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GIOVANNI PAOLO II: BEATIFICAZIONE DI MADRE TERESA DI CALCUTTA – (m. 5 SETTEMBRE)

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BEATIFICAZIONE DI MADRE TERESA DI CALCUTTA – (m. 5 SETTEMBRE)

OMELIA DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II

Giornata Missionaria Mondiale

Domenica 19 ottobre 2003

1. “Chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti” (Mc 10,44). Queste parole di Gesù ai discepoli, risuonate poc’anzi in questa Piazza, indicano quale sia il cammino che conduce alla “grandezza” evangelica. E’ la strada che Cristo stesso ha percorso fino alla Croce; un itinerario di amore e di servizio, che capovolge ogni logica umana. Essere il servo di tutti!
Da questa logica si è lasciata guidare Madre Teresa di Calcutta, Fondatrice dei Missionari e delle Missionarie della Carità, che oggi ho la gioia di iscrivere nell’Albo dei Beati. Sono personalmente grato a questa donna coraggiosa, che ho sempre sentito accanto a me. Icona del Buon Samaritano, essa si recava ovunque per servire Cristo nei più poveri fra i poveri. Nemmeno i conflitti e le guerre riuscivano a fermarla.
Ogni tanto veniva a parlarmi delle sue esperienze a servizio dei valori evangelici. Ricordo, ad esempio, i suoi interventi a favore della vita e contro l’aborto, anche in occasione del conferimento del Premio Nobel per la pace (Oslo, 10 dicembre 1979). Soleva dire: “Se sentite che qualche donna non vuole tenere il suo bambino e desidera abortire, cercate di convincerla a portarmi quel bimbo. Io lo amerò, vedendo in lui il segno dell’amore di Dio”.
2. Non è forse significativo che la sua beatificazione avvenga proprio nel giorno in cui la Chiesa celebra la Giornata Missionaria Mondiale? Con la testimonianza della sua vita Madre Teresa ricorda a tutti che la missione evangelizzatrice della Chiesa passa attraverso la carità, alimentata nella preghiera e nell’ascolto della parola di Dio. Emblematica di questo stile missionario è l’immagine che ritrae la nuova Beata mentre stringe, con una mano, quella di un bambino e, con l’altra, fa scorrere la corona del Rosario.
Contemplazione e azione, evangelizzazione e promozione umana: Madre Teresa proclama il Vangelo con la sua vita tutta donata ai poveri, ma, al tempo stesso, avvolta dalla preghiera.
3. “Whoever wants to be great among you must be your servant” (Mk 10: 43). With particular emotion we remember today Mother Teresa, a great servant of the poor, of the Church and of the whole world. Her life is a testimony to the dignity and the privilege of humble service. She had chosen to be not just the least but to be the servant of the least. As a real mother to the poor, she bent down to those suffering various forms of poverty. Her greatness lies in her ability to give without counting the cost, to give “until it hurts”. Her life was a radical living and a bold proclamation of the Gospel.
The cry of Jesus on the cross, “I thirst” (Jn 19:28), expressing the depth of God’s longing for man, penetrated Mother Teresa’s soul and found fertile soil in her heart. Satiating Jesus’ thirst for love and for souls in union with Mary, the mother of Jesus, had become the sole aim of Mother Teresa’s existence and the inner force that drew her out of herself and made her “run in haste” across the globe to labour for the salvation and the sanctification of the poorest of the poor.
4. “As you did to one of the least of these my brethren, you did it to me” (Mt 25:40). This Gospel passage, so crucial in understanding Mother Teresa’s service to the poor, was the basis of her faith-filled conviction that in touching the broken bodies of the poor she was touching the body of Christ. It was to Jesus himself, hidden under the distressing disguise of the poorest of the poor, that her service was directed. Mother Teresa highlights the deepest meaning of service – an act of love done to the hungry, thirsty, strangers, naked, sick, prisoners (cf. Mt 25:34-36) is done to Jesus himself.
