Archive pour septembre, 2014

Theotokos Prayer Corner

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Publié dans:immagini sacre |on 18 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

E’ IN VIRTÙ DELLA CROCE CHE SI RICONOSCONO I CREDENTI DAGLI INCREDULI – GIOVANNI DAMASCENO,

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-03/16-2/LaCroceneiPadridellaChiesa.rtf.html

E’ IN VIRTÙ DELLA CROCE CHE SI RICONOSCONO I CREDENTI DAGLI INCREDULI

GIOVANNI DAMASCENO, ESPOSIZIONE DELLA FEDE ORTODOSSA, 4, 11

Il linguaggio della croce è follia per quelli che si perdono; per noi che ci salviamo, invece, potenza di Dio (1 Cor. 1, 18). L’uomo spirituale, infatti, « giudica ogni cosa » (1 Cor. 2, 15), mentre quello animale non accetta le cose dello Spirito (1 Cor. 2, 14). Follia è, infatti, quella di coloro che si rifiutano di credere e di riflettere sulla bontà e l’onnipotenza di Dio, indagando sulle realtà divine con le loro categorie umane e naturali, senza rendersi conto che tutto ciò che riguarda la divinità trascende la natura, la razionalità e la conoscenza. Se ci si domanda, infatti, il come ed il perché Iddio abbia creato dal nulla tutte le cose, e si cerca di scoprirlo con le sole facoltà razionali che la natura ci mette a disposizione, non si approda a nulla, giacché una scienza come questa è terrestre e diabolica. Tutto è semplice e lineare invece, ed il cammino è spedito per chi, condotto per mano, per cosi dire, dalla fede, va alla ricerca del Dio buono, onnipotente, vero, sapiente e giusto. Senza la fede, infatti, nessuno può salvarsi (cf. Eb 11, 6): è in virtù della fede che
tutte le cose, sia le umane che le trascendenti, acquistano significato e valore. Senza l’intervento della fede il contadino non ara il suo campo, il mercante non mette a repentaglio la sua vita, su di una piccola nave, fra le onde tempestose del mare; senza fede non si contraggono matrimoni né si porta a termine alcun’altra attività della vita. È la fede a farci comprendere come tutto sia stato creato dal nulla grazie alla potenza divina. Con la fede intendiamo correttamente ogni cosa, umana o divina che sia. La fede, insomma, è il consenso formulato senza riserve.
Tutte le opere ed i miracoli compiuti dal Cristo, dunque, appaiono manifestazioni grandiose, divine, straordinarie; la più strepitosa di tutte, però, è la sua venerabile croce. t grazie a questa, infatti, e non ad altro, che la morte fu sconfitta, il peccato del progenitore ricevette la sua espiazione, l’inferno venne spogliato, fu elargita la risurrezione; è stata la croce a guadagnarci la forza di disprezzare i beni del mondo e persino la morte, a prepararci il ritorno all’antica beatitudine, a spalancarci le porte del cielo; soltanto la croce del Signore nostro Gesù Cristo, infine, ha elevato l’umanità alla destra di Dio, promuovendoci alla dignità di suoi figli ed eredi. Tutto questo ci ha procurato la croce! Tutti noi, infatti, ricorda l’Apostolo, che siamo stati battezzati in Cristo, siamo stati battezzati nella sua morte (Rm. 6, 3). Tutti noi, battezzati in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo (Gal. 3,27). E Cristo, poi, è potenza e sapienza di Dio (1 Cor. 1, 24). Ecco, la morte di Cristo, cioè la croce, ci ha rivestito dell’autentica potenza e sapienza di Dio. La potenza di Dio, da parte sua, si manifesta nella croce, sia perché la forza divina, cioè la vittoria sulla morte, ci si è mostrata attraverso la croce; sia in quanto, allo stesso modo come i quattro bracci della croce si uniscono fra loro nel punto centrale, così pure, attraverso la potenza di Dio, si assimilano l’una con l’altra l’altezza e la profondità, la lunghezza e la larghezza: in altre parole, tutta la creazione, nella sua dimensione materiale come in quella invisibile.
La croce è stata impressa sulla nostra fronte come un segno, non diversamente dalla circoncisione per Israele. In virtù di questo segno, noi fedeli siamo riconosciuti e distinti dagli increduli. La croce è per noi lo scudo, la corazza ed il trofeo contro il demonio. È il sigillo grazie al quale l’angelo sterminatore ci risparmierà, come afferma la Scrittura (cf. Ebr. 11, 28). E lo strumento per risollevare coloro che giacciono, il puntello a cui si appoggia chi sta in piedi, il bastone degli infermi, la verga per condurre il gregge, la guida per quanti si volgono altrove, il progresso dei principianti, la salute dell’anima e del corpo, il rimedio di tutti i mali, la fonte d’ogni bene, la morte del peccato, la pianta della risurrezione, l’albero della vita eterna.
Questo legno davvero prezioso e degno di venerazione, perciò, sul quale Cristo si sacrificò per noi, deve giustamente divenire oggetto della nostra adorazione, giacché fu come santificato dal contatto con il santissimo corpo e sangue del Signore. Come pure si dovrà rivolgere la nostra devozione ai chiodi, alla lancia, agli indumenti ed ai santi luoghi nei quali il Signore si è trovato: la mangiatoia, la grotta, il Golgota che ci ha recato la salvezza, il sepolcro che ci ha donato la vita, Sion, roccaforte delle Chiese, e tutti gli altri… Se, infatti, ricordiamo con affetto, fra gli oggetti che son stati nominati, la casa ed il letto e la veste del Signore, quanto più dovranno esserci care, tra le cose di Dio e del Salvatore, quelle che ci hanno procurato anche la salvezza?
Adoriamo l’immagine stessa della preziosa e vivificante croce, di qualunque materia sia composta! Non intendiamo onorare, infatti. l’oggetto materiale (non sia mai!), bensì il significato ch’esso rappresenta, il simbolo, per così dire, di Cristo. Egli stesso, d’altronde, istruendo i suoi discepoli, ebbe a dire: Apparirà allora nel cielo il segno del Figlio dell’uomo (Mt. 24, 30), cioè la croce. Ed anche l’angelo che annunciò alle donne la risurrezione di Cristo disse: Voi cercate Gesù di Nazaret, il crocifisso (Mc. 16, 6). E l’Apostolo, da parte sua: Noi predichiamo, avverte, il Cristo crocifisso (1 Cor. 1, 23). Vi sono, infatti, molti Cristi e Gesù; uno solo, però, è il crocifisso. L’Apostolo, poi, non dice: « colui che è stato trafitto dalla lancia », bensì « il crocifisso ». Dobbiamo, perciò, adorare il simbolo del Cristo: ovunque, infatti, si troverà quel segno, lì sarà presente il Signore stesso. La materia di cui è composta l’immagine della croce, invece, anche se fosse d’oro o di pietre preziose, non è più degna di alcuna venerazione, una volta scomparsa, per qualsiasi motivo, la figura originaria. Tutti gli oggetti consacrati a Dio, perciò, noi li veneriamo in modo tale, da riferire alla persona divina il culto che osserviamo per essi.

 

RISORGEREMO, MA COME? DAL NOTO ALL’IGNOTO (1COR 15,35-53)

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RISORGEREMO, MA COME? DAL NOTO ALL’IGNOTO (1COR 15,35-53)

Marcheselli Casale C.

