Archive pour septembre, 2014

IL SIGNIFICATO DEL TERMINE “GIUDAISMO” IN PAOLO (29.06.2014) – PIERO STEFANI

http://pierostefani.myblog.it/2014/06/28/484-il-significato-del-termine-giudaismo-paolo-29-06-2014/

IL SIGNIFICATO DEL TERMINE “GIUDAISMO” IN PAOLO (29.06.2014) – PIERO STEFANI

Posted on 28 giugno 2014

Il pensiero della settimana, n. 484

Il significato del termine «giudaismo» in Paolo[1]

Cosa intende Paolo per «giudaismo» (ioudaismòs)? Non basta ovviamente indagare su un semplice lemma; tuttavia è anche circostanza fortunata constatare che Paolo è l’unico autore neotestamentario a far ricorso a questo termine. Egli sembra impiegarlo in un senso, già precedentemente attestato, volto a indicare l’appartenenza a un gruppo che si oppone all’introduzione, da esso giudicata inaccettabile, di innovazioni in seno alla tradizione: «Intanto Giuda e i suoi compagni, passando di nascosto nei villaggi, chiamavano a sé i loro congiunti e, raccolti quanti erano rimasti fedeli al giudaismo, misero insieme circa seimila uomini (2Mac 8,1; cf. 2Mac 2,21; 4,26;14,38).
All’inizio del II secolo, la parola «giudaismo» è giudicata ancora significativa da Ignazio di Antiochia. Infatti è proprio pensando a essa che introdusse, per contrapposizione, il neologismo (almeno stando alle nostre conoscenze) di christianismòs (Ai Magnesi 10,1,3; Ai Romani 3,3; Ai Filadelfesi 6,1).
Paolo fa ricorso a «giudaismo» solo due volte all’interno di uno stesso passo della lettera ai Galati (1,13-14).
Vi dichiaro infatti, fratelli, che il vangelo da me annunciato non è secondo gli uomini: neppure io infatti l’ho ricevuto, né sono stato istruito da parte d’uomo, ma [l’ho ricevuto] per rivelazione di Gesù Cristo. Avete ascoltato al mio riguardo il mio rivolgimento [anastrophe] nel giudaismo, come io perseguitassi oltre misura la chiesa di Dio e la sconvolgessi, progredendo nel giudaismo più di molti mie coetanei della mia stirpe (ghenos), essendo più che zelante nel sostenere la tradizione dei padri (zelotes hypàrchon ton patrikon mou paradoseon). Ma quando colui che mi segregò fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché compissi il buon annuncio di lui in mezzo alle Genti (ta ethne), subito, senza consultare carne e sangue e senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco (Gal 1, 11-17).
Sembra lecito affermare che la parola anastrophè più che significare semplicemente condotta, qui alluda anche a un «volgersi indietro» verso la «tradizione dei padri» (così anche la Vulgata conversatio). Non importa stabilire con precisione i contenuti della «tradizione dei padri», non è questo il punto; il discrimine sta nel fatto che il «principio di verità» del giudaismo»(non a caso termine astratto) è – così come sarà per il cristianesimo – radicato in ciò che si afferma di aver ricevuto. Non è rilevante se i contenuti siano effettivamente quelli del passato o se siano state introdotte delle non dichiarate innovazioni. Quel che conta è che si dichiara di aver ricevuto l’insegnamento da un passato a cui ci si sta conformando. La rottura rispetto a questo schema trova il proprio fulcro nel verbo apokalypto «rivelare» (Gal 1,16; 3,23; cf. apokalypsis Gal 1,12 2,2). Qui siamo di fronte a un «criterio di verità» diverso da quello della traditio. Il genitivo oggettivo «rivelazione del Figlio suo» implica una riapertura di una vocazione paragonabile alla chiamata degli antichi profeti. Il «criterio di verità» è nel presente e non nel passato.
Paolo rivendica per sé una chiamata grazie alla quale il vangelo da lui annunciato dipende solo da Dio. Egli non fa memoria di alcuna apparizione avvenuta sulla via di Damasco, si rifà invece in modo esplicito alla vocazione profetica di Geremia in tutto dipendente da una libera scelta divina: «prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho costituita profeta per le genti (goyim)» (Ger 1,5). Alle spalle del mutamento di Paolo non vi è alcuna insoddisfazione per il giudaismo; né si allude a qualche richiesta di perdono nei confronti dei membri della chiesa di Dio da lui perseguitati. Quel che lo costituisce apostolo è soltanto l’azione di Dio che gli rivela il proprio Figlio. È questa «novità» a rendere manifesta, per contrasto, la ragione del suo precedente attaccamento al «giudaismo» che egli, in pratica, fa coincidere con la tradizione dei padri. La grazia e la chiamata di Dio, palesatesi nella rivelazione del Figlio, lo costituiscono evangelizzatore delle Genti, di questo compito deve rendere conto solo a Dio, nessun’ altra autorità ha diritto di intervenire. Da queste righe risulta con evidenza sia il «teocentrismo» del discorso, sia il fatto che Dio, Signore di tutti, chiama un figlio di Israele per essere annunciatore alle Genti. Tuttavia sarebbe un grave errore ritenere che la rottura compiuta da Paolo con il «principio di verità» insito nel giudaismo comporti un rinnegare la sua condizione di giudeo.

