Archive pour septembre, 2014

IN PRINCIPIO ERA L’ACQUA

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IN PRINCIPIO ERA L’ACQUA

DI ANNA POZZI

Cambiamenti climatici, privatizzazioni, disastri ambientali stanno trasformando un bene primario come l’acqua in una merce contesa e redditizia. Eppure in tutte le grandi religioni essa mantiene una valenza sacra e un forte valore simbolico. Lo stesso papa Benedetto XVI associa l’acqua al diritto primario alla vita. Viaggio ai quattro angoli del pianeta, dove «l’oro blu» sta diventando una risorsa sempre più scarsa e preziosa. E per la cui salvaguardia si mobilitano anche le Chiese.

«In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque». Cielo, terra, acqua. Nel primo versetto della Genesi, Dio crea ciò che sta in principio. Terra informe e deserta, cielo e acqua.
Non diversamente, in molte altre civiltà e religioni, l’acqua sta all’inizio. È principio generatore, origine della vita, elemento primigenio. Per il filosofo greco Talete è all’origine di tutte le cose; nella lingua sumera «a» significa sia «acqua» che «generazione». Per gli indù, il Gange è una dea, mentre per le religioni afroamericane molte divinità sono acquatiche. In Cina l’acqua è all’origine del caos da cui si è generato l’universo, nello scintoismo giapponese viene usata per i riti di purificazione di persone o luoghi. Non diversamente, in molte altre religioni l’acqua è utilizzata nelle abluzioni rituali (ebraismo, islam…) o è simbolo di purificazione e benedizione di Dio (cristianesimo).
«Insieme con tutte le religioni», evidenzia monsignor Karl Golser, vescovo di Bolzano-Bressanone, presidente dei Teologi moralisti italiani, molto sensibile ai problemi ambientali, «la Chiesa cattolica è chiamata a evidenziare e testimoniare attraverso la propria teologia e liturgia i ricchi significati dell’acqua, che è collegata con la vita stessa. D’altra parte, deve poter offrire nella propria dottrina sociale dei principi e dei valori che si rifanno alla natura stessa della persona umana e della società». Nelle Sacre Scritture, fa notare monsignor Golser, «l’acqua è vista come elemento che permette la vita, ma anche come minaccia per ogni vivente. È dono prezioso e scarso in terra arida: purifica e guarisce, disseta l’uomo ed è immagine di Dio che disseta la sete dell’anima. L’acqua ha la forza di spegnere il fuoco, sia in senso materiale che spirituale, ed è simbolo per la vita eterna. Infine, nella liturgia cristiana, l’acqua ha fondamentale importanza, soprattutto per il battesimo. Il battesimo con l’acqua e lo Spirito Santo redime dai peccati e unisce al mistero di Cristo morto e risorto».
L’acqua, dunque, conserva un grande valore simbolico per i cristiani, così come per molte altre culture, religioni e civiltà, ma essa rappresenta anche un bene primario fondamentale e irrinunciabile per la sopravvivenza. Sopravvivenza di popolazioni sempre più numerose, di società sempre più complesse, di ecosistemi sempre più messi a dura prova. Le acque dolci presenti sul pianeta rappresentano solo il 3 per cento del totale (e due terzi sono costituite da ghiacciai e nevi perenni). E la distribuzione non è propriamente uniforme, anzi. Una decina di Paesi concentrano il grosso della disponibilità idrica planetaria: dal Brasile alla Russia, dal Canada al Congo, dagli Stati Uniti all’Indonesia, solo per fare alcuni esempi. L’utilizzo riguarda soprattutto l’uso agricolo (60 per cento), quello industriale (25 per cento) e quello domestico (15 per cento). Ma anche in questo caso non siamo tutti uguali: mediamente una persona avrebbe bisogno di 50 litri di acqua al giorno, ma un abitante degli Stati Uniti ne consuma 425 (un italiano 237), mentre un cittadino del Mali o del Madagascar arriva a mala pena a 10.
Attualmente 1,4 miliardi di persone vivono in una situazione critica per quanto riguarda l’accesso all’acqua potabile, mentre altri 2 miliardi sono al limite della sufficienza. A ciò si aggiunga che 2,4 miliardi di persone non ha accesso ad alcun tipo di intervento in ambito di sanità essenziale e che circa 5 milioni di persone – soprattutto bambini con meno di 5 anni – muoiono ogni anno a causa di queste mancanze. Le più colpite sono inevitabilmente le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, dove persistono condizioni di estrema povertà, con grosse difficoltà di accesso all’acqua. E le previsioni non sono ottimistiche: si stima, infatti, che nell’arco di un ventennio la percentuale degli assetati potrebbe passare dal 25 al 40 per cento della popolazione mondiale.
Persino Benedetto XVI nella recente enciclica Caritas in Veritate ha fatto un preciso riferimento al problema, riconducendo la questione del mancato accesso a cibo e acqua a una dimensione più generale e « alta » di diritto primario alla vita. «Il diritto all’alimentazione così come all’acqua», si legge nell’enciclica, «rivestono un ruolo importante per il perseguimento di altri diritti, a iniziare dal diritto primario alla vita. È necessario, pertanto, che maturi una coscienza solidale che consideri l’alimentazione e l’accesso all’acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né discriminazioni» (n. 66).
«La dottrina sociale della Chiesa», fa notare monsignor Golser, «parla di « ipoteca sociale » che grava su ogni proprietà. Il che vuol dire che la proprietà privata è condizionata dal principio superiore della destinazione universale dei beni della terra e che quindi deve cedere davanti al diritto primario di ognuno di potersi nutrire e dissetare».
Nel caso dell’acqua, non si tratta, tuttavia, solo di un problema di scarsità di risorse idriche. Interessi, speculazioni, sperequazioni stanno spesso dietro alla mancanza di accesso all’acqua o alla cattiva gestione di questo bene. Problemi che si associano alla scarsità di risorse economiche – specialmente nei Paesi in via di sviluppo –, all’incapacità di fornire servizi in ambito sanitario, alla cattiva igiene anche in luoghi pubblici come scuole e ospedali e a una mancanza di educazione e formazione della popolazione. Molte malattie, ad esempio, potrebbero essere evitate se venisse fornito un accesso su vasta scala ad acqua sicura e a servizi sanitari adeguati.
Questa situazione stride fortemente con quello che era stato identificato come uno degli obiettivi prioritari del Millennio: «Dimezzare entro il 2015 il numero delle persone che non hanno accesso a una fonte d’acqua potabile e a servizi igienici adeguati». Obiettivo che, come altri, verrà certamente disatteso. E, infatti, da quando la Dichiarazione del Millennio dell’assemblea generale delle Nazioni Unite venne promulgata nel 2000, la situazione non ha fatto che peggiorare. Anche perché nelle logiche di mercato, l’acqua ha perso via via la sua connotazione di bene primario e fondamentale per essere considerata alla stregua di una merce preziosa e redditizia.
Oggi la situazione è alquanto complessa e molte sono le problematiche legate all’acqua, riconducibili in parte ai cambiamenti climatici, in parte agli interventi dell’uomo. Privatizzazioni, inquinamento dell’acqua e dell’ambiente, industrie e agricoltura intensiva, moltiplicazione delle dighe, aumento del consumo domestico: tutti fattori che hanno ripercussioni sull’ambiente (moltiplicarsi di cicloni e alluvioni, scioglimento dei ghiacciai, prolungate siccità, innalzamento dei mari…) e aggravano i problemi idrici in molte parti del mondo. Problemi che, sempre più spesso, sono all’origine di conflitti.
Già dieci anni fa, le Nazioni Unite avevano lanciato l’allarme: se il XX secolo è stato quello delle guerre per l’«oro nero» (il petrolio), il XXI sarà il secolo delle guerre per l’«oro blu» (l’acqua). Attualmente, si calcola che nel mondo siano sono in corso una cinquantina di conflitti per il controllo dell’acqua. Inoltre, molti governi « usano » l’acqua come risorsa strategica a supporto dei loro interessi geo-politici ed economici. Da più parti, invece, si chiede che i Paesi approvino una «legge nazionale sull’acqua», ispirata a principi di solidarietà e sostenibilità, affinché una parte non prevalga sull’altra. Ma i concetti di solidarietà e sostenibilità spesso non si coniugano con gli interessi di mercato o con quelli della politica.