L’interrogativo attraversa la storia umana, da sempre appassiona, tormenta da sempre. Una domanda posta in due momenti, il che è prova di una procedura editoriale indicativa di un dilemma che inquieta il cuore dell’uomo: cosa c’è dopo la morte? Cosa ci attende? Risorgeremo, sì, ma come?[1] Il grande quesito-inchiesta circola a Corinto: «Come risuscitano i morti? Con quale corpo essi ritorneranno?» (v. 35). L’attenzione è posta sul «corpo-persona: sôma» nel momento in cui, risorto, si presenta nella sua nuova vita. L’Apostolo non si appoggia al dualismo ellenistico (anima e corpo), piuttosto al monismo semitico (totalità della persona).[2]Sôma indica così la totalità della persona vista come «corpo vivente» in marcia verso il proprio compimento: se cioè Cristo è vincitore della morte, anche noi parteciperemo alla sua vittoria con la totalità del nostro «io». Prospettiva storico-teologica, come si vede, e non pragmatico-empirica. Ma seguiamo l’Apostolo nella sua meditata argomentazione, ben cinque momenti articolati in una progressione retorica, ancor sempre motivo di studio.[3]

1. La dinamica della seminagione (vv. 36b-38)
Per rendere efficace la sua catechesi, Paolo si avvale di analogie. La prima è tolta dal mondo vegetale: a) il chicco di grano seminato (v. 36b) non è ancora vivo (zôopoieitai) e non prende sviluppo se prima non muore (cf. Gv 12,24); b) quel chicco poi non è ancora il corpo che ne verrà fuori,ma un semplice granello di una qualunque possibile futura realtà (v. 37); c) è Dio a dare poi a questo seme il corpo che ha stabilito, il corpo che è suo, il suo profilo (v. 38).
Quale il senso di questa analogia? Essa ci disvela che, se per Paolo è chiaro affermare che Cristo è risorto, quindi anche noi risorgeremo, non è altrettanto chiaro il modo in cui un tale risveglio-risurrezione avvenga. Di qui l’uso dell’analogia, strumento per comunicare un dato che egli avverte nella sua dimensione soteriologico-escatologica, ma che ancora non gusta, perché appesantito dalla carne e dal sangue (v. 50). Solo «l’uomo pneumatico» se ne approprierà in pienezza. Intanto, la novità e la ricchezza di quel «fatto» e la non immediata percepibilità del suo contenuto rendono necessario il ricorso all’analogia.
L’Apostolo svolge l’analogia sul chicco di grano seminato nel modo magistrale che gli è proprio: spiega che la nostra risurrezione trova un primo momento di oggettiva verità nella morte; è attraverso di essa che si risorge a una vita più ampia e perfetta (v. 36).[4] Perché nella morte vi è già il germe della vita; nel suo stesso marcire, il seme «si vivifica» e germoglia in un’incantevole efflorescenza; meglio, «è vivificato» da Dio (15,38) e passa da un primo tipo di vita a un secondo del tutto diverso; così sarà per ogni creatura di Dio. Si tratta di cogliere non tanto il normale e naturale sviluppo del seme in albero, quanto il processo di radicale trasformazione che il seme subisce. L’immagine del seme è sorta nello spirito dell’Apostolo, sollecitata dal loghion di tradizione giovannea (Gv 12,24) e da lui riformulato in 1Cor 15,36. Più che essere una semplice immagine, quella del seme è dunque una parabola, di forte eco evangelica.
Paolo fornisce poi un secondo elemento di risposta che è anche nuova indicazione ermeneutica: è attraverso la morte che si risorge (v. 36); il Dio della storia, autore libero in ogni sua determinazione, dà a ogni seme il suo proprio corpo (v. 38). Si ascolta qui una preziosa non trascurabile allusione a Gn 1,11: i corinzi osservino il «seme che si trasforma» in un nuovo essere vivente, totalmente altro, e colgano l’assoluta garanzia di una tale possibilità nel Dio creatore. Questi è sempre all’opera e rinnova nel credente quanto ha già compiuto per la prima volta in Gesù Cristo: in lui anche «noi saremo vivificati» (v. 22b).
«Quel che tu semini non è il corpo che poi dovrà nascere, ma un nudo granello» (v. 37). L’immagine-parabola focalizza la completa disponibilità del granello a divenire quello che deve essere per normale evoluzione del suo marcimento. Dal seme non si riconosce quel che esso diventerà. Esso è nudo, virtualmente ricco di vitalità, ma quella ricchezza è nascosta. Quello che sarà poi, è un vero miracolo, un’esplosione di vita nuova.[5]
Così è per chi si addormenta nella morte: nudo come un seme, quegli è totalmente disponibile per l’operatività vitale e vivificante di Dio, è pronto a essere creato di nuovo, a ricevere una nuova vita, a essere rivivificato, trasformato, rifinalizzato nella totalità del suo «io», in una «situazione» nuova, interlocutore di Dio che ora può vedere così come egli è (1Gv 3,2b).
Che questa sia la lettura dei vv. 36b-38 è suggerito ancora dal loro già rilevato genere letterario di parabola. Questa enfatizza il pensiero di Paolo, il quale non sta spiegando un fatto adducendone uno parallelo. Il suo discorso per metafora guida ad accogliere la risurrezione dei corpi come un miracolo della potenza vivificatrice di Dio.
Annuncio solo kerygmatico? Che la risurrezione corporale debba essere capita solo come uno skandalon non meno forte di quello della croce (seguita appunto dalla risurrezione del Crocifisso), dunque accettabile solo sul piano della fede e della speranza? La cosa è ben detta, ma una pura possibile possibilità di quella risurrezione corporale è davvero riduttiva.[6] Quel kêrygma viene infatti dalla storia. E non è forse quest’ultima che permette di dire che il Cristo del kêrygma ha senso e peso solo se agganciato al Gesù della storia? Dunque, se lui è risorto, e non solo nella fede, ma nella realtà della storia della salvezza, anche noi risorgeremo. Come? Come lui!(1Ts 4,14).