Recognizing him, she ministered to him with wholehearted devotion, expressing the delicacy of her spousal love. Thus in total gift of herself to God and neighbour, Mother Teresa found her greatest fulfillment and lived the noblest qualities of her femininity. She wanted to be a sign of “God’s love, God’s presence, God’s compassion” and so remind all of the value and dignity of each of God’s children, “created to love and be loved”. Thus was Mother Teresa “bringing souls to God and God to souls” and satiating Christ’s thirst, especially for those most in need, those whose vision of God had been dimmed by suffering and pain.
Traduzione italiana della parte di omelia pronunciata in lingua inglese:
[3. « Chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore » (Mc 10, 43). È con particolare emozione che oggi ricordiamo Madre Teresa, grande serva dei poveri, della Chiesa e del Mondo intero. La sua vita è una testimonianza della dignità e del privilegio del servizio umile. Ella aveva scelto di non essere solo la più piccola, ma la serva dei più piccoli. Come madre autentica per i poveri, si è chinata verso coloro che soffrivano diverse forme di povertà. La sua grandezza risiede nella sua abilità di dare senza calcolare i costi, di dare « fino a quando fa male ». La sua vita è stata un vivere radicale e una proclamazione audace del Vangelo.
Il grido di Gesù sulla croce, « Ho sete » (Gv 19, 28), che esprime la profondità del desiderio di Dio dell’uomo, è penetrato nell’anima di Madre Teresa e ha trovato terreno fertile nel suo cuore. Placare la sete di amore e di anime di Gesù in unione con Maria, Madre di Gesù, era divenuto il solo scopo dell’esistenza di Madre Teresa, e la forza interiore che le faceva superare sé stessa e « andare di fretta » da una parte all’altra del mondo al fine di adoperarsi per la salvezza e la santificazione dei più poveri tra i poveri.
4. « Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me » (Mt 25, 40). Questo passo del Vangelo, così fondamentale per comprendere il servizio di Madre Teresa ai poveri, era alla base della sua convinzione, piena di fede, che nel toccare i corpi deperiti dei poveri toccava il corpo di Cristo. Era a Gesù stesso, nascosto sotto le vesti angoscianti dei più poveri tra i poveri, che era diretto il suo servizio. Madre Teresa pone in rilievo il significato più profondo del servizio: un atto d’amore fatto agli affamati, agli assetati, agli stranieri, a chi è nudo, malato, prigioniero (cfr Mt 25, 34-36), viene fatto a Gesù stesso.
Riconoscendolo, lo serviva con totale devozione, esprimendo la delicatezza del suo amore sponsale. Così, nel dono totale di sé a Dio e al prossimo, Madre Teresa ha trovato il suo più alto appagamento e ha vissuto le qualità più nobili della sua femminilità. Desiderava essere un « segno dell’amore di Dio, della presenza di Dio, della compassione di Dio » e, in tal modo, ricordare a tutti il valore e la dignità di ogni figlio di Dio, « creato per amare ed essere amato ». Era così che Madre Teresa « portava le anime a Dio e Dio alle anime », placando la sete di Cristo, soprattutto delle persone più bisognose, la cui visione di Dio era stata offuscata dalla sofferenza e dal dolore ».]
5. “Il Figlio dell’uomo è venuto per dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). Madre Teresa ha condiviso la passione del Crocifisso, in modo speciale durante lunghi anni di “buio interiore”. E’ stata, quella, una prova a tratti lancinante, accolta come un singolare “dono e privilegio”.
Nelle ore più buie ella s’aggrappava con più tenacia alla preghiera davanti al Santissimo Sacramento. Questo duro travaglio spirituale l’ha portata ad identificarsi sempre più con coloro che ogni giorno serviva, sperimentandone la pena e talora persino il rigetto. Amava ripetere che la più grande povertà è quella di essere indesiderati, di non avere nessuno che si prenda cura di te.
6. “Donaci, Signore, la tua grazia, in Te speriamo!”. Quante volte, come il Salmista, anche Madre Teresa nei momenti di desolazione interiore ha ripetuto al suo Signore: “In Te, in Te spero, mio Dio!”.
Rendiamo lode a questa piccola donna innamorata di Dio, umile messaggera del Vangelo e infaticabile benefattrice dell’umanità. Onoriamo in lei una delle personalità più rilevanti della nostra epoca. Accogliamone il messaggio e seguiamone l’esempio.
Vergine Maria, Regina di tutti i Santi, aiutaci ad essere miti e umili di cuore come questa intrepida messaggera dell’Amore. Aiutaci a servire con la gioia e il sorriso ogni persona che incontriamo. Aiutaci ad essere missionari di Cristo, nostra pace e nostra speranza. Amen!