Il conflitto tra principi e interessi viene affrontato anche dal Compendio della dottrina sociale della Chiesa, che afferma: «L’acqua, per la sua stessa natura, non può essere trattata come una mera merce tra le altre e il suo uso deve essere razionale e solidale» (n. 485). «Il progresso tecnologico e la globalizzazione economica», commenta monsignor Golser, «hanno fatto sì che tutto sembra poter diventare merce, da cui trarre profitto. Per questo, oggi bisogna recuperare il ruolo della politica, al di sopra dell’economia, come servizio al bene comune, guidato da regole di giustizia. E dobbiamo ispirarci agli atteggiamenti del tutto diversi presenti, ad esempio, nei popoli indigeni, che mai hanno cercato di acquistare diritti di proprietà sulle loro terre e acque».
In passato molti popoli, in contesti, culture e religioni diverse, hanno sviluppato tecnologie e stratagemmi per la salvaguardia e la conservazione idrica e hanno fatto dell’acqua uno strumento di pacificazione reale e simbolico in molte situazioni di conflitto. Oggi, invece, l’acqua è sempre più spesso oggetto di contese e di violenze. Lo denuncia con forza anche la scienziata indiana Vandana Shiva, che vi ha dedicato un libro intitolato Le guerre dell’acqua (Feltrinelli 2004). Vi si evidenzia come l’economia globalizzata stia cambiando la definizione di acqua da bene pubblico a proprietà privata. «Più di qualsiasi altra risorsa», sostiene la Shiva, «l’acqua deve rimanere un bene pubblico. L’acqua può essere utilizzata ma non posseduta e in tutta la storia dell’umanità e in culture diversissime è stata gestita come bene pubblico condiviso. Anche in condizioni di scarsità sono nati sistemi sostenibili di gestione dell’acqua con l’impegno per la conservazione di generazione in generazione».
Ecco perché essa rientra tra le tematiche più sensibili e preoccupanti di questo millennio. Anche il vertice del G8 a L’Aquila, lo scorso luglio, ha individuato alcune priorità: gestione delle risorse idriche, investimenti nel settore, piani regolatori internazionali per gli interventi sull’acqua. «Non è possibile negoziare il futuro dell’umanità senza mettere in conto l’acqua», ribadisce con forza Riccardo Petrella, segretario generale del Comitato internazionale per il Contratto mondiale sull’acqua. «Sembra che alcuni Paesi si orientino a proporre che l’acqua faccia parte dell’agenda per il nuovo trattato mondiale. Ne va della pace nel mondo e della sacralità della vita».
In quest’ottica si inserisce anche il missionario comboniano Alex Zanotelli, che ha lanciato un appello a tutte le comunità cristiane e alla Conferenza episcopale italiana, in occasione della quarta Giornata mondiale del Creato, del primo settembre scorso. La Giornata quest’anno era dedicata al tema dell’aria e invitava a riflettere sui danni e le conseguenze dei gas serra e sulla prossima conferenza di Copenaghen del 7 e 8 dicembre. «Non possiamo però dimenticare», scrive padre Zanotelli, «che le conseguenze più serie e devastanti dei cambiamenti climatici concerneranno l’acqua sul piano della disponibilità sia quantitativa che qualitativa».
La critica e la mobilitazione hanno di mira in particolare la legge 133, approvata in sordina dal Parlamento con l’appoggio dell’opposizione, il 6 agosto 2008; l’articolo 23bis del decreto Tremonti 112 stabilisce «il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica». L’obiettivo è quello di «favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale». In sostanza, il decreto obbliga i Comuni a mettere all’asta la gestione delle loro reti idriche e a ridurre la quota del pubblico nella gestione dell’acqua al 30 per cento entro il 2012, spalancando di fatto la strada alla privatizzazione dell’acqua. Peccato che in Italia, già nel 2007, i comitati locali per l’acqua pubblica avessero raccolto 400 mila firme e presentato in Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare che tuttavia non ha trovato alcun relatore. Emilio Molinari, presidente del Comitato italiano per il Contratto mondiale sull’acqua, ha chiesto al ministro Tremonti di «scorporare il servizio idrico dalla legge 133 e di aprire una discussione sui servizi di interesse generale (art. 43 della Costituzione) e sulla legge di iniziativa popolare del movimento e inoltre di intervenire con un piano di investimenti pubblici per rinnovare l’intera rete idrica italiana che disperde il 35 per cento dell’acqua».
Il nostro Paese ha un altro primato negativo, quello di essere il maggior consumatore di acqua imbottigliata al mondo, il 65 per cento della quale viene venduta in contenitori di plastica; questo si traduce in ben 9 miliardi di bottiglie all’anno da smaltire. «La Chiesa italiana», ricorda monsignor Golser, «è già intervenuta in più occasioni sul problema dell’acqua, dedicando, ad esempio, la Giornata per la salvaguardia del Creato del 2007 a questo tema. C’è una commissione presso la Cei che si occupa di questi problemi ed è stata creata una Rete interdiocesana nuovi stili di vita, cui aderiscono 24 diocesi, che lavora su tali questioni, cercando di creare una coscienza più diffusa su tutte le tematiche che riguardano l’ambiente e la salvaguardia del Creato».
Anche a livello ecumenico, non mancano le iniziative. Tra i più attivi, ormai dagli anni Ottanta, è il patriarca ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo I, che è proprio all’origine della Giornata mondiale del Creato, cui aderisce anche il Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee). I membri del Ccee e della Conferenza della Chiese europee (la Kek, che raccoglie ortodossi, protestanti, anglicani) hanno pubblicato un documento comune al termine del Comitato congiunto di Esztergom, in Ungheria, lo scorso febbraio, in cui si ribadisce che «come europei, abbiamo bisogno di condividere un senso di solidarietà con i più poveri del mondo, che sono le vittime primarie del nostro atteggiamento irresponsabile nei confronti del Creato». Anche nella preparazione della terza Assemblea ecumenica europea di Sibiu, un paragrafo specifico era stato dedicato al tema «Acqua, fonte di vita», in cui si ribadiva che «l’acqua è un bene comune, non deve essere trasformato in bene commerciabile».
A livello europeo questa sensibilità si è concretizzata nell’Environmental Christian European Network (Ecen), mentre in termini di cooperazione ecclesiale Nord-Sud è particolarmente significativa la Dichiarazione ecumenica sull’acqua come diritto umano e bene pubblico, sottoscritta il 22 aprile 2005 a Friburgo, in Svizzera. Tra i firmatari, la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb), il Consiglio nazionale delle Chiese cristiane (Conic) – che riunisce, oltre alla Chiesa cattolica, le principali denominazioni protestanti e ortodosse del Paese sudamericano –, la Conferenza dei vescovi della Svizzera e la Confederazione svizzera delle Chiese evangeliche, il che ne fa un documento di convergenza non solo tra diverse confessioni cristiane, ma anche tra Chiese del Nord e del Sud del mondo.
Un altro esempio positivo in termini di cooperazione tra le Chiese del Nord e del Sud è proprio della scorsa estate: una sorta di gemellaggio all’insegna dell’acqua tra un nutrito gruppo di associazioni francesi di ispirazione cattolica e le popolazioni del bacino del fiume Niger. Grazie a questa iniziativa molti francesi hanno potuto «vivere un’estate in maniera diversa», come recitava lo slogan, con percorsi di sensibilizzazione per «non sprecare questo bene comune fondamentale» e dare una mano a chi è all’asciutto, attraverso la realizzazione di un progetto idrico solidale in Niger. Insomma, anche quando manca, l’acqua continua a far bene.