2. La diversità delle realtà create (vv. 39-41)
Una seconda analogia è presentata da Paolo con ricchezza di paranomia e allitterazione, il che documenta bene la familiarità dell’Apostolo con gli strumenti della comunicazione, la lingua greca e le sue tecniche.[7] Scrive: «Non ogni carne(sárx)è la stessa carne, ma altra (állê)è quella degli uomini, altra la carne degli animali, altra la carne dei volatili, altra quella dei pesci» (v. 39).
Propone, poi, una terza analogia desumendola dal mondo degli astri: «E ci sono corpi (sômata)celesti e corpi terrestri; diverso però è lo splendore(dóxa)dei corpi celesti, diverso quello dei corpi terrestri. Altro è lo splendore del sole, altro è lo splendore della luna, altro è lo splendore delle stelle: una stella, infatti, differisce da un’altra stella per splendore» (vv. 40-41). Svariati tipi non tanto di corpi, quanto di corporeità. È il senso di sômata: i molti corpi si diversificano già in natura per il loro modo diverso di essere, cioè per la loro corporeità. Essi descrivono le infinite possibilità che Dio ha di realizzare la trasformazione finale del nostro «io»: dalla personalità psichica (materiale) a quella pneumatica, spiritualizzata.[8] Dal corpo alla corporeità,[9] da ciò che è sempre visibile (ha-olam hazzeh) a ciò che è sempre nascosto (ha-olam habba).
Paolo coglie così un’inarrestabile dinamica della storia protesa nel suo insieme e in ogni sua creatura verso il «corpo glorioso (sôma tês dóxês)» (Fil 3,21), quello trasfigurato e glorificato del Risorto al quale ogni realtà sarà conformata, in una progressiva trasformazione della personalità umana e della creaturalità globale da psichica in pneumatica. È opera dello Spirito;[10] la risurrezione per trasformazione è, infatti, già in corso. La stessa molteplicità creaturale è promessa e prefigurazione della realtà risurrezionale:[11] se Dio è capace di creare le cose in qualità svariate, è anche capace di ricrearle trasformate.[12] Meglio: egli presiede giorno per giorno il processo di trasformazione in atto nelle realtà vegetali, animali e cosmo-astrologiche. L’Apostolo ne coglie i fanalini spia, segni significanti, e punta l’occhio nel mistero dell’aldilà del tempo e della storia, inaugurato e disvelato dalla «primizia di coloro che si sono addormentati» (Fil 2,6): Gesù il Cristo.
Dunque, i corinzi siano attenti osservatori dell’ordinamento naturale e vi sappiano cogliere il lavoro di Dio creatore e trasformatore. Quel lavoro è sotto gli occhi di tutti. Ebbene: «Così sarà anche la risurrezione dei corpi» (v. 42a).

3. Trasformazione: una personalità pneumatica (vv. 42-44a)
«Così è anche la risurrezione dei corpi: si semina nella corruzione, risorge nella incorruzione; si semina nell’ignominia, risorge nella gloria; si semina nella debolezza, risorge nella forza; si semina un corpo materiale, risorge un corpo spirituale» (vv. 42-44a).
È chiara la centralità del v. 42a: «Così è anche la risurrezione dei corpi». Esso presiede il potenziale delle quattro antitesi, sforzo dell’Apostolo di dipingere il corpo trasformato, avvalendosi una volta ancora dei buoni uffici dell’analogia: tutti noi abbiamo esperienza di una cosa che si corrompe.[13] Ebbene, il corpo risorto lo sarà nell’incorruttibilità: da corpo psichico (materiale) a corpo pneumatico (spiritualizzato, glorificato). Ecco il risultato della trasformazione (metaschêmasis: Fil 3,21) che investe la totalità di quel corpo e lo trasforma in una realtà nuova, glorificata, spiritualizzata.
Si osservi la tensione escatologica in cui Paolo inserisce la sua discussione sul modo della risurrezione dei corpi: solo oltre la morte, dunque attraverso il «sacramento» della morte, ogni realtà creaturale raggiungerà il suo vero profilo, nel tempo di Dio, oltre il tempo. Infatti – e continua la serie delle antitesi analogiche – ciò che in qualità terrestre porta in sé il seme dell’ignominia, risorgerà corpo pneumatico avente in sé il seme della gloria, altro termine escatologico (v. 43); il corpo terrestre, che ha in sé il seme della debolezza, nella risurrezione, trasformato, porta in sé il seme della forza (v. 43). E ciò che porta in sé il germe dell’animalità, nella risurrezione sarà trasformato e porterà in sé il seme della spiritualità perché è certo che in ogni corpo animale è irreprimibile la tensione al suo vero profilo di corpo spirituale. Ignominia, corruzione, debolezza, animalità e materialità in genere, sono state superate nella morte, risolvendosi, al di là di essa, nelle qualità loro contrarie: la personalità psichico-somatica si trasforma in quella pneumatica, spiritualizzata.
Se, dunque, Dio può creare tanti corpi-persone materiali (vv. 38-41), come mai non potrebbe dar vita anche a corpi-persone risorte e spiritualizzate? (vv. 42-44). Tanto più che ne ha già dato la prova storica: Gesù Cristo risorto e trasfigurato, glorioso. La prova non è apologetica, bensì analogica.

4. Il primo Adamo e l’ultimo Adamo (vv. 45-49.53)
L’esposizione incalza, epidittica e parenetica a un tempo. Se il primo Adamo divenne persona vivente (Gn 2,7), l’ultimo Adamo è persona vivificante (v. 45b): egli porta in sé i semi dell’incorruzione (v. 42), della gloria, della forza (v. 43), dell’immaterialità (v. 44) e, come tale, «è divenuto spirito vivificante» (v. 45), datore di vita, perché ha in sé il germe esplosivo della vita nuova: lo Spirito del Padre, Dio della vita.
Con antitesi ritmiche, Paolo conduce il suo pensiero ai vv. 45-49. Esse sono riducibili a una fondamentale: il primo Adamo e l’ultimo Adamo, ad ambedue i quali ogni uomo è legato; essi sono personalità corporative, rispettivamente sul piano terrestre e celeste. Ma è sul secondo Adamo che l’Apostolo punta il suo focus: ogni uomo gli è legato ed è destinato a livelli più alti. Egli infatti è spirito vivificante, capace di operare la trasformazione di ciò che è terrestre in una realtà nuova, che è quella sua propria: glorificata, trasformata, spiritualizzata. Uno spirito vivificante è, infatti, di qualità nuova e superiore a un essere vivente. Quest’ultimo è infatti vivo per aver ricevuto la vita (Gn 2,7b); il primo invece porta in sé il germe della vita.Il primo Adamo è «essere vivente» e quanti gli appartengono, a lui incorporati, lo saranno come lui; il secondo Adamo è «spirito vivificante» e quanti gli appartengono, a lui incorporati, saranno vivificati in tutta la loro umanità, risorgendo dai morti per la potenza dello Spirito di Dio (cf. Rm 1,11). Come il primo Adamo ha vissuto una vita terrena, attivando in essa il suo seme, il secondo Adamo vive una vita celeste, partecipandola ai suoi, una vita animata dallo Spirito, opera dello Spirito: «Riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito» (2Cor 3,18b); quel nuovo Adamo è persona in situazione nuova: pneumatica, spiritualizzata, secondo il profilo del Risorto-trasfigurato: non più corpo materiale, ma corporeità spiritualizzata. Paolo non è interessato a fornire una risposta diretta alla domanda dei corinzi (v. 34), piuttosto è impegnato a creare una mentalità di risurrezione per trasformazione-glorifificazione-spiritualizzazione: da realtà (eikôna) terrestri a realtà celesti (v. 49). Allo scopo, ci si rivesta di lui (v. 53).

