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PER LA FESTA DELL’ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE – 2008 – CUSTODIA DI TERRA SANTA

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OMELIA DI FRA ARTEMIO VÌTORES PER LA FESTA DELL’ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE – 2008

Fratelli e sorelle:

Celebriamo oggi la festa dell’Esaltazione della Santa Croce. La sua origine è la solennità liturgica con la quale il 14 settembre del 335 furono inaugurati a Gerusalemme i grandiosi edifici sacri fatti costruire dall’Imperatore Costantino nei luoghi stessi del Calvario e del Sepolcro glorioso di Cristo. Questa festa celebrata sempre con grande solennità e con numerose manifestazioni di gioia, sostituiva nella mente cristiana la festa ebraica dei Tabernacoli, che si celebra appunto in questa epoca. Molti degli elementi di questa festa ebraica sono passati alla liturgia cristiana della Dedicazione della Chiesa. Questa era la festa della Dedicazione della Chiesa per eccellenza: la Basilica del Santo Sepolcro. I testi biblici che abbiamo ascoltato ci parlano del valore salvifico della Croce. Gesù, per la sua umiliazione fino alla morte e alla morte di croce, è stato esaltato fino al diventare il Signore del cielo e della terra. Tutti coloro che guardano e seguono la Croce di Cristo saranno guariti e avranno la vita eterna.

La croce, centro della nostra fede
Oggi celebriamo festa dell’Esaltazione della Santa Croce; tutti i giorni orniamo la croce, la baciamo, la portiamo al collo, la esaltiamo… Noi cristiani, siamo matti? Lo aveva annunciato Paolo: la croce è “scandalo per i giudei e stoltezza per i greci”. Il “Vangelo della Croce” era, e continua ad essere, un assurdo totale per il mondo (cf. 1Cor 1,18-25). E, tuttavia, noi celebriamo la festa della croce di Cristo, cantiamo il “Vexilla Regis”. Lo stesso Padre nostro San Francesco, diceva a chi lo vedeva piangere: “Piango la Passione del mio Signore. Per amore di lui non dovrei vergognarmi di andare gemendo ad alta voce per tutto il mondo” (Leggenda dei Tre Compagni, V,14: FF 1413). Perché questo? Perché per noi la croce di Gesù è il centro e il fondamento della nostra fede, perché Cristo è morto per il nostro amore e per la nostra salvezza. Cristo, dice Paolo, “mi ha amato e ha consegnato se stesso per me » (Gal 2,20). Cristo è morto perché noi abbiamo la vita: « Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna » (GV 3,16). “Per riscattare lo schiavo – cantiamo nell’Exultet, nel Annuncio Pasquale, – hai consegnato il Figlio”.

Gesù regna dalla Croce
“Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32), giacché con la sua morte Gesù ha iniziato a “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). Cristo, nel Calvario, fu crocifisso per la salvezza di tutti, per la tua salvezza, per la mia salvezza, e questa è la sua gloria, il suo trionfo: è stato crocifisso come uomo, è stato glorificato come Dio”, diceva San Gerolamo. E’ quello che dicono le parole scritte in greco sull’altare della Crocifissione: “hai realizzato la salvezza dal centro della terra” (Sal 44,12), giacché dalla croce ha riunito a tutte le nazioni (cf. Gv 12,32). Il Golgota è quindi così importante che ancora oggi, come succedeva nel passato, il sacerdote incaricato di custodire il Luogo Santo del Calvario viene chiamato “Presbitero del Golgota” oppure “Custode della Croce”. La Croce ci fa conoscere Dio: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37), giacché la croce è la rivelazione più evidente dell’amore di Dio. E così si capiscono le parole che cantiamo il Venerdì Santo: “Ecco il legno della Croce, al quale fu appeso il Cristo, Salvatore del mondo” (“Ecce lingum crucis…”).

Onorare il Crocifisso
Sulla Croce del Calvario non c’è un malfattore, ma “Gesù il Nazareno, il Re dei giudei” (Gv 19,19). Pilato, senza volerlo, proclama la regalità di Cristo. Egli è il Re del mondo. “E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo” (Gv 12,23), diceva Gesù. E oggi tutti i cristiani adoriamo il legno santo, il legno della croce dove è stato appeso il Figlio di Dio. “Vexilla Regis prodeunt”, canteremo, “le insigne del Re avanzano”; diremmo ancora: “l’albero decorato e radiante, ornato con la porpora reale”, cioè il sangue prezioso di Cristo. Ripetiamo le parole che San Cirillo di Gerusalemme diceva ai suoi ascoltatori, precisamente qui: “Non ci vergogniamo di confessare la nostra fede nel Crocifisso”. Facciamo sempre il segno della croce. “è un gran mezzo di difesa”. Perché il Re crocifisso qui, sul Calvario, è il nostro Re, diceva Sant’Agostino; “Al suo trono vengono gli uomini di tutte le classi e stati. A Lui vengono i poveri e i ricchi, analfabete e saggi, uomini e donne, signori e servi, adulti e bambini, A lui vengo giudei e greci, romani e barbari. Egli non dominò il mondo con il ferro, ma con il legno della croce”. Perciò, continua San Cirillo di Gerusalemme: celebriamo “la vittoria che il Signore ha riportato qui, soprattutto in questo Santo Golgota, che noi vediamo e tocchiamo con la mano… Non ti vergognare di confessare la Croce…perché la Croce non è causa infamia ma coronata di Gloria”. Non nascondere la croce, giacché, continua il Santo, “colui che è stato crocifisso è adesso sopra in cielo! Forse ci potevamo vergognare se, una volta crocifisso e posto nel sepolcro, fosse rimasto rinchiuso in esso; ma Egli, dopo essere stato crocifisso qui, sul Golgota, è salito al cielo”.

“Salve, o Croce, unica nostra speranza”
Soltanto così cominceremo a capire che croce eretta sul Calvario non è l’annuncio di un fallimento, di una vita di sofferenza e di morte, ma essa è un messaggio trionfale di vita. E potremo dire con Paolo: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14), perché “tutto posso in colui che mi da la forza” (Fil 4,13). Cantiamo: “Rifulge il mistero della croce” (“Fulget crucis mysterium!”). E con più forza: “Salve, o Croce, unica nostra speranza”.