Giuseppe Altamore

LA BIBBIA SECONDO GLI EBREI – DI GIANFRANCO RAVASI

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LA BIBBIA SECONDO GLI EBREI

DI GIANFRANCO RAVASI

Maestri nella lettura e nell’interpretazione della Torah, gli ebrei hanno una antichissima consuetudine con le Sacre Scritture. Per conoscere i loro «fratelli maggiori», dunque, i cristiani devono innanzitutto capire come essi si rapportano alla Parola di Dio.
Il 21 di questo mese il calendario colloca la festa di san Matteo, l’apostolo che, stando alla narrazione evangelica, era un esattore, ma che nella stesura del suo Vangelo fatto di 18.278 parole greche, distribuite ora in 1070 versetti e 28 capitoli, si rivela come uno scriba ebreo, tant’è vero che c’è chi ha ipotizzato che i cinque grandi discorsi di Gesù destinati a reggere il suo scritto vogliano ammiccare a una novella Torah o Pentateuco cristiano. Certo è che il suo è il testo evangelico più « giudaico » sia per rimandi a situazioni concrete (anche polemiche), sia per l’imponente massa di citazioni bibliche (almeno 63 sono quelle esplicite). Inoltre, l’ultimo giorno di questo mese reca anche la memoria del « biblista » san Girolamo che non solo si dedicò con passione allo studio delle Scritture, ma che fece della loro versione in latino la missione principale della propria vita, andando persino a lezione di ebraico da un rabbino.
Ebbene, sulla scia di queste due figure, vorremmo ora riservare il nostro spazio a una sintetica e semplificata presentazione della modalità con cui l’ebraismo ha letto e legge la Parola di Dio. Dovremo naturalmente ricorrere a una terminologia « tecnica » piuttosto specifica, ma pensiamo che questo offrirà l’occasione a tutti per arricchire il nostro approccio alla Bibbia. Per chi vorrà approfondire il tema, rimandiamo alle voci specifiche dei vari dizionari biblici e alla raccolta di saggi, curata da S. J. Sierra, La lettura ebraica delle Scritture, edita dalle Dehoniane di Bologna nel 1995. Una prima menzione di questa lettura appare nello stesso Antico Testamento, proprio alle origini di quello che verrà poi denominato il giudaismo. Si tratta della scena descritta nel capitolo 8 del libro di Neemia che tempo fa abbiamo approfondito proprio in questa rubrica.
Il sacerdote Esdra, di fronte all’assemblea degli Ebrei rimpatriati dall’esilio babilonese, presiede coi leviti un rito in cui si legge la Torah «a brani distinti e con spiegazione del senso così da far comprendere la lettura» (v. 8). In quella menzione dei «brani distinti» alcuni intravedono la genesi delle parashôt, ossia delle « pericopi », cioè dei brani con cui è attualmente suddiviso il Pentateuco in modo da consentirne la lettura integrale in sinagoga nei sabati secondo un ciclo triennale o annuale. A questo proposito vorremmo qui far cenno anche alla questione della traduzione: in epoca post-esilica era divenuto dominante l’aramaico; così si procedeva spesso – dopo la lettura dell’ebraico con cui era stata scritta la Torah – alla versione nella nuova lingua popolare. Era il cosiddetto targum, che non di rado si trasformava in una vera e propria parafrasi, divenendo un documento prezioso per la storia dell’interpretazione della Bibbia nell’antichità giudaica.
Questo fenomeno ci spinge a illustrare un altro dato caratteristico, quello della derashah, cioè della «ricerca» o «esegesi» ebraica delle Scritture. Tra l’altro, ricordiamo che ciò che noi denominiamo come Bibbia, ossia «i libri» sacri, nel giudaismo era la miqra’, «lettura» (la stessa radice e lo stesso significato sono alla base del vocabolo «Corano»), o meglio Ta-NaK, un acronimo che comprendeva le tre parti in cui era articolato l’Antico Testamento: la Torah, i Nevi’îm, cioè i Profeti, e i Ketubîm, gli Scritti sapienziali. Ebbene, quella «ricerca» seguiva più percorsi: ne vorremmo evocare solo un esempio che ha come oggetto la preghiera di Anna, futura madre di Samuele, nel tempio di Silo (1Samuele 1,9-18).
La Bibbia dice che «parlava in cuor suo», cioè – spiegano i rabbini – «chi prega lo deve fare con l’intenzione del cuore»; però «muoveva le labbra», e questo perché l’orante deve sempre coinvolgere il corpo nella preghiera; ma «non si sentiva la sua voce», così da insegnarci che chi prega non deve alzare eccessivamente la voce; Anna era stata erroneamente ritenuta dal sacerdote di quel tempio un’ubriaca per questo suo comportamento: in tal modo ci è stato insegnato che all’ubriaco non è lecito pregare. Come si vede, è una minuziosa applicazione dei vari segmenti del testo sacro al comportamento del fedele.
L’altro modello di lettura ebraica delle Scritture era detto haggadah, «narrazione»: si cercava di abbellire la pagina biblica, colmandone i vuoti narrativi con libere ricostruzioni, oppure si introducevano spunti omiletici o morali o esistenziali, talora dando origine a vere e proprie trame nuove con prodotti sbocciati da un germe biblico e cresciuti a dismisura. Molti esegeti, ad esempio, ritengono che alcuni libri deuterocanonici come quelli di Tobia, Ester e Giuditta obbediscano alle regole dell’haggadah, mentre celebre è l’haggadah pasquale giudaica che è modulata molto creativamente sul racconto pasquale del capitolo 12 dell’Esodo. Questo approccio narrativo ebbe grande successo nella cosiddetta letteratura apocrifa cristiana e continuò a permanere anche nell’epoca patristica (si pensi, ad esempio, alla nota Vita di Mosè di Gregorio di Nissa, nel IV sec.).
A questo punto tentiamo di individuare i metodi interpretativi che reggevano simili «ricerche» sul testo biblico. Quattro sono le vie adottate, stando almeno a una classificazione tradizionale. Con le loro iniziali esse ricalcherebbero le quattro consonanti della parola «paradiso» (in ebraico pardes), ossia P, R, D, S. Il primo metodo, dunque, era detto Peshat e puntava diretto al significato primario del testo, quello letterale. Il secondo andava oltre questo valore basico ed era denominato appunto Remez, «insinuazione», ed era la scoperta di significati reconditi, segreti, che talora ammiccavano persino nelle stesse lettere delle parole ebraiche, sulla scia di quel detto rabbinico che affermava: «Settanta sono i volti di ogni parola della Torah».
Giungiamo, così, al terzo metodo, il Derush, ove si ha ancora la radice verbale della «ricerca» già incontrata: attraverso il ricorso a sentenze, proverbi, parabole, dispute e altri generi letterari si applicavano i testi biblici alla storia vissuta da Israele nel passato e nel presente, aprendo squarci sul futuro. Era, quindi, un’attualizzazione della Parola di Dio. Infine, ecco il Sôd, cioè «il segreto, il mistero»: per intuire questo senso supremo e trascendente delle Scritture era necessaria una grazia particolare, ed è per questa via che si delineavano alcuni percorsi mistici ed esoterici che approdarono ad alcune opere legate alla tradizione della Kabbalah, fiorita soprattutto in epoca medievale.
Naturalmente questo quadro da noi abbozzato è fortemente schematico e non rende conto della complessità dell’accostamento che la tradizione giudaica ha operato nei confronti della Scrittura, sia nell’ambito della sinagoga e, quindi, dell’ufficialità, sia nella lettura privata, sia nella ricerca rabbinica che spesso raggiungeva livelli di alta sofisticazione, tali da introdurre vere e proprie geometrie mentali fini a sé stesse. Certo è che si teneva sempre ferma la convinzione della necessità di un significato di base legato alle parole e della presenza di un significato trascendente, pensato e voluto dal divino Autore. Era per questa strada che si configurava oltre alla Torah she-bi-ketab, cioè alla Torah scritta, fondamentale e intangibile, una Torah shebe-’al peh, ossia una Torah orale, destinata a raccogliere l’intima densità spirituale della pagina scritta.
Concludiamo con un cenno al giudaismo contemporaneo che ha aperto qualche nuovo sentiero interpretativo. Pensiamo al ricorso al testo sacro in chiave politica per giustificare, ad esempio, l’«eredità» di Israele nei confronti della Terra Santa (in questa linea un impulso fu dato da un movimento « laico » come quello sionista, ma è presente ovviamente in chiave religiosa presso i cosiddetti ebrei ortodossi). La stessa Shoah dette l’avvio a una lettura intensa e fin drammatica delle Scritture, con domande radicali sulla possibilità di credere nella Bibbia e in Dio dopo un’esperienza così tragica per la fede. Ai nostri giorni, poi, ha preso il via una lettura che tiene conto della presenza cristiana e che, perciò, apre spiragli per una nuova teologia messianica (su questo aspetto, molto specifico e problematico, abbiamo già avuto l’occasione di intervenire non molto tempo fa su queste stesse pagine, parlando degli « Ebrei messianici »).
Rimane, comunque, sempre valido l’appello contenuto negli Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare « Nostra Aetate n. 4″, proposti nel 1974 dalla Commissione per le relazioni religiose della Chiesa cattolica con l’ebraismo: «È necessario che i cristiani cerchino di capire meglio le componenti fondamentali della tradizione religiosa ebraica e apprendano le caratteristiche essenziali con le quali gli Ebrei stessi si definiscono alla luce della loro attuale realtà religiosa».

 

Nuremberg chronicles

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Publié dans:immagini sacre |on 2 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

REPORTAGE : SUI PASSI DI PAOLO IN TURCHIA, « CULLA » DEL CRISTIANESIMO (2008)

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REPORTAGE : SUI PASSI DI PAOLO IN TURCHIA, « CULLA » DEL CRISTIANESIMO

Antiochia, Efeso, Tarso, Iconio, Cesarea di Cappadocia…
A pochi giorni dall’apertura dell’ »Anno Paolino », il 29 giugno,
ecco cosa resta del passaggio dell’ »Apostolo delle Genti » in Asia Minore.
Là dove sbocciò la Chiesa, e oggi dominano « islam » e « laicismo atatürkiano ».

Dal nostro inviato in Turchia, Anna Maria Brogi
(« Avvenire », 8/6/’08)