Piero Stefani

 

SAN PAOLO: IL SANTO DEI SERPENTI

http://santiesimboli.blogspot.it/2012/01/san-paolo-il-santo-dei-serpenti.html

SAN PAOLO: IL SANTO DEI SERPENTI

Chi non ha mai sentito parlare dell’Apostolo delle genti, a lui si deve la cristianizzazione di tutto il mondo allora conosciuto, da oriente ad occidente non c’è angolo dove lui non abbia messo piede. È uno dei pochi santi ad avere ben due festività: il 25 gennaio si ricorda la sua conversione sulla via di Damasco, mentre il 29 giugno ricorre, insieme all’apostolo Pietro, la commemorazione del suo martirio.
Il nome ebraico con cui ci viene presentato nella Bibbia era Saulo, anche se a tutti è noto con il nome romano di Paolo, che ereditò dal padre, insieme alla cittadinanza romana, ed usò normalmente dopo la conversione.
Saulo viene dall’ebraico Sha’ûl e significa “Richiesto, desiderato, implorato e ottenuto con la preghiera (da Dio)”, Saul fu uno dei re d’Israele. Il nome Paolo invece deriva dalla parola latina “paulus”, diminutivo di “paucus”, che significa “poco”, “non grande”, “piccolo”. Significa dunque “sono piccolo”, e San Paolo si dice fosse di bassa statura, ma fu soprattutto “piccolo davanti a Dio”.
Uno dei due apostoli più conosciuti al mondo, vanta numerose chiese ed una miriade di raffigurazioni sia pittoriche che scultoree. Fra le scene narranti gli episodi della sua vita primeggia la sua conversione, con caduta da cavallo, mentre si recava nella città di Damasco in cerca dei seguaci della nuova dottrina; celebre una raffigurazione del pittore Michelangelo Merisi da Caravaggio.
Nelle raffigurazioni della sua conversione è quasi sempre rappresentato in armatura militare e circondato da altri soldati, benché non sia un soldato, tale lo si crede per la sua iniziativa di andare dal sommo sacerdote che lo autorizza a recarsi a Damasco ad arrestare i cristiani e condurli in catene a Gerusalemme. La posa è quella di essere nell’atto di cadere da cavallo o già a terra folgorato dalla luce divina, come raccontato negli Atti degli apostoli al capitolo 9.
Una tradizione a Solarino vuole San Paolo, con la sua spada, uccisore di parecchi cristiani prima della sua conversione. Sul numero vi erano due correnti: l’una affermava che le vittime fossero state 99; l’altra affermava che fossero state 101 e, ad avvalorla, v’era un’espressione messa in bocca al Santo mentre uccideva la sua ultima vittima: «cientu e cienteunu!» (cioè cento e centouno).
A parte le pitture di episodi della sua vita, Paolo è raffigurato principalmente in compagnia di Pietro o da solo, qualche volta insieme con gli altri apostoli. In tutte tiene solitamente un libro nella mano sinistra, mentre con la destra impugna una spada con la punta rivolta a terra.
Elemento comune è la tipica tunica verde con mantello rosso in perfetto stile greco-romano per i civili, Paolo non era un soldato, ma solo un fanatico seguace “delle tradizioni dei padri” (Gal 1,3). Altro elemento caratteristico dell’Apostolo è la barba che lo distingue immediatamente dal capo degli apostoli: mentre Pietro viene sempre raffigurato con una barba bianca di tipo regolare, Paolo si distingue per una barba nera e folta di tipo allungato. Tipica l’espressione locale rivolta a chi ha una tale tipologia di barba: e chi pari, ‘n San Paulu! (e che sembri, un San Paolo!)
I principali attributi iconografici di questo santo sono il libro e la spada, mentre le corone e la palma le troviamo nelle varie decorazioni simboliche ad accompagnare quest’ultima.
La spada e il libro sono infatti i segni che caratterizzano questo santo in quasi tutta l’iconografia.
La spada è il simbolo della potenza che ha un doppio aspetto distruttivo, come portatrice di guerra e di morte, e costruttivo, come difesa e mantenimento della pace. È inoltre un simbolo del Verbo.
Rappresenta il martirio come nell’iconografia di altri santi decapitati, San Paolo fu decapitato quale privilegio spettante ai cittadini romani, ma anche «la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio» (Ef. 6,17) che Paolo annuncia ai gentili, cioè ai popoli di cultura greco-latina, considerati pagani dagli ebrei. Quando viene rappresentato con due spade, la prima allude al suo martirio, la seconda in quanto «spada dello spirito», alla forza della sua fede e alla proclamazione della parola divina.
Il libro è il Vangelo e sta ad indicare l’opera di predicazione di San Paolo, ma in particolare il suo titolo di Apostolo e “Dottore delle genti” (Doctor gentium), appare nell’iconografia degli Apostoli e in quella dei “Dottori della Chiesa” oltre che dei quattro evangelisti (che scrivono sul libro aperto) con riferimento alla trascrizione del Vangelo; lo stesso Paolo è autore di ben 14 lettere ai cristiani.
Abbiamo già trattato della palma quale simbolo del martirio ed anche della corona con riguardo a Santa Lucia, non troveremo mai il santo con la corona in testa né con la palma in mano, semmai saranno gli angeli a reggere corona e palma come nel quadro del Crestadoro. Una peculiarità è nella simbologia presente nella basilica acrense dove sono ben 3 corone a cingere spada e serpente. Rifacendoci alla storia ed alla simbologia di San Sebastiano, che nel santuario di Melilli riporta due corone, si deduce che ci si riferisca alle volte in cui si è subito il martirio.