 

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7 SETTEMBRE 2014 – 23a T. ORDINARIO – OMELIA DI APPROFONDIMENTO

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7 SETTEMBRE 2014 | 23A DOMENICA A | T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

« SE IL TUO FRATELLO COMMETTE UNA COLPA, VA’ E AMMONISCILO FRA TE E LUI SOLO »

In questa Domenica e in quella che segue la Liturgia ci fa leggere alcuni brani del discorso così detto « ecclesiale » (18,1-35), in cui Matteo raccoglie molti detti sparsi e anche alcune parabole del Signore (quella della pecorella smarrita e del servo spietato) per presentare ai suoi lettori un quadro « ideale », sia pur realistico, di vita concreta all’interno della comunità credente.
Dietro a questo discorso è facile intravedere un chiaro contesto di vita cristiana, proprio della comunità a cui l’Evangelista si rivolge. Essa non è per niente una comunità di puri e di santi, e neppure di cristiani tutti « adulti » nella fede. Al contrario, vi alligna l’arrivismo e alcuni dei suoi membri nutrono ambizioni di predominio sugli altri; si tengono in poco conto i « piccoli », cioè i credenti più fragili e più esposti ai pericoli o alle tentazioni di scoraggiamento e di diserzione. Non mancano neppure dei peccatori notori, che suscitano gravi problemi di convivenza per tutta intera la comunità, e soprattutto per i suoi capi. La fraternità ecclesiale è scossa da offese personali e da inevitabili risentimenti.
Come comportarsi in una situazione del genere? San Matteo, riallacciandosi all’insegnamento del Signore, dà alcuni consigli pratici alla sua comunità in veste di catechista e di pastore, insistendo specialmente su due punti: la disponibilità alla comprensione, e soprattutto la capacità di « perdonare », che poi non sono altro che due aspetti dell’amore, il quale deve essere l’unica « regola » che guida la comunità cristiana.
È facile capire come tutto questo vale anche oggi per tutte le comunità cristiane, piccole o grandi che siano, sparse per il mondo, oltre che per la Chiesa in generale, che ne è come la sintesi e il respiro corale.
« E se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te un pagano e un pubblicano »
Il brano evangelico, propostoci per oggi, segue gli ammonimenti riguardanti il rispetto verso i « piccoli » (18,5-11), che non sono i « bambini », ma le persone più deboli nella fede, come abbiamo appena ricordato, e la premura verso chi ha abbandonato la stessa comunità cristiana o si sia, in qualche maniera, da essa allontanato (la pecorella « smarrita »: vv. 12-14).
Esso considera il caso di chi abbia mancato in maniera piuttosto grave, fino al punto di « scandalizzare » gli altri o, comunque, di creare disagio e anche discredito alla Chiesa, che dovrebbe essere la comunità dei « santi ». Che cosa fare in tale situazione? Abbandonare il « peccatore » al suo destino, oppure intervenire?
Ecco quanto suggerisce il Signore: « Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea; e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te un pagano e un pubblicano » (vv. 15-17).
Alcuni codici autorevoli (B, S, ecc.) e anche la Volgata hanno all’inizio: « Se commette una colpa contro di te », quasi si trattasse di una qualche mancanza di carità verso un altro membro della comunità. In realtà, di questo si parlerà più tardi (vv. 21-22). Qui, invece, si tratta di qualche peccato grave, di cui non si può identificare la natura e che mette in pericolo la sanità spirituale e la coesione interna di tutta la comunità. Da ciò l’invito a ricorrere ad una serie di accorgimenti e di procedure per « guadagnare » di nuovo il fratello: è stato notato dagli studiosi che il verbo kerdáinein (= guadagnare), in ambiente rabbinico, ha significato comunitario. Del resto, la prassi qui suggerita era proprio quella che si seguiva anche nella comunità di Qumran.1
Il primo tentativo da fare è quello più delicato e fraterno: « Va’ e ammoniscilo fra te e lui solo » (v. 15). Non si tratta di umiliare o mortificare il fratello, ma di riconquistarlo all’affetto comune, di fargli sentire la solidarietà, sofferta, degli altri. In questa fase qualsiasi passo sbagliato, o meno accorto, potrebbe indurlo all’indurimento del cuore, scatenando il suo orgoglio o il suo risentimento.
Nell’eventualità che la cosa non riesca, si suggerisce di prendere con sé « una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni » (v. 16). È una procedura, questa, prevista dalla stessa Legge mosaica per i dibattimenti giudiziari (cf Dt 19,15). Qui, però, non si tratta tanto di un processo, quanto di un tentativo ampliato di chiarificazione e di rappacificazione: lo scopo è sempre quello di « guadagnare il fratello » (v. 16).
Nel caso che anche questa seconda istanza non abbia esito, è « tutta » la comunità che viene investita del problema: « Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea » (v. 17). Il termine greco qui adoperato è ekklesía, che certamente sta a significare la comunità locale con tutti i suoi componenti, e specialmente con i suoi capi, incaricati di parlare come rappresentanti autorevoli del gruppo. È l’estremo tentativo per ricuperare il fratello.
Di nuovo, tutto questo non va concepito come un atto di accusa, quanto piuttosto come l’ultimo, accorato appello perché colui che ha mancato riconosca la sua colpa e si reinserisca come membro vivo nella comunità.
Soltanto dopo il fallimento di questo estremo tentativo si giungerà alla scomunica del colpevole, espressa con una formula di tipico stampo giudaico: « Sia per te un pagano e un pubblicano » (v. 17). I « pagani », infatti, erano considerati estranei alla comunità israelitica. Più che di scomunica vera e propria, però, si tratta del riconoscimento di una dolorosa situazione di fatto, cioè del distacco effettivo dalla « chiesa », già consumato da parte di colui che non vuol riconoscere nel suo peccato una violazione non tanto di certe norme, quanto della stessa sostanza di vita della comunità.

« Tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo »
La frase che segue intende giustificare il « potere » che ha la comunità di esprimere autoritativamente un giudizio di appartenenza o di distacco dalla sua compagine vitale e dalla ricchezza di grazia che Cristo le ha conferito: « In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra, sarà sciolto anche in cielo » (v. 18).
Queste parole le abbiamo già sentite rivolte precedentemente a Pietro (16,19); ora Cristo non vuole di certo togliergli ciò che prima gli ha dato, offrendolo invece a tutti. Si vuol semplicemente dire che la Chiesa ha davvero il potere di « autoregolamentarsi »; evidentemente per quelle vie che Gesù ha stabilito e che ci è dato cogliere in altre pagine del Vangelo: come, ad esempio, il potere di Pietro e dei Dodici.
Il quadro di Chiesa che qui emerge è tutto di « comunione », in cui ognuno dei suoi membri è corresponsabilizzato al bene di tutti. È interessante notare quel « tu », che Matteo rivolge costantemente ai lettori del suo Vangelo (« Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo…; se non ti ascolterà, prendi con te… »), prima di parlare al plurale: « Tutto quello che legherete… ».
Se la Chiesa, infatti, è una comunità di fede e di amore, non si vede come possa essere diversamente: sono io ad essere interpellato in prima persona anche per ciò che riguarda i fratelli. Le loro colpe le debbo sentire come mie proprie, perché di fatto deturpano il volto della stessa e identica comunità e non la rendono attraente per quelli che stanno di fuori. L’autorità ha solo il compito di promuovere e di coordinare questo senso di « comune » responsabilità.
Come sarebbe più bella una Chiesa in cui tutti i battezzati, insieme a Pietro e agli altri Apostoli, « legano » e « sciolgono », cioè si sforzano di decifrare quello che Dio vuole o non vuole in determinate circostanze storiche, e poi, in piena concordia, cercano di attuarlo!
È quanto ci ricordava il papa Giovanni Paolo I nel primo radiomessaggio al mondo, il giorno dopo la sua elezione al sommo pontificato (26 agosto 1978), consumatosi così rapidamente: « La Chiesa, in quanto sforzo comune di responsabilizzazione e di risposta ai problemi lancinanti del momento, è chiamata a dare al mondo quel « supplemento d’anima » che da tante parti si invoca e che solo può assicurare la salvezza ».

« Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro »
Questo rimando alla Chiesa come « comunione » lo abbiamo anche più esplicito e più interiorizzato nei due versetti che seguono e che non sono estranei a quanto fin qui detto, come ritengono alcuni, ma ne rappresentano, a nostro parere, la sintesi e l’espressione più alta: « In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Poiché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro » (vv. 19-20).
« Due o tre » è il numero più piccolo per costituire una comunità: Cristo non pensa in termini trionfalistici o di massa! Solo Dio convoca e raduna la sua Chiesa: perciò il numero appartiene alla sua discrezione. Quello che importa, invece, è essere riuniti « nel nome di Cristo », fusi nella stessa fede e nello stesso amore, fino al punto di esprimere nella « preghiera » gli stessi desideri, gli stessi bisogni. Allora anche una comunità piccolissima avrà il potere di piegare a sé l’onnipotenza di Dio: « Qualunque cosa gli domandiate, il Padre mio ve la concederà » (v. 19)
La « potenza » della Chiesa non sta nel numero e neppure nella sua struttura organizzativa e gerarchica, ma nella sua capacità di « pregare », sentendosi unicamente legata e dipendente dall’amore e dalla fedeltà del suo Signore. Se questo è vero, come è vero, probabilmente è tutta la nostra prassi pastorale che deve essere capovolta!
L’ultima espressione poi è anche più sconvolgente, perché ci dice la radice ultima da cui nasce la Chiesa: « Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro ».
Cristo costituisce la sua Chiesa insediandosi « in mezzo » ai credenti, ammaestrandoli, esortandoli, pregando in loro e per loro. Non è, quello qui considerato, un momento « liturgico » particolarmente solenne, ma piuttosto l’essenza stessa della Chiesa in ogni momento della sua esistenza: un sentirsi costantemente « alla presenza » di Cristo per ascoltare la sua Parola e fare la sua volontà. Questo e soltanto questo costituisce la Chiesa.
Di nuovo ci possiamo rendere conto di come sia difficile non solo vivere, ma anche comprendere quello che realmente è la Chiesa!
Essa sta sempre al di là degli schemi che ce ne possiamo fare, perché è una realtà più interiore che esteriore, proprio come avviene di Cristo. A ragione, perciò, il primo capitolo della Costituzione sulla Chiesa del Concilio Vaticano II è intitolato: « Il mistero della Chiesa ».