Sventola la bandiera con la mezzaluna e la stella su fondo rosso, davanti alla Chiesa di San Pietro ad Antiochia. Sventola per affermare il primato statale. Da questa balconata naturale sulla città e sul Mediterraneo, più che a una Chiesa si accede a una grotta, scavata dall’acqua nel Monte Staurino. O meglio a un sito « museale », come rivela la biglietteria. Per entrare sul « sagrato-terrazza », con i pini e gli olivi, ci vogliono cinque lire turche (due euro e mezzo).
Il panorama le vale. Nella Chiesa solo un altare spoglio, una statuetta di Pietro e il « trono » del Santo. Collocati negli anni Trenta, sono posteriori alla facciata di marmo ricamata sul grigio del calcare nel 1863. Dal basso sale l’odore della polvere. Un « caos » senza rumore, attutito dalla distanza e dal vento. Questa è Antiochia di Siria, sull’Oronte, dove fuggirono molti ebrei cristiani al tempo delle prime persecuzioni. Qui arrivò Paolo, chiamato da Barnaba, intorno all’anno 46. E qui avvenne l’incontro con Pietro, narrato nella « Lettera ai Galati ». Forse fu proprio in questa cavità naturale: quale rifugio più amico per una comunità di profughi?
Oggi la Chiesetta torna a vivere di tanto in tanto grazie ai pellegrini, che con un permesso vi celebrano Messa. Diventa la casa di tutti il 29 giugno, festività dei Santi Pietro e Paolo, quando accoglie i cristiani locali (un migliaio di differenti riti e confessioni) insieme con le comunità di ebrei e musulmani.
Dal porto di Antiochia Paolo salpò per i suoi tre viaggi, che lo portarono nel Mediterraneo orientale su un percorso di 25mila chilometri.
Non sembra ricordarsene la città, che pure è « crocevia » dei tre « monoteismi ». Aleppo, in Siria, dista appena ottanta chilometri; ancora meno i resti, sempre oltre frontiera, della Basilica di San Simeone lo Stilita.
Di tanta eredità « paleocristiana », in Turchia sembrano riecheggiare quasi solo i « toponimi ».
Antiochia, Efeso, Tarso, Iconio, Cesarea di Cappadocia (le odierne Konya e Kayseri). Bastano a evocare personaggi e vicende dei primi secoli di evangelizzazione. In quest’ »Anno Paolino », che si aprirà ufficialmente il 29 giugno, si è deciso di valorizzare questi luoghi, per farne bandiera di benvenuto ai pellegrini d’Europa. E dunque a Tarso uno striscione proclama « St. Paul Yili 2008″, in turco e in inglese (« The Pauline Year »).
Sono già arrivati i venditori di « gadget », dalle « iconcine segnalibro » ai cappellini di tela. Ma è l’unico indizio di qualcosa nell’aria. Nelle « viuzze » dell’antico quartiere ebraico, dove Paolo nacque e dove restano le fondamenta della tradizionale « casa », si respira un’atmosfera giovanile da anni Settanta. La zona « pullula » di caffè e « narghilé bar »: nei freschi interni e nei cortili ombreggiati i ragazzi « strimpellano » la chitarra e le ragazze improvvisano cori, tra un tiro e l’altro della pipa ad acqua. Un cartello racconta la storia di Paolo.
È scritto in inglese e l’ha posto, nel 1988, la municipalità. Di stranieri, ne arrivano: la regione, stretta tra i monti Tauro e il Mediterraneo, costellata di torrenti e cascate, ha una forte vocazione turistica e richiama gli appassionati delle attività all’aria aperta. Nel Medioevo qui passavano i pellegrini sulla via di Gerusalemme.
Oggi come allora, si può sostare al pozzo di San Paolo e berne l’acqua in segno di benedizione: è stato ripulito e l’acqua è tornata potabile. Di Paolo a Tarso resta anche una Chiesa, costruita nell’Ottocento dai cristiani armeni. Non più in uso, è un sito « museale ». In attesa di rianimarsi.
Musei all’aperto, fin troppo animati, sono la Cappadocia ed Efeso, mete obbligate del turismo culturale. Accomunate dal cristianesimo delle origini, mantengono pallida traccia di quel loro passato. Nel Parco di Göreme, con le Chiese rupestri, un affresco lascia intuire il volto di Paolo. E nella valle dei « camini delle fate », la più famosa della Cappadocia, le guide raccontano ai pellegrini del passaggio dell’Apostolo da una Chiesetta scavata in quei coni di tufo. Di certo c’è che qui Paolo è transitato, poiché vi si trovava una comunità cristiana, e nel primo secolo la cavità esisteva, pur non essendo Chiesa. Ma la bellezza del sito e la « bizzarria » geologica bastano a soddisfare le aspettative di chi va di fretta.
Chi invece sia disposto a ricalcare a passo lento le orme dell’Apostolo può muoversi lungo il « Cammino di San Paolo » (« St. Paul Trail »), un percorso di « trekking » di montagna segnato su sentiero dal 2004: cinquecento chilometri da Perge, vicino ad Antalya, fino a Yalvaç (Antiochia di Pisidia), con un ramo che parte da Aspendos per raggiungere il sito romano di Adada. Fuori dalle rotte del turismo di massa, Antiochia di Pisidia fu sede episcopale e uno dei centri principali del cristianesimo in Asia Minore.
Distrutta dalle invasioni arabe nel settimo secolo, conserva le fondamenta della sinagoga dove predicò Paolo, poi trasformata in Basilica.
Se il sito non è paragonabile alle glorie di Efeso, ha il pregio del silenzio e invita alla meditazione.
A Efeso poco resta di archeologia cristiana.
Splendide le vie « colonnate » e le terme, le case del pendio con affreschi e mosaici, la biblioteca di Celso. Mirabilmente intatta la struttura urbanistica. E il Teatro, dove andò in scena quella « rivolta degli orefici » che costrinse l’Apostolo a lasciare la città. Oggi gli studenti vi improvvisano recite e ha ospitato un concerto di Sting. La città di marmo bianco continua a dare spettacolo della propria opulenza. Anche qui, l’impronta cristiana rischia di sfuggire e va inseguita: San Paolo vi abitò per due anni e mezzo, ma l’unico riferimento archeologico certo è il Teatro. Non c’è neanche un cartello, poi, a indicare i resti della Basilica del Concilio. Si trovano subito dopo l’ingresso della « città bassa » (o prima dell’uscita per chi entra dall’alto), prendendo il sentiero sulla destra. Si arriva in un campo e, in mezzo all’erba, stanno quelle pietre così poco sontuose ma che delimitano il luogo dove si riunirono nel 431 i « padri conciliari » e dove proclamarono il « dogma » della « Madre di Dio ». Una targa ricorda che qui pregò Paolo VI il 26 luglio del 1962. Ai turisti non interessa, dicono le guide: «Qui vengono solo i pellegrini».

25.000 chilometri di Vangelo e persecuzioni
Il primo dei tre viaggi missionari di Paolo in Anatolia risale agli anni 46-47. L’Apostolo era accompagnato da Barnaba e dal cugino di lui, Giovanni Marco. Salparono da Antiochia alla volta di Cipro, sbarcando a Salamina.
All’altro capo dell’isola, nella città di Pafo, furono testimoni della conversione del governatore romano Sergio Paolo. Da Pafo si imbarcarono di nuovo, raggiungendo Perge nei pressi dell’attuale Antalya.
Da lì si inoltrarono nell’entroterra, spingendosi nel cuore dell’Anatolia centrale, e predicarono il Vangelo ad Antiochia di Pisidia, Iconio, Listri e Derbe. Più tardi, nelle « Lettere », Paolo racconterà le fatiche e le difficoltà di questo primo viaggio, che suscitò molte conversioni ma anche frequenti persecuzioni e ostilità da parte sia degli ebrei sia dei pagani. Paolo ritornò ad Antiochia lungo la stessa strada, salpando da Attaleia (oggi Antalya).
Nel 49 l’Apostolo ripartì, accompagnato da Sila. Visitò i cristiani di Derbe, Listra, Iconio e Antiochia di Pisidia. Dall’Anatolia centrale si spostò poi nella regione nord-occidentale, la Misia. Da lì passò in Macedonia e in Grecia e, sulla via del ritorno verso la « Terra Santa », si fermò per breve tempo a Efeso.
Nel terzo viaggio, tra il 53 e il 57, passò per Derbe, Listri, Iconio e Antiochia di Pisidia. Da qui si recò a Efeso, dove visse quasi tre anni. A quel periodo risalgono molte delle « Lettere » e forse un breve viaggio a Corinto. Costretto a lasciare Efeso in seguito alla rivolta degli « argentieri » – i quali si ritenevano minacciati dal diffondersi del nuovo culto, che avrebbe « soppiantato » quello della dea Artemide, della quale vendevano statuette d’oro – si recò nella Troade e da lì a Mileto. Proprio a Mileto Paolo convocò gli « anziani » della comunità cristiana di Efeso, ammonendoli a guardarsi non solo dai nemici ma anche dalle insidie interne. Durante il viaggio di ritorno, via mare, in « Terra Santa » fece tappa a Patara in Licia. Al termine del terzo viaggio missionario, l’Apostolo rientrò a Gerusalemme dove nel 59 fu arrestato e, in quanto cittadino romano che si « appellava » all’imperatore, imbarcato alla volta di Roma.

 

ROMEI E GIUBILEI

http://www.scudit.net/mdviaggiareromei.htm

ROMEI E GIUBILEI (materiali didattici)

Quando visitare i « luoghi santi » era l’unico modo per vedere il mondo: santuari e pellegrini nel Medioevo.