È certamente da escludere la leggenda dei tre tonfi delle testa mozzata con il sorgere delle relative tre fontane, occorre invece cercare altre sofferenze patite a causa del Vangelo. Potremmo ipotizzare gli altri due episodi nel naufragio di Malta e nella lunga prigionia.
Ed il serpente?, si starà chiedendo qualcuno. Si tratta di un attributo addirittura terziario, in quanto poco ricorrente. Eppure in tre località questo simbolo assurge al ruolo primario, contendendo la scena alla spada e cercando addirittura di offuscarne l’importanza.
Prima è Malta, l’isola in cui è avvenuto il noto episodio (Atti 28): approdati sull’isola dopo un terribile naufragio, vengono accolti dagli indigeni attorno ad un fuoco acceso per riscaldarsi. “Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a un mano.” Tra lo stupore delle persone presenti, “egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male”. Ospite del “primo” dell’isola ne guarì il padre ed anche molta altra gente, convertendoli alla nuova fede. Da quel momento la vipera di malta ha perso il suo veleno, i suoi abitanti ne sono diventati immuni e la sua terra è divenuta antidoto contro i veleni, tanto da essere poi commercializzata presso molti signori che temevano congiure di palazzo.
Altri due luoghi si contendono il patronato paolino e persino la sua visita: si tratta di Solarino e di Palazzolo Acreide, due comuni distanti circa 25 chilometri fra loro. Ciascuno con la sua festa, i suoi devoti ed i suoi ciaràuli. Entrambi festeggiano il Santo due volte l’anno, il 25 gennaio in forma minore e nel periodo estivo in forma solenne: Palazzolo ne festeggia il martirio il 29 giugno, mentre Solarino ne festeggia il patrocinio la prima domenica di agosto.
Feste di grande importanza in passato, tanto da essere citate dall’etnografo Giuseppe Pitré nel suo Feste patronali in Sicilia, hanno tuttavia oggi perso parte della loro imponenza a causa della scomparsa della figura dei ciaràuli che portavano in processione i serpenti. Oggi invece si assiste solo allo scioglimento delle promesse al Santo attraverso il “viaggio scalzo” in processione per le donne e, solo a Palazzolo, alla “spalla nuda” nel portare il fercolo.
La festa di Palazzolo risale al 1600 circa, nella chiesetta di San Paolo, poi di San Domenico adiacente al convento (oggi occupati da una scuola), ove la statua era custodita fino al terremoto del 1690, poi traslata nella chiesa di Santa Sofia, ricostruita e consacrata all’Apostolo.
Di più recente istituzione invece è il comunello di “San Paolo Solarino”, che vanta una chiesa dedicata al grande predicatore con resti risalenti al IV secolo, secondo l’archeologo Paolo Orsi. Inoltre la tradizione locale vuole che Paolo, nei tre giorni di sosta a Siracusa, si sia spinto fino a queste terre in visita ad una comunità cristiana.; una grotta vicina alla suddetta chiesa vi fornì alloggio. E chi può dire che non sia giunto fino a Palazzolo?, sostiene qualche devoto acrense.
Certa è, in entrambi gli agglomerati, in tempi passati, la presenza di manodopera maltese che può spiegare le caratteristiche tipicamente maltesi del culto, prima fra tutte la simbologia del serpente e la presenza di ciaràuli, persone che hanno ricevuto dal Santo il dono di maneggiare i serpenti senza esserne morsi, ma soprattutto quello di curare i morsi di animali velenosi attraverso l’applicazione sulla parte lesa della loro saliva accompagnata o meno dalla recita di una preghiera segreta chiamata ciarmu.
Il culto del serpente, nelle religioni antiche e primitive, rappresentava l’essere supremo che ha il potere creativo e distruttivo, il custode del caos o il depositario del sapere profetico. Nella tradizione giudaico-cristiana il serpente incarna il male, il demonio che sotto questa forma tentò Adamo ed Eva invitandoli a mangiare dei frutti dell’albero proibito (Genesi 3,1). In virtù di ciò esso simboleggia la tentazione al male da parte di Satana e tale rimane fino ai nostri giorni.
Qui però è il simbolo dell’episodio della vipera avvenuto a Malta (Atti 28,3), quindi è sempre presente nell’iconografia maltese insieme al fuoco. Rappresenta cioè il simbolo del patrocinio di San Paolo sugli tutti gli animali velenosi, che si riscontra anche in altri santi e nella loro iconografia: San Patrizio, vescovo d’Irlanda; San Domenico di Foligno festeggiato a Cocullo.
Nel nostro territorio l’unica specie velenosa è la vipera comune (Vipera aspis), il cui morso però non è letale, ma è più facile imbattersi nell’innocuo biacco (Coluber viridiflavus carbonarius) dal colore nero. A causa delle enormi dimensioni raggiunte da alcune vecchie femmine (chiamate “senili” o “matrone”), la natrice o biscia dal collare (Natrix natrix), chiamata in dialetto culòfia o culòriva, si pensava capace di sventrare un uomo con un colpo di coda, d’ingoiare bambini oltre ad agnelli e capre. Per il loro allontanamento si invocava l’aiuto di San Paolo o si cercava un ciaràulo.