« Figlio dell’uomo, io ti ho costituito sentinella per gli Israeliti »
Le altre due letture possono fare da facile contrappunto alle considerazioni fin qui svolte.
La prima, ripresa da Ezechiele, ricorda al Profeta la sua responsabilità di « sentinella » per tutta la casa d’Israele. Se egli non darà il segnale di allarme e l’empio non si convertirà, « morirà per la sua iniquità; ma della sua morte chiederò conto a te. Ma se tu avrai ammonito l’empio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte, egli morirà per la sua iniquità, tu invece sarai salvo » (Ez 33,8-9).
Il Profeta, dunque, è a servizio di tutti i fratelli: da lui si richiede che annunzi senza timore e con fedeltà la volontà di Dio; per il resto, rimane intatta la responsabilità dei singoli credenti davanti alla Parola del Signore. Il fatto di essere « comunità », abbiamo già detto, corresponsabilizza tutti nella misura del « servizio » che Dio offre e anche richiede da « ognuno » di noi.

« Non abbiate alcun debito se non quello dell’amore! »
La seconda lettura poi ci riporta in pieno clima ecclesiale, ricordandoci che la regola di vita dei cristiani, nei rapporti sia con quelli che stanno al di fuori (Rm 13,1-7) sia con quelli che stanno al di dentro della Chiesa, deve essere dettata dall’amore.
È un « debito », quello dell’amore, che non basta tutta la vita a pagarlo come si deve! « Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole, perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge… L’amore non fa male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore » (Rm 13,8-10).
La Chiesa dovrebbe essere il « luogo » privilegiato, dove unica « legge » per tutti, pastori e semplici fedeli, è l’amore. Allora soltanto si verificherà quello che il Signore ci ha promesso: « Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro » (Mt 18,20).

Da: CIPRIANI S.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 5 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

The Prophet Moses

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Publié dans:immagini sacre |on 4 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

TORAH ORALE E LA CATENA DELLA RICEZIONE

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TORAH ORALE E LA CATENA DELLA RICEZIONE

“Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti, i profeti la trasmisero agli uomini della Grande Assemblea” (Avot I,1)

“La Scrittura cresce con chi legge” (Papa Gregorio Magno)