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Il turismo di massa, con grandi folle di persone che si spostano da un luogo all’altro, ha un suo lontano antenato nei pellegrinaggi medievali.
Certo, allora la ragione principale per mettersi in viaggio era la fede: visitare i luoghi dove era vissuto e morto Cristo, pregare sulle tombe degli apostoli e dei santi. Ma viaggiare era, allora come oggi, una opportunità di scambio e di incontro tra popoli e culture diverse. Ha scritto Goethe, che di viaggi se ne intendeva: « La coscienza dell’ Europa è nata peregrinando tra i popoli latini, germanici, celti, anglosassoni e slavi ».
Naturalmente le mete di viaggio erano diverse da quelle odierne. Le principali erano: Gerusalemme e i Luoghi Santi della Palestina; il santuario dell’apostolo san Giacomo Maggiore in Spagna (Santiago de Compostela); Roma, con le tombe degli apostoli Pietro e Paolo e, dall’anno 1300, come luogo del Giubileo.
Chi si metteva in viaggio non era un turista, ma un pellegrino, parola che significa « straniero ». Ad essere pignoli, la parola pellegrino indicava proprio chi andava a Compostela: infatti San Giacomo, che aveva portato il cristianesimo dalla Palestina alla Spagna, era l’incarnazione del pellegrino, di chi si mette in cammino. Invece quelli che andavano a Gerusalemme erano chiamati palmieri , perché riportavano dal loro viaggio i rami di palma della Terra Santa, mentre romei erano i visitatori di Roma e romea o francigena era la strada che dal nord Europa arrivava nell’Urbe attraversando il « paese dei Franchi ».
Tutti i turisti, o quasi, stringono nelle mani una guida per orientarsi in una nuova città. Anche i pellegrini avevano le loro, degli itinerari che riguardavano soprattutto la Terra Santa e Roma. Il più antico itinerario romano è del VII secolo, la Notitia ecclesiarum urbis Romae (letteralmente « lista delle chiese
della città di Roma »). Risale invece al XII secolo un itinerario romano che accanto ai luoghi di culto elenca anche i principali monumenti pagani: si tratta dei Mirabilia urbis Romae (Cose meravigliose della città di Roma), scritto forse dal canonico Benedetto, a Roma, negli anni 1140-43: questo itinerario sarà poi riprodotto da molti autori italiani e stranieri con aggiunte, modifiche e rimaneggiamenti per meglio adattarlo a guida per visitatori.
I turisti spesso si riconoscono dall’abbigliamento: scarpe da ginnastica, abiti « comodi », un kway per la pioggia, una piccola borsa con dentro soldi e documenti appesa alla cintura. Lo stesso era per i pellegrini medievali: un mantello di tessuto ruvido, il cappello a larghe falde, una bisaccia dove tenere un po’ di cibo e gli spiccioli per l’elemosina e, in mano, il bordone, un lungo bastone con un puntale di ferro per aiutarsi nel camminare e, in caso di necessità, per difendersi dagli animali e dai malintenzionati.
Sì, perché diversamente da oggi, partire per un viaggio era una vera impresa: il cammino era faticoso e pieno di pericoli. Si viaggiava soprattutto a piedi percorrendo trenta / quaranta chilometri al giorno in pianura e venti / trenta in zone montuose o particolarmente difficili. Boschi e montagne non solo erano difficili da attraversare, ma erano molto adatti per gli agguati dei briganti: chi perdeva i soldi ma salvava la vita poteva considerarsi fortunato. E chi sfuggiva ai briganti, qualche volta moriva per il freddo, o per l’attacco dei lupi.
Proprio per questo si preferiva viaggiare in gruppo. Per le donne viaggiare in compagnia (del marito o, le più ricche, di una scorta) era obbligatorio: dai racconti di alcune di loro, come l’inglese Margery Kempe, emerge il terrore di essere violentate lungo il cammino.
Anche le città lungo le strade erano fonte di pericoli: molti albergatori imbrogliavano sul prezzo, sulla qualità del cibo e sul cambio delle monete; e non di rado bisognava dividere il medesimo letto con degli sconosciuti. Giunti alla meta dopo un lungo cammino, un altro pericolo attendeva i poveri viandanti: i venditori di reliquie, di immagini di santi, di candele, di ampolle per l’olio delle lampade che illuminavano le tombe dei santi, di ricordini… insomma, i venditori di souvenir.
Un vero inferno. Bisognava stare sempre all’erta. Proprio per questo molti pellegrini facevano testamento prima di mettersi in viaggio e le proprietà di chi partiva per il pellegrinaggio erano considerate sotto la protezione della Chiesa. Addirittura, i ricchi qualche volta pagavano altre persone perché facessero il pellegrinaggio al posto loro! Ma queste difficoltà erano la ragione stessa del viaggio: lasciare la propria patria e gli affetti, affrontare rischi e pericoli, sfuggire alle tentazioni lungo il cammino erano una specie di penitenza da fare per purificarsi dei propri peccati.

  

The Agony of Christ in the Garden of Gethsemane

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GENESI 22, L’EPISTOLA AGLI EBREI, E UNA ERMENEUTICA BASATA SULLA FEDE

http://www.biblico.it/doc-vari/swetnam_gn22_ita.html

GENESI 22, L’EPISTOLA AGLI EBREI, E UNA ERMENEUTICA BASATA SULLA FEDE

[conferenza tenuta al Pontificio Istituto Biblico dal R.P. James Swetnam, S.J., il 5 novembre 2003, a conclusione della sua attività di insegnamento accademico]

Uno dei testi fondamentali nell’Antico Testamento, sia in se stesso che nell’interpretazione degli autori cristiani, è il racconto del sacrificio di Isacco da parte di Abramo in Genesi 22,1-18. Footnote Il presente studio cercherà: 1) di capire il significato di Genesi 22,1-18 (Parte I); 2) di vedere come l’epistola agli Ebrei interpreti Genesi 22,1-18 (Parte II); 3) di indicare come il libro del Cardinale John Henry Newman, Grammatica dell’assenso, possa giustificare una ermeneutica centrata sulla fede, con riferimento all’esegesi sviluppata nelle prime due parti precedenti (Parte III). Footnote