5. Spirito vivificante (vv. 45-49)
Ma chi è costui? Di certo lo Spirito di Dio che ha reso vivente Gesù Cristo morto, immettendolo nella sua nuova definitiva situazione: nuovo Adamo, risorto e glorificato. Così è dei suoi: ogni creatura dovrà aver parte, con il Risorto, della sua vera nuova situazione. Ma ancor prima, nella fase terrena, ogni «immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1,26) viva uno stile di vita ispirato al Risorto, da creatura nuova; ancora nel tempo, essa è già oltre il tempo (eschaton), testimone di una vita che dona lo Spirito. Siamo al cuore della pneumatologia paolina.[14]
Quando Paolo pensa alla trasformazione, gli interessa la totalità biologica e spirituale della creatura. La risurrezione della creatura umana avviene così per trasformazione di tutta la sua realtà, del suo «io». Tutto l’uomo cioè (antropologia monista) viene trasformato (v. 51b: «Saremo trasformati, allaghêsómetha»). E tale trasformazione della totalità creaturale è imprescindibile, se si vuole essere ammessi al possesso integrale del regno di Dio (v. 50). Un corpo solo «psichico», cioè corpo e sangue, non potrà mai entrare nel regno di Dio, essendo corruttibilità. E il corruttibile non potrà mai abitare nel mondo dell’incorruttibilità.
In quel mondo incorruttibile è già entrato lui, la vivente primizia di coloro che si sono addormentati (Fil 2,6). Come può essere dunque ancora possibile che i corinzi pongano quella domanda? (v. 35). «Stolto! Ciò che tu semini, non prende vita se prima non muore» (v. 36).
Nell’uomo pneumatico, spiritualizzato nella sua totalità, la nudità del granello ha ora il suo pieno rivestimento: l’uomo nuovo, anch’egli nuovo Adamo, è ora rivestito della sua personalità celeste (2Cor 5,2b). Guai però a essere trovati ignudi (v. 3), sarebbe ascrivibile solo alla propria negligenza.
Tutti, in verità, viventi e non al momento della parusia, saremo trasformati (vv. 51-52), risorgendo nell’incorruzione. Da rivestiti di corruzione, i rivivificati rivestiranno l’incorruttibilità; da mortali, l’immortalità. Più di questo, Paolo non riesce a dire. Ma ha già detto davvero tanto, e ha dato solido fondamento a un ben motivato ottimismo antropologico.[15] Aiutati dalla loro cultura ellenistica, i corinzi continuino a sondare tanto nuovo annuncio; nella fede storica del Gesù di Nazareth, morto e risorto e trasfigurato, meditino la loro morte e risurrezione per trasfigurazione-trasformazione: creature nuove, dalla personalità spiritualizzata. In questa speranza, ognuno gestisca il proprio cammino nella fede, «saldo e irremovibile» (v. 58), consapevole di muoversi su un fondamento solido: «Dov’è, o morte, la tua vittoria?» (v. 55). In lui (v. 57), la morte è stata ingoiata dalla vita (cf. v. 54b). Ebbene, come per lui, anche per noi.
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[1] Esamino la questione nella religiosità giudaico-ellenistica, dal II sec. a.C. al II sec. d.C., nel mio volume Risorgeremo, ma come?, EDB, Bologna 1988. Che Paolo in 1Cor 15 risenta della testimonianza religiosa documentata in questa fascia letteraria, lo prova H.C.C. Cavallin, Life after Death. Paul’s Argument for the Resurrection of the Dead in 1Cor 15. Part I: Enquiry into the Jewish Background, Brill, Leiden 1974. Gli ho riservato l’attenzione dovuta nella mia monografia appena menzionata.
[2] Che se «corpo-carne» da un lato e «vita-anima» dall’altro (v. 35) dovessero rispondere alla concezione dualistica, ebbene di essa Paolo non fa più parola in tutto il c. 15. Preziosa indicazione ermeneutica.
[3] Di recente se ne occupa K.J. O’Mahony, «The Rhetoric of Resurrection (1Cor 15): an Illustration of a Rhetorical Method», in Milltown Studies 43 (1999) 112-144.
[4] Non si tratta di una progressione da vita a vita, quasi un evoluzionismo, ma di una discontinuità in radice: da morte a vita. Cf. G. Barbaglio, La Prima Lettera ai Corinzi, EDB, Bologna 1996, p. 840.
[5] Segnalo J. Kremer, «La risurrezione di Gesù, causa e modello della nostra risurrezione», in Concilium 6 (1970) 102-116. Di recente lo stesso J. Kremer riprende l’argomento in Geist und Leben 71/6 (1998) 406-410.
[6] Si legga W. Marxen, La risurrezione di Gesù di Nazareth, EDB, Bologna 1970, p. 141. Ma quella pura possibilità è una restrizione indebita del pensiero dell’Apostolo la cui argomentazione per induzione dal noto all’ignoto prova sufficientemente che ci si trova ben al di là della pura possibilità. Così G. Barbaglio, La Prima Lettera ai Corinzi, cit., pp. 838-856 nella sua dettagliata analisi di 1Cor 15,35-58. Già S. Cipriani, «La risurrezione di Cristo e la nostra nella prospettiva di 1Cor 15», in Asprenas 2 (1976) 112-135.
[7]Paranomia e allitterazione documentano bene l’andamento retorico dell’argomentazione.
[8] Con «trasformazione spiritualizzata» intendo dare atto a tutto il periodo ellenistico intertestamentario da me esaminato nella monografia citata in nota 1: Risorgeremo, ma come? Le si oppone una risurrezione materializzata, tendente a ridare al corpo risorto i connotati che già gli furono propri. Questa linea perde in attendibilità critica ed è del tutto scalzata dal Nuovo Testamento che indica nel Gesù trasfigurato sull’alto monte (Tabor) il suo vero profilo di risorto. Cf. Mc 9,2-9 parr.
[9] Dal corpo psichico-materiale, a quello pneumatico-spiritualizzato. Corporeità esprime bene la nuova situazione del risorto. Così già R. Fabris, Le Lettere di Paolo, Borla, Roma 1980, vol. I, pp. 533-541.
[10] Espone ampiamente la questione S. Reyero, «”estin kai (sôma) pneumatikon” (1Cor 15,44b)», in StMad 15 (1975) 151-187.
[11] Si veda E. Pfammatter, «Risurrezione del Cristo, risurrezione dei cristiani e compimento della storia della salvezza nella concezione paolina», in E. Rückstühl – J. Pfammatter (edd.), La risurrezione di Gesù Cristo, AVE, Roma 1971, pp. 135-149, qui p. 143.
[12] Così già Giovanni Crisostomo, Tommaso d’Aquino. Per l’interesse dei Padri alla questione, segnalo la monografia di F. Altermath, Du corps psychique au corps spirituel. Interprétation de 1Cor 15,35-49 par les auteurs chrétiens des quatre premiers siècles (jusqu’au Concile de Calcedonie), Mohr-Siebeck, Tübingen 1977.
[13] Ne ha ben descritta la dinamica G.M. Hensell, Antithesis and Transformation. A Study of 1Cor 15,50-54, S. Louis University 1975.
[14] Originale inversione della formula «Spirito vivificante» (v. 45). Se ne occupa R.B. Gaffin, «Life giving Spirit: Probing the Center of Paul’s Pneumatology (1Cor 15,45)», in Journal of the Evangelical Theological Society 41/4 (1998) 573-589.
[15] Ma a riguardo, si legga R. Penna, «Cristologia adamica e ottimismo antropologico in 1Cor 15,45-49», in AA.VV., L’uomo nella bibbia e nelle culture ad essa contemporanee. Atti del Simposio per il XXV Simposio ABI, Paideia, Brescia 1975, pp. 181-208.

