna »
Come si vede, l’immagine della « vigna » tendeva naturalmente a mescolarsi e a fondersi con quella anche più nota delle « nozze » fra Dio e il suo popolo.
Abbiamo detto che l’immagine non è solo piena di poesia, ma anche di dramma. Difatti la vigna può anche diventare sterile: e allora il padrone può abbandonarla alla sua rovina. Al di là del confronto puramente materiale, l’analogia diventa più significativa se si trasferisce sul piano dell’allusività simbolico-storica; è quello che è avvenuto una infinità di volte al popolo d’Israele, quando ha tradito il « patto » di amore e di fedeltà con il suo Dio.
Alcuni momenti, sia pure molto vaghi, di questa storia di infedeltà vengono rievocati con immaginazione poetica, assai esuberante, dal canto responsoriale, ripreso dal Salmo 80, che è una accorata preghiera a Dio per la rinascita d’Israele, ridotto ormai a una « vigna » abbandonata, aperta a tutte le incursioni degli animali selvatici.
Forse siamo al tempo della devastazione del regno del Nord da parte degli Assiri nel 721; forse siamo al tempo del saccheggio di Gerusalemme nel 586. Non sappiamo esattamente quando. Sta di fatto che Iddio ha abbandonato il suo popolo alla collera dei nemici a motivo della sua infedeltà. A nulla ha giovato tutto l’amore con cui egli aveva addirittura « trapiantato » dall’Egitto in terra di Canaan il « vitigno » prezioso di questa sua vigna (cf Sal 80,9-12).

« La vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele »
Più efficace ancora e più vibrante di amore ferito è il « canto della vigna », composto da Isaia all’inizio del suo ministero profetico, ispirandosi forse a una canzone popolare di vendemmia, e che ci viene offerto come prima lettura.
Nella prima strofa prende la parola il Profeta per descrivere la premura di Dio verso Israele:
« Canterò per il mio diletto
il mio cantico d’amore per la sua vigna.
Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle.
Egli l’aveva vangata e sgombrata dai sassi
e vi aveva piantato scelte viti;
vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato anche un tino.
Egli aspettò che producesse uva, ma essa fece uva selvatica » (Is 5,1-2).
Quelle qui descritte sono tutte le cure normali, che un avveduto coltivatore non trascurava per ricavare il massimo di frutto dalla sua vigna. Iddio, però, ha fatto anche di più: vi ha piantato vitigni « scelti », molto pregiati. Si capisce perciò la delusione finale, quando non trova nella sua vigna che « uva selvatica » (v. 2).
Di qui la sua collera, espressa in forma di « giudizio », chiamando a testimoni gli stessi Israeliti, che poi sono la sua « vigna ». Essi stessi riconosceranno che il « giudizio » di Dio è giusto, come avverrà anche nella parabola del Vangelo che esamineremo tra poco (vv. 3-6).
Pur essendo l’allegoria del tutto trasparente, il Profeta vi aggiunge un versetto di spiegazione, che gli consente di chiarire quali, in concreto, erano i « frutti » che Jahvè s’aspettava dal suo popolo:
« Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele;
gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita.
Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue,
attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi » (v. 7).
È soprattutto l’ingiustizia « sociale » che il Profeta denuncia, la sopraffazione e la violenza. Questa è « l’uva selvatica » che la « vigna » ha prodotto per il suo « diletto », cioè per Jahvè, suo « sposo ». L’amore più tenero e più disinteressato è stato dunque tradito: Israele non ha saputo esprimere nell’amore verso i fratelli la fedeltà al suo Dio.

La parabola dei vignaioli « omicidi »
All’allegoria della vigna in generale e al « canto » di Isaia in particolare si rifà Gesù nella parabola dei « vignaioli omicidi » (Mt 21,33-43), che è comune anche agli altri Sinottici,2 ma che Matteo ci presenta con alcune varianti redazionali di notevole interesse per la sua tematica ecclesiologica.
Prosegue la polemica contro i farisei e i capi del popolo, già iniziata con la parabola dei due figli (Mt 21,28-32); qui però la polemica è anche più aspra e l’allegoria più trasparente. Tanto che, al termine, i suoi ascoltatori, sentitisi scoperti, tentano un gesto di violenza contro di lui: « Udite queste parabole, i sommi sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro e cercavano di catturarlo; ma avevano paura della folla che lo considerava un profeta » (21,45).
Il progetto e anche l’azione omicida dei vignaioli contro il « figlio » del padrone non erano del tutto gratuiti o completamente folli: sembra infatti che, secondo le disposizioni di legge allora vigenti sulla eredità, un podere, alla morte del proprietario che non avesse eredi, passasse nelle mani del primo occupante.
Muovendosi sulla simbologia, già nota, d’Israele come « vigna » del Signore, è chiaro che Matteo intende qui descrivere alcune tappe della storia della salvezza particolarmente drammatica: i « servi », che i vignaioli successivamente massacrano, stanno a rappresentare i Profeti che non hanno mai avuto ascolto facile in Israele. Tra non molto, infatti, rivolgendosi proprio alla Città santa, Gesù dirà accoratamente: « Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto » (Mt 23,37).
Sia Marco che Luca parlano di tre successivi invii di un solo « servo », che poi viene ucciso. Matteo, invece, parla di più servi, inviati però due volte. Può darsi che l’Evangelista intendesse così alludere ai « primi » e ai « secondi » Profeti, secondo una caratteristica suddivisione della Bibbia in uso anche oggi presso gli Ebrei.
L’ultima tappa della storia della salvezza, quella più drammatica di tutte perché anche più carica di amore, è rappresentata dall’invio del « figlio », l’unico, che ha diritto all’eredità. Il Padre tenta generosamente l’estremo salvataggio del popolo eletto: ma invano! Quelli, infatti, « presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero » (v. 39).