Parte I. Genesi 22,1-18
Il sacrificio di Isacco da parte di Abramo è stato un vero e proprio pomo della discordia nella storia recente della ricerca biblica. Footnote Con l’Illuminismo il sacrificio di Isacco è stato spesso visto come azione immorale. Footnote Ma tale giudizio negativo era per lo più basato su interpretazioni del sacrificio di Abramo che non tengono conto del contesto. Nel modo in cui Genesi 22 viene interpretato come parte del testo canonico dell’Antico Testamento soltanto o dell’Antico e Nuovo Testamento insieme, in varie tradizioni religiose, i versi non presentano a questo proposito alcun problema insolubile. Footnote
Ci sono tre categorie generali la cui pertinenza sembra essere utile in una breve discussione sulle implicazioni di Genesi 22,1-18 nel testo canonico dell’Antico Testamento: 1) l’alleanza; 2) il sacrificio; 3) la fede. Prese insieme, queste tre categorie permettono di entrare nel testo in modo appropriato.
A. L’ alleanza
Per capire bene il sacrificio di Isacco da parte di Abramo è molto importante tener conto del ruolo dell’alleanza nel testo canonico. Genesi 22,1 afferma che Dio “mette alla prova” (ebr.:nsh, gr.: peirazein) Abramo. Cioè, Dio prepara una prova per verificare se il suo figlio è “fedele” (ebr.: n’mn, gr. pistos). Footnote Il testo di Genesi 22 è il culmine di una progressione che consiste in una chiamata, una promessa, e un’alleanza con giuramento. Footnote La chiamata si trova in Genesi 12,1-3, ed è composta di tre elementi che comportano ciascuno una benedizione: 1) una benedizione che riguarda una terra e una nazione (12,1-2a), 2) una benedizione che riguarda una dinastia (12,2b), e 3) una benedizione che riguarda il mondo intero (12,3 insieme con 12,2). Footnote Queste tre benedizioni sembrano corrispondere ai tre episodi di alleanza nei capitoli 15, 17 e 22 della Genesi. Footnote In Genesi 15 l’episodio con la divisione degli animali indica un’alleanza nella quale i discendenti di Abramo vivranno come nazione in una terra stabilita. In Genesi 17 l’enfasi viene posta sul “nome” di Abramo che sarà reso grande: si tratta cioè di una dinastia. E in Genesi 22,16-18, il punto culminante, si tratta di una benedizione per tutte le nazioni. Footnote Genesi 22,1-18 può essere quindi visto come il punto culminante della vita di Abramo, così come viene presentata nel testo canonico della Sacra Scrittura. Dopo questo episodio, Abramo compare nella narrazione soltanto in relazione alla morte di Sara (Genesi 23) e al matrimonio di Isacco (Genesi 24). La sua vita e il suo destino considerati nei suoi rapporti con Dio, sono delineati in Genesi 22. Footnote Il giuramento di Dio fatto ad Abramo in Genesi 22 può essere considerato il punto culminante e conclusivo di tutta questa serie di episodi che toccano l’alleanza. Footnote Il giuramento, incorpora, per così dire, il risultato positivo della prova di Abramo nella benedizione data a tutte le nazioni, in modo tale che la fede di Abramo ormai fa parte del destino della sua discendenza. Footnote
Il contesto di alleanza in Genesi 22 è fondamentale per capire il significato del brano. Si tratta, cioè, della prova della fede di Abramo nel Dio dell’alleanza e nella fedeltà di questo Dio nel concedere le benedizioni promesse, nonostante l’evidente contraddizione fra queste promesse e l’ordine di uccidere Isacco. Inoltre, Abramo era sicuramente consapevole che si trattava di una prova, che si trovava di fronte a un dilemma cruciale in cui era secondario il suo affetto filiale. Ad essere in gioco era il senso di un’esistenza centrata su Dio non soltanto per Abramo stesso, ma anche per Isacco e per tutti coloro che dovevano dipendere da lui nei loro rapporti con Dio. Footnote In altre parole: il comando di Dio ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco era una questione della massima importanza, sia per Abramo sia per Dio stesso. Footnote
Che il comando di Dio ad Abramo fosse una questione seria per Dio stesso così come per Abramo non è stato forse notato abbastanza. Quando infatti Dio dà il comando ad Abramo, implicitamente mette a rischio tutto il progetto della sua alleanza con lui. Dal punto di vista narrativo Dio sta aspettando il risultato della reazione libera di Abramo a tale prova: un rifiuto di Abramo di sacrificare Isacco avrebbe indicato che Abramo non aveva superato la prova della sua fede. Footnote Di consequenza, il progetto di alleanza e tutti gli aspetti connessi erano presumibilmente destinati al fallimento, e la storia della salvezza avrebbe dovuto subire una svolta radicale.
B. Il sacrificio
Una seconda grande prospettiva a partire dalla quale Genesi 22 deve essere interpretato è quella del sacrificio. C’è qui una connessione tra sacrificio e il luogo in cui si svolge l’azione di Genesi 22. C’è fondato motivo di identificare il luogo (ebr.: mryh – “Moria”) menzionato nel versetto 2 con Gerusalemme. Footnote Se quest’interpretazione è vera, allora Genesi 22 diventa il testo fondamentale dell’Antico Testamento per capire il sacrificio di animali come praticato nel tempio di Gerusalemme. Inoltre, questo spiegherebbe perché il Pentateuco parli così poco del significato di tali sacrifici. Footnote Il tipo principale di sacrificio indicato nei libri del Levitico e del Deuteronomio è l’olocausto (ebr.: ‘lh, gr.: olokaustôma, olokauston). Footnote Questo tipo di sacrificio è precisamente quello che Dio chiede ad Abramo per Isacco, e quello che Abramo effettivamente compie con l’ariete alla fine del racconto (Genesi 22,2.13). Footnote
La categoria del sacrificio nell’interpretazione di Genesi 22 non ha sempre ricevuto la rilevanza che merita. Questa mancanza d’attenzione all’aspetto di sacrificio distorce l’esegesi del capitolo che deve aver guidato generazioni di fedeli lettori israeliti. Inoltre, questa mancanza distorce la possibile pertinenza che Genesi 22 deve avere per il lettore contemporaneo del testo canonico. Mostrando esattamente come il sacrificio possa avere influenza sull’esistenza umana come personificata in Abramo, Genesi 22 è di cruciale importanza per capire la rivelazione di Dio nella Bibbia.
C. La fede
Le prospettive riguardanti alleanza e sacrificio indicano la centralità della fede nella risposta di Abramo a Dio. Alleanza e sacrificio trovano il loro centro in Dio così come egli si manifesta ad Abramo (alleanza) e come Abramo risponde al comando di Dio (sacrificio). Ciò che motiva Abramo è la fede. Footnote Aver fede significa considerare Dio come affidabile (ebr.: h’myn, gr.: pisteuein), avere fiducia in lui, credere che egli manterrà i suoi impegni e onorerà i suoi doveri. Footnote Siccome la fede di Abramo era basata sulla sua alleanza con Dio, egli era consapevole di ciò che era in gioco, e sapeva non soltanto ciò che Dio si aspettava da lui (ubbidienza) ma anche ciò che Dio si aspettava da se stesso (compimento delle promesse): la sua fede era una specie di conoscenza. Ciascuno dei due conosceva i doveri di se stesso e dell’altro. È grazie a questa conoscenza che Abramo poteva resistere alla prova che Dio aveva preparato per lui: Abramo sapeva che Dio in qualche maniera avrebbe provveduto alla soluzione di quello che, al di fuori del contesto di fede, era un problema insolubile. In altre parole, le parole di Genesi 22,8 (“Dio stesso provvederà un agnello per l’olocausto”) devono essere intese non come quelle ansiose di un padre sconvolto, indirizzate ad un figlio perplesso, ma come espressione di una certezza basata sulla fede.
Quindi nel ricercare la pertinenza di Genesi 22 per il lettore di oggi, la fede è l’elemento più importante. Essa fornisce le basi per il significato religioso del testo originale e per l’importanza di quel testo per il lettore di oggi—o per il lettore di ogni tempo. Footnote Di conseguenza, qualsiasi tentativo di interpretare Genesi 22, se vuole affrontare la pertinenza del testo per il mondo contemporaneo, deve basarsi sulla fede di Abramo.
Ci sono però due possibili modi di approccio alla fede di Abramo da parte del lettore contemporaneo. Il lettore può mettersi di fronte al testo nella prospettiva di fede di Abramo, o al di fuori di essa. Può cioè condividere in quanto possibile la fede di Abramo, vivendo con lui gli avvenimenti di Genesi 22, o può rimanere come spettatore di questi avvenimenti. La sfida ermeneutica di Genesi 22 sta proprio qui.
Non c’è niente nel testo che costringa il lettore a scegliere di partecipare alla fede di Abramo, a incorporare (per così dire) la fede di Abramo nella propria fede. L’atteggiamento assunto dipende dalla libera scelta del lettore. La libertà di Dio nel chiamare Abramo e nel metterlo alla prova, la libertà di Abramo nel rispondere a questa chiamata e a questa prova, vengono rispecchiate nella libertà del lettore di fronte al testo, nella sua forma attuale. Ovviamente questo non riguarda solo Genesi 22; è una scelta che si presenta ad ogni lettore della Bibbia di fronte a qualsiasi testo. Ma in Genesi 22 questa scelta si presenta con una immediatezza quasi unica. Footnote