Gli Avot de-Rabbi Natan b1 commentano: “non dalla bocca di un angelo né dalla bocca di un serafino, ma dalla bocca del re dei re, il Santo, benedetto sia”. E sulla parola Torà, rabbi Jona spiega: “sia la Torà che è stata messa per iscritto, sia la Torà che è sulla bocca, perché la Torà è già stata data insieme alle sue interpretazioni”. Usando questa piccola frase, gli autori, numerosi e ignoti, dei Pirqè avot, hanno immediatamente messo in evidenza che la parola di Dio non è solo scrittura ma anche tradizione. Il tema dell’ascolto nella Bibbia rappresenta l’unico e sufficiente modo di essere in rapporto con Dio. Se non possiamo dire di “vedere Dio”, certamente possiamo dire di percepirlo. Quando io ascolto la lettura della Bibbia, mi ritrovo, in un certo senso, nella stessa situazione di Mosè presso il roveto ardente. Sento una voce che mi si presenta e che mi dice che cosa vuole da me. Questo è importantissimo: la Bibbia non è un libro che mi rivela delle verità, se non indirettamente. E’ un libro che mi dice quello che Dio vuole che io faccia. Come si fa, allora, a comprendere la volontà di Dio sperando di non travisarla? E’ possibile in quanto la ricerca si realizza solo in certi contesti e non in altri. La ricerca è quella che costituisce la tradizione, e la tradizione stessa diventa, in fin dei conti, Parola di Dio. Nell’ebraismo la Torà orale – che altro non è che la ricerca dentro la Torà scritta – è Parola di Dio. Si tratta, dunque, di un ascolto che deve inserirsi in quello già iniziato dalle generazioni precedenti. Al detto di Hillel: “Non separarti dalla comunità, non fidarti di te stesso fino al giorno della tua morte” si può accostare anche a quello che recita : “Lo studio solitario conduce alla perdizione”. Non significa che una persona studiando debba avere davanti gente e recitare ad alta voce, ma che è negativo lo studio che non tiene conto degli altri – soprattutto di chi è venuto prima- e che parte da un quaderno bianco. Ma come posso io, qui ed ora, entrare in rapporto vitale con le parole che Dio ha detto sul Sinai e che contengono la sua volontà al punto che essa “non è in cielo”, ossia non è più, se così si può dire, presso Dio, ma presso di noi? Qui entra il fondamentale principio della Torà orale: “Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti, i profeti la trasmisero agli uomini della Grande Assemblea”. E’ questa la shalshélet ha-qabbalà, la catena di ricezione, che dal Sinai giunge, di maestro in discepolo, fino a me, e trasmette la Torà she-be-‘alpé, la Torà che è sulla bocca. Torà scritta e Torà orale sono due aspetti – non sue Torot – dell’unica rivelazione che, sì, proviene tutta dal Sinai, ma è sempre vivente, parla secondo i bisogni di ogni epoca e di ogni persona, e si sviluppa secondo un movimento dall’implicito all’esplicito. Non è detto che per noi l’importanza primaria sia quella del primo significato che noi scorgiamo nel testo biblico. L’importanza sta anche nei sensi che man mano la comunità e i maestri della comunità trovano. Si tratta dunque di una comunità “spaziale” e “temporale”. Emmanuel Levinas ricorre a un’immagine sovente citata: in Esodo 25,15 si parla della costruzione dell’arca santa del tabernacolo. C’è scritto che le stanghe non devono essere mai tolte. Levinas dà una spiegazione midrashica: “La Legge che porta l’arca è sempre pronta la movimento, non è legata a nessun punto dello spazio e del tempo, ma è trasportabile e pronta al trasporto”. Non per nulla Mosè si era
tanto sdegnato perché mentre stava sul monte il popolo aveva fatto il vitello d’oro, che nonera una divinità, ma un altro trono di Dio: questo vitello era un’immagine statica, non aveva anelli, non aveva le stanghe, era un simbolo che rappresentava staticità, bloccava la parola di Dio al deserto
(o meglio Canaan) Dunque, si dice che nella Torà si trova la parola di Dio. Che significa? Significa che non ci si può sempre trovare di fronte ad una risposta univoca. Di certo la risposta non può essere quella dei fondamentalisti, per i quali ogni parola- almeno del testo originale- è rivelazione immediata di Dio.Occorre cercare dietro gli angoli delle parole per trovare la parola di Dio. Leggere la Bibbia èproprio un “cercare”.

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 4 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

SAN MOSÈ PROFETA – 4 SETTEMBRE

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SAN MOSÈ PROFETA – 4 SETTEMBRE

Etimologia: Mosè = salvato dalle acque, dall’ebraico

Martirologio Romano: Commemorazione di san Mosè, profeta, che fu scelto da Dio per liberare il popolo oppresso in Egitto e condurlo nella terra promessa; a lui si rivelò pure sul monte Sinai dicendo: «Io sono colui che sono», e diede la Legge che doveva guidare la vita del popolo eletto. Carico di giorni, morì questo servo di Dio sul monte Nebo nella terra di Moab davanti alla terra promessa.