Gesù, crocifisso, modello del discepolo
“Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me”, dice Gesù (Mt 10,38). Ci chiede che gli imitiamo, che lo seguiamo, prendendo ogni giorno la nostra croce. In questo possiamo gloriarci, diceva Francesco, se portiamo “alle nostre spalle ogni giorno la santa croce del nostro Signore Gesù Cristo”, giacché, dice Pietro, “Cristo patì per voi lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme” (1Pt 2,21). Sappiamo che non è facile essere cristiano. Lo aveva predetto Gesù stesso: “Voi avrete tribolazioni nel mondo” (Gv 16,33), giacché “se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me” (Gv 15,18). Ma siate sicuri: “chi perde la sua vita” “la salverà” (cf. Mc 7,35). Non dobbiamo avere paura delle opposizioni, delle persecuzioni, di niente. Lo ha detto Gesù a ciascuno di noi: “abbiate fiducia: io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). Arriveremo alla santità, dice il Concilio, se seguiamo “Cristo povero, umile e caricato con la croce, per meritare la partecipazione alla sua gloria” (LG 41).

Scendere dal Golgota al mondo
Oggi, qui, sul Golgota, abbiamo capito il valore della morte di Cristo in Croce: il suo amore crocifisso è stato la nostra salvezza. Non è il momento di mettersi a ridere di Gesù, come quelli personaggi del Vangelo, che gridavano: “scenda adesso dalla croce, perché vediamo e crediamo” (Mc 15, 32). Noi non possiamo fare altro che, in ginocchio, ripetere le parole di San Francesco: “Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo,… e ti benediciamo, perché per la tua Santa Croce hai redento il mondo”. Amen. Ed esclamare col Centurione: “Veramente, quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). E dopo, bisogna ritornare al mondo partendo da questo Calvario. Nel 1207, Francesco, – racconta San Bonaventura -, nella Chiesetta di San Damiano, “pregando inginocchiato davanti all’immagine del Crocifisso, si sentì invadere di una grande consolazione spirituale e, mentre fissava gli occhi pieni di lacrime nella croce del Signore, udì con le orecchi del corpo una voce scendere verso di lui dalla croce e dirgli per tre volte: “Francesco, va e ripara la mia chiesa che, come vedi, è tutta in rovina!” (FF 1038). Si trattava della Chiesa che “Cristo acquistò col suo sangue”, dice il testo. E così Francesco, “munendosi col segno della croce”, incominciò la sua missione. Egli poté ripetere con Paolo: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Così hanno fatto i cristiani; così hanno fatto i francescani quando, arrivati in Terra Santa, hanno visto che non c’erano Santuari, non c’erano cristiani e non c’erano le campane del Santo Sepolcro: la Chiesa di Terra Santa era completamente in rovina! Tutti hanno avuto davanti ai loro occhi, come noi, Maria, la Madonna Addolorata. La Madre stava qui, presso la Croce. Non è arrivata al Calvario per caso, ma ha percorso, passo a passo, il cammino del suo Figlio. E adesso è qui, come Madre e discepola. La Madre di Gesù e la Madre di tutti i suoi discepoli è sempre al nostro servizio.

Fra Artemio Vitores
Vicario custodiale

God The Father

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BENEDETTO XVI – IO CREDO IN DIO: IL PADRE ONNIPOTENTE

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BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 30 gennaio 2013