Cherub from the Cathedral of Cefalu, Sicily (c. 1200)

Cherub from the Cathedral of Cefalu, Sicily (c. 1200) dans immagini sacre cherubim

http://iconreader.wordpress.com/2012/01/12/the-divinely-revealed-appearance-of-angels-in-icons/

Publié dans:immagini sacre |on 17 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

IL FUTURO? CONTA IL PRESENTE. QUANTO DEVE ACCADERE È GIÀ ACCADUTO.(Rm) (di Romano Penna)

http://www.gliscritti.it/index.html

IL FUTURO? CONTA IL PRESENTE. QUANTO DEVE ACCADERE È GIÀ ACCADUTO. LA LETTERA DI SAN PAOLO AI ROMANI E LA STORIA DELLA SALVEZZA

DI ROMANO PENNA

Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 28 marzo 2008 un testo del biblista Romano Penna, che il quotidiano ha introdotto con le seguenti parole: « »San Paolo: Apocalisse e Rivelazione » è il tema del convegno internazionale di studi che si tiene a Roma il 27 e il 28 marzo promosso dalla Accademia di Francia e dal Centro culturale San Luigi dei Francesi con il sostegno dell’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede. Pubblichiamo alcuni stralci di una delle relazioni».
Il testo aiuta a puntualizzare il rapporto fra cristologia ed escatologia, nella prospettiva paolina. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il centro culturale Gli scritti 4/4/2009