[ Da “San Paolo il santo dei serpenti”, pag. 14 del bimestrale « I Siracusani » n. 67, Anno XII, aprile-giugno 2009 ]

La Resurrezione

La Resurrezione dans immagini sacre resurrection_icon
http://stphilipsoconnor.org.au/easter_season.php

Publié dans:immagini sacre |on 15 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO PER LA 51ª GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA PER LE VOCAZIONI (anche Paolo)

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/vocations/documents/papa-francesco_20140115_51-messaggio-giornata-mondiale-vocazioni.html

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA 51ª GIORNATA MONDIALE
DI PREGHIERA PER LE VOCAZIONI

11 MAGGIO 2014 – IV DOMENICA DI PASQUA

TEMA: LE VOCAZIONI, TESTIMONIANZA DELLA VERITÀ

Cari fratelli e sorelle!

1. Il Vangelo racconta che «Gesù percorreva tutte le città e i villaggi … Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il Signore della messe, perché mandi operai nella sua messe”» (Mt 9,35-38). Queste parole ci sorprendono, perché tutti sappiamo che occorre prima arare, seminare e coltivare per poter poi, a tempo debito, mietere una messe abbondante. Gesù afferma invece che «la messe è abbondante». Ma chi ha lavorato perché il risultato fosse tale? La risposta è una sola: Dio. Evidentemente il campo di cui parla Gesù è l’umanità, siamo noi. E l’azione efficace che è causa del «molto frutto» è la grazia di Dio, la comunione con Lui (cfr Gv 15,5). La preghiera che Gesù chiede alla Chiesa, dunque, riguarda la richiesta di accrescere il numero di coloro che sono al servizio del suo Regno. San Paolo, che è stato uno di questi “collaboratori di Dio”, instancabilmente si è prodigato per la causa del Vangelo e della Chiesa. Con la consapevolezza di chi ha sperimentato personalmente quanto la volontà salvifica di Dio sia imperscrutabile e l’iniziativa della grazia sia l’origine di ogni vocazione, l’Apostolo ricorda ai cristiani di Corinto: «Voi siete campo di Dio» (1 Cor 3,9). Pertanto sorge dentro il nostro cuore prima lo stupore per una messe abbondante che Dio solo può elargire; poi la gratitudine per un amore che sempre ci previene; infine l’adorazione per l’opera da Lui compiuta, che richiede la nostra libera adesione ad agire con Lui e per Lui.
2. Tante volte abbiamo pregato con le parole del Salmista: «Egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo» (Sal 100,3); o anche: «Il Signore si è scelto Giacobbe, Israele come sua proprietà» (Sal 135,4). Ebbene, noi siamo “proprietà” di Dio non nel senso del possesso che rende schiavi, ma di un legame forte che ci unisce a Dio e tra noi, secondo un patto di alleanza che rimane in eterno «perché il suo amore è per sempre» (Sal 136). Nel racconto della vocazione del profeta Geremia, ad esempio, Dio ricorda che Egli veglia continuamente su ciascuno affinché si realizzi la sua Parola in noi. L’immagine adottata è quella del ramo di mandorlo che primo fra tutti fiorisce, annunziando la rinascita della vita in primavera (cfr Ger 1,11-12). Tutto proviene da Lui ed è suo dono: il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro, ma – rassicura l’Apostolo – «voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1 Cor 3,23). Ecco spiegata la modalità di appartenenza a Dio: attraverso il rapporto unico e personale con Gesù, che il Battesimo ci ha conferito sin dall’inizio della nostra rinascita a vita nuova. È Cristo, dunque, che continuamente ci interpella con la sua Parola affinché poniamo fiducia in Lui, amandolo «con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza» (Mc 12,33). Perciò ogni vocazione, pur nella pluralità delle strade, richiede sempre un esodo da se stessi per centrare la propria esistenza su Cristo e sul suo Vangelo. Sia nella vita coniugale, sia nelle forme di consacrazione religiosa, sia nella vita sacerdotale, occorre superare i modi di pensare e di agire non conformi alla volontà di Dio. E’ un «esodo che ci porta a un cammino di adorazione del Signore di servizio a Lui nei fratelli e nelle sorelle» (Discorso all’Unione Internazionale delle Superiore Generali, 8 maggio 2013). Perciò siamo tutti chiamati ad adorare Cristo nei nostri cuori (cfr 1 Pt 3,15) per lasciarci raggiungere dall’impulso della grazia contenuto nel seme della Parola, che deve crescere in noi e trasformarsi in servizio concreto al prossimo. Non dobbiamo avere paura: Dio segue con passione e perizia l’opera uscita dalle sue mani, in ogni stagione della vita. Non ci abbandona mai! Ha a cuore la realizzazione del suo progetto su di noi e, tuttavia, intende conseguirlo con il nostro assenso e la nostra collaborazione.
3. Anche oggi Gesù vive e cammina nelle nostre realtà della vita ordinaria per accostarsi a tutti, a cominciare dagli ultimi, e guarirci dalle nostre infermità e malattie. Mi rivolgo ora a coloro che sono ben disposti a mettersi in ascolto della voce di Cristo che risuona nella Chiesa, per comprendere quale sia la propria vocazione. Vi invito ad ascoltare e seguire Gesù, a lasciarvi trasformare interiormente dalle sue parole che «sono spirito e sono vita» (Gv 6,62). Maria, Madre di Gesù e nostra, ripete anche a noi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela!» (Gv 2,5). Vi farà bene partecipare con fiducia ad un cammino comunitario che sappia sprigionare in voi e attorno a voi le energie migliori. La vocazione è un frutto che matura nel campo ben coltivato dell’amore reciproco che si fa servizio vicendevole, nel contesto di un’autentica vita ecclesiale. Nessuna vocazione nasce da sé o vive per se stessa. La vocazione scaturisce dal cuore di Dio e germoglia nella terra buona del popolo fedele, nell’esperienza dell’amore fraterno. Non ha forse detto Gesù: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35)?
4. Cari fratelli e sorelle, vivere questa «misura alta della vita cristiana ordinaria» (cfr Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 31), significa talvolta andare controcorrente e comporta incontrare anche ostacoli, fuori di noi e dentro di noi. Gesù stesso ci avverte: il buon seme della Parola di Dio spesso viene rubato dal Maligno, bloccato dalle tribolazioni, soffocato da preoccupazioni e seduzioni mondane (cfr Mt 13,19-22). Tutte queste difficoltà potrebbero scoraggiarci, facendoci ripiegare su vie apparentemente più comode. Ma la vera gioia dei chiamati consiste nel credere e sperimentare che Lui, il Signore, è fedele, e con Lui possiamo camminare, essere discepoli e testimoni dell’amore di Dio, aprire il cuore a grandi ideali, a cose grandi. «Noi cristiani non siamo scelti dal Signore per cosine piccole, andate sempre al di là, verso le cose grandi. Giocate la vita per grandi ideali!» (Omelia nella Messa per i cresimandi, 28 aprile 2013). A voi Vescovi, sacerdoti, religiosi, comunità e famiglie cristiane chiedo di orientare la pastorale vocazionale in questa direzione, accompagnando i giovani su percorsi di santità che, essendo personali, «esigono una vera e propria pedagogia della santità, che sia capace di adattarsi ai ritmi delle singole persone. Essa dovrà integrare le ricchezze della proposta rivolta a tutti con le forme tradizionali di aiuto personale e di gruppo e con forme più recenti offerte nelle associazioni e nei movimenti riconosciuti dalla Chiesa» (Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 31).
Disponiamo dunque il nostro cuore ad essere “terreno buono” per ascoltare, accogliere e vivere la Parola e portare così frutto. Quanto più sapremo unirci a Gesù con la preghiera, la Sacra Scrittura, l’Eucaristia, i Sacramenti celebrati e vissuti nella Chiesa, con la fraternità vissuta, tanto più crescerà in noi la gioia di collaborare con Dio al servizio del Regno di misericordia e di verità, di giustizia e di pace. E il raccolto sarà abbondante, proporzionato alla grazia che con docilità avremo saputo accogliere in noi. Con questo auspicio, e chiedendovi di pregare per me, imparto di cuore a tutti la mia Apostolica Benedizione.