Su questa grande figura di profeta e legislatore del popolo ebraico, si possono scrivere interi volumi riguardanti la sua storia personale e quella degli ebrei; come pure per tutta la sua opera di condottiero, profeta, guida e legislatore del suo popolo.
Bisogna per forza, dato lo spazio ristretto, citare solo i passi salienti della sua vita. Egli è prima di tutto l’autore e legislatore del ‘Pentateuco’, nome greco dei primi 5 libri della Bibbia, denominati globalmente dagli ebrei “la Legge”, perché costituiscono la fase storica, religiosa e giuridica del popolo della salvezza.
Quasi tutta l’opera è dedicata al personaggio e all’opera di Mosè, per mezzo del quale Dio fondò il suo popolo; i “libri di Mosè” sono: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio, essi vanno dalla creazione del mondo alla morte di Mosè.
Visse 120 anni, nel XIV-XIII secolo a. C. e gli ultimi 40 anni della sua vita li dedicò interamente al servizio di Iahweh e di Israele; fu la più elevata figura del Vecchio Testamento e uno dei più grandi geni religiosi di tutti i secoli.
Dio lo preparò a tale compito nei primi 80 anni di vita; nacque durante il periodo più tormentato della persecuzione egiziana contro gli israeliti, sotto il faraone Thutmose III, quando ‘ogni neonato ebreo, doveva essere gettato nel Nilo’, Mosè terzogenito dopo Maria ed Aronne, appartenente alla tribù di Levi, dopo averlo tenuto nascosto per tre mesi, fu posto in un cesto di papiro, spalmato di pece e deposto fra i giunchi della sponda del fiume, mentre la sorella da lontano, controllava.
La figlia del faraone, scese al fiume per bagnarsi e notò il bambino, intenerita lo raccolse e a questo punto la sorella Maria, esce allo scoperto chiedendo se avevano bisogno di una nutrice per allattarlo e propose Iochabed sua madre, la principessa accettò e quindi il bambino, fu ridato senza saperlo alla madre naturale che lo allattò, portandolo poi alla corte alla figlia del Faraone, che lo allevò come un figlio dandogli il nome di Mosé (in egiziano: ragazzo, figlio).
Il ragazzo ebreo ricevé alla corte un’educazione culturale perfetta, più unica che rara, che solo la corte egiziana a quell’epoca poteva dare, che andava dalla letteratura egiziana, alla legislazione babilonese alle leggi e costumi degli Ittiti.
Verso i 40 anni poté vedere la desolazione in cui vivevano i suoi fratelli ebrei, arrivando ad uccidere un egiziano che percuoteva selvaggiamente uno schiavo israelita; purtroppo per lui, un ebreo collaboratore degli egiziani, svelò l’accaduto e il faraone condannò Mosè, egli dovette fuggire nel deserto del Sinai.
Qui incontrò nel suo esilio, una tribù nomade, il cui capo Ietro gli dette in moglie la figlia Sefòra, accogliendolo fra loro; nel silenzio della steppa, alla guida del gregge di pecore di Ietro, Mosè ha l’opportunità di meditare, di percepire la presenza di Dio, senza le distrazioni delle magnificenze della corte egiziana e nella solitudine del deserto, avverte la sua pochezza davanti al creato.
E nel deserto Dio si rivela, ai piedi del Sinai, dove un rovo è in fiamme senza spegnersi, Mosè accostatasi sente chiamarsi e la voce gli dice di togliersi i sandali perché quel luogo è sacro. Il Dio dei patriarchi gli ordina di andare dal Faraone per liberare il suo popolo oppresso e condurlo in Canaan, formandone una Nazione e per essere creduto sia dagli egiziani, che dagli ebrei, Iahweh gli dà il potere di compiere miracoli, consegnandogli un bastone con cui operarli.
Mosè tornato in Egitto insieme al fratello Aronne si reca dal successore del faraone Thutmose III, il figlio Amenophis II (1450-1423 a. C.) e chiede la liberazione del popolo ebraico in schiavitù e il permesso di allontanarsi nel deserto per la loro strada. All’ostinato rifiuto del faraone, seguono le celebri “dieci piaghe” che colpiscono l’Egitto per ordine di Mosè; le prime nove sono legate a fenomeni naturali ma che accadono in forma straordinaria, come l’invasione d’insetti dannosi ad ondate, invasione di rane, ecc. l’ultima invece più terribile è la morte dei primogeniti che avviene in una notte, compreso il figlio del faraone.
A questo punto il faraone, concede, anzi ordina, che gli ebrei vadano via e in quello stesso giorno inizia l’Esodo nella direzione del Mar Rosso. Qui avviene il grande miracolo dell’attraversamento del mare, che si apre davanti agli ebrei, permettendo loro di fuggire dalla cavalleria egiziana, che il Faraone pentito aveva inviato al loro inseguimento; il mare poi si richiuderà sui cavalieri egiziani annegandoli tutti.
Questo prodigio è stato magistralmente rappresentato nel celebre film “I dieci Comandamenti” del regista Cecil B. De Mille. È sempre Mosè l’intermediario fra Dio e il suo popolo, che ormai migrando nel deserto, si nutre con i prodigi di Iahweh, operati da Mosè; acqua che sgorga dalle rupi, la caduta della manna, la cattura delle quaglie, ecc.
Dopo tre mesi arrivano alle falde del Sinai, dove Mosè salito sul monte riceve le Tavole dell’Alleanza, l’avvenimento più importante e decisivo della storia d’Israele; esse sono la costituzione e la sanzione dell’alleanza fra Iahweh e la nazione d’Israele. Mosè vi appare in una grandezza sovrumana, in intima familiarità con Dio; quando Aronne e i suoi lo rivedono scendere dal monte con il Decalogo, il suo volto irraggia l’eterna luce, riflesso dello splendore divino e hanno addirittura timore di avvicinarlo.
Ma mentre Mosè era sul monte, il suo popolo, nell’attesa prolungata, cedette alla tendenza idolatrica, costruendo un vitello d’oro e abbandonandosi a festini, ubriachezze e immoralità. Dio manifesta a Mosè che dopo tale tradimento vuole distruggere gli ebrei e costituirlo capostipite di una nuova stirpe. Ma Mosè rifiuta, intercedendo per loro e ottenendo il perdono dalla sua infinita misericordia.
Un anno dopo, gli ebrei già dimentichi del perdono ricevuto, minacciano Mosè di lapidarlo, perché gli esploratori ritornati dalla terra di Canaan, avevano parlato di enormi difficoltà di vita, quindi alla loro guida rimproveravano di averli portati a morire nel deserto, era meglio ritornare in Egitto. Ancora una volta Dio vuole punire questo popolo ingrato e Mosè intercede di nuovo, ma Dio, stabilirà che la generazione dell’esodo non entrerà nella Terra promessa, tutti moriranno nel deserto, dove vagheranno per 38 anni.
E con questo popolo recalcitrante e indocile, Mosè convive cercando di portarlo al monoteismo, formulando nell’oasi di Cadesh, sotto la tenda-santuario, tutta una legislazione, da dare come guida ad un popolo in formazione. Passati 40 anni si riprese la migrazione nel deserto e la nuova generazione non sembrava meno ostile della precedente, ribellandosi per quel cammino senza fine, ma anche senza la loro fede.
Dio, a Mosè ed Aronne prostrati che invocano il suo aiuto, dice di percuotere con il bastone una roccia e Mosè radunato il popolo per rincuorarli, percuote due volte la roccia e l’acqua sgorga in abbondanza. Il percuotere due volte, sembra un momento d’incertezza e dubbio da parte di Mosè ed Aronne, per cui Dio dice che giacché non avevano avuto piena fede in Lui, non avrebbero avuto il compito di introdurre il popolo nella terra promessa.
Infatti, dopo aver conquistato la Transgiordania e ripartito il territorio alle varie tribù, Mosè trasmette la sua autorità a Giosuè, quindi sul monte Nebo, contempla da lontano la ‘terra promessa’ e con tale visione muore.
Mosè fu dunque l’eletto del Signore e il segno della scelta divina fu sempre su di lui, fin dall’infanzia, protagonista di una straordinaria vicenda umana; primo vero tramite fra Dio e il suo popolo e in senso lato fra Dio e gli uomini.