Nella Lettera ai Romani Paolo impiega quattro volte lo specifico lessico di rivelazione, e lo fa di volta in volta con tutti e tre i verbi tipici di questo campo semantico: apokalýpto/ »disvelo » (impiegato due volte), faneròo/ »manifesto », en-deìknymi/ »mostro ».
In 1,17 si legge che nell’evangelo « si rivela », apokalýptetai, la giustizia di Dio. Successivamente, in 3,21, Paolo scrive che questa stessa giustizia di Dio « si è manifestata », pefanèrotai, nel sangue di Cristo (cfr. 3,25). Più avanti in 8,18 leggiamo che nel futuro escatologico si rivelerà (apokalyfthènai) la gloria dei figli di Dio (cfr. 8,23) assieme al rinnovamento del cosmo. Infine in 9,17, utilizzando un riporto da Esodo 9,16 LXX, è scritto che Dio aveva suscitato il Faraone con lo scopo di « mostrare » (endeìxomai) in lui la propria potenza perché venisse annunciato il suo nome in tutta la terra.
Come si vede, la cadenza cronologica considerata sul piano grammaticale consiste nell’uso, innanzitutto, di un verbo al presente, poi di un verbo al perfetto, di un infinito aoristo passivo, e infine di un congiuntivo aoristo attivo, sicché nel primo caso si richiama un fatto continuamente posto in essere, nel secondo si rimanda a un evento del passato che perdura tuttora nei suoi effetti, nel terzo si allude a un avvenimento futuro, e nel quarto si formula una intenzionalità di principio posta all’origine di un progetto divino.
È ben chiaro che questa successione e variazione lessicale tocca quattro momenti storico-salvifici diversi. In effetti, Paolo parte dal presente dell’annuncio evangelico, passa per l’evento della morte di Cristo, prospetta una consumazione finale, e infine risale indietro fino alla elezione di Israele connessa con l’esodo. Secondo la logica temporale, però, bisognerebbe risistemare e in buona parte addirittura invertire la successione dei momenti, e partire dalle antiche circostanze dell’esodo per arrivare alla morte di Cristo (« nel kairòs presente »: 3,26) e sfociare infine nell’attuale impegno evangelizzatore proprio della Chiesa, per culminare poi nell’orizzonte escatologico. Tuttavia, l’impostazione argomentativa di Paolo è assai originale e sintomatica, poiché non è di tipo trattatistico-didascalico ma storico-esistenziale. E qui vogliamo onorarla per se stessa, esaminandone le componenti strutturali.
Paolo in Romani 1,17 formula quella che in retorica è qualificabile come propositio, cioè enunciazione tematica, dell’intera lettera. Egli parte dal fatto che c’è una prima rivelazione divina, a cui l’uomo è subito confrontato. Essa non appartiene a un passato che sfugge alla nostra percezione immediata e soprattutto non a un passato consegnato solo alla memoria, o peggio ancora a una mera sedimentazione scritta. Al contrario, a lui interessa partire da una esperienza sempre possibile e verificabile, basata sul continuo annuncio dell’euagghèlion.
È in esso che appunto « si rivela », apokalýptetai, un particolare tipo di giustizia di Dio, che nel contesto va intesa come sinonimo di misericordia. L’annuncio di Cristo, perciò, rappresenta una vera, anzi la vera « apocalisse » di Dio. La scelta del verbo lascia intendere che Paolo non pensa a una rivelazione qualunque; ogni volta che vi ricorre nelle sue lettere è per affermare qualcosa di escatologico o comunque di origine divina, quindi di assolutamente incisivo.
L’idea di rivelazione viene ripresa in 3,21. Paolo ne precisa maggiormente i contorni, cominciando col dire che della giustizia salvifica di Dio non bisogna attendere una rivelazione futura, poiché la sua manifestazione è già avvenuta: « si è manifestata » (pefanèrôtai). Per la verità, il tempo verbale impiegato da Paolo ha una semantica complessa; in greco, infatti, esso ha due connotazioni: una che riguarda il passato, con rimando a un evento già verificatosi, e un’altra che concerne il presente, in quanto l’evento già compiutosi precedentemente viene ricordato nelle sue ricadute attuali tuttora vive – in questo caso: la giustizia di Dio « è manifesta ».
La traduzione nelle nostre lingue comporta inevitabilmente di sacrificare una delle due componenti. Se qui scegliamo di tradurre con il passato è per due ragioni ben precise. La prima è che nel successivo verso 25, venendo concretamente al dunque, Paolo collocherà esplicitamente questa manifestazione in un atto di Dio compiuto nel passato (proètheto, « ha presentato »). La seconda è che il presente era già stato inequivocabilmente impiegato in 1,17 – sia pur con l’utilizzo di un altro verbo: apokalýptetai – per connotare una rivelazione attuale della stessa giustizia di Dio, in quanto essa avviene oggi nell’annuncio evangelico.
Proprio questo confronto con 1,17 arricchisce enormemente il tema paolino della giustizia di Dio. Essa infatti conosce due momenti distinti e insieme complementari della sua dimostrazione: uno nell’effusione storica del sangue di Cristo, l’altro quando quell’evento si fa semplice parola nell’annuncio.
Questa manifestazione, secondo Paolo, avviene storicamente nel sangue di Cristo, proposto da Dio come hilastèrion, cioè come strumento o luogo di espiazione per i peccati degli uomini, e quindi come luogo di redenzione. Proprio i concetti di redenzione (in 3,24) e di espiazione (in 3,25), pur di diversa provenienza semantica, costituiscono la materia della manifestazione-rivelazione della iustitia salutifera di Dio, la quale ormai non è più reperibile nella Leggeetantomenonellasuaosservanza.
Passiamo ora a Romani 8,18 dove si legge: « Penso infatti che le sofferenze del tempo presente non hanno peso in confronto con la gloria futura che sarà rivelata per noi (pròs tèn mèllousan dòxan apokalyfthènai eis hèmas) ». Questa dichiarazione è suggerita e richiesta dalla conclusione del precedente verso 17, concernente l’idea di una eredità futura che andrà ben oltre l’attuale situazione storica.
Avviene così ciò che si era già verificato con la propositio generale di 1,16-17 sul concetto di evangelo, che si agganciava all’idea di evangelizzazione enunciata nella conclusione del precedente 1,15 (cfr. commento). Ma ora l’apertura della frase con « Penso infatti » (logìzomai gàr) è più solenne (cfr. l’assioma enunciato in 3,28: logizòmetha gàr), cioè corrisponde alla formulazione di un principio assiomatico, che esprime una convinzione forte e importante (cfr. anche 2 Corinzi 11,5). L’assioma è incentrato sulla contrapposizione tra le sofferenze attuali e la gloria futura. Viene perciò stabilito un paragone tra due esperienze contrastanti, che caratterizzano rispettivamente due diversi momenti successivi, per negarne ogni equivalenza. Ed è ben possibile che dietro la frase di Paolo ci sia una obiezione, la quale, facendo prevalere l’attuale esperienza di sofferenza dei cristiani, metta in discussione la possibilità stessa di una gloria futura.
La formulazione circa i due stadi temporali successivi e contrapposti evoca la dottrina dei due eoni, propria dell’apocalittica giudaica (cfr. anche 1 Corinzi, 7, 31). Per Paolo, dunque, da una parte c’è « il momento presente », che sta a indicare non soltanto il periodo compreso tra la prima e la seconda venuta di Cristo quanto anche in senso più generale l’attuale esperienza storica dell’uomo e del cristiano nel mondo presente in quanto contrasta con quello futuro.
Dall’altra, poi, c’è « la gloria futura », che rimanda oltre l’attuale periodo di sofferenze a un orizzonte di splendore, e che giustifica l’attuale esperienza di afflizione. Lo stesso schema si ritrova in 2 Corinzi 4,17-19: « Il temporaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, poiché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili; le cose visibili infatti sono momentanee, quelle invisibili invece sono eterne ».
Ovviamente, ai due momenti si accompagnano due situazioni contrarie: rispettivamente, le sofferenze e la gloria. Il primo termine, pathèmata, è tipico del lessico paolino, visto che nel Nuovo Testamento è attestato preferibilmente nel suo epistolario (nove volte su sedici), e indica sia le sofferenze apostoliche sia quelle comuni a tutti. Il secondo, dòxa, che nel Nuovo Testamento è preferibilmente impiegato per designare la gloria propria di Dio, assume qui una interessante connotazione antropologica come sinonimo di splendore, dignità, onore, piena riuscita di sé in quanto acquisizione umana. Il fatto che Paolo non parli solo di felicità o di beatitudine (cfr. 4,6) dice che la sua prospettiva riguarda l’uomo tutto intero, compresa la sua trasformazione fisica. Perciò il verbo « rivelare » viene a significare una affermazione o manifestazione in pienezza di questa dimensione, che il passivo suggerisce prodotta da Dio.
Abbiamo infine la presenza del concetto di rivelazione/manifestazione in Romani 9,14-23 con la presenza del verbo en-deìknymi nel verso 17. Bisogna riconoscere che abbiamo qui delle affermazioni piuttosto dure per quanto riguarda la libertà umana, come si vede nei versi 15-18 e poi nella metafora di Dio come vasaio con la corrispondente distinzione tra « vasi d’ira » e « vasi di misericordia ».
Il tema della libertà umana viene sostanzialmente taciuto; ma non bisogna perdere di vista la spiegazione di questo silenzio, derivante dall’insieme dell’argomentazione paolina e consistente nel fatto che l’Apostolo intende piuttosto rispondere al problema concernente la libertà di Dio e delle sue scelte, per dire che egli nel suo agire è del tutto indipendente e non condizionato.
È dunque quanto mai evidente la forte sottolineatura di un radicale « teo-archismo » nei rapporti Dio-uomo; ma, in ogni caso e ancora una volta, ci si riferisce a Dio in quanto indulgente e non in quanto punitore. Il verso 17 offre una nuova risposta al problema della libera elezione di Dio, mediante il riporto di un altro passo biblico: « Dice infatti la Scrittura al Faraone: « Proprio per questo ti ho suscitato, perché (Io) possa mostrare in te la mia potenza (hòpos endeìxomai en soì tèn dýnamìn mou) e perché il mio nome possa essere divulgato su tutta la terra »".
Nonostante alcune variazioni, il testo biblico corrisponde sostanzialmente a quello greco di Esodo 9,16 LXX. Il senso proprio è che il Faraone, nonostante la sua opposizione a Israele e al piano divino di sottrarlo alla schiavitù, funziona comunque nelle mani di Dio come uno strumento positivo che serve ai suoi disegni. Infatti, nella misura in cui la sua ostinata resistenza venne finalmente vinta (cfr. il racconto in Esodo 5-14, che comprende anche le dieci piaghe scatenate sull’Egitto), il nome di Dio risultò ancora più glorioso (vedi il canto di Mosè in Esodo 15,1-21).
Lo scontro infatti è direttamente tra Dio e il Faraone, tanto che il nome di Mosè viene addirittura taciuto; il complemento « in te » evidenzia bene il ruolo svolto dal Faraone in persona. Qualcosa di analogo avverrà per un altro devastatore di Israele, Nabucodonosor, che Geremia qualificherà addirittura come « servo » di Dio in senso positivo, cioè in quanto servì comunque per portare a termine i suoi disegni. Si delinea così un abbozzo di teologia della storia, secondo cui in ultima analisi è Dio che guida gli avvenimenti umani; e ancora una volta egli viene preposto a ogni decisione presa dall’uomo, persino a quelle apparentemente negative.
Infatti il congiuntivo aoristo endeìxòmai esprime un proposito personale di Dio (infatti è Lui che parla) consistente appunto nell’intento di « mostrare », quasi di far toccare con mano, comunque ancora una volta di manifestare/rivelare apertamente, la sua irresistibile conduzione degli avvenimenti. In questo caso è evidente che il riferimento viene fatto al passato dell’esodo di Israele dall’Egitto, quando appunto Dio rivelò la sua grandezza. I cristiani vengono così ricondotti al mistero di Israele come popolo dell’alleanza, sul quale i Gentili vengono innestati per grazia.
In conclusione possiamo almeno rilevare il fatto che Paolo non utilizza il lessico di rivelazione per applicarlo al futuro. La frase « La notte è avanzata, il giorno si è avvicinato », anche se riprende la metafora del risvegliarsi dal sonno di fatto non impiega alcun linguaggio « apocalittico ». Il parallelo più eloquente lo leggiamo nello stesso Paolo: « Voi, fratelli, non siete al buio, cosicché il giorno vi sorprenda come un ladro; tutti voi infatti siete figli della luce e figli del giorno. Non siamo della notte né del buio. Perciò non dormiamo come gli altri, ma stiamo svegli e sobri. Quelli che dormono infatti dormono di notte e quelli che si ubriacano si ubriacano di notte. Ma noi, essendo del giorno, restiamo sobri » (1 Tes 5,4-7).
Là però manca il dinamismo del passaggio dalla notte al giorno, che invece caratterizza il nostro testo. Evidentemente qui la prospettiva è diversa: Paolo sottolinea, non un passaggio già avvenuto, ma un passaggio ancora a venire. La notte, inserendosi sulla precedente immagine del sonno, diventa figura del presente tempo storico, non solo in quanto transeunte, ma soprattutto in quanto imperfetto e insidioso: non in se stesso, ma in quanto orientato a un ulteriore superamento di ogni imperfezione (cfr. 1 Cor 13,12).
È di questo decorso temporale che si attende la fine, peraltro con la certezza che esso è già in fase quanto mai avanzata. L’affermazione perciò ha il tono rassicurante di una buona notizia. Proprio la dinamica della successione dei due momenti, dove la certezza di una prossima uscita dalla notte equivale a quella di una prossima irruzione del giorno, occasiona l’esortazione a trarne le conseguenze sul piano etico.
Resta il fatto che Paolo predilige sostanzialmente il tempo storico, sia del passato sia del presente, come luogo privilegiato per l’affermarsi della rivelazione di Dio e della manifestazione di ciò in cui consiste l’identità cristiana.