Parte II. L’epistola agli Ebrei e Genesi 22
L’epistola agli Ebrei presta una particolare attenzione a Genesi 22. Questa particolare attenzione può servire da guida nel comprendere come i primi cristiani interpretavano questo testo chiave nella loro comprensione della realtà di Gesù Cristo.
A. L’epistola agli Ebrei e la fede di Abramo
L’epistola agli Ebrei mette in rilievo la fede di Abramo nella sua esegesi di Genesi 22:
17Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, 18 del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. 19Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo (Ebrei 11,17-19). Footnote
Il testo, teologicamente parlando, è suggestivo. Si mette in grande rilievo la “fede” (pistis). Nel capitolo 11 dell’epistola la fede viene attribuita a diversi eroi dell’Antico Testamento, e viene descritta in 11,2-3.6. Footnote Il verbo “offrire [in sacrificio]” ricorre due volte nel versetto 17. La prima volta viene usato nel tempo perfetto (prosenênochen, “offrì” nella traduzione della CEI, ma meglio “ha offerto”), cioè la disposizione d’Abramo a sacrificare suo figlio è il punto chiave di Genesi 22 che l’autore vuole scegliere come base per la sua interpretazione di tutto il testo. La seconda volta il verbo viene usato nel tempo imperfetto (prosepheren, “cercava di offrire”). Questo imperfetto conativo descrive come Abramo stava per essere messo alla prova (peirazomenos). I termini della prova sono espressi con chiarezza: Abramo stava offrendo il suo “unico figlio” (monogenê), proprio “che aveva ricevuto le promesse” (ho tas epaggelias anadexamenos). E si specifica quale fosse la promessa: “. . . del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome” (pros hon elalêthê hoti en Isaac klêthêsetai soi sperma). Queste osservazioni indicano che l’autore dell’epistola ha letto il testo di Genesi 22 con cura, e che ha capito i parametri della prova con precisione. Ciò che segue è una straordinaria interpretazione del ragionamento che sta dietro la fede di Abramo in Dio: “. . . Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti” (logisamenos hoti kai ek nekrôn egeirein dunatos ho theos).
Il modo quasi ovvio in cui l’autore dell’epistola attribuisce ad Abramo la fede nella risurrezione dai morti non deve nascondere le implicazioni di ciò che viene affermato. Innanzitutto, il ragionamento di Abramo sembra essere ben fondato e verosimile, data la sua precedente fede nella nascita di Isacco dal suo corpo “morto” e dall’utero “morto” di Sara. Footnote Data la fede eroica manifestata in Genesi 22 non c’è niente di arbitrario o forzato in questa esegesi. Se la promessa di Dio di una discendenza per mezzo di Isacco (v. 18) doveva essere accettata con fede senza riserva, e se il comando di sacrificare Isacco era, per Abramo, richiesto da Dio, la fede nella risurrezione dei morti sembra essere una conclusione legittima, anzi, forse l’unica conclusione possibile. Inoltre, l’attribuzione ad Abramo della fede nella risurrezione dai morti è degna di nota. Abramo è all’inizio della fede dell’Antico Testamento, e questa fede è stata tradizionalmente compresa come agnostica riguardo alla risurrezione dai morti. Footnote Nel testo di Ebrei un autore cristiano, che ha studiato profondamente le radici veterotestamentarie della sua fede cristiana, dichiara apertamente che Abramo credeva nella risurrezione dai morti. Footnote Infine, se l’atteggiamento interiore di Abramo nel sacrificare il proprio figlio Isacco è da capire come paradigmatico per l’atteggiamento interiore per i successivi sacrifici nell’Antico Testamento, questa espressione dell’autore dell’epistola è veramente impressionante. L’autore dell’epistola sembra attribuire questo atteggiamento, almeno in modo implicito, a tutti coloro che offrivano sacrifici nell’Antico Testamento.
Ciò che sembra accadere in Ebrei 11,19 è che l’autore, guidato dalla sua fede nella risurrezione di Gesù (cfr. Ebrei 13,20), proietta questa fede nel mondo di Abramo. Ma questo modo di procedere non fa violenza al testo di Genesi nel capitolo 22. Inoltre, questa attribuzione ad Abramo della fede nella risurrezione si adatta al contesto della fede eroica del patriarca come descritta in Genesi 22. La seconda parte di Ebrei 11,19 conferma l’opinione che l’autore dell’epistola metteva in relazione la reintegrazione di Isacco con la risurrezione di Gesù, perché dice che tale reintegrazione fu un “simbolo” della risurrezione di Gesù. Footnote
B. L’epistola agli Ebrei e il giuramento fatto ad Abramo
L’epistola agli Ebrei fa allusione al sacrificio di Isacco nel versetto 6,14, citando il testo di Genesi 22,17. È utile conoscere il contesto di questa citazione.
13Quando infatti Dio fece la promessa ad Abramo, non potendo giurare per uno superiore a sé, giurò per se stesso, 14dicendo: Ti benedirò e ti moltiplicherò molto. 15Così, avendo perseverato, Abramo conseguì la promessa. 16Gli uomini infatti giurano per qualcuno maggiore di loro e per loro il giuramento è una garanzia che pone fine ad ogni controversia. 17Perciò Dio, volendo mostrare più chiaramente agli eredi della promessa l’irrevocabilità della sua decisione, intervenne con un giuramento 18perché grazie a due atti irrevocabili, nei quali è impossibile che Dio mentisca, noi che abbiamo cercato rifugio in lui avessimo un grande incoraggiamento nell’afferrarci saldamente alla speranza che ci è posta davanti (Ebrei, 6,13-18). Footnote
Questi sei versetti, Ebrei 6,13-18, vengono citati per appoggiare l’esortazione dell’autore ai suoi lettori di mostrarsi diligenti e pronti ad imitare gli eredi delle promesse e ricevere le promesse per mezzo della fede e della perseveranza. Così si spiega la presenza di “infatti” all’inizio del versetto 16.
Che l’autore di Ebrei abbia in mente Genesi 22 si nota non soltanto dalla citazione di Genesi 22,17 in Ebrei 6,14, ma anche dall’allusione al giuramento di Genesi 22,16 in Ebrei 6,13. Questo fa pensare che per l’autore di Ebrei il giuramento ha una stretta relazione con la benedizione e la moltiplicazione della discendenza di Abramo. Il significato dei “due atti irrevocabili” menzionati in Ebrei 6,18 è molto discusso. Footnote Il testo di Ebrei 6,13-14 sembra dare una prima indicazione per la soluzione del problema: i “due atti irrevocabili” sono il giuramento di Genesi 22,16 e la promessa di Genesi 22,17. Questi due atti vengono messi insieme in Ebrei così come lo sono in Genesi. Le parole della promessa sono chiare—parlano della moltiplicazione della discendenza di Abramo. Footnote Il giuramento serve a rafforzare la promessa; così che quando Abramo riceve la promessa a conclusione della sua eroica perseveranza dopo il comando di sacrificare Isacco (6,15), la promessa è rinforzata da un giuramento. Abramo viene presentato come uno che ha “ricevuto” la promessa. Ma è evidente dal modo in cui l’autore dell’epistola usa le parole epitugchanô e komizô che anche se Abramo ha “ricevuto” (epitugchanô – 6,15; cfr. 11,33) la promessa rinforzata da un giuramento dopo il sacrificio di Isacco, egli non ha “ricevuto” (komizô) ciò che viene promesso—la discendanza. L’autore di Ebrei fa uso del verbo komizô per indicare la ricezione di ciò che viene promesso—cfr. 11,13.39. Footnote L’intenzione dell’autore dell’epistola viene manifestata dalla quarta e ultima ricorrenza di komizô: in 11,19 egli dice che Abramo ricevette (komizô) Isacco dopo il sacrificio “come simbolo” (en parabolêi). In altre parole, l’oggetto della promessa ad Abramo dopo il sacrificio di Isacco—discendenza—viene ricevuto soltanto con la venuta di Cristo: Cristo stesso è questa discendenza.
Se il contenuto della promessa ad Abramo è Cristo, il giuramento fatto da Dio in Genesi è un giuramento che al livello più profondo si riduce a un’azione simbolica che prefigura la concessione definitiva della cosa promessa che è Cristo. Si spiega così perché l’autore di Ebrei enfatizzi il giuramento fatto da Dio a Gesù al momento della risurrezione (cfr. 7,20-21). Questo giuramento fu prefigurato dal giuramento di Dio dopo il sacrificio di Isacco come Cristo fu prefigurato da Isacco. Questo è il giuramento che risulta nella concessione di ciò che fu promesso—la discendenza che è Cristo. Footnote
Identificando il giuramento del Salmo 110,4 con il compimento del giuramento di Genesi 22,16 e collocando il giuramento nel contesto esplicito della moltiplicazione della discendenza ad Abramo, l’autore dell’epistola ha effettuato una trasformazione profonda nella natura di questa discendenza. Adesso, la vera e definitiva discendenza di Abramo viene non tramite il suo figlio fisico, Isacco, ma tramite il suo figlio spirituale, Gesù Cristo, del quale Isacco fu un “simbolo”, proprio in riferimento alla risurrezione di Gesù (e, nel contesto di Ebrei, in riferimento anche al giuramento del Salmo 110,4 che viene menzionato con la risurrezione). L’autore dell’epistola agli Ebrei pensa che questa discendenza possa essere descritta meglio ricorrendo alla figura veterotestamentaria di Melchisedek, nel cui contesto Gesù Cristo emerge come il definitivo sovrano sacerdote. Come sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, Gesù Cristo rimpiazza il sommo sacerdozio levitico che aveva dato finora identità ai discendenti di Abramo (cfr. Ebrei 7,11). Questo nuovo sommo sacerdote è il Figlio di Dio stesso (Ebrei 7,3). Footnote Egli è la fonte della speranza definitivamente migliore, che è la causa dell’incoraggiamento dei destinatari. Colui per mezzo del quale Dio ha fatto il mondo (Ebrei 1,2) è colui per mezzo del quale Dio benedice in modo definitivo e moltiplica la discendenza di Abramo. Sul fondamento del sacerdozio di Cristo viene creato un nuovo popolo (cfr. Ebrei 7,12), un popolo esteso a tutto il genere umano. Per mezzo di un figlio spirituale, che trascende il tempo, la discendenza di Abramo si estende a tutti gli uomini di tutti i tempi, prima di Abramo e dopo di Abramo. Così l’autore dell’epistola interpreta Genesi 22,17, con la sua promessa che Dio benedirà e moltiplicherà la discendenza di Abramo.
C. L’epistola agli Ebrei e la pertinenza della fede
Come, davanti a Genesi 22, al lettore è richiesta una scelta ermeneutica, così gli è richiesta ugualmente una scelta ermeneutica davanti all’interpretazione di Genesi 22 nell’epistola agli Ebrei. Egli può scegliere di condividere o meno la fede che l’autore dell’epistola aveva nella pertinenza cristiana di Genesi 22. Può cioè scegliere di essere coinvolto nei ruoli di Abramo e di Cristo in Genesi 22 come visti dall’autore di Ebrei, o può rimanere un semplice spettatore. Questa è la sfida ermeneutica di Genesi 22 come presentata nella epistola agli Ebrei.
Ogni lettore dell’epistola agli Ebrei si avvicina al testo con un insieme di preconcezioni, allo stesso modo in cui ogni lettore si avvicina a Genesi con un insieme di preconcezioni. E tali preconcezioni determinano in gran parte la sua scelta ermeneutica. Un cristiano che lascia penetrare la propria fede in ogni aspetto della sua vita si identificherà automaticamente con la fede dell’autore dell’epistola. Per un tale credente il credere di Abramo in Genesi 22 si colloca nella stessa categoria della fede che l’autore di Ebrei ha in Cristo che dà al racconto di Genesi 22 una nuova dimensione. Secondo l’interpretazione dell’autore, con l’avvento di Cristo il racconto di Genesi 22 assume un significato più profondo: la fede di Abramo diventa una fede nel potere di Dio di fare risorgere dai morti, e il giuramento fatto ad Abramo trova il suo compimento nel giuramento fatto da Dio a Gesù al momento della sua risurrezione affinché il suo sacerdozio terreno diventi un sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedek, cioè un sacerdozio che trascende i limiti umani
Un’ultima verità, anch’essa cruciale per la fede di Abramo come vista dall’autore dell’epistola agli Ebrei, deve essere notata: l’ubbidienza di Abramo viene premiata da Dio con il dono di Isacco come simbolo della risurrezione di Gesù. Così la fede di Abramo rientra nella Provvidenza Divina nel portare a compimento il ruolo di Cristo come sommo sacerdote per tutta l’umanità. Secondo Ebrei 11,17-19 Abramo ricevette Isacco come “simbolo” (parabolên), Footnote cioè ricevette Isacco come simbolo della realtà escatologica che è Gesù risorto. Footnote La ragione di Abramo viene espressa in Ebrei 11,19a: “Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti”. Poi, il testo continua, “per questo (hothen) lo riebbe e fu come un simbolo”. Footnote In altre parole, la fiducia di Abramo viene premiata con il dono non soltanto di Isacco ma di Gesù che viene prefigurato da Isacco. Siccome Ebrei 11,17-19 si trova in una sezione dove la fede viene presentata come risultato di un premio da parte di Dio che “ricompensa” (misthapodothês – cfr. Ebrei 11,6), se ne deduce che il dono supremo della risurrezione di Gesù e tutto ciò che ne consegue è in un certo senso un “premio” per la fedeltà di Abramo che ha superato la prova imposta da Dio. Footnote Così il giuramento di Dio come ultimo atto di Genesi 22 contiene qualche cosa di nuovo per l’autore di Ebrei: il ruolo della fede di Abramo entra nel dono del Gesù risorto e di conseguenza in tutto ciò che questo dono significa per il mondo, come già sottolineato sopra. Dio ha riconosciuto la fede nell’alleanza di Abramo ed ha risposto nel linguaggio della sua fedeltà all’alleanza. Footnote Ma lo fa in un modo completamente inaspettato.
Un ultimo passo è necessario per delineare una soddisfacente ermeneutica di Ebrei: occorre esplorare i presupposti che spingono il lettore cristiano a credere in una interpretazione cristiana della fede di Abramo.