Dal Vaticano, 15 gennaio 2014

FRANCESCO

Publié dans:anche Paolo, PAPA FRANCESCO |on 15 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

OBBEDIENZA E FOLLIA: PAOLO SERVO DI CRISTO, APOSTOLO PER VOCAZIONE – (1999)

http://www.meetingrimini.org/detail.asp?c=1&p=6&id=586&key=3&pfix=

OBBEDIENZA E FOLLIA: PAOLO SERVO DI CRISTO, APOSTOLO PER VOCAZIONE – (1999)

Presentazione della mostra (non trovo la mostra)

Relatori:

Gianluca Attanasio,
in rappresentanza di Mons. Massimo Camisasca,
Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale dei Missionari
San Carlo Borromeo di Roma

Paolo Prosperi,
Fraternità Sacerdotale dei Missionari San Carlo Borromeo
di Roma

Marco Bona Castellotti,
Docente di Storia dell’Arte presso l’Università degli Studi di Brescia

Attanasio: Monsignor Massimo Camisasca – impossibilitato ad essere qui di persona – mi ha incaricato di leggere il seguente testo, scritto per questa presentazione.

In uno dei suoi ultimi anni di vita, il 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, Paolo IV che del convertito di Tarso aveva voluto prendere il nome, rivelò all’angelus che ogni tanto andava a leggersi le pagine del Vangelo che raccontano di san Pietro, per trovare nelle debolezze del principe degli apostoli conforto alle proprie. È così anche per me, e posso fare senza arrossire riferimento a quelle immani figure perché penso che così possa e debba essere per ogni cristiano. Ci sono delle sere in cui il peso delle cose fatte o non fatte, in cui tra tristezza del male proprio o altrui, in cui la complessità della responsabilità sembra schiattarci e impedirci di dormire; preferiamo allora nella notte una luce, una spiegazione, un conforto. Io spesso prendo le lettere di san Paolo, dove trovo meravigliosamente espresse le infinite sfumature dell’animo umano suscitate dalle infinite circostanze della vita. Lo scopo di questa mia riflessione non è fare l’indice di un trattato di psicologia – benché a tal riguardo le lettere di Paolo aprano al lettore attento e interessato la rivelazione di un animo a cui non è mancata nessuna corda espressiva, comprese le più estreme –, vorrei invece soffermarmi su un’altra questione di gran lunga più importante per me: chi è l’uomo preso da Dio? che cosa accade in lui ad ogni livello del suo essere a causa di questa prigionia? che ne è della sua libertà e della creatività e dei limiti, dei peccati, delle smagliature del proprio essere? Tutto è cancellato, si è sopra-vestiti senza che ce ne accorgiamo, oppure tutto rimane come prima illudendoci come visionari che qualcosa in noi sia mutato?