Autore: Antonio Borrelli

Publié dans:SANTI, SANTI DELL'ANTICO TESTAMENTEO |on 4 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

Enciclopedia medieval.Las propiedades del agua

Enciclopedia medieval.Las propiedades del agua  dans immagini sacre 011
http://www.taringa.net/posts/offtopic/6355668/El-mar-terror-y-fascinacion.html

Publié dans:immagini sacre |on 3 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI : SAN GREGORIO MAGNO – 3 SETTEMBRE

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080528_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 28 maggio 2008

SAN GREGORIO MAGNO – 3 SETTEMBRE

Cari fratelli e sorelle!

mercoledì scorso ho parlato di un Padre della Chiesa poco conosciuto in Occidente, Romano il Melode, oggi vorrei presentare la figura di uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell’Occidente, il Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa! Nacque a Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti due Papi: Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.
Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere.
Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo “apocrisario”, oggi si direbbe “Nunzio Apostolico”, per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590.
Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (oltre 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di sant’Agostino di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in Britannia per evangelizzare l’Inghilterra.
Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo – era un vero pacificatore – , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela dimostrano la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l’espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l’annuncio della vera fede tra le popolazioni.
Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d’Italia un’attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo.
Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei. Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza. Quest’uomo di Dio ci mostra dove sono le vere sorgenti della pace, da dove viene la vera speranza e diventa così una guida anche per noi oggi.

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