(L’Osservatore Romano – 28 marzo 2009) 

GLI ANGELI NELLA SACRA SCRITTURA (anche Paolo)

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GLI ANGELI NELLA SACRA SCRITTURA (anche Paolo)

Non sono essi tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono ereditare la sal­vezza? ». (Eb 1,14) « Benedite il Signore voi tutti suoi angeli, potenti ese­cutori dei suoi comandi, pronti al suono della sua parola. Benedite il Signore voi angeli suoi ministri, che fate il suo volere ». (Salmo 102, 20-21)

GLI ANGELI NELLA SACRA SCRITTURA
La presenza e l’opera degli angeli compaiono in molti testi dell’Antico Testamento. I cherubini con le loro spade folgoranti custodiscono la via all’albero della vita, nel paradiso terrestre (cfr Gn 3,24). L’angelo del Signore ordina ad Agar di ritornare dalla sua signora e la salva dalla morte nel deserto (cfr Gn 16,7-12). Gli angeli liberano Lot, sua moglie e le sue due figlie dalla morte, a Sodoma (cfr Gn 19,15-22). Un ange­lo viene mandato davanti al servo di Abramo per gui­darlo e per fargli trovare una moglie per Isacco (cfr Gn 24,7). Giacobbe vede in sogno una scala che si erge fino in cielo, con angeli di Dio che vi salgono e scendono (cfr Gn 28,12). E più avanti questi angeli vanno incontro a Giacobbe (cfr Gn 32,2). « L’angelo che mi ha liberato da ogni male, benedica questi giovinetti! », (Gn 48,16) esclama Giacobbe benedicendo i suoi figli prima di morire. Un angelo appare a Mosè in una fiamma di fuoco (cfr Es 3,2). Uangelo di Dio precede l’accampamento di Israele e lo protegge (cfr Es 14,19). « Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato » (Es 23,20). « Ora va’, conduci il popolo là dove io ti ho detto. Ecco, il mio angelo ti precederà » (Es 3Z34); « Manderò da­vanti a te un angelo e scaccerò il Cananeo… » (Es 33,2). L’asina di Balaam vede sulla strada un angelo con la spada sguainata in mano (cfr Nm 22,23). Quando il Signore apre gli occhi a Balaam anch’egli scorge l’angelo (cfr Nm 22,31). Un angelo incoraggia Gedeone e gli ordina di combattere i nemici del suo popolo. Gli promette di restare al suo fianco (cfr Gdc 6,16-22). Un angelo appare alla moglie di Manoach e le annun­cia la nascita di Sansone, nonostante la donna sia steri­le (cfr Gdc 13,3). Quando Davide pecca e sceglie come castigo la peste: « L’angelo ebbe stesa la mano su Geru­salemme per distruggerla… » (2 Sam 24,16) ma poi la riti­ra per ordine del Signore. Davide vede l’angelo che colpisce il popolo d’Israele e implora da Dio il perdo­no (cfr 2 Sam 24,17). L’angelo del Signore comunica a Elia la volontà di Jahvé (cfr 2 Re 1,3). L‘angelo del Signore colpì centottantacinquemila uomi­ni nell’accampamento degli Assiri. Quando i superstiti si svegliarono al mattino, li trovarono tutti morti (cfr 2 Re 19,35). Nei Salmi si citano spesso gli angeli (cfr Salmi 8;90; 148). Dio manda il suo angelo a chiudere la bocca dei leoni per non far morire Daniele (cfr Dn 6,23). Gli angeli com­paiono di frequente nella profezia di Zaccaria e il libro di Tobia ha come personaggio di primo piano l’angelo Raffaele; questi svolge un ruolo di protettore ammire­vole e dimostra come Dio manifesti il suo amore per l’uomo attraverso il ministero degli angeli.

GLI ANGELI NEL VANGELO
Troviamo spesso gli angeli nella vita e negli insegna­menti del Signore Gesù. L’angelo Gabriele appare a Zaccaria e gli annuncia la nascita del Battista (cfr Lc 1,11 e ss.). Ancora Gabriele annuncia a Maria, da parte di Dio, 1 incarnazione del Verbo in lei, per opera dello Spirito Santo (cfr Lc 1,26). Un angelo appare in sogno a Giuseppe e gli spiega ciò che è accaduto a Maria, gli dice di non temere di rice­verla in casa, poiché il frutto del suo grembo è opera dello Spirito Santo (cfr Mt 1,20). Nella notte di Natale un angelo porta ai pastori il lieto annuncio della nascita del Salvatore (cfr Lc 2,9). L’angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe e gli ordina di ritornare in Israele col bambino e sua madre (cfr Mt 2, 19). Finite le tentazioni di Gesù nel deserto… « il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano » (Mt 4, 11). Durante il suo ministero Gesù parla degli angeli. Mentre spiega la parabola del grano e della zizzania, dice: « Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. il campo è il mondo. il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, e il nemi­co che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappre­senta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo, il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi intenda! » (Mt 13,37-43). « Poiché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni » (Mt 16,27). Quando si riferisce alla dignità dei bambini dice: « Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sem­pre la faccia del Padre mio che è nei cieli » (Mt 18, 10). Parlando della risurrezione dei morti, afferma: ‘Alla ri­surrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo » (Mt 2Z30). Nessuno conosce il giorno del ritorno del Signore, « neanche gli angeli del cielo » (Mt 24,36). Quando giu­dicherà tutti i popoli, verrà « con tutti i suoi angeli » (Mt 25,31 o cfr Lc 9,26; e 12, 8-9). Presentandoci davanti al Signore e ai suoi angeli, dun­que, saremo glorificati oppure rifiutati. Gli angeli par­tecipano alla gioia di Gesù per la conversione dei pec­catori (cfr Le 15,10). Nella parabola del ricco epulone troviamo un compito degli angeli molto importante, quello di portarci dal Signore nell’ora della nostra morte. « Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo » (Lc 16,22). Nel momento più difficile dell’agonia di Gesù nell’or­to degli Ulivi venne « un angelo dal cielo a confortar­lo » (Lc 22, 43). Il mattino della risurrezione appaiono di nuovo gli angeli, come già era accaduto nella notte di Natale (cfr Mt 28,2-7). I discepoli di Emmaus sentirono parlare di questa presenza angelica il giorno della risur­rezione (cfr Lc 24,22-23). A Betlemme gli angeli avevano recato la notizia che Gesù era nato, a Gerusalemme che era risuscitato. Gli angeli furono dunque incaricati di annunziare i due grandissimi avvenimenti: la nascita e la risurrezione del Salvatore. Maria Maddalena ha la fortuna di vedere « due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’al­tro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù ». E può anche ascoltare la loro voce (cfr Gv 20,12-13). Dopo l’ascensione, due angeli, sotto forma di uomini in bianche vesti, si presentano ai discepoli per dire loro « Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo » (At 1, 11).