IO CREDO IN DIO: IL PADRE ONNIPOTENTE

Cari fratelli e sorelle,

nella catechesi di mercoledì scorso ci siamo soffermati sulle parole iniziali del Credo: “Io credo in Dio”. Ma la professione di fede specifica questa affermazione: Dio è il Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra. Vorrei dunque riflettere ora con voi sulla prima, fondamentale definizione di Dio che il Credo ci presenta: Egli è Padre.
Non è sempre facile oggi parlare di paternità. Soprattutto nel mondo occidentale, le famiglie disgregate, gli impegni di lavoro sempre più assorbenti, le preoccupazioni e spesso la fatica di far quadrare i bilanci familiari, l’invasione distraente dei mass media all’interno del vivere quotidiano sono alcuni tra i molti fattori che possono impedire un sereno e costruttivo rapporto tra padri e figli. La comunicazione si fa a volte difficile, la fiducia viene meno e il rapporto con la figura paterna può diventare problematico; e problematico diventa così anche immaginare Dio come un padre, non avendo modelli adeguati di riferimento. Per chi ha fatto esperienza di un padre troppo autoritario ed inflessibile, o indifferente e poco affettuoso, o addirittura assente, non è facile pensare con serenità a Dio come Padre e abbandonarsi a Lui con fiducia.
Ma la rivelazione biblica aiuta a superare queste difficoltà parlandoci di un Dio che ci mostra che cosa significhi veramente essere “padre”; ed è soprattutto il Vangelo che ci rivela questo volto di Dio come Padre che ama fino al dono del proprio Figlio per la salvezza dell’umanità. Il riferimento alla figura paterna aiuta dunque a comprendere qualcosa dell’amore di Dio che però rimane infinitamente più grande, più fedele, più totale di quello di qualsiasi uomo. «Chi di voi, – dice Gesù per mostrare ai discepoli il volto del Padre – al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono» (Mt 7,9-11; cfr Lc 11,11-13). Dio ci è Padre perché ci ha benedetti e scelti prima della creazione del mondo (cfr Ef 1,3-6), ci ha resi realmente suoi figli in Gesù (cfr 1Gv 3,1). E, come Padre, Dio accompagna con amore la nostra esistenza, donandoci la sua Parola, il suo insegnamento, la sua grazia, il suo Spirito.
Egli – come rivela Gesù – è il Padre che nutre gli uccelli del cielo senza che essi debbano seminare e mietere, e riveste di colori meravigliosi i fiori dei campi, con vesti più belle di quelle del re Salomone (cfr Mt 6,26-32; Lc 12,24-28); e noi – aggiunge Gesù – valiamo ben più dei fiori e degli uccelli del cielo! E se Egli è così buono da far «sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e … piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45), potremo sempre, senza paura e con totale fiducia, affidarci al suo perdono di Padre quando sbagliamo strada. Dio è un Padre buono che accoglie e abbraccia il figlio perduto e pentito (cfr Lc 15,11ss), dona gratuitamente a coloro che chiedono (cfr Mt 18,19; Mc 11,24; Gv 16,23) e offre il pane del cielo e l’acqua viva che fa vivere in eterno (cfr Gv 6,32.51.58).
Perciò l’orante del Salmo 27, circondato dai nemici, assediato da malvagi e calunniatori, mentre cerca aiuto dal Signore e lo invoca, può dare la sua testimonianza piena di fede affermando: «Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto» (v. 10). Dio è un Padre che non abbandona mai i suoi figli, un Padre amorevole che sorregge, aiuta, accoglie, perdona, salva, con una fedeltà che sorpassa immensamente quella degli uomini, per aprirsi a dimensioni di eternità. «Perché il suo amore è per sempre», come continua a ripetere in modo litanico, ad ogni versetto, il Salmo 136 ripercorrendo la storia della salvezza. L’amore di Dio Padre non viene mai meno, non si stanca di noi; è amore che dona fino all’estremo, fino a sacrificio del Figlio. La fede ci dona questa certezza, che diventa una roccia sicura nella costruzione della nostra vita: noi possiamo affrontare tutti i momenti di difficoltà e di pericolo, l’esperienza del buio della crisi e del tempo del dolore, sorretti dalla fiducia che Dio non ci lascia soli ed è sempre vicino, per salvarci e portarci alla vita eterna.
È nel Signore Gesù che si mostra in pienezza il volto benevolo del Padre che è nei cieli. È conoscendo Lui che possiamo conoscere anche il Padre (cfr Gv 8,19; 14,7), è vedendo Lui che possiamo vedere il Padre, perché Egli è nel Padre e il Padre è in Lui (cfr Gv 14,9.11). Egli è «immagine del Dio invisibile» come lo definisce l’inno della Lettera ai Colossesi, «primogenito di tutta la creazione… primogenito di quelli che risorgono dai morti», «per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati» e la riconciliazione di tutte le cose, «avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (cfr Col 1,13-20).
La fede in Dio Padre chiede di credere nel Figlio, sotto l’azione dello Spirito, riconoscendo nella Croce che salva lo svelarsi definitivo dell’amore divino. Dio ci è Padre dandoci il suo Figlio; Dio ci è Padre perdonando il nostro peccato e portandoci alla gioia della vita risorta; Dio ci è Padre donandoci lo Spirito che ci rende figli e ci permette di chiamarlo, in verità, «Abbà, Padre» (cfr Rm 8,15). Perciò Gesù, insegnandoci a pregare, ci invita a dire “Padre nostro” (Mt 6,9-13; cfr Lc 11,2-4).
La paternità di Dio, allora, è amore infinito, tenerezza che si china su di noi, figli deboli, bisognosi di tutto. Il Salmo 103, il grande canto della misericordia divina, proclama: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso coloro che lo temono, perché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (vv. 13-14). E’ proprio la nostra piccolezza, la nostra debole natura umana, la nostra fragilità che diventa appello alla misericordia del Signore perché manifesti la sua grandezza e tenerezza di Padre aiutandoci, perdonandoci e salvandoci.
E Dio risponde al nostro appello, inviando il suo Figlio, che muore e risorge per noi; entra nella nostra fragilità e opera ciò che da solo l’uomo non avrebbe mai potuto operare: prende su di Sé il peccato del mondo, come agnello innocente, e ci riapre la strada verso la comunione con Dio, ci rende veri figli di Dio. È lì, nel Mistero pasquale, che si rivela in tutta la sua luminosità il volto definitivo del Padre. Ed è lì, sulla Croce gloriosa, che avviene la manifestazione piena della grandezza di Dio come “Padre onnipotente”.
Ma potremmo chiederci: come è possibile pensare a un Dio onnipotente guardando alla Croce di Cristo? A questo potere del male, che arriva fino al punto di uccidere il Figlio di Dio? Noi vorremmo certamente un’onnipotenza divina secondo i nostri schemi mentali e i nostri desideri: un Dio “onnipotente” che risolva i problemi, che intervenga per evitarci le difficoltà, che vinca le potenze avverse, cambi il corso degli eventi e annulli il dolore. Così, oggi diversi teologi dicono che Dio non può essere onnipotente altrimenti non potrebbe esserci così tanta sofferenza, tanto male nel mondo. In realtà, davanti al male e alla sofferenza, per molti, per noi, diventa problematico, difficile, credere in un Dio Padre e crederlo onnipotente; alcuni cercano rifugio in idoli, cedendo alla tentazione di trovare risposta in una presunta onnipotenza “magica” e nelle sue illusorie promesse.
Ma la fede in Dio onnipotente ci spinge a percorrere sentieri ben differenti: imparare a conoscere che il pensiero di Dio è diverso dal nostro, che le vie di Dio sono diverse dalle nostre (cfr Is 55,8) e anche la sua onnipotenza è diversa: non si esprime come forza automatica o arbitraria, ma è segnata da una libertà amorosa e paterna. In realtà, Dio, creando creature libere, dando libertà, ha rinunciato a una parte del suo potere, lasciando il potere della nostra libertà. Così Egli ama e rispetta la risposta libera di amore alla sua chiamata. Come Padre, Dio desidera che noi diventiamo suoi figli e viviamo come tali nel suo Figlio, in comunione, in piena familiarità con Lui. La sua onnipotenza non si esprime nella violenza, non si esprime nella distruzione di ogni potere avverso come noi desideriamo, ma si esprime nell’amore, nella misericordia, nel perdono, nell’accettare la nostra libertà e nell’instancabile appello alla conversione del cuore, in un atteggiamento solo apparentemente debole – Dio sembra debole, se pensiamo a Gesù Cristo che prega, che si fa uccidere. Un atteggiamento apparentemente debole, fatto di pazienza, di mitezza e di amore, dimostra che questo è il vero modo di essere potente! Questa è la potenza di Dio! E questa potenza vincerà! Il saggio del Libro della Sapienza così si rivolge a Dio: «Hai compassione di tutti, perché tutto puoi; chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono… Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita» (11,23-24a.26).
Solo chi è davvero potente può sopportare il male e mostrarsi compassionevole; solo chi è davvero potente può esercitare pienamente la forza dell’amore. E Dio, a cui appartengono tutte le cose perché tutto è stato fatto da Lui, rivela la sua forza amando tutto e tutti, in una paziente attesa della conversione di noi uomini, che desidera avere come figli. Dio aspetta la nostra conversione. L’amore onnipotente di Dio non conosce limiti, tanto che «non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Rm 8,32). L’onnipotenza dell’amore non è quella del potere del mondo, ma è quella del dono totale, e Gesù, il Figlio di Dio, rivela al mondo la vera onnipotenza del Padre dando la vita per noi peccatori. Ecco la vera, autentica e perfetta potenza divina: rispondere al male non con il male ma con il bene, agli insulti con il perdono, all’odio omicida con l’amore che fa vivere. Allora il male è davvero vinto, perché lavato dall’amore di Dio; allora la morte è definitivamente sconfitta perché trasformata in dono della vita. Dio Padre risuscita il Figlio: la morte, la grande nemica (cfr 1 Cor 15,26), è inghiottita e privata del suo veleno (cfr 1 Cor 15,54-55), e noi, liberati dal peccato, possiamo accedere alla nostra realtà di figli di Dio.
Quindi, quando diciamo “Io credo in Dio Padre onnipotente”, noi esprimiamo la nostra fede nella potenza dell’amore di Dio che nel suo Figlio morto e risorto sconfigge l’odio, il male, il peccato e ci apre alla vita eterna, quella dei figli che desiderano essere per sempre nella “Casa del Padre”. Dire «Io credo in Dio Padre onnipotente», nella sua potenza, nel suo modo di essere Padre, è sempre un atto di fede, di conversione, di trasformazione del nostro pensiero, di tutto il nostro affetto, di tutto il nostro modo di vivere.
Cari fratelli e sorelle, chiediamo al Signore di sostenere la nostra fede, di aiutarci a trovare veramente la fede e di darci la forza di annunciare Cristo crocifisso e risorto e di testimoniarlo nell’amore a Dio e al prossimo. E Dio ci conceda di accogliere il dono della nostra filiazione, per vivere in pienezza le realtà del Credo, nell’abbandono fiducioso all’amore del Padre e alla sua misericordiosa onnipotenza che è la vera onnipotenza e salva.