Innanzitutto dunque: chi è l’uomo preso da Cristo?
Anche Paolo si è definito prigioniero di Cristo, ma nell’esperienza della prigionia fisica, vissuta prima in Oriente e dopo a Roma, ha scoperto la differenza tra le due situazioni, tra la semplice prigionia fisica e la prigionia per Cristo. Il prigioniero di Cristo ha accettato tale condizione perché propriamente convinto che sia la strada per la sua libertà, l’unica strada possibile: infatti è l’abbandono ad un altro che ci conosce più di noi stessi. Quando Paolo vicino a Damasco senti quella voce chiamarlo « Saulo », percepì di essere scoperto e scrutato da Uno che sapeva di lui più di quanto lui stesso ne sapesse. « Intimior », intimo mio, dirà sant’Agostino; sia lui che san Paolo hanno in mente il salmo: « Tu mi scruti e mi conosci perché sei Colui che mi ha tessuto nel seno di mia madre, ricamato nelle profondità della terra ».
La prigionia di Gesù non è un atto di annientamento dell’io neppure nelle più grandi esperienze mistiche, come quelle di alcuni santi spagnoli dove tutto sembra, per amore dell’assolutezza che contraddistingue quel popolo, essere piegato al volere di un altro: « moro porché non moro ». Rimane paradigmatica l’esperienza di Gesù, l’umanità è unita alla divinità senza che l’una oscuri o sacrifichi l’altra. Quello che i mistici chiamano annientamento è l’espressione letteraria di un amore assoluto. Ogni amore brama l’identità dell’amante con l’amato (« amada e nell’amado trasformata », diceva san Giovanni della Croce). Ma anche tale ardente desiderio è l’ambito di una passione, non la morte dell’io. La tua volontà sia fatta ma attraverso le condizioni storiche, materiali, psicologiche, temperamentali della mia. Il mio io non viene cancellato ma riceve in tutte le sue fibre, in tutte le sue stratificazioni una nuova finalizzazione.
Per questo i grandi santi sono stati sempre grandi uomini: Paolo, Benedetto, Basilio, Ambrogio, Agostino, Francesco, Domenico, Ignazio, Giovanni della Croce, Teresa d’Avila, Caterina da Siena, Vincenzo de Paoli, Camillo de Lellis, Teresa di Calcutta… Ciascuno di loro potrebbe essere per la sua vita umanamente affascinante, e costituire il tema di più romanzi, di molti film, senza dovere inventare nulla. Per questo Gesù quando vuole fare qualcosa di grande che segni epoche intere sceglie uomini e donne che avrebbero potuto guidare Stati, immense imprese di bene o di male; ci sono, è vero, anche piccoli santi con piccoli carismi, che avranno un grande peso per la santità di molti, ma che non hanno potuto portare al regno di Dio sulla Terra quella svolta oggettiva che le grandi personalità hanno realizzato. La dimensione di una personalità non dipende dai chilometri percorsi come sarà per san Paolo, dalle parole dette come sarà per Agostino, dalle opere create come sarà per Vincenzo, Camillo, Teresa di Calcutta, dipende interamente dal modo con cui ha percepito l’umanità propria dentro l’abbraccio di Cristo; così è stato per Teresa di Lisieux, che, nell’ultimo secolo di questo millennio, ha portato tutta l’essenza umana alla semplificazione assoluta del dialogo tra una bambina e il suo creatore.
« Se non ti imprigiono non sarai mai libero », sembra dire Gesù a questi grandi uomini e donne che ho citato. La libertà si manifesta così come l’esperienza di una progressiva liberazione, come liberazione dalle catene della legge per arrendersi a Colui che si è fatto annientare perché noi potessimo essere liberi. È il cuore dell’esperienza personale di Paolo quello che lui chiama con ardimento spropositato « il mio Vangelo ». Questa liberazione totale come il dono germinale che è dentro di noi, è progressiva, e talvolta procede in modo spasmodicamente lento come esperienza: da qui la contraddizione che ogni uomo segnato da Cristo vive quotidianamente sulla sua pelle, ed è proprio qui nel punto di una possibile crepa nella vicenda di ciascuno che si manifesta la forza totalizzante della fede di Paolo e della sua stessa sintesi. Lo stesso sarà per Agostino, che preferirà correre il rischio del predestinazionismo piuttosto che cancellare l’ »etiam peccata », piuttosto che escludere i peccati dal piano di Dio. Così sono nate quello lunghe autobiografiche elencazioni di prove subite da Paolo, e raccontate a più riprese nelle lettere da differenti angolature: colpiti ma non uccisi, in tutte le prove siamo super vincitori perché nulla ci separerà dall’atto con cui Cristo ci ama. E non solo la prova ha un senso, ma anche la debolezza, la sconfitta. Paolo inventa qui una frase che resta nella storia di tutti i tempi: « Poiché la tua potenza si manifesta nella mia debolezza, è quando sono debole che sono forte ». Nulla dunque è magicamente cancellato, nulla censurato ma tutto assume un nuovo peso e una luce nuova, anche il peccato.
Così la realtà personale di colui che è segregato da Cristo per una missione, vive una letizia piena di vigilanza, e il segregato è lieto perché conosce l’irreversibilità di ciò che è accaduto, ma è anche saggiamente nel timore perché non conosce dove la misura, che non può essere misurata da lui, lo porterà, a quali esperienze del limite lo sottoporrà. « Sovrabbondo di gioia nelle mie tribolazioni »: è questa forse l’espressione più sconvolgente dell’equilibrio cristiano, il punto più alto dell’esperienza dell’uomo nuovo che Paolo ha illustrato con la sua vita e i suoi scritti. « Le sue fatiche – ha scritto Rossano – sono state paragonabili solo a quelle di Alessandro Magno e di Giulio Cesare, le sue lettere per la bellezza della lingua all’Apologia di Socrate e di Platone o al discorso per la corona di Demostene, ma esse aprono all’uomo prospettive che né Platone, né Demostene potevano immaginare ».
Prosperi: In questa mostra abbiamo anzitutto voluto porre una sfida, una sfida a noi stessi: la sfida di riuscire a cogliere e a fare emergere dai testi che Paolo ha lasciato una persona viva, una persona presente, un’esistenza reale. Per questo, la mostra è tutta costruita su citazioni (accompagnate da commenti) tratte o dalle lettere di san Paolo o dagli Atti degli apostoli, che sono le testimonianze dirette su san Paolo che noi abbiamo. La scelta delle citazioni non è stata generica, bensì precisa e puntuale: abbiamo cercato di soffermarci di più, di trattenerci di più sui passi da cui emergeva più direttamente la sua persona, la sua intimità, il suo temperamento, un temperamento molto complesso, sfaccettato capace degli accenti più estremi.
Questa è stata la scommessa della mostra; in questo senso si capisce anche il significato del logo, dell’immagine guida della mostra. Si tratta di un particolare di un quadro del Greco, Entierro del conde d’Orgaz, una delle pochissime rappresentazioni non stilizzate di san Paolo, raffigurato con gli occhi sgranati, sbigottiti, che fissa Cristo; Cristo però non si vede, è come fuori campo. Abbiamo scelto questo quadro perché si tratta di un uomo vivo, un uomo come noi, a cui accade qualcosa di completamente spiazzante e imprevedibile che gli capovolgerà letteralmente la vita.