« La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo »
Però la storia non poteva fermarsi qui. Che cosa avrebbe fatto il « padrone » della vigna davanti a tanta durezza di cuore dei suoi vignaioli? È quanto Gesù domanda al termine della parabola, provocando i suoi ascoltatori a una risposta che li coinvolgesse nel dramma. Ed essi rispondono con sincerità, pensando però che il dramma non riguardasse loro: « Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo » (v. 41).
In rapporto al « canto della vigna » di Isaia, qui c’è una novità: là si diceva che Jahvè avrebbe distrutto la sua vigna; Gesù invece dichiara che solo i vignaioli saranno puniti mentre la « vigna » sarà data « ad altri », che la faranno fruttare a « tempo » giusto.
La storia della salvezza, infatti, non può finire in uno scacco di Dio: ci dovrà essere la sua rivincita! E la rivincita sarà duplice: una riguarda lo stesso Cristo, l’altra la sua Chiesa che subentrerà al vecchio Israele, il quale non ha voluto riconoscere il suo Signore.
La rivincita che riguarda Cristo è espressa con le parole che seguono immediatamente: « Non avete mai letto nella Scrittura: la pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri? » (v. 42). Citando dal Salmo 118,22-23, Gesù rivendica a sé la funzione di « centralità » nel disegno di Dio che, vanificando e irridendo i progetti degli uomini, fa diventare « testata d’angolo » del suo nuovo edificio di salvezza Colui che era stato « scartato », cioè eliminato come « pietra » inadatta per qualsiasi costruzione.
Introducendo qui queste parole, che probabilmente appartengono a un altro contesto, Matteo ci porta oltre il dramma della morte di Cristo e preannuncia il trionfo della risurrezione. Quella storia, che gli uomini volevano bloccare con la violenza, proprio dalla croce ha preso vigore, per continuare la sua corsa nel mondo!

« Il regno di Dio sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare »
E la sua corsa continua oggi in quella nuova comunità di salvezza che è la Chiesa, in cui si attua la seconda rivincita di Dio. Infatti, mentre negli altri Sinottici la parabola finisce qui, in Matteo c’è una aggiunta molto significativa: « Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare » (v. 43).
Ciò che era implicito nel v. 41 (« darà la vigna ad altri vignoioli »), qui diventa esplicito: al « popolo » della vecchia alleanza, infedele e incapace ormai di far frutti « degni di conversione » (cf Mt 3,8), si sostituisce il nuovo « popolo » di Dio, che porterà abbondanza di frutti. Il termine greco qui adoperato (éthnos = popolo) ha lo stesso significato che nella prima Lettera di Pietro, dove così si descrive la Chiesa, quale nuovo Israele: « Ma voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione (éthnos) santa, popolo che Dio si è acquistato » (1 Pt 2,9).
Il disegno di Dio, dunque, non si interrompe: esso va avanti in Cristo e nella Chiesa. I vignaioli iniqui volevano appropriarsi della « vigna », uccidendo il Figlio: Dio, invece, ha glorificato il Figlio, ha ripreso la sua vigna e ha estromesso gli iniqui dal suo « regno ». Il dramma della infedeltà di Israele si è risolto in una più grande vittoria di Dio.
Matteo, però, insiste sul fatto che il nuovo popolo deve portare « frutti »; per ben due volte lo ripete (vv. 41 e 43). È un tema che gli è caro (1,18; 13,23, ecc.).
« La comunità cristiana trova così la sua caratteristica essenziale nel fare. Una ortodossia sterile la eguaglierebbe a Israele. Il regno si fa presente nell’ortoprassi. Viene perciò esclusa ogni pretesa e sicurezza fondata sul fatto di grazia di essere il nuovo popolo di Dio, ogni fiducia magica nel sacramento e ogni appello all’accettazione iniziale del messaggio evangelico. La fede nella propria identità di Chiesa del Signore non può disgiungersi dalla verifica operativa… La grazia salvifica rivelatasi nella comunità è esigente: essere il nuovo popolo di Dio impegna a una nuova vita, feconda di frutti di fedeltà ».3

« Tutto quello che è vero, nobile, giusto… sia oggetto dei vostri pensieri »
Su questa linea fortemente « operativa », in cui si verifica l’autenticità della nostra fede, si muove anche la breve lettura paolina, in cui l’Apostolo, dopo aver esortato i cristiani di Filippi a « pregare » con ogni insistenza il Signore, in ogni loro « necessità » (Fil 4,6-7), così prosegue: « In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovrete fare. E il Dio della pace sarà con voi! » (vv. 8-9).
La cosa più significativa di questo brano è che san Paolo esorta i cristiani a compiere tutto quello che è « naturalmente » onesto, giusto, nobile.
Il cristianesimo, infatti, non ci deve allontanare dall’impegno di attuare, insieme a tanti altri fratelli, i valori e le istanze più comuni della vita e della convivenza umana: però il credente trae la sua ispirazione di fondo, per valutare « tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile », ecc. (v. 8), dagli insegnamenti e soprattutto dall’esempio di Cristo e dello stesso Apostolo (v. 9). Inoltre, attinge la sua forza per fare tutto questo dalla « preghiera » (vv. 6-7).
L’ideale « operativo » del cristiano, perciò, è tutt’altro che un ideale storico, o meramente umanistico, o prassistico; anche se dall’umano deve pur sempre partire!

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola.

Publié dans : OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |le 3 octobre, 2014 |Pas de Commentaires »

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