ATTESA DEL SIGNORE – Enzo Bianchi

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ATTESA DEL SIGNORE

Enzo Bianchi, Le parole della spiritualita 

«Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta.» Al cuore della celebrazione eucaristica, queste parole ricordano al cristiano un elemento costitutivo della sua identità di fede: l’attesa della venuta del Signore. «Il cristiano», ha scritto il cardinale Newman, «è colui che attende il Cristo.»

«Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta.» Al cuore della celebrazione eucaristica, queste parole ricordano al cristiano un elemento costitutivo della sua identità di fede: l’attesa della venuta del Signore. «Il cristiano», ha scritto il cardinale Newman, «è colui che attende il Cristo.» Certo, nei tempi del «tutto e subito», dell’efficacia e della produttività, in cui anche i cristiani appaiono spesso segnati da attivismo, parlare di «attesa» può rischiare l’impopolarità e l’incomprensione totale: a molti infatti «attesa» appare sinonimo di passività e inerzia, di evasione e de- responsabilizzazione. In realtà il cristiano, che non si lascia definire semplicemente da ciò che fa, ma dalla relazione con il Cristo, sa che il Cristo che egli ama e in cui pone la fiducia è il Cristo che è venuto, che viene nell’oggi e che verrà nella gloria. Davanti a sé il cristiano non ha dunque il nulla o il vuoto, ma una speranza certa, un futuro orientato dalla promessa del Signore: «Sì, verrò presto» (Apocalisse 22,20). In realtà «attendere», a partire dalla sua etimologia latina (ad-tendere), indica una «tensione verso», «un’attenzione rivolta a», un movimento centrifugo dello spirito in direzione di un altro, di un futuro. Potremmo dire che l’attesa è un’azione, però un’azione non chiusa nell’oggi, ma che opera sul futuro. La Seconda lettera di Pietro esprime questa dimensione affermando che i cristiani affrettano, con la loro attesa, la venuta del giorno del Signore (2 Pietro 3,12).

La particolare visione cristiana del tempo, che fa del credente «un uomo che ha speranza» (cfr. 1Tessalonicesi 4,13), «che attende il Cristo» (Filippesi 3,20; Ebrei 9,28), che è definito non solo dal suo passato ma anche dal futuro e da ciò che il Cristo in tale futuro opererà, dovrebbe diventare una preziosa testimonianza (o, forse, controtestimonianza) per il mondo attuale dominato da una concezione del tempo come tempo vuoto che evolve in un continuum che esclude ogni attesa essenziale e ingenera quel fatalismo e quella incapacità di attesa tipici dell’uomo moderno. Venir meno a questa dimensione significa pertanto non solo sminuire la portata integrale della fede, ma anche privare il mondo di una testimonianza di speranza che esso ha diritto di ricevere dai cristiani (cfr. 1Pietro 3,15). L’uomo è anche attesa: se questa dimensione antropologica essenziale, che afferma che l’uomo è anche incompiutezza, viene misconosciuta, allora il pericolo dell’idolatria è alle porte, e l’idolatria è sempre auto sufficienza del presente. La venuta del Signore impone invece al cristiano attesa di ciò che sta per venire e pazienza verso ciò che non sa quando verrà. E la pazienza è l’arte di vivere l’incompiuto, di vivere la parzialità e la frammentazione del presente senza disperare. Essa non è soltanto la capacità di sostenere il tempo, di rimanere nel tempo, di perseverare, ma anche di sostenere gli altri, di sopportarli, cioè di assumerli con i loro limiti e portarli. Ma è l’attesa del Signore, l’ardente desiderio della sua venuta, che può creare uomini e donne capaci di pazienza nei confronti del tempo e degli altri.
E qui vediamo come l’attesa paziente sia segno di forza e di solidità, di stabilità e di convinzione, non di debolezza. E soprattutto è l’attitudine che rivela un profondo amore, per il Signore e per gli altri uomini: «L’amore pazienta» (1Corinti 13,4). Mossa dall’amore, l’attesa diviene desiderio, desiderio dell’incontro con il Signore (2 Corinti 5,2; Filippesi 1,23). Anzi, l’attesa del Signore porta il cristiano a disciplinare il proprio desiderio, a imparare a desiderare, a frapporre una distanza tra sé e gli oggetti desiderati, a passare da un atteggiamento di consumo a uno di condivisione e di comunione, a un atteggiamento eucaristico. L’attesa del Signore genera nel credente anzitutto la gratitudine, il rendimento di grazie e la dilatazione del cuore che si unisce e dà voce all’attesa della creazione tutta: «La creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio [...] e nutre la speranza di essere liberata dalla schiavitù della corruzione» (Romani 8,19-21). È la creazione tutta che attende cieli e terra nuovi, che attende trasfigurazione, che attende il Regno. L’attesa della venuta del Signore da parte dei cristiani diviene così invocazione di salvezza universale, espressione di una fede cosmica che consoffre con ogni uomo e con ogni creatura. Ma se queste sono le valenze dell’attesa del Signore, se questa è una precisa responsabilità dei cristiani, dobbiamo lasciarci interpellare dall’accorato e provocante appello lanciato a suo tempo da Teilhard de Chardin: «Cristiani, incaricati, dopo Israele, di custodire sempre viva la fiamma bruciante del desiderio, che cosa ne abbiamo fatto dell’attesa?».

SS. Peter and Paul Orthodox Church, New Jersey

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Publié dans:immagini sacre |on 10 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

IL PERICOLO DELLA IDOLATRIA (1COR 8,1-11,1)

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IL PERICOLO DELLA IDOLATRIA (1COR 8,1-11,1)

Mosetto F.