GLI ANGELI NEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI
Negli Atti viene narrata l’azione protettrice degli ange­li nei confronti degli apostoli e proprio a beneficio di tutti questi avviene il primo intervento (cfr At 5,12-21). Santo Stefano cita l’apparizione dell’angelo a Mosè (cfr At 7,30). « Tutti quelli che sedevano nel sinedrio, fissan­do gli occhi su di lui, videro il suo volto [il volto di santo Stefano] come quello di un angelo » (At 6,15). Un angelo del Signore parlò a Filippo dicendo: ‘Alzati, e và verso il mezzogiorno, sulla strada che discende da Gerusalemme a Gaza » (At 8,26). Filippo ubbidì e incon­trò ed evangelizzò l’Etiope, funzionario di Candace, regina di Etiopia. Un angelo appare al centurione Cornelio, gli dà la bella notizia che le sue preghiere e le sue elemosine sono arrivate a Dio, e gli ordina di mandare i suoi servi a cer­care Pietro per farlo venire lì, in quella casa (cfr At 10,3). Gli inviati raccontano a Pietro: Cornelio  » è stato avver­tito da un angelo santo di invitarti nella sua casa, per ascoltare ciò che hai da dirgli “ (At 10,22). Durante la persecuzione di Erode Agrippa, Pietro viene messo in prigione, ma, un angelo del Signore gli appar­ve e lo fece uscire dal carcere: « Ora sono veramente certo che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che si attendeva il popolo dei Giudei » (cfr At 12,6-16). Poco tempo dopo, Erode, colpito « improvvisamente » da « un angelo del Signore », « roso dai vermi, spirò » (At 12,23). In viaggio verso Roma, Paolo e i suoi compagni in peri­colo di morte a causa di una fortissima burrasca, rice­vono l’aiuto salvifico di un angelo (cfr At 27,21-24).

GLI ANGELI NELLE LETTERE DI SAN PAOLO E DI ALTRI APOSTOLI
Numerosissimi sono i passi in cui si parla di angeli nelle lettere di san Paolo e negli scritti degli altri apo­stoli. Nella Prima lettera ai Corinzi San Paolo dice che siamo venuti per essere « spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini » (1 Cor 4,9); che giudicheremo gli angeli (cfr 1 Cor 6,3); e che la donna deve portare « un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli » (1 Cor 11,10). Nella seconda Lettera ai Corinzi li avverte che « anche Satana si maschera da angelo di luce » (2 Cor 11,14). Nella Lettera ai Galati considera la superiorità degli an­geli (cfr Gai 1,8) e afferma che la legge ‘fu promulgata per mezzo di angeli attraverso un mediatore » (Gal 3,19). Nella Lettera ai Colossesi, l’Apostolo enumera le di­verse gerarchie angeliche e sottolinea la loro dipenden­za da Cristo, nel quale tutte le creature sussistono (cfr Col 1,16 e 2,10). Nella Seconda lettera ai Tessalonicesi ripete la dottrina del Signore sulla sua seconda venuta in compagnia degli angeli (cfr 2 Ts 1,6-7). Nella Prima lettera a Timoteo dice che « è grande il mistero della pietà: Egli si manifestò nella carne, fu giustificato nello Spirito, apparve agli angeli, fu an­nunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria » (1 Tm 3,16). E poi ammonisce il suo disce­polo con queste parole: « Ti scongiuro davanti a Dio, a Cristo Gesù e agli angeli eletti, di osservare queste norme con imparzialità e di non far mai nulla per favo­ritismo » (1 Tm 5,21). San Pietro aveva sperimentato personalmente l’azione protettrice degli angeli. Così ne parla nella sua Prima lettera: « E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo » (1 Pt 1,12 e cfr 3,21-22). Nella Seconda lettera parla degli angeli decaduti e non perdonati, così come si legge anche nella lettera di San Giuda. Ma è nella lettera agli Ebrei che troviamo riferimenti abbondanti all’esistenza e all’azione angelica. Il primo argomento di questa lettera è la supremazia di Gesù su tutti gli esseri creati (cfr Eb 1,4). La grazia specialissima che lega gli angeli a Cristo è il dono dello Spirito Santo loro concesso. È, infatti, lo Spirito stesso di Dio, il legame che unisce angeli e uo­mini con il Padre e con il Figlio. Il collegamento degli angeli con Cristo, il loro ordinamento a lui come crea­tore e Signore, si manifesta a noi uomini, soprattutto nei servigi con cui essi accompagnano in terra l’opera salvifica del Figlio di Dio. Attraverso il loro servizio gli angeli fanno sperimenta­re al Figlio di Dio fattosi uomo che egli non è solo, ma che il Padre è con lui (cfr Gv 16,32). Per gli apostoli e i discepoli, invece, la parola degli angeli li conferma nella fede che il regno di Dio si è avvicinato in Gesù Cristo. L’autore della lettera agli Ebrei ci invita a perseverare nella fede e porta come esempio il comportamento de­gli angeli (cfr Eb 2,2-3). Ci parla anche dell’incalcolabile numero degli angeli: « Voi vi siete invece accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli… » (Eb 12, 22). E, infine, dice una cosa che dovremmo tenere sempre presente quando incontriamo un fratello bisognoso: « Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo » (Eb 13,2).

GLI ANGELI NELL’APOCALISSE
Nessun testo è più ricco di questo, nel descrivere il numero incalcolabile degli angeli e la loro funzione glorificatrice di Cristo, il Salvatore di tutti. « Dopo ciò, vidi quattro angeli che stavano ai quattro angoli della terra, e trattenevano i quattro venti » (Ap 7,1). ‘Allora tutti gli angeli che stavano intorno al trono e i vegliar­di e i quattro esseri viventi, si inchinarono profonda­mente con la faccia davanti al trono e adorarono Dio dicendo: Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di gra­zie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen’ « (Ap 7,11-12). Gli angeli suonano la tromba e scatenano piaghe e ca­stighi per i malvagi. Il capitolo 12 ci descrive la grande battaglia che ha luo­go in cielo tra Michele e i suoi angeli da una parte, e Satana e il suo esercito dall’altra (cfr Ap 12,7-12). Chi adora la bestia sarà torturato « con fuoco e zolfo al cospetto degli angeli santi e dell’Agnello » (Ap 14,10). Nella visione del Paradiso l’autore contempla « le dodi­ci porte » della città e su di esse « i dodici angeli » (Ap 21,12). Nell’epilogo Giovanni sente: « Queste parole sono cer­te e veraci. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve » (Ap 2, 26). « Sono io, Giovanni, che ho visto e udito queste cose. Udite e vedute che le ebbi, mi prostrai in adorazione ai piedi dell’angelo che me le aveva mostrate » (Ap 2,28). « Io, Gesù, ho mandato il mio angelo, per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese » (Ap 22,16).

“O uncorrupted Virgin, thou Bride of God. . .”

 “O uncorrupted Virgin, thou Bride of God. . .” dans immagini sacre
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Publié dans:immagini sacre |on 16 septembre, 2014 |Pas de commentaires »
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