Il titolo della mostra può sembrare sibillino e strano, dato che accosta due concetti che sembrano contraddittori, obbedienza e follia; eppure forse queste due parole insieme alle due citate prima, prigionia e libertà definiscono esaurientemente la personalità drammatica e sempre in lotta di quest’uomo. Per questo la parola obbedienza è forse quella che si adatta meglio per definire il rapporto personale, così come è sentito da Paolo, nei confronti di Cristo. Cristo è sempre il Signore per Paolo: quando si legge Paolo sarebbe bello andare al significato originale che hanno le parole per lui. Signore significa padrone, kurios in greco, e per Paolo Cristo è padrone innanzitutto a partire dall’esperienza della sua vita, di quello che gli è successo.
La prima sezione della mostra, che si intitola « Sulla via di Damasco », riguarda appunto l’avvenimento della conversione. Paolo sta andando a Damasco per stanare i cristiani che sta perseguitando e viene improvvisamente sbalzato da cavallo da Cristo, che gli appare; quando racconta questo fatto è significativo che Paolo usi proprio questi termini, « sono stato sconfitto, conquistato da Cristo »: è come una guerra in atto, e questa è la percezione che Paolo avrà sempre di ciò che gli è accaduto e di ciò che significa il fatto cristiano. Nessuno come lui o pochi come lui avevano addirittura odiato Cristo, perché Cristo per un fariseo convinto, radicale come lui, era lo scandalo, la contraddizione più grande che ci potesse essere all’idea di Messia, l’idea del Messia re, trionfatore, Messia conquistatore. Infatti Paolo dirà « scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani ». Eppure proprio lui viene scelto, in un certo senso si più dire che Cristo sembra fare un’eccezione nel suo caso; lui stesso dirà nella prima ai Corinzi « non sono nemmeno degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Cristo ». Cristo entra nella sua vita quasi con violenza, senza preavviso; Paolo dirà « infine è apparso anche a me come a un aborto », dove con la parola « aborto » vuole proprio indicare che è come se fosse stato strappato prematuramente, senza preavviso, rispetto agli altri apostoli che hanno vissuto tre anni con Gesù, che sono stati preparati, mentre invece per Paolo l’incontro è qualcosa di completamente sconvolgente, in un certo senso irripetibile.
Ma proprio qui sta il grande paradosso che è al centro dell’esperienza di Paolo e che accende in lui una gratitudine sterminata: tutte le volte che Paolo racconta della sua conversione sembra quasi incredulo di fronte alla predilezione che Cristo ha avuto per lui, totalmente immeritata. Per questo abbiamo scelto proprio il quadro del Greco come logo della mostra, perché Paolo ha la bocca spalancata e gli occhi spalancati come di fronte a qualcosa di inconcepibile, come se avesse subito un urto; ma questa apparente violenza è il segno di una misericordia inimmaginabile. Il primo dei peccatori scelto per il compito più vasto e più grande tra tutti gli apostoli. Questo sarà il cuore bruciante dell’esperienza di Paolo, e arriverà a determinare anche il suo modo di guardare e di sentire l’evento di Cristo. Infatti la parola che meglio descrive la percezione dell’avvenimento cristiano di Paolo e proprio la parola « caris », che in greco significa grazia. La grazia per Paolo è proprio questo darsi totale di Cristo. Le prime due sezioni, che fanno un blocco unico nella mostra, testimoniano questo, attraverso i contrasti tipici di Paolo: la personalità di Paolo non viene annullata ma viene trapassata dalla presenza di Cristo.
La seconda parte riguarda invece l’esito, il frutto di questa elezione. L’elezione è sempre per il compito, e quanto più esclusiva, come nel caso irripetibile di Paolo, tanto più è per il mondo, tanto più è per tutti, come lui stesso dirà in un modo lapidario: « mi sono fatto tutto a tutti per guadagnare ad ogni costo qualcuno ». Di qui i due caratteri che abbiamo voluto più mettere in evidenza: anzitutto un’apertura a 360 gradi, indomabile verso ogni tipo di cultura, tale che, storicamente, se non ci fosse stato Paolo, il Vangelo alle Genti – ai pagani – non sarebbe arrivato con l’immediatezza e la forza con cui è arrivato. Paolo era cittadino romano e sapeva il greco benissimo: aveva tutti i requisiti, tutte le conoscenze culturali e anche l’apertura mentale, essendo cresciuto a Tarso, città cosmopolita, per incontrare ogni tipo di persona. L’altro aspetto è il fortissimo e particolarissimo senso della comunità e dell’amicizia che ha Paolo, tanto che l’immagine da lui spesso usata è quella della paternità e della maternità.
Gli ultimi due pannelli, che sembrano a parte rispetto alla mostra, in realtà ne sintetizzano il significato. Il penultimo si intitola « Cristo mio tutto »: qui abbiamo voluto riassumere il fatto che al centro di questa personalità così esplosiva, così varia e anche così contraddittoria nelle sue manifestazioni, ci sia un amore personale per quell’uomo che lo ha scaraventato giù da cavallo. In quest’ottica concreta, esistenziale, va letto il famoso brano del dilemma di San Paolo: « Siccome per me vivere è Cristo, morire è un guadagno, se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto non so davvero cosa scegliere, sono messo alle strette tra queste due cose, da una parte il desiderio di essere sciolto per essere con Cristo il che sarebbe assai meglio, d’altra parte è più necessario per voi che io rimanga nella carne, per conto mio sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti per il progresso e la gioia della vostra fede ». Quindi è tale l’amore per Cristo che Paolo vorrebbe morire per star sempre con lui. L’ultimo paradosso e proprio questo, se restare significa spendersi per Lui, spendersi come Lui per gli uomini, allora restare è la possibilità più grande.
L’ultimo pannello è una citazione di una frase che Giussani ha detto alla Fraternità San Carlo, citazione che abbiamo voluto mettere a chiusura della mostra perché dice lo spirito e l’intento con cui abbiamo fatto questa mostra: « Strappiamo via la missione, cosa resterebbe di noi? Non resterebbe niente, nel senso che quello siamo non ci sarebbe più, perché l’uomo è la sa vocazione ». La mostra è una provocazione alla nostra persona: guardare Paolo per noi è guardare forse l’esempio più grandioso ed emblematico nella storia del cristianesimo di quello a cui siamo chiamati, di quello a cui ognuno di noi è chiamato, a cui ogni cristiano è chiamato.
Bona Castellotti: Allestendo la mostra su san Paolo, ci siamo accorti di non poter giocare sull’iconografia, perché è un’iconografia molto fissa: infatti, a partire dal III secolo, san Paolo ha un volto molto preciso che è quello del filosofo Plotino, volto che viene preso a prestito e messo a disposizione di questa immagine cristiana e rimane costante. È un volto piuttosto scavato, allungato, con una barba piuttosto fluente e a pizzo, i peli piuttosto radi.
Il percorso della mostra ha dei significati simbolici elementari che sono quelli che scandiscono il percorso anche concettualmente, di per sé molto semplice: il pregio essenziale di questa mostra è quello di aver mantenuto un certo rigore di forme. È quel tipo di linearità, di classicità, di forme, che consente una lettura molto semplice della realtà che si ha di fronte.