Parte III. Le precomprensioni della fede cristiana e il libro Grammatica dell’assenso del Cardinale Newman
Nessuno si accosta a un testo scritto senza precomprensioni. Se questo è vero per qualsiasi testo scritto, lo è ancora di più per un testo religioso come la Bibbia. Ed è vero, in particolare, per il capitolo 22 della Genesi e per la sua interpretazione cristiana nell’epistola agli Ebrei. Sopra abbiamo notato che l’unico modo appropriato per una corretta interpretazione di Genesi 22 è quello che tiene conto del suo posto nel più ampio contesto della Scrittura. Infatti il sacrificio di Isacco da parte di Abramo per l’autore di Genesi 22 era da comprendersi in un contesto molto più ampio del testo stesso. Footnote E questo contesto più ampio comprende questioni di culto e di morale talmente importanti che Genesi 22 è stato al centro delle discussioni delle relazioni dell’uomo con Dio. Footnote Data la natura fondamentale delle questioni coinvolte in Genesi 22, è impossibile che il lettore si accosti a questo testo senza precomprensioni o preconcezioni. Tali precomprensioni possono essere quelle di un credente o di un non credente; ma, quale che sia la loro natura, esse sono presenti e tale presenza deve essere presa seriamente in considerazione, perché incide inevitabilmente nella interpretazione del testo biblico.
Sopra abbiamo notato, in funzione dell’ermeneutica contemporanea, che l’atteggiamento ermeneutico dipende da una scelta: il lettore sceglie il suo approccio al testo. Footnote Tale scelta, però, non avviene in un vuoto di valori: è inevitabile che alla base dell’atteggiamento ermeneutico del lettore ci siano le sue precomprensioni. Di conseguenza la scelta di un determinato atteggiamento ermeneutico deve essere valutato alla luce delle sue precomprensioni.
È in questo contesto che sembra appropriato il riferimento al libro di John Henry Newman, Grammatica dell’assenso, Footnote terminato dal Newman nel gennaio del 1870. Footnote L’intuizione fondamentale che permise all’autore di portare a termine il suo libro è quella che costituisce il nucleo del libro stesso: l’atto dell’assenso della persona umana non è il risultato di un atto riflesso che si chiama certezza, ma l’atto che risulta da una varietà di cause concomitanti che operano in ciò che il Newman chiama il “senso illativo”. Footnote Il senso illativo, per Newman, è l’uso personale della ragione per una questione concreta. Footnote Egli insiste sulla natura personale di tale uso della ragione, Footnote citando come autorità in questo senso Aristotele e la Scrittura. Footnote Data la natura personale di tale uso della ragione in riferimento a una realtà concreta, il ruolo della coscienza nella religione è per Newman inevitabile:
La grande maestra di religione che portiamo in noi è… la coscienza. Essa è la nostra guida personale; io me ne servo perché mi servo di me stesso; non potrei pensare con altra testa dalla mia, come posso respirare solo con i mie polmoni. Nessun altro mezzo di conoscenza è così alla mia portata. Footnote
Degno di nota è l’uso del termine “conoscenza” nell’ultima frase: in merito alla religione, la coscienza è uno strumento di conoscenza. Ne consegue che la Sacra Scrittura non è una pura raccolta di verità astratte, ma un insegnamento autorevole.
Le Scritture parlano in questo senso dalla prima all’ultima riga. La Rivelazione non è una pura raccolta di verità, o un testo filosofico o un testo dato al sentimento, allo spirito religioso, o una fiumana di massime morali… è un insegnamento autorevole che fa da testimone a se stesso e mantiene la sua unità in contrasto con la congerie d’opinioni ammassata tutto intorno; un insegnamento che parla a tutti gli uomini, sempre e ovunque nello stesso modo, ed esige d’essere ascoltato con intendimento da coloro a cui è rivolto: è una dottrina, una disciplina e una devozione largita direttamente dall’alto.Footnote
Questo punto di vista è, naturalmente, il risultato dell’uso da parte dello stesso Newman della propria coscienza come strumento di conoscenza. Egli giunge alla convinzione di questo senso globale grazie, in parte, alla guida personale della sua coscienza, e a tale convinzione egli dà un reale assenso. Footnote Newman conclude la sua opera presentando le ragioni per credere nella Chiesa cattolica come dono provvidenziale di Dio da accettare con fede. Footnote Una fede, comunque, che è associata a un insieme di probabilità che danno la certezza risultante dall’uso legittimo del senso illativo. Footnote

Conclusione
Siamo partiti con una presentazione, nella I Parte, di Genesi 22 con le sfide connesse con l’interpretazione. Date le espliciti connessioni con l’alleanza e il culto, è stata presentata un’esegesi basata sull’accettazione dell’alleanza e del culto come parte di quell’ordinamento religioso di cui l’Antico Testamento è una testimonianza scritta. È stato detto che la risposta appropriata a Genesi 22 è una risposta di fede, una fede che rispecchi quella del protagonista del racconto, Abramo. Il contenuto stesso di Genesi 22 suggerisce questa interpretazione di fede, ma si tratta di una lettura che considera la fede come causa conveniente, non come causa costringente. È stato anche detto che l’accettazione di Genesi 22 in uno spirito di fede è frutto di un’ermeneutica di libera scelta.
Nella II parte è stata suggerita un’interpretazione di Genesi 22 così come vista dall’autore dell’epistola agli Ebrei. Questa interpretazione ruota intorno alla fede di Abramo e al giuramento di Dio fatto allo stesso patriarca dopo che questi ha superato la prova. Il giuramento di Dio in Genesi 22, secondo l’autore di Ebrei, conferisce a Cristo un ruolo che trasforma la discendenza fisica di Abramo a un livello che trascende quello fisico e comprende così tutta l’umanità. Come nel testo originale di Genesi 22, anche nella sua interpretazione in Ebrei la fedeltà di Abramo diventa parte della benedizione espressa dal giuramento. L’interpretazione data dall’autore di Ebrei era vista in funzione della sua fede in Gesù Cristo. Ed è stato indicato come fosse opportuna una lettura del testo accompagnata dalla fede, ma, anche qui, la fede era considerata come il risultato di un’ermeneutica di libera scelta. La fede veterotestamentaria del credente ebreo era incorporata nella fede neotestamentaria del cristiano.
Infine, nella III parte, è stato fatto il tentativo di basare questa ermeneutica di scelta esegetica su un’ermeneutica di precomprensioni/preconcezioni esegetiche. Si è fatto riferimento al libro di John Henry Newman, Grammatica dell’assenso, per mostrare come il “senso illativo” proposto dall’autore fosse un elemento fondamentale per comprendere le precomprensioni di un credente cristiano (nel caso di Newman, del credente cattolico). Data l’importanza della coscienza nella formazione della precomprensione che sta alla base della fede cristiana, diventa qui ugualmente chiaro il ruolo della scelta morale.
Tutto sommato, è l’esegeta come persona a essere responsabile dell’atteggiamento ermeneutico per l’interpretazione di un determinato testo della Scrittura, prima di tutto in considerazione della precomprensione che guida la sua scelta verso un certo tipo di approccio, poi in considerazione della scelta stessa. È evidente che Genesi 22 presenta Abramo come uomo di fede; è evidente anche che l’epistola agli Ebrei presenta Abramo, in Genesi 22, come un uomo di fede, considerando Gesù Cristo come il compimento di quella fede. Ma se l’esegeta debba mettersi in sintonia o meno con questa fede è una questione che dipende dalla sua scelta, una scelta al tempo stesso remota e prossima.
Nell’attribuire un atteggiamento ermeneutico alla scelta personale, non bisogna dimenticare la tendenza del testo stesso: il testo stesso è un invito a condividere la fede dell’autore. È chiaro, dal modo in cui Genesi 22 è costruito e dal modo in cui l’epistola agli Ebrei considera Genesi 22 alla luce di Gesù Cristo, che gli autori di questi testi erano credenti e che li hanno scritti per altri credenti, attuali o potenziali. L’autore dell’epistola agli Ebrei parla spesso di “noi”, cioè di “noi credenti” (cf. 1,2; 2,3; 3,6; ecc.): è un credente, e credenti sono anche i suoi destinatari. Nel loro livello profondo questi testi invitano a condividere la fede dei loro protagonisti, non ad essere dei semplici spettatori di questa fede. Come osserva Kierkegaard in merito al testo biblico sull’obolo della vedova (Marco 12,41-44), accettare il racconto così com’è, cioè presupponendo la fede della vedova, trasforma l’offerta in qualcosa di “molto di più”. Questa è la sfida di Genesi 22, come appare sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento.
… colui che con “simpatia” accetta il libro e gli riserva un posto d’onore, colui che, con “simpatia”, accettandolo, fa di questo libro, attraverso se stesso e attraverso la sua accoglienza, ciò che il tesoro fece del soldo della vedova: santifica l’offerta, gli dà significato, e la trasforma in “molto di più”. Footnote

 

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