Nelle città greche diverse occasioni – feste di singole divinità, feste di carattere cittadino (associazioni) o familiare (ad es., matrimonio) – comportavano un banchetto sacro celebrato nelle adiacenze di un tempio, nel corso del quale si consumavano carni degli animali precedentemente offerti in sacrificio (i giudei le chiamavano eidolóthyton, vittime offerte agli idoli). Anche le carni macellate messe in vendita al pubblico mercato provenivano spesso dai sacrifici. Legami familiari e convenienze sociali spingevano ad accettare l’invito a tali banchetti; così pure, nell’acquistare la carne al mercato era difficile evitare quella degli «idolotiti».
I cristiani di Corinto s’interrogavano al riguardo: quale condotta tenere? Isolarsi dalla società, chiudendosi in una specie di ghetto, per evitare ogni compromesso con la religione pagana? Oppure prendere parte ai banchetti, ai quali si era invitati da parenti e amici, senza farsi troppi scrupoli?
La risposta dell’apostolo prende le mosse da due principi di soluzione (la «scienza» e la carità), che vengono immediatamente applicati all’argomento (1Cor 8,1-13). Poi, in una lunga digressione, Paolo illustra con il suo esempio personale l’istanza di rinunciare ai propri diritti per il bene del fratello (1Cor 9,1-27), e, con quello degli israeliti al tempo dell’esodo, il rischio di ricadere nel paganesimo (1Cor 10,1-13). Infine, alla luce di quanto esposto, dà indicazioni concrete di comportamento (1Cor 10,14-33).

1. La «scienza» e la carità
Il concilio di Gerusalemme si era già occupato della questione (cf. At 15,28s), ma Paolo non si appella alla risposta data in tale circostanza, forse perché essa riguardava direttamente le Chiese della Siria composte sia da giudeo-cristiani sia da credenti di origine gentile. Egli rimanda, invece, a due criteri di condotta, riassunti nelle parole «scienza (gnosis)» e «carità (agápe)», ossia: da una parte, la conoscenza e valutazione obiettiva della realtà e del fatto in questione; dall’altra, l’amore del prossimo, cui bisogna ispirare le scelte concrete. La scienza da sola, non congiunta alla carità, porta all’orgoglio e al disprezzo del fratello («gonfia» di umana superbia). Non basta «sapere», occorre altresì avvalersi in modo costruttivo della propria «scienza». Solo chi, oltre a conoscere, ama, è a sua volta «conosciuto» nel senso biblico del termine, è cioè oggetto della benevolenza di Dio. Perché solamente la carità «edifica», ossia costruisce la comunità (cf. 1Cor 14,12) in quanto cerca l’utile degli altri (cf. 1Cor 10,23s).
Ora, Paolo applica al problema concreto tale considerazione. L’apostolo afferma che di per sé il credente può cibarsi senza alcuno scrupolo degli idolotiti. Egli infatti «sa» che Dio è uno solo e che non esistono altri dèi. La fede cristiana riconosce e confessa un unico Dio, il Padre, creatore e signore del mondo; «a lui», al suo servizio e alla sua gloria, noi siamo orientati e chiamati. Così pure, sappiamo che esiste «un solo Signore», Gesù Cristo, il mediatore della creazione e della salvezza. I numerosi «dèi e signori» dei gentili scompaiono davanti all’unico Dio: semplicemente non esistono; ma, più avanti, Paolo dirà che sono demoni, spiriti malvagi (1Cor 10,20s). Ora, se ogni realtà creata viene da Dio per mezzo del Cristo, a lui appartiene ed è a lui finalizzata, ne segue che è lecito mangiare di qualsiasi cibo (cf. 1Cor 10,23). Per quel che riguarda i nostri rapporti con Dio, la provenienza degli alimenti è irrilevante; anzi, tutto è suo dono, da ricevere con gratitudine (cf. 1Cor 10,30; Rm 14,6). Il bel distico del v. 6:

«…un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene, e noi siamo per lui,
e un solo Signore, Gesù Cristo, per il quale tutto esiste e noi esistiamo grazie a lui»

è una confessione di fede, paragonabile ad altre disseminate nell’epistolario paolino (cf. 1Ts 1,9s; Rm 3,30; 10,9; 11,36; ecc.). È probabile che nel formularla Paolo si ispiri alla tradizione.

Ma – continua Paolo – questa «scienza» non è in tutti: la comunità infatti è composta di «forti» e di «deboli» (cf. Rm 14,1). Avvezzi fino a ieri a considerare le carni immolate agli idoli come un cibo sacro, per il quale si entra in comunione con la divinità, alcuni cristiani da poco convertiti proverebbero un vero rimorso se continuassero a cibarsene e, al vedere dei fratelli che lo fanno senza scrupolo, ne ricevono scandalo, ossia occasione di caduta, sentendosi come spinti e autorizzati a mangiare le carni sacrificate agli idoli appunto come «idolotiti». La libertà e il diritto – derivanti dalla certezza di fede di cui sopra – di consumare le carni immolate hanno un limite nel danno spirituale che ne può venire per i fratelli, la cui coscienza è «debole», nel senso che è tuttora condizionata dalle concezioni e dalle consuetudini passate.
Deve allora entrare in azione l’altro principio: la carità, che edifica. Se ci si rende conto che il proprio comportamento, per quanto buono e legittimo, è di scandalo al fratello, è meglio rinunciare alla propria libertà e al proprio diritto pur di non spingerlo ad agire contro coscienza, a commettere perciò (soggettivamente) un peccato. Altrimenti, «per la tua scienza va in rovina il debole, per il quale Cristo è morto». La morte di Cristo rivela il valore di ogni persona ed è supremo modello di subordinazione dell’io con i suoi diritti e interessi al bene dell’altro. Non tenerne conto è «peccare contro i fratelli» e, per il fatto stesso di offendere la loro coscienza, peccare contro Cristo. La conclusione s’impone: «Perciò, se un cibo (ovviamente, dal contesto, gli “idolotiti”) scandalizza il fratello, non mangerò mai più carne in eterno» (8,13). Così Paolo introduce l’ulteriore riflessione.

2. L’esempio di Paolo
In questo brano l’Apostolo conferma con il proprio esempio l’invito a rinunciare a qualcosa di legittimo in vista del bene dei fratelli. Dal momento che è un vero apostolo di Cristo (1Cor 9,1-3), come gli altri apostoli Paolo avrebbe il diritto di vivere del proprio ministero (vv. 4-14), ma vi ha rinunciato per l’evangelo, per essere realmente servo di tutti (vv. 15-23): la rinuncia è una legge della vita cristiana, che vale in primo luogo per l’apostolo (vv. 24-27).
Se qui Paolo rivendica per sé il titolo di apostolo di Cristo – contro avversari, con i quali polemizzerà più a lungo nella seconda lettera ai Corinzi (cf. anche le lettere ai Filippesi e Galati) – lo fa per dimostrare i suoi diritti. L’autenticità dell’apostolato di Paolo scaturisce dall’aver incontrato personalmente il Risorto (cf. 1Cor 15,8; Gal 1,15s; At 9) e dall’esistenza stessa della comunità di Corinto. Essa è la sua «opera nel Signore», è come un «sigillo» che certifica un documento autentico, la prova che davvero Paolo è stato inviato ad annunciare l’evangelo e lo ha di fatto annunciato.
Come gli altri apostoli (ossia missionari, inviati dalle comunità), in particolare come Pietro e i «fratelli del Signore» – tra i quali emerge Giacomo; cf. At 1,14; ecc. – anche Paolo ha il diritto di «vivere dell’evangelo» e che le comunità provvedano al sostentamento della donna che l’accompagna («donna sorella», ossia credente; meno probabile: moglie), quindi di non essere costretto a lavorare per sostentarsi. Una serie di argomenti conferma l’assunto: l’analogia con i rapporti economico-sociali ordinari (il soldato, l’operaio, il pastore); il dettato della legge mosaica (Dt 25,4), applicato a chi «semina realtà spirituali». Inoltre, il diritto religioso universale; la parola stessa del Signore (cf. Lc 10,7: uno dei rari casi nei quali san Paolo si riferisce a un detto di Gesù).
Ma Paolo, e con lui Barnaba, non si è valso di tale diritto, ha scelto di mantenersi con il proprio lavoro (cf. 1Cor 4,12; At 18,3; 20,34) e questo «per l’evangelo [...] per non recare intralcio al Vangelo di Cristo», apparendo interessato nel momento stesso in cui l’annuncia; preferirebbe morire! Nessuno gli tolga questo vanto (davanti agli uomini, specialmente gli avversari, cf. 2Cor 11,10). Perché – soggiunge – annunciare l’evangelo non costituisce un titolo di merito, bensì un dovere, un incarico che gli è stato affidato, come a un servo. La sua «paga», di conseguenza e paradossalmente, sarà di annunciare l’evangelo gratis, sì da non usare del diritto che la sua missione gli conferirebbe.
In questo modo, però, egli è «libero da tutti», non dovendo nulla a nessuno, e può farsi «servo di tutti, allo scopo di guadagnare (a Cristo) il maggior numero» di credenti. Pur non essendo «sotto la legge» (bensì sotto la grazia, cf. Gal 5), Paolo si è fatto «giudeo con i giudei», rispettando il loro attaccamento alla legge (cf. At 16,3; 18,18; 21,20ss). Si è adattato alla mentalità e al costume dei gentili (cf. At 17,22-31: adattamento alla cultura; Gal 2,12ss: comunione di mensa), difendendo la loro libertà rispetto alla legge mosaica (cf. la lettera ai Galati), fino a diventare «senza legge», come i gentili appunto che tali sono in quanto privi della legge di Mosè e pertanto ad essa non sottomessi (cf. Rm 2,12.14). L’Apostolo, tuttavia, precisa: sono tuttavia sottomesso alla legge di Cristo. La «legge di Cristo» (Gal 6,2) è la «legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù», per la quale «la giustizia della legge» divina «si compie in noi che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo Spirito» (Rm 5,2).
Nel caso qui in discussione Paolo si è fatto «debole con i deboli» (cf. Rm 14-15). In una parola, si è fatto «tutto a tutti»: adattamento e accondiscendenza apostolica in vista della salvezza di ogni uomo, «per diventare partecipe con loro» dei benefici dell’evangelo, della salvezza promessa ai credenti.
Esiste, infatti, anche per lui il rischio del fallimento, di essere alla fine escluso dalla stessa salvezza che ha portato agli altri. È il concetto illustrato con l’esempio delle gare atletiche (proprio a Corinto si celebravano i Giochi Istmici). Prender parte a una gara non garantisce automaticamente il premio. Dicendo: «uno solo lo conquista», Paolo non intende affermare che solo pochi cristiani si salvano, ma semplicemente: come tra gara e premio non c’è connessione automatica, così tra l’essere diventati cristiani e il conseguire la salvezza. In vista di una corona che marcirà, l’atleta si sottopone a una dura disciplina. Allo stesso modo, l’apostolo esercita su se stesso un forte autocontrollo, si sottomette a ogni privazione, per non essere squalificato egli stesso nella gara che è la vita cristiana, per ottenere invece la corona incorruttibile, la vita eterna (cf. 2Tm 4,7s; 1Pt 5,4; ecc.).

3. L’esempio di Israele

Che la legge della rinuncia e dell’ascesi sia essenziale per tutti i cristiani, è insegnato nelle Scritture. Per questo Paolo porta l’esempio di Israele. Come nell’esodo tutto l’antico popolo di Dio sperimentò la salvezza e godette dei doni divini, eppure non tutti raggiunsero la terra promessa, e ciò a causa delle infedeltà alla grazia ricevuta, allo stesso modo può accadere che, nonostante il battesimo, i credenti cedano alla tentazione di ritornare alla vita pagana e così perdano la salvezza finale.
La salvezza dell’esodo e i doni divini elargiti a Israele nel deserto sono rievocati sinteticamente nel passaggio del mare (cf. Es 14) e nella nube (segno della presenza di Dio: Es 13,21; 40,36ss), nella manna e nella sorgente/pozzo di acqua (cf. Es 16; Nm 20,7ss; 21,16ss). Paolo vede in tali eventi il «tipo» della salvezza cristiana: il passaggio del mar Rosso prefigurava il battesimo («furono battezzati in Mosè»). La manna è chiamata «cibo spirituale»; lo stesso aggettivo – col quale si indica una realtà divina, nella quale è operante lo Spirito – è usato per l’acqua dalla roccia e per la pietra da cui essa scaturì. Già nell’Antico Testamento l’acqua dalla rupe era andata acquistando un significato simbolico in riferimento alla legge e alla sapienza (cf. Sal 78,25; Dt 8,3; Sap 16,20); significato qui ripreso, cui potrebbe aggiungersi un simbolismo sacramentale (cf. Gv 6). Sulla scia dell’interpretazione giudaica, la quale parlava di una fonte che accompagnò gli israeliti nel deserto, simbolo della Torà e della sapienza (cf., ad es., Targum Jonatan: Nm 21; Ant. Jud. 10,7), Paolo identifica la «roccia spirituale che li accompagnava» con il Cristo preesistente (sapienza di Dio).
Nonostante i segni della presenza di Dio e i doni ricevuti, la maggior parte dei figli di Israele perì lungo il cammino di liberazione (cf. Nm 14,16.35; cf. anche Gd 5). Essi «non furono graditi a Dio», che li respinse a causa dei loro peccati (si allude a Es 32: idolatria; Nm 11: rimpianto dell’Egitto; Nm 25: fornicazione; Nm 14; 17; 21: mormorazione e ribellione), con i quali rifiutarono praticamente la sua salvezza (cf. Sal 95 ed Eb 3,7ss).
Il rapporto tra storia biblica e vita cristiana, tra Antico e Nuovo Testamento, è espresso col termine «tipo» (v. 6, cf. v. 11): la realtà piena e definitiva è presente in anticipo, come in un abbozzo, e pertanto prefigurata da persone e avvenimenti che appartengono alla prima fase della storia della salvezza. In questo senso le vicende di Israele sono il «tipo», nel quale è prefigurata la vita della Chiesa, e servono a questa di ammonimento («per noi»). Non però solo «come esempio» edificante, bensì appunto perché il popolo di Dio dell’età escatologica («noi, per i quali è arrivata la fine dei tempi») riconosca la propria situazione e la propria vicenda nei «tipi» che la prefigurano. Questo principio ermeneutico, che i Padri utilizzarono ampiamente, è stato richiamato dal Vaticano II (Dei Verbum, 15s).
Sul rapporto tipologico tra storia biblica e realtà cristiana si fonda l’applicazione parenetica. Questa è diretta anzitutto ai «forti», che si ritengono troppo sicuri e giungono a disprezzare i «deboli» (cf. Rm 14,1ss): «Chi crede di stare, guardi di non cadere» nel peccato, in particolare nell’idolatria. Col suo proprio esempio Paolo ha insegnato loro la disciplina e l’ascesi (cf. 1Cor 9,24-27). La messa in guardia è seguita da una considerazione – accessoria rispetto alla linea dominante del pensiero – sulla fedeltà di Dio (cf. 1Cor 1,9; 1Ts 5,24) e sulla sua grazia che sostiene i credenti nelle prove.

4. Indicazioni pratiche

4.1. Fuggire l’idolatria

Dall’esempio della storia di Israele discende direttamente l’ammonimento a fuggire l’idolatria. Tale sarebbe il partecipare a un banchetto sacro pagano. Questo ritorno al culto degli idoli – ultimamente dei demoni, che si celano dietro le divinità – sarebbe un provocare la gelosia dell’unico Signore e sposo del suo popolo (cf. Dt 32,16.21; 2Cor 11,2), la sua ira e il castigo che ne segue.
Paolo si appella al buon giudizio dei suoi lettori: prendere parte a un pasto sacrificale pagano è incompatibile con l’essere cristiani. Infatti, il banchetto sacro stabilisce in ogni caso una «comunione» con la divinità. Ciò vale per il culto ebraico («Israele secondo la carne», cui corrisponde idealmente un Israele secondo lo spirito, o «Israele di Dio»: Gal 6,16): colui che si ciba della vittima sacrificata entra in comunione con Dio (rappresentato dall’altare). Ancor più ciò avviene nell’eucaristia: mangiando il pane spezzato (cf. At 2,42) e bevendo del calice sul quale è stata pronunciata la benedizione (cf. Mc 14,22ss e parr.), il credente comunica al corpo e al sangue di Cristo (cf. 1Cor 11,17-34: la «cena del Signore»). La comunione all’unico pane che è Cristo opera a sua volta l’unità dei credenti (cf. 1Cor 12,12-27: la Chiesa «corpo» del Cristo). In un certo senso lo stesso si verifica nei sacrifici offerti alle divinità pagane: anche se all’idolo non corrisponde nella realtà alcun essere divino (cf. 8,4) e benché cibarsi degli idolotiti sia per sé cosa indifferente e lecita (cf. vv. 23ss), dal momento che gli dèi delle genti sono demoni (cf. Dt 32,17; Sal 95[96],5; Is 65,11), chi partecipa al banchetto sacrificale del culto pagano entra in relazione con le potenze malvagie (non certo nel senso di vera «comunione», bensì in quanto si sottomette alla loro tirannia e al loro influsso). Dunque, «non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni».

4.2. Libertà e amore

Regolato il caso più serio e problematico, l’Apostolo si volge a quello più ordinario e dà alcune direttive pratiche sulla base dei principi indicati fin dall’inizio. In linea di massima, è lecito mangiare tutto ciò che è posto in vendita al mercato, oppure viene offerto da colui che invita a mensa (banchetto familiare o della corporazione) «senza indagare per motivo di coscienza» di dove provenga quella carne. Mediante la citazione di Sal 23,1 se ne ripete la ragione: tutto ciò che è nel mondo viene da Dio e a lui appartiene (cf. 8,6). L’atteggiamento fondamentale che ne consegue è duplice: rendere grazie a Dio per i suoi doni (cf. 1Tm 4,3); in tutte le azioni, non solamente il mangiare e bere, avere di mira la gloria di Dio (cf. Rm 15,6-7). In altre parole, tutta la vita del cristiano è culto spirituale (cf. Rm 12,1). La fede nell’unico Dio libera il credente da timori superstiziosi, allo stesso modo che la fede nel Signore Gesù lo emancipa dalla legge mosaica (cf. Gal 5) e, in particolare, da determinate osservanze rituali (cf. Rm 14-15).
Una volta rivendicata la libertà del cristiano, occorre tuttavia precisarne il senso e i limiti. Non sempre vale il principio (di sapore gnostico): «Tutto è lecito». Qualora l’esercizio della propria libertà recasse scandalo ai fratelli deboli, la carità – che cerca non l’interesse proprio, ma l’edificazione della comunità e il bene di ogni fratello (cf. 1Cor 13,5) – esige di rinunciarvi e di mettere al primo posto il bene spirituale del prossimo. Questa rinuncia è imposta dal rispetto della coscienza dell’altro (cf. 8,7-12). Paolo può richiamarsi all’esempio che egli stesso dà: facendosi tutto a tutti (cf. 1Cor 9,19-23), cerca di «piacere a tutti in ogni cosa», avendo di mira la loro salvezza (cf. Rm 15,1-3).
Perciò l’Apostolo conclude: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (cf. 1Cor 4,16; Fil 3,17). L’esempio di Gesù, punto di riferimento per ogni problematica riguardante le scelte morali del credente, conferisce al principio dell’agape cristiana il suo valore originale (cf. Fil 2,5ss) e innesta nel mistero pasquale una rinuncia apparentemente di poco conto.

5. Conclusione
A proposito dell’idolatria, il Catechismo della Chiesa cattolica osserva: «L’idolatria non concerne soltanto i falsi culti del paganesimo. Essa rimane una costante tentazione della fede e consiste nel divinizzare ciò che non è Dio. C’è idolatria quando l’uomo onora e riverisce una creatura al posto di Dio, si tratti degli dèi o dei demoni (per es., il satanismo), del potere, del piacere, della razza, degli antenati, dello stato, del denaro, ecc.» (n. 2113). Il rischio del compromesso insidia anche ogni cristiano. Ricordiamo la parola di Gesù: «Non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6,24).

 

Publié dans:Lettera ai Corinti - prima |on 10 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

GUGLIELMO DI OCCAM, IL FILOSOFO DELLA SEMPLICITÀ FRANCESCANA

http://www.homolaicus.com/teorici/occam/occam3.htm

GUGLIELMO DI OCCAM, IL FILOSOFO DELLA SEMPLICITÀ FRANCESCANA

(I – II – III) – QUESTA È LA TERZA PARTE

Giuseppe Bailone

La realtà è semplice, ma l’uomo la complica. Nei rapporti sociali e politici, ma anche nell’attività conoscitiva, l’uomo complica le cose e crea molti enti ingiustificati e inutili, che la semplicità francescana aiuta a sfrondare.
Il sapere e la società sono oppressi da enti inutili e infondati. “Frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora”. “Si fa inutilmente con molte cose ciò che si può fare con poche”.
Questo principio, detto il rasoio di Occam, promuove una visione chiara, semplice, della realtà e propone rapporti sociali ispirati al rispetto delle persone e alla semplicità dell’amore cristiano.
Molti elementi della metafisica tradizionale, come la sostanza, la causa, l’anima, la natura comune di Duns Scoto, vengono messi in discussione. Sotto l’azione del rasoio cadono anche i presunti fondamenti delle pretese teocratiche del papato.
Nella realtà esistono soltanto i singoli enti, persone e cose, e Dio onnipotente.
Il principio della libera onnipotenza divina, che Occam fa valere come e più di Duns Scoto, dissolve la selva di mediazioni ideali e di potere che la tradizione filosofica e teologica ha inutilmente costruito: Dio, nella sua onnipotenza, non ha bisogno di apparati di mediazione e di rappresentanza, di organizzazioni e di ordini gerarchici, di cui si servono invece i limitati sovrani di questo mondo.
Guglielmo di Occam nasce intorno al 1290 nei pressi di Londra, entra molto giovane nell’ordine francescano, studia e insegna ad Oxford. Nel 1324, accusato di eresia, si reca ad Avignone, allora sede del papa, per difendersi. Lì incontra Michele da Cesena, generale francescano, anche lui alle prese con accuse di eresia: nelle lotte all’interno dell’ordine si è, infatti, schierato con gli “spirituali”, i fraticelli che sostengono l’ideale della povertà rigorosa contro i “conventuali”, che riconoscono alla Chiesa il diritto alla proprietà. Nel 1328 Occam e il suo superiore fuggono da Avignone a Pisa presso Ludovico il Bavaro, l’imperatore in lotta con il papa. Lo seguono a Monaco di Baviera, dove Occam muore nel 1349 travolto dalla peste che sconvolge l’Europa.
Dopo la fuga da Avignone, la sua produzione intellettuale è tutta diretta a contestare le pretese teocratiche della Chiesa: l’ideale della povertà francescana, che già aveva ispirato la sua lotta contro gli inutili e ingiustificati enti della metafisica, orienta adesso le sue riflessioni sul potere, politico e spirituale.
Nel tempo delle grandiose costruzioni gotiche e delle grandi lotte fra il potere imperiale e quello papale, entrambi con la pretesa di avere valore universale, il francescano Occam smaschera il carattere artificioso, non giustificato, ingombrante, delle grandiose costruzioni metafisiche e delle pretese temporali della Chiesa. All’imperatore – si racconta – avrebbe detto: “Tu difendimi con la spada e io ti difenderò con la penna”.
Occam libera la ragione e la fede dai reciproci legami medievali. Supera l’alternativa tra il credo ut intelligam e l’intelligo ut credam, proponendo il credo et intelligo, in cui l’et elimina ogni rapporto di subordinazione e separa nettamente fede e scienza.
La scienza si basa sull’esperienza, la fede riguarda ciò che non può essere oggetto di esperienza. E’ l’esperienza a fare la differenza radicale di scienza e fede: mancando il fondamento dell’esperienza, le verità di fede non possono essere raggiunte con i mezzi della ragione naturale. Anche le tradizionali prove dell’esistenza di Dio mancano di valore dimostrativo, non avendo l’uomo su questa terra conoscenza intuitiva di Dio. Occam, infatti, non solo respinge la prova ontologica, ma smonta anche la prova cosmologica, quella che il pensiero medievale riteneva la più consistente: i due principi su cui si regge (1° tutto ciò che si muove è mosso da altro; 2° è impossibile risalire all’infinito nella serie dei movimenti) non sono per lui indiscutibili. Infatti, l’anima e l’angelo si muovono da sé e così pure il peso che tende al basso. E, a proposito del secondo principio, non si può escludere la possibilità di andare all’infinito nella serie dei movimenti. Solo l’idea di una causa prima che conserva l’esistenza degli enti creati, che non hanno il potere di conservarsi da sé, sembra convincerlo: di solito ci si interroga sull’origine delle cose, sull’origine del mondo, ma Occam trova ancor più sorprendente che il mondo, che non ha in sé la ragione del proprio essere, continui ad esistere. E’ questa la “meraviglia” che può portare la ragione a pensare all’esistenza di Dio.
La fede si fonda sulla rivelazione e riguarda il destino soprannaturale. La salvezza eterna, fine ultimo della fede, dipende, però, interamente dalla grazia divina, di cui Occam sottolinea il carattere assolutamente libero:
“Non è impossibile che Dio ordini che colui che vive secondo i dettami della retta ragione e non crede nulla che non gli sia dimostrato dalla ragione naturale, sia degno delle vita eterna. In tal caso può anche salvarsi chi nella vita non ebbe altra guida che la retta ragione”.
“E’ questa una parola – commenta Abbagnano – che pone Occam al di là del Medio Evo: la fede non è più condizione necessaria alla salvezza”.1
La sobrietà filosofica porta Occam ad approfondire la separazione di filosofia e teologia, ma l’esaltazione dell’onnipotenza divina lo porta a dire che ci si può salvare anche solo con la filosofia: dal cilindro della libera onnipotente e imperscrutabile volontà divina esce a sorpresa il valore dell’autonomia morale umana.

Publié dans:FILOSOFIA (studi interessanti) |on 10 septembre, 2014 |Pas de commentaires »
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