Exaltation of Holy Cross, Montefalco (PG)

 Exaltation of Holy Cross, Montefalco (PG) dans immagini sacre santacroce_montefalco
http://tuttoggi.info/montefalco-al-santuario-di-santa-chiara-interessante-lectio-crucis-lezioni-sulla-croce-sulla-cappella-di-santa-croce/153898/

Publié dans:immagini sacre |on 12 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI : CRISTO, SERVO DI DIO (Fil 2,6-11) (2005)

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/06-07/04-Cristo_servo_di_Dio.html

BENEDETTO XVI – L’OSSERVATORE ROMANO, 27-10-2005

CRISTO, SERVO DI DIO (Fil 2,6-11)

Cristo, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini.
Apparso in forma umana,
umiliò se stesso facendosi obbediente
fino alla morte e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.

Seguendo il percorso proposto dalla Liturgia dei Vespri coi vari Salmi e Cantici, guardiamo al mirabile ed essenziale inno incastonato da San Paolo nella Lettera ai Filippesi (2,6-11). Il testo comprende un duplice movimento: discensionale e ascensionale.
Nel primo, Cristo Gesù, dallo splendore della divinità che gli appartiene per natura sceglie di scendere fino all’umiliazione della «morte di croce». Egli si mostra così veramente uomo e nostro redentore, con un’autentica e piena partecipazione alla nostra realtà di dolore e di morte.

La maestà di Cristo

Il secondo movimento, quello ascensionale, svela la gloria pasquale di Cristo che, dopo la morte, si manifesta nuovamente nello splendore della sua maestà divina. Il Padre, che aveva accolto l’atto di obbedienza del Figlio nell’Incarnazione e nella Passione, ora lo «esalta» in modo sovraeminente, come dice il testo greco.

Questa esaltazione è espressa non solo attraverso l’intronizzazione alla destra di Dio, ma anche con il conferimento a Cristo di un «nome che è al di sopra di ogni altro nome» (v. 9). Ora, nel linguaggio biblico il «nome» indica la vera essenza e la specifica funzione di una persona, ne manifesta la realtà intima e profonda. Al Figlio, che per amore si è umiliato nella morte, il Padre conferisce una dignità incomparabile, il «Nome» più eccelso, quello di «Signore», proprio di Dio stesso.

Gesù, Signore universale

Infatti, la proclamazione di fede, intonata coralmente da cielo, terra e inferi prostrati in adorazione, è chiara ed esplicita: «Gesù Cristo è il Signore» (v. 11). In greco, si afferma che Gesù è Kyrios, un titolo certamente regale, che nella traduzione greca della Bibbia rendeva il nome di Dio rivelato a Mosé, nome sacro e impronunciabile.

Da un lato, allora, c’è il riconoscimento della signoria universale di Gesù Cristo, che riceve l’omaggio di tutto il creato, visto come un suddito prostrato ai suoi piedi. Dall’altro lato, però, l’acclamazione di fede dichiara Cristo sussistente nella forma o condizione divina, presentandolo quindi come degno di adorazione.

Il compimento della salvezza

In questo inno il riferimento allo scandalo della croce (cf 1 Cor 1,23), e prima ancora alla vera umanità del Verbo fatto carne (cf Gv 1,14), si intreccia e culmina con l’evento della Risurrezione. All’obbedienza sacrificale del Figlio segue la risposta glorificatrice del Padre, cui si unisce l’adorazione da parte dell’umanità e del creato.

La singolarità di Cristo emerge dalla sua funzione di Signore del mondo redento, che Gli è stata conferita a motivo della sua obbedienza perfetta «fino alla morte». Il progetto di salvezza ha nel Figlio il suo pieno compimento e i fedeli sono invitati – soprattutto nella liturgia – a proclamarlo e a viverne i frutti. Questa è la meta a cui ci conduce l’inno cristologico che da secoli la Chiesa medita, canta e considera guida di vita: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5).

La tenerezza di Cristo

Affidiamoci ora alla meditazione che San Gregorio Nazianzeno ha intessuto sapientemente sul nostro inno. In un carme in onore di Cristo il grande Dottore della Chiesa del IV secolo dichiara che Gesù Cristo

«non si spogliò di nessuna parte costitutiva della sua natura divina, e ciò nonostante mi salvò come un guaritore che si china sulle fetide ferite… Era della stirpe di David, ma fu il creatore di Adamo. Portava la carne, ma era anche estraneo al corpo. Fu generato da una madre, ma da una madre vergine; era circoscritto, ma era anche immenso. E lo accolse una mangiatoia, ma una stella fece da guida ai Magi, che arrivarono portandogli dei doni e davanti a lui piegarono le ginocchia.

Come un mortale venne alla lotta con il demonio, ma, invincibile com’era, superò il tentatore con un triplice combattimento… Fu vittima, ma anche sommo sacerdote; fu sacrificatore, eppure era Dio. Offrì a Dio il suo sangue, e in tal modo purificò tutto il mondo. Una croce lo tenne sollevato da terra, ma rimase confitto ai chiodi il peccato…

Andò dai morti, ma risorse dall’inferno e risuscitò molti che erano morti. Il primo avvenimento è proprio della miseria umana, ma il secondo si addice alla ricchezza dell’essere incorporeo… Quella forma terrena l’assunse su di sé il Figlio immortale, perché egli ti vuol bene» (Carmina arcana, 2: Collana di Testi Patristici, LVIII, Roma 1986, pp. 236-238).

Alla fine di questa meditazione vorrei per la nostra vita sottolineare due parole: questo ammonimento di San Paolo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”. Imparare, sentire come sentiva Gesù, conformare il nostro modo di pensare, di decidere, di agire con i sentimenti di Gesù. Se prendiamo questa strada, viviamo bene e prendiamo la strada giusta. L’altra è la parola di San Gregorio Nazianzeno: “Egli, Gesù, ti vuol bene”. Questa parola di tenerezza è per noi una grande consolazione, un conforto e anche una grande responsabilità giorno per giorno.

1...34567